A cura di Vincenzo Santoro
1.- Premesse generali. L’articolo 647 del codice penale contempla tre speciali ipotesi di condotte di appropriazione, tutte basate sulla particolare configurazione del possesso, che non deriva da un consapevole atto di volontà bensì da contesti in cui o la volontà è del tutto assente o risulta viziata da un errore.
Le fattispecie sulla quale vogliamo soffermarci è quella che risulta dalla combinazione tra il primo comma n. 1 e l’ultimo comma dell’articolo 647 C.p, consistente nel fatto di chi , “avendo trovato denaro o cose da altri smarrite, se li appropria senza osservare le prescrizioni della legge civile sull’acquisito delle proprietà di cose trovate”.
La compiuta analisi di tale fattispecie delittuosa richiederà di soffermarsi anche su un’altra previsione contenuta nella norma in esame, contemplata dal numero 3 del comma 1 e consistente nel fatto di chi si appropri “cose delle quali sia venuto in possesso per errore altrui o per caso fortuito”.
Sembra infatti innegabile come vi sia una certa relazione tra le due fattispecie, posto che occorre stabilire se e come rilevi, ai fini della fattispecie di cui al comma 1 n. 3, la circostanza che la cosa di cui si acquista il possesso per caso fortuito o errore altrui rechi i chiari contrassegni del suo proprietario.
- I diversi orientamenti in merito al concetto di “cosa smarrita”. Nell’interpretazione della norma di cui al numero 1 si è, sin dal primo momento, dovuto fare i conti con la non facile distinzione tra cosa smarrita e cosa abbandonata o dimenticata.
Per taluni il concetto di cosa smarrita designa gli oggetti che presentino la seguente duplice connotazione: a) siano privi di un possessore; b) tale vacua possessionis non sia l’effetto di un volontario atto di dismissione del possesso.
In questa prospettiva, elaborata con compiutezza e puntualità dal Pedrazzi[1], la cosa smarrita assume una connotazione prevalentemente oggettiva ed ai fini della sua configurazione viene prevalentemente in rilievo il punto di vista del precedente possessore.
Tale approccio ha avuto largo seguito nella dottrina e giurisprudenza più risalenti, con varietà di impostazione ed in cui non si è mancato di evidenziare l’influsso proveniente dalla autonoma fattispecie dell’appropriazione di cose possedute per errore altrui o caso fortuito (art. 647, comma 1, n. 3 C.p.). Per esprimere tale collegamento si è aggiunto un altro requisito al concetto di cosa smarrita e si è affermato che sono tali “le cose mobili che, pur rimanendo di proprietà di una persona, sono uscite dalla sfera di padronanza del possessore , senza la di lui volontà e senza che siano entrate nel possesso d’altra persona”[2]
Sensibilmente diversa è l’impostazione seguita dalla dottrina e della giurisprudenza più recenti, in cui si coglie una nozione di cosa smarrita variamente modulata su un requisito oggettivo e su uno soggettivo.
In primo luogo (requisito oggettivo) si richiede, conformemente alla impostazione tradizionale, che la cosa sia uscita dalla sfera di sorveglianza del possessore. Indi si esige, ancora una volta replicando l’indirizzo tradizionale, che questi non sia in grado di ricostruire il primitivo rapporto possessorio, in quanto ignora il luogo ove la cosa si trovi o non è in condizione di ricordarlo.
Con il passare del tempo, però, si è aggiunto un ulteriore requisito e si è precisato che la cosa è “smarrita” quando sia priva di elementi in grado di esprimerne la specifica, e perdurante, provenienza possessoria.
Tale ulteriore requisito, che ha consentito di escludere che siano “smarriti” gli assegni in bianco di conto corrente, ha complicato il rigore della nozione oggettiva, in quanto inevitabilmente destinato ad interferire, da un lato, con il profilo della volontaria dismissione del possesso; dall’altro con la conformazione oggettiva della cosa, che può essere o non essere priva di contrassegni idonei a far risalire al suo possessore; e da ultimo con la percezione soggettiva e l’atteggiamento mentale di colui che la trova.
