Francesco Rende

Professore associato di diritto privato 

Università degli Studi di Messina

Sommario: 1. Attività agonistica e classificazioni. 2. La pratica sportiva agonistica degli atleti transgender: le linee guida del Comitato Olimpico Internazionale. 3. Sport, parità competitiva e integrazione negli sport paralimpici. 4. L’adattamento quale presupposto dell’integrazione. 5.Eterogeneità delle discipline sportive e ruolo delle Federazioni

1. Attività agonistica e classificazioni

La partecipazione degli atleti transgender alle competizioni sportive pone un problema di classificazioni o, più precisamente,di determinazione dei requisiti richiesti per gareggiare all’interno di una determinata categoria identificata attraverso il genere.

L’esigenza di creare categorie e classificazioni nello sport nascecon la transizione dallo sport amatoriale a quello agonistico.

Il c.d. “dilettante puro” pratica attività sportiva per la cura del proprio benessere psicofisico ma non intende misurare le proprie performance all’interno di una competizione.

Anche il mero dilettante può partecipare occasionalmente aqualche gara, purché l’evento resti fuori del mondo sportivo istituzionalizzato e, pertanto, non ricada nell’ambito di applicazione dell’ordinamento sportivo.

La transizione allo sport agonistico si prospetta soltanto quando l’atleta voglia prendere parte ad una competizione organizzata e regolata dalle istituzioni sportive (siano esse le federazioni, le discipline associate o gli enti di promozione sportiva) ed è necessariamente preceduta dal tesseramento. 

Con il tesseramento si acquista lo status di soggetto dell’ordinamento sportivo e si diviene destinatari delle regole di tale ordinamento.

In proposito appare opportuno rammentare come l’art. 2 del d.l. 220/2003 (convertito con la l. n. 280/2003) riservi all’ordinamento sportivo la disciplina concernente “l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive”.

I provvedimenti adottati in tale ambito, peraltro, come precisato dalla Corte Costituzionale, non sono impugnabili innanzi ai giudici dello Stato italiano neppure quando incidono su situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento statale. 

Il d.l. n. 220/2003 ha, dunque, riservato alle istituzioni sportive anche la determinazione delle regole tecniche che indicano le modalità di svolgimento delle gare nelle diverse discipline sportive e, in particolare, delle disposizioni che individuano i requisiti per parteciparvi.

Diversi possono essere i parametri impiegati a tal fine: l’età, il genere di appartenenza, le caratteristiche corporee, le capacità tecniche già acquisite e, perfino, la nazionalità.

Il genere, dunque, non è l’unico fattore di differenziazione, né ricorre in tutte le attività sportive. 

Così, ad esempio, nelle Olimpiadi, le gare di equitazione vedono sfidarsi indifferentemente uomini e donne. Lo stesso può accadere anche nei campionati di automobilismo o di motociclismo.

Ad indurre il ricorso all’uno o all’altro parametro nella creazione delle categorie sono le caratteristiche precipue dell’attività sportiva considerata.

Ciascuno sport, infatti, richiede abilità differenti che possono essere influenzate da fattori eterogenei; le classificazioni servono, appunto, a neutralizzare, per quanto possibile, l’incidenza di tali fattori in guisa da garantire l’astratto equilibrio nella competizione. 

Per questo motivo le categorie costituiscono il perno attorno al quale ruota l’intera organizzazione dell’attività sportiva istituzionalizzata.

2. La pratica sportiva agonistica degli atleti transgender: le linee guida del Comitato Olimpico Internazionale

Il Comitato Olimpico Internazionale ha, recentemente, adottato nuove linee guida per fissare i principi volti a regolare la pratica sportiva agonistica da parte degli atleti transgender.

Non essendo possibile, in questa sede, ripercorrere puntualmente il contenuto del documento, segnaliamo soltanto alcuni passaggi.

L’aspetto di maggiore importanza è dato dalla scelta del Comitato di non assumere una posizione unica e standardizzata per tutte le discipline sportive ma, al contrario, di assegnare alle singole Federazioni il compito di predisporre una normativa che, pur muovendosi nel quadro dei principi indicati nelle linee guida, assicuri il miglior compromesso possibile tra il valore dell’integrazione e quello dell’equilibrio competitivo.

Taluni hanno criticato aspramente una siffatta presa di posizione,accusando il C.I.O. di avere schivato la responsabilità di una scelta così delicata.

A noi sembra, invece, che l’indicazione proveniente dalle linee guida, volta ad evitare soluzioni predefinite e indifferenziate in favore di regolamenti modellati sulle peculiarità delle singole discipline sportive, sia la più corretta dal punto di vista tecnico.

3. Sport, parità competitiva e integrazione negli sport paralimpici

La creazione di classi omogenee nelle competizioni sportive costituisce, naturalmente, questione estremamente delicata perché incide sulla possibilità di un atleta di accedere ad una determinata gara, ossia sul diritto dello stesso a realizzarsi attraverso la pratica agonistica di una disciplina sportiva.

Particolare attenzione è da sempre riservata al settore degli sport paralimpici che, ad oggi, rappresenta uno straordinario laboratorio di regole tecniche emanate nel tentativo di conciliare integrazione e competizione.

Ciascuna tipologia di disabilità è identificata e catalogata per ogni singola disciplina sportiva. Va da sé, infatti, che ciascun deficitfisico incide differentemente sulle performance dell’atleta e che una competizione può immaginarsi soltanto tra persone con capacità astrattamente comparabili.

Il mondo delle disabilità, però, si presenta estremamente complesso e, nonostante gli sforzi classificatori, non è agevolerinvenire persone che si trovino in condizioni totalmente assimilabili.

L’ipovisione, anche se grave, non è sovrapponibile alla cecità. 

Le disabilità agli arti inferiori sono ben differenti a seconda che l’atleta debba ricorrere o meno all’uso di protesi perché quest’ultime (cui si fa ricorso nei casi di disabilità più gravi) consentono all’atleta performance migliori in alcune discipline sportive.

Da qui l’immane sforzo classificatorio compiuto dalle istituzioni sportive nel tentativo di creare categorie per quanto possibile omogenee.

Non si tratta, tuttavia, di classificazioni universali, valide per ogni sport.

Relativamente alle disabilità visive, i ciechi e gli ipovedenti sono, ordinariamente, inseriti in categorie differenti; in alcune discipline, però, gareggiano assieme ma, per garantire la parità competitiva, si procede a bendare tutti gli atleti.

Nell’equitazione, atleti con disabilità differenti (ciechi, ipovedenti e disabili fisici) competono con modalità e adattamenti tali da consentire di stilare un’unica classifica nonostante l’eterogeneità delle condizioni dei competitors.

Nel golf, è, addirittura, possibile organizzare una competizione che coinvolga disabili e normodotati. Si interviene, ancora una volta, sulle regole, modellandole in guisa da consentire l’equilibrio competitivo. 

4. L’adattamento quale presupposto dell’integrazione

Dalla breve analisi fin qui condotta emerge la difficoltà di garantire l’integrazione senza opportuni adattamenti.

Talvolta, è la disciplina sportiva che deve essere rimodellata in considerazione delle caratteristiche particolari degli atleti che la praticano. Si parla, invero, di discipline sportive adattate le cui regole vengono, appunto, ridefinite in funzione del più efficiente svolgimento della competizione tra atleti disabili. Più elevato è il livello di integrazione che si intende raggiungere, maggiormente pervasivo sarà l’intervento dell’ordinamento sportivo sulle “regole del gioco”.

Alcune volte, però, occorre in qualche misura agire sul corpodell’atleta al fine di “normalizzarne” le performance.

È il caso del goalball in cui tutti i giocatori vengono bendati per rimuovere il vantaggio competitivo degli ipovedenti rispetto ai ciechi e, in fondo, è ciò che fino a poco tempo fa accadeva anche per gli atleti transgender.

L’esempio degli sport paralimpici lascia comprendere, dunque, come l’integrazione all’interno di una medesima competizione di atleti con caratteristiche differenti non possa avvenire sic et simpliciter, ma richieda il più delle volte degli adattamenti.

Vi è, poi, un altro dato che emerge dall’analisi fino ad ora condotta: la totale eterogeneità tra le differenti discipline sportive non consente l’individuazione di tecniche di interventouniversalmente valide.

Al contrario, ciascuno sport richiede misure ad hoc e il bilanciamento tra integrazione e competizione conduce, volta per volta, a risultati differenti.

È, infatti, l’interazione tra la peculiarità della disciplina sportiva e la tipologia di disabilità a determinare se ed in che misura le categorie possano essere più o meno inclusive.

5. Eterogeneità delle discipline sportive e ruolo delle Federazioni

Le succitate indicazioni risultano, a nostro avviso, utili anche in relazione alla questione dello sport praticato da atleti transgender.