E’ infatti agevole constatare come possono darsi cose “riconoscibili” e volontariamente dismesse; e cose “perse o dimenticate” con la chiara impronta di colui che le deteneva.
Nel primo caso, la cosa non è smarrita in quanto ha cessato di avere un possessore. Nell’altro caso la cosa, pur smarrita dal punto di vista del possessore, non sembrerebbe tale nella sua nuda materialità e per come percepita dall’autore del rinvenimento, in quanto provvista di segni che attestano, direttamente o indirettamente, la identità del suo proprietario-possessore.
3.- In particolare sul concetto di cosa smarrita. Può già notarsi come il quadro definitorio si presenti molto variegato; e come, sia pure sotto l’apparente usbergo di una nozione oggettiva di cosa smarrita, si riscontrino precisi contegni soggettivi: l’assenza di un atto di volontaria dismissione del possesso; l’impossibilità per il possessore di ricostruire il luogo in cui si trovi la cosa; la possibilità per colui che la rinviene di risalire, per il tramite della conformazione dell’oggetto e dei contrassegni che presenta, all’altrui possesso.
La prima applicazione di tale variegato criterio si è avuto, come già accennato, con riguardo agli assegni in bianco di conto corrente, rispetto ai quali si è escluso il carattere di cose smarrita in ragione del fatto che i contrassegni alfa numerici ivi impressi costituiscono chiari ed intatti segni esteriori di un possesso o altrui.
Più in generale si è affermato che non possa ritenersi smarrita: la cosa perduta all’interno della propria abitazione; la cosa appena caduta di dosso dal proprietario e che si trovi ancora nelle sue immediate vicinanze; l’animale con consuetudo revertendi, quale il cane o altri simili animali domestici.
In tali casi, si è rilevato, non vi è dubbio che la persona offesa mantenga il possesso della cosa e che l’eventuale impossessamento da parte di terzi dia luogo a furto e non alla particolare appropriazione indebita contemplata dall’articolo 647 c.p..
E’ invece controverso se possa ritenersi smarrita la cosa che, pur fuoruscita dalla sfera del possessore, si trovi in un contesto in cui vigono particolari obblighi di custodia dei beni ivi rinvenuti (per esempio oggetti dimenticati sui mezzi di traporto o in uno scavo navale, ferroviario o aeroportuale). In relazione a tali contesti, autorevole dottrina, in dissenso rispetto alle poche pronunce giurisprudenziali, ritiene che non venga meno la connotazione di cosa smarrita e sottolinea che gli obblighi legislativi o contrattuali di custodia facenti capo al personale addetto non siano sufficienti ad instaurare un rapporto di reale custodia.
4.- Cenni sulla fattispecie del numero 3 dell’articolo 647. Presupposto dell’ipotesi delittuosa di cui all’ art. 647 n. 3 è che l’agente si trovi nel possesso della cosa per effetto di errore altrui ovvero per caso fortuito. L’errore può essere commesso dal proprietario come da un terzo (il postino) e può riguardare sia l’oggetto in sé (il denaro lasciato nelle tasche del vestito affidato in lavanderia) ovvero l’identità o la quantità della cosa consegnata o del destinatario di tale consegna.
L’errore alla base del possesso deve essere autonomo ed in nessun modo provocato o agevolato da iniziative dell’accipiens, delineandosi in caso contrario una rilevanza penale del fatto sotto altre norme incriminatrici, come la truffa nel caso in cui l’errore altrui sia frutto di artifici e raggiri dell’agente.
Per caso fortuito deve intendersi ogni energia produttiva di un evento giuridico rilevante, naturale o umana (fatto volontario altrui), estranea alla volontà dell’individuo che ne risente gli effetti favorevoli o sfavorevoli, così da comprendere sia la forza maggiore che l’errore proprio.