Le linee guida del C.I.O., come già ricordato, esordisconoammettendo l’impossibilità di emanare un regolamento unitarioche definisca criteri di ammissibilità validi per ogni sport e, pertanto, si limitano ad indicare i principi che dovrebbero ispirare la condotta di ciascuna Federazione nel disciplinare la materia.

Si stabilisce, ad esempio, che, negli sport in cui il genere rileva quale criterio di ammissione ad una competizione, la transessualità non può costituire di per sé ragione di esclusione. Si tratta di un principio assolutamente condivisibile, ma è bene evidenziare che tale regola non conduce all’automaticoriconoscimento del diritto dei transessuali di scegliere la categoria nella quale gareggiare

Secondo le linee guida, infatti, anche gli atleti transessuali devono soddisfare i criteri di ammissione fissati dalle Federazioni.Naturalmente siffatti criteri devono essere conformi ai principi fissati dalle linee guida e, in particolare, devono scongiurare il rischio che si determinino vantaggi competitivi sleali e sproporzionati. In presenza di un siffatto squilibrio l’atleta non può essere ammesso, perché la competitività va preservata.

L’eventuale vantaggio, tuttavia, non può essere presunto, ma deveessere provato in maniera rigorosa. Vale, in proposito, il principio sancito dal Tas relativamente al noto caso di Oscar Pistorius, atleta disabile, ammesso a partecipare, assieme ai c.d. normodotati, alle Olimpiadi.

Nelle linee guida in esame si puntualizza, ancora, che il vantaggio(determinato dall’appartenenza ad un genere differente da quello di elezione) deve essere provato in relazione alle caratteristiche della specifica disciplina sportiva. Così, l’eventuale esclusione dell’atleta transgender da una determinata competizione non esclude che lo stesso possa essere ammesso a gareggiare in altri sport

In definitiva, secondo il C.I.O., occorre compiere ogni sforzo per consentire agli atleti transgender di essere ammessi a misurarsinella categoria di elezione, fermo restando che un tale risultato non può essere garantito dovendo sempre scongiurarsi il rischio di compromettere l’esistenza stessa della gara.

All’interno dello sport agonistico, non può esistere integrazione che non preservi la competizione perché senza quest’ultima lo sport agonistico non è neppure concepibile.

Individuato un siffatto limite generale ed invalicabile, il Comitato Olimpico Internazionale reputa eccessivamente angusta una regolamentazione dei criteri di ammissibilità che sia unitaria, rigida e standardizzata; che assimili, cioè, condizioni del tutto eterogenee e che, perciò, poco si attagli alla molteplicità dell’esperienza quale emerge praticando le palestre ed i campi di gioco.

Ciò che il Comitato auspica è, piuttosto, una regolamentazione del fenomeno secondo statuti differenti, specifici per ciascuna disciplina sportiva e, all’interno della medesima, per tipo di competizione.

D’altra parte, una siffatta opzione metodologica risulta quasi connaturale al peculiare settore che ci occupa, un settore in cui la normativa è la risultante dell’insieme della disciplina promanante dagli organismi centrali internazionali e nazionali e di quella adottata dalle singole Federazioni, alle quali è riconosciuto potere di autoregolamentazione – pur nel quadro dei valori e dei principi generali fissati a livello generale – per conformare le norme che regolano la vita associativa alle esigenze ed ai bisogni precipui di ciascuno sport .

La migliore attuazione dell’interesse degli atleti transgender ad eleggere la categoria all’interno della quale competere richiede, perciò, soluzioni normative flessibili e adattabili che, pur muovendosi all’interno di una cornice di principi e regole minime di tutela della dignità degli atleti, lascino alle Federazioni il compito di definire criteri di ammissibilità che consentano di raggiungere il miglior compromesso tra integrazione e competizione rispetto alle caratteristiche di ciascuna attività sportiva e tipologia di competizione.

Il diritto, scrive Vincenzo Scalisi, in un saggio dedicato peraltro al pensiero di Salvatore Pugliatti, deve disporsi «in modo da far posto a statuti normativi plurimi e diversificati», che siano in grado di cogliere e regolare nel miglior modo la diversità ; anche la disciplina in esame, dunque, non dovrebbe rimanere indifferente alla mutevole varietà delle situazioni di interesse coinvolte.

L’ordine giuridico – sono ancora parole di Scalisi- «chiamato a dar conto della molteplicità dell’esperienza e della realtà sociale, …, esprime rifiuto verso ogni concezione o pregiudizio monista con la predisposizione di statuti normativi diversificati e discipline giuridiche differenziate, basate sul rilievo della ineliminabile varietà e diversità delle situazioni di interessi in campo».