Il delitto è consumato nel momento in cui si compie l’appropriazione, vale a dire l’atto di dominio nei confronti del bene, incompatibile con i diritti del proprietario.
- La circostanza aggravante di cui all’ultimo comma dell’articolo 647 c.p..
L’art. 647, ultimo comma, prevede una circostanza aggravante specifica che opera qualora, nei casi di appropriazione di cosa smarrita o di cosa il cui possesso sia stato acquisito per errore altrui o per caso fortuito, l’agente “conosceva il proprietario”. Si tratta di un’aggravante avente carattere soggettivo, insuscettibile di estensioni ai concorrenti, e ad effetto speciale, importando un aumento di pena superiore ad un terzo.
Per solito la aggravante in esame è oggetto di fugaci cenni e manca una adeguata riflessione in merito al suo puntuale spazio di efficacia. In particolare non vi sono esaurienti contributi sul significato della locuzione “conosceva il proprietario” e i pochi cenni che si rinvengono nella manualistica tradizionale si limitano ad evidenziare che la aggravante si delinea in tutti quei contesti in cui il proprietario della cosa sia noto a colui che si appropria la cosa “in qualsiasi modo e per qualunque ragione (per aver veduto precedentemente la cosa indosso a chi l’ha smarrita; per contrassegni o nome del proprietario esistenti sulla cosa)”[3].
Può sin d’ora notarsi, in realtà, come la suddetta aggravante svolga un rilevante ruolo nella interpretazione del reato base, posto che la sua essenza risiede in un connotato soggettivo (conoscenza del proprietario) che va ad interferire con il recente orientamento che esclude possa darsi cosa smarrita allorquando la cosa possieda segni distintivi che riconducano al suo proprietario.
Il tenore letterale della aggravante sembra, infatti, attestare il contrario, al punto che una autorevole dottrina[4], dopo aver recisamente asserito che è da considerarsi smarrita “la cosa con contrassegni per l’individuazione del proprietario (es: valigia, automobile targata”, poiché anch’essa suscettibile di smarrimento (es. auto abbandonata dal ladro nel bosco), ha cura di sottolineare che è “senza fondamento ed addirittura contrastante con l’art. 647/2 la tesi che ravvisa il furto rispetto alle cose portanti l’indicazione del proprietario”.
6.- Alcune considerazioni sul rapporto tra appropriazione di cose smarrite e furto.
Nella formula strutturale del furto viene in primo luogo in rilievo la condotta di sottrazione della cosa mobile “a chi la detiene”. Occorre quindi stabilire quando sussista il requisito della altrui detenzione, definendone gli estremi costitutivi e il suo ambito di efficacia. E’ noto come tale concetto designi quella particolare relazione di fatto con la cosa qualificata dal potere di disposizione, controllo e vigilanza sulla medesima. Ciò consente di escludere il requisito della “detenzione” in tutte quelle situazioni in cui il rapporto di fatto con la cosa non comporti alcuna facoltà di autonoma disposizione e si svolga nell’ambito della sfera di vigilanza, custodia e controllo di un altro soggetto, che è quindi il solo titolare della signoria di fatto sul bene. Il caso tipico è quello della domestica che si porti via gli oggetti che maneggia ed impiega nello svolgimento dei suoi compiti e che non cessano mai di far parte della sfera di signoria del suo datore di lavoro.
Più complicato è definire gli elementi positivi del concetto di detenzione. Certamente non può richiedersi che la detenzione si manifesti sotto forma di costante e concreto rapporto tra il soggetto e la cosa e sono innumerevoli i casi in cui essa si esercita in modo virtuale e su oggetti materialmente privi di ogni collegamento fattuale con il detentore. La aggravante prevista dall’articolo 625, comma 1, n. 7 c.p. (cose esposte alla pubblica fede) testimonia di come possa esservi detenzione anche senza un rapporto diretto ed immediato tra la cosa ed il soggetto che ne ha la signoria.
Per comprendere meglio la questione entriamo subito nel vivo della specifica tematica in esame: è configurabile il rapporto di detenzione nella ipotesi in cui la cosa mobile sia stata smarrita e non si abbia alcuna idea del luogo ove si trovi?
Ed è ovvio che la riposta a tale domanda richiede di tenere nel debito conto la fattispecie incriminatrice prevista dall’articolo 647 c.p., in specie nella parte in cui sanziona la appropriazione di cose smarrite e la contrassegna come aggravata nel caso in cui il soggetto che la trova “conosceva il proprietario della cosa”.
In una non recente sentenza[5] si afferma, condivisibilmente, che commette furto, e non appropriazione indebita di cosa smarrita, chi si impossessa, dopo un diverbio avuto con un altra persona, del portafogli inavvertitamente sfuggito di tasca a quest’ultima nel corso del litigio. Sembra quindi delinearsi un punto di vista in cui svolge un ruolo determinante l’atteggiamento mentale dell’agente, che è in grado di rendersi conto che la cosa è solo momentaneamente fuoruscita dalla materiale disponibilità del suo possessore.
Vediamo se e in che termini l’anzidetto criterio orientativo abbia trovato riscontro nella giurisprudenza successiva e a tal fine soffermiamoci sul caso di Tizio che trovi per strada un telefonino cellulare e se lo prenda, senza segnalare alcunchè e trattandolo come cosa propria.
Il punto controverso è molto chiaro: sussiste o no l’altrui detenzione in un caso del genere?
Una recente sentenza [6] afferma che in tal caso si delinea il reato di furto, trattandosi di bene, in ragione del codice IMEI stampato sul medesimo, che conserva chiari segni del legittimo possesso altrui. Tale codice, infatti, consente agevolmente di individuare il proprietario del cellulare attraverso l’abbinamento tra il codice stesso e le SIM impiegate per il suo funzionamento. Sicchè deve ritenersi che la presenza di chiari segni di individuazione del possessore legittimo denota che non è venuta meno la relazione materiale del titolare con la cosa. Ne deriva che colui che abbia trovato l’oggetto così connotato deve provvedere alla restituzione dello stesso, altrimenti la sua condotta appropriativa integrerà sotto il profilo materiale e quello psicologico il delitto di furto e non quello di appropriazione di cose smarrite.
Ancora una volta, come può agevolmente notarsi, si ha riguardo all’atteggiamento mentale dell’agente, senza minimamente chiedersi se il possessore della cosa avesse o no consapevolezza del luogo ove essa si trovava e se fosse in grado di ripristinarne la materiale detenzione.
L’anzidetto principio sembra confermato anche da quell’orientamento che, proprio con riguardo al caso di specie, arriva a conclusioni opposte[7], affermando che integra il reato di appropriazione di cose smarrite e non quello di furto l’impossessamento di un telefono cellulare altrui oggetto di smarrimento. L’opposta conclusione, infatti, è argomentata con riguardo alla rilevata inidoneità del codice IMEI ad indentificare il titolare del rapporto di detenzione, sostenendosi, per vero con approccio di accentuato formalismo, che detto codice “identifica la cosa ma non la proprietà del bene”.
Pe capirne di più ricorriamo ad un altro caso concreto; ed esattamente al caso di un soggetto che trovi per strada un blocchetto di assegni.
Anche qui il panorama non è univoco. In epoca non recente si affermava[8] che l’’assegno bancario deve considerarsi cosa smarrita a prescindere dai segni esteriori, percepibili dall’agente, di un precedente legittimo -ma oramai non più esistente- possesso altrui. Ciò in quanto, ai fini del furto, si richiede “la sussistenza attuale del possesso altrui al momento della lesione”.
Una successiva sentenza [9] esplicita meglio gli argomenti che portano ad escludere il furto e, ripercorrendo le diverse e contrastanti opzioni, sottolinea come esse vengano a dipendere dal differente angolo di valutazione: per gli uni occorre concentrarsi sulla natura particolare dell’oggetto; per altri sul rapporto tra lo stesso e l’originario possessore.
Per la prima prospettiva (natura particolare dell’oggetto) viene meno il rapporto di detenzione e la cosa si considera smarrita ove concorrano due elementi: a) l’uscita dell’oggetto dalla sfera di sorveglianza del detentore; b) l’impossibilità per il possessore di ricostruire l’originario potere di fatto sulla res, perché ignora il luogo ove la stessa si trovi. Per il secondo angolo visuale, dal quale l’indicato orientamento dissente, sussiste il rapporto di detenzione e non ricorre la cosa smarrita tutte le volte che l’oggetto contenga chiari ed intatti i segni esteriori di un possesso legittimo altrui.
In conformità alla prima prospettiva è agevole la conclusione che si è fuori dalla detenzione, e quindi ricorre la cosa smarrita, allorquando il possessore “non ha di fatto alcun rapporto o potere materiale e psicologico” con il bene. Su tali premesse definitorie “è
è irrilevante la posizione psicologica e più in generale l’attività svolta o che può essere svolta dal “rinvenitore” della cosa smarrita, il quale può ben essere consapevole dell’altruità della cosa, non solo, ma può essere anche a conoscenza, già al momento del fatto, del proprietario[10].
Ne deriva che in tali casi non è configurabile il furto, per la determinante ragione che il predetto reato richiede la “sottrazione del bene a chi ne ha la detenzione, intesa questa come rapporto attuale tra il soggetto e la cosa mobile.”.
Di diverso avviso la più recente giurisprudenza, che si accosta alla nozione di “detenzione” dalla seconda delle indicate prospettive ed afferma [11] che integra la condotta di furto, e non di appropriazione di cose smarrite, l’apprensione di assegni in bianco di un conto corrente bancario, o anche di carte di credito, che siano smarriti, perché tali oggetti conservano chiari e intatti i segni esteriori di un legittimo possesso altrui, sì che il venir meno della relazione materiale con il titolare non comporta la cessazione del potere di fatto da questi esercitato.
Va segnalato, per concludere sul punto, che il contrasto sopra indicato sembra dileguarsi nei casi in cui si deve stabilire la rilevanza penale del fatto di chi denunci falsamente lo smarrimento di assegni, in realtà dati in pagamento a controparti contrattuali. Vi si afferma, infatti, che è pacificamente configurabile il reato di calunnia, posto che in tal modo si accusa implicitamente il prenditore degli assegni dei reati di furto (di solito aggravato) o di ricettazione. Ovviamente non è mancata l’obiezione che nell’oggetto della falsa incolpazione sia da ravvisare il reato di appropriazione di cose smarrite, il quale, in quanto procedibile a querela, rende insussistente il reato di calunnia nella ipotesi, per vero fisiologica, che la querela non venga presentata. E qui la risposta, univoca e dotata di unanime consenso, è stata nel senso di escludere tale reato, in quanto “perché possa configurarsi il delitto di appropriazione indebita di cosa smarrita è necessario che la cosa sia uscita definitivamente dalla sfera di disponibilità del legittimo possessore e che questi non sia in grado di ripristinare su di essa il primitivo potere; e poiché è sicuramente e agevolmente possibile risalire, sulla base delle annotazioni contenute nell’assegno, al titolare del conto, chi se ne impossessa illegittimamente commette o il reato di furto o quello di ricettazione[12].
- Qualche ulteriore considerazione. Non è semplice districarsi nel ginepraio sopra delineato e forse conviene partire da ciò che sta al fondo della norma incriminatrice. Ed esattamente dall’aggravante di cui all’ultimo comma dell’articolo 647 C.p., che prevede un aumento di pena per la ipotesi che colui che si appropria la cosa smarrita “conosceva il proprietario della cosa”.
E in questa prospettiva, inoltre, occorre tenere conto della diversa figura delittuosa contemplata al primo comma n. 3 dello stesso articolo, che concerne, come già rilevato, il fatto di chi, venuto in possesso di determinate cose per caso fortuito o forza maggiore, se ne appropri.
L’aggravante, singolarmente modulata con l’uso di un verbo al passato, pone il seguente, essenziale quesito: la conoscenza di cui parla la norma è da intendersi in senso effettivo e sussistente al preciso momento in cui viene posta in essere la condotta di appropriazione? Oppure essa comprende anche le ipotesi in cui il proprietario della cosa non sia per nulla identificato ma possa esserlo, avvalendosi, per esempio, del codice IMEI o dei numeri seriali di conto corrente?
E per rispondere a tale interrogativo non va trascurata la circostanza che la aggravante è espressamente contemplata anche per la ipotesi delittuosa dell’appropriazione di cose possedute per errore o caso fortuito, rispetto alla quale non rileva in alcun modo la nozione di cosa smarrita.
Sicchè appare evidente che per il legislatore non osta alla configurabilità di tale delitto (quello del numero 3) il fatto che al momento della appropriazione il soggetto conoscesse il proprietario della cosa. Ciò che si richiede, infatti, è che quella cosa, per errore altrui o per caso fortuito, sia finita nella sua disponibilità e nessun rilievo svolge la circostanza che essa rechi, variamente attestato nella sua oggettiva conformazione, il nome del suo proprietario.
La norma va di certo interpretata cum grano salis e vanno evitate conclusioni affrettate. Occorre, in altri termini, dare il corretto significato alle causali del possesso (caso fortuito ed errore altrui) e considerare che è in diretta ed immediata conseguenza di tali fattori causali che deve realizzarsi l’altrui possesso. Il che porta a considerare come estranee a tale norma le ipotesi in cui taluno abbia dimenticato in casa di altri un proprio oggetto, perché la dimenticanza non ha minimamente interrotto il suo ideale rapporto di possesso con tale cosa e non ha, a maggior ragione, determinato un possesso altrui.
Ad ogni modo rimane pacifico che, sussistendone gli estremi di causale e possesso, si delinei tale reato, nella forma aggravata di cui all’ultimo comma del 647, nel caso in cui il soggetto conosca il proprietario della cosa finita nella sua disponibilità o possa agevolmente risalire alla sua persona, per il tramite di etichette e contrassegni vari esistenti sulla cosa.
A questo punto, e ciò assodato, si tratta di comprendere se, e per quale ragione, debba ritenersi diversamente con riguardo alla fattispecie, per molti versi analoga e dotata delle medesima ratio giustificatrice, di appropriazione di cose smarrite.
A ben vedere la differenza tra le due norme si rinviene nella genesi della situazione possessoria. Nella fattispecie del numero 3 il possesso consegue al dispiegarsi dell’errore altrui o del caso fortuito, in cui viene pacificamente ricondotta la forza maggiore. Nella fattispecie del comma 1 la vicenda è un più complicata, in quanto il presupposto della condotta di appropriazione è descritto secondo una schema conseguenziale, in cui viene in rilievo dapprima la cosa smarrita ed indi l’atto del rinvenimento della medesima.
Sembra, quindi, che il rinvenimento rilevante ai fini di tale reato sia quello, e solo quello, che concerna “ denaro o cose da altri smarrite”.
E quindi ritorniamo al punto di partenza. Quando si è al cospetto di cose smarrite?
Proviamo a rispondere per approssimazioni successive. Di sicuro non può dirsi smarrita la cosa che si trovi, benché momentaneamente fuoriuscita dal materiale possesso, in una inequivoca relazione con il suo proprietario. Si pensi a Tizio che vede il portafoglio cadere dalla tasca di Caio e che, senza dire nulla, attende che Caio si allontani per impossessarsene. E non può dirsi smarrita per la determinante ragione che l’agente agisce con la precisa consapevolezza della riferibilità della cosa al suo legittimo proprietario e se ne impossessa con la coscienza e volontà di prelevare (sottrarre) un bene che, per il contesto oggettivo e per la sua precisa rappresentazione di tale contesto, non è affatto smarrito.
L’esempio consente di porre in evidenza un dato di essenziale importanza e che non sembra adeguatamente valorizzato nelle impostazioni esaminate sopra.
E’ vero che la cosa smarrita è tale per connotazioni oggettive e correlate alla fuoruscita dalla sfera di possesso del suo proprietario (o comunque titolare). Ma è anche vero che tale cosa deve rappresentarsi come smarrita anche nella mente di colui che la rinviene, il quale se ne appropria con la precisa consapevolezza che, nella concrete circostanze del rinvenimento, la cosa non è riconducibile alla sfera di possesso di alcun proprietario o possessore.
Il che consente di affermare che è ben possibile che si riscontri una cosa smarrita anche quando il proprietario non ha nessuna idea di tale smarrimento, perché non ha ancora avuto modo di accorgersene.
E di dedurre da tale prospettiva che, a ben vedere, l’unica valutazione soggettiva che rileva ai fini della esistenza di tale speciale ed attenuata forma di appropriazione indebita è quella del soggetto attivo del reato, il quale si imbatte in una cosa rispetto alla quale, per la sua conformazione oggettiva e per il contesto spaziale in cui si trova, non è affatto ipotizzabile un possesso altrui.
- Una possibile soluzione. Poste tali premesse, proviamo a risolvere il caso degli oggetti che, pur rinvenuti in spazi in sé non idonei a radicare o far ipotizzare l’altrui perdurante possesso, siano dotate di segni distintivi che consentano di identificare il proprietario (etichette nominative sui bagagli, segni distintivi sui moduli di assegni, codice Imei dei telefonini cellulari).
Talvolta la identificazione è immediata (nome e cognome); altre volte occorre procedere a determinati atti, per sviluppare i dati riscontrati sulla cosa e risalire al proprietario.
Ed è anche possibile che, talvolta, i dati siano insufficiente, perché non può escludersi che concernano il precedente proprietario e non più quello attuale (i cellulari si possono cedere e regalare, con assoluta libertà di forma).
Considerando tale coacervo di eventualità e tenendo nel debito conto la aggravante dell’ultimo comma (conosceva il proprietario), si ritiene che abbia maggiore fondamento l’orientamento che ravvisa in tali casi la cosa smarrita e ritiene applicabile, al fatto di colui che se ne appropri, la fattispecie dell’articolo 647 c.p..
Ciò per la ragione che, contrariamente a quanto riscontrato con riguardo al fatto di chi si prenda l’oggetto caduto dalla tasca del possessore e nel contesto di concreta configurabilità del possesso altrui, nei casi in esame il possesso altrui non sussiste e può soltanto ricostruirsi per fatto ed iniziativa di colui che rinviene la cosa.
Ma l’assenza di tale iniziativa, ci sembra, costituisce proprio il nucleo della condotta delittuosa prevista dalla fattispecie di cui al primo comma, numero 1, dell’articolo 647 c.p., che consiste proprio nel prendersi la cosa e non porre in essere quanto prescritto, ai fini della restituzione al proprietario, dal codice civile.
In altri termini la condotta delittuosa è in parte attiva ed in parte omissiva: la appropriazione illecita si delinea per il fatto di prendere la cosa (condotta attiva) ed omettere di fare quanto giuridicamente dovuto per la restituzione al proprietario.
Non si richiede, cioè, una omissione rispetto all’obbligo, in sé considerato, di identificare il proprietario, bensì solo la violazione di un obbligo di sostanziale restituzione ad una figura soggettiva che, per le norme del codice civile, tiene luogo del proprietario per tutto il tempo della possibile, e normativamente disciplinata, riconsegna della cosa al predetto.
Deriva da quanto sopra che se la condotta delittuosa, attiva ed omissiva, riguarda una cosa di cui è noto il proprietario o ne è agevole la identificazione, si ricadrà nella fattispecie aggravata dell’ultimo comma dell’articolo 647, che sanziona e reprime il maggior disvalore insito nelle condotte di mancata restituzione di un bene in tutti i casi in cui il titolare del diritto alla restituzione era noto o identificabile; maggior disvalore dipendente dal fatto che l’omissione della consegna agli uffici comunali, o equipollenti, si attua in un contesto di agevole esperibilità della procedura di restituzione del bene al suo titolare, che viene leso nel suo diritto a rientrare nel possesso del bene nonostante vi fossero tutti i presupposti per il sicuro ripristino di tale situazione possessoria.
Siffatta ricostruzione, per concludere, ci sembra la più aderente al dato normativo e quella più corrispondente alla comune nozione di “cosa smarrita”.
In primo luogo essa evita di dilatare a dismisura la fattispecie del furto, che è imperniata sulla sottrazione della cosa “a chi la detiene” e che nell’interpretazione che si contesta viene ad essere sostanzialmente mutilata ed esclusivamente imperniata sul fatto di chi “si impossessa della cosa mobile altrui”. Solo se il reato di furto fosse configurato in tali termini avrebbe senso e assoluta plausibilità la tesi che ne ravvisa la sussistenza nel fatto di chiunque si prenda la cosa di altri e sapendo che è di altri, a prescindere dal luogo in cui la abbia trovata e dal fatto che essa sia stata smarrita.
In secondo luogo la ricostruzione che si predilige assegna un senso compiuto al complesso della disposizioni contenute nella norma di cui all’articolo 647 c.p., sanzionando tutte quelle condotte in cui, pur non riscontrandosi la sottrazione della cosa a “a colui che la detiene”, si ravvisa l’indebita appropriazione della medesima, nella essenziale forma della mancata restituzione al proprietario ed in forma aggravata ove tale proprietario fosse noto o identificabile.
21 luglio 2014 Vincenzo Santoro
[1] PEDRAZZI, Appropriazione indebita, Enciclopedia del diritto, II, 1958, p. 233.
[2] per tutti, MANZINI, Trattato di diritto, penale, volume nono, pag. 89 e seguenti (neretto a cura dello scrivente).
[3] MANZINI, op. cit. p. 983
[4] MANTOVANI, Delitti contro il patrimonio, 2002, p. 127.
[5] Cassazione, Sez. 4, Sentenza n. 6526 del 05/05/1995 Ud. (dep. 03/06/1995 ) Rv. 201709.
[6] Cassazione, Sez. 5, Sentenza n. 40327 del 21/09/2011 Ud. (dep. 08/11/2011 ) Rv. 251723.
[7] per tutti, Cassazione, Sez. 2, Sentenza n. 40654 del 09/10/2012 Cc. (dep. 17/10/2012 ) Rv. 253446.
[8] Cassazione, Sez. 4, Sentenza n. 5844 del 02/05/1997 Ud. (dep. 17/06/1997 ) Rv. 208531.
[9] Cassazione, Sez. 5, Sentenza n. 3646 del 1999.
[10] In tal senso, con riguardo al fatto di chi trovi una targa di ciclomotore e non la restituisca al legittimo proprietario, Cassazione, Sez. 2, Sentenza n. 12922 del 18/12/2003 Ud. (dep. 17/03/2004 ) Rv. 228629.
[11] Cassazione, Sez. 2, Sentenza n. 24100 del 03/05/2011 Ud. (dep. 16/06/2011 ) Rv. 250566.
[12] Cassazione, Sez. 6, Sentenza n. 4073 del 2010.