1.- Premesse. 2.- La legge delega (legge 28 aprile n. 2014, n. 67). 3.- L’abrogazione degli articoli 485 e 486 del codice penale. 4.- La attuale rilevanza penale del falso in scrittura privata. 5.- Alcune perplessità sul reato di falso in scrittura privata. 6.- Abolizione del reato di ingiuria. 7.- La fattispecie di illecito civile a tutela dell’onore. 8.- Il discrimine tra l’illecito civile di ingiuria e il reato di diffamazione. 9.- Abolizione del reato di sottrazione di cose comuni (627 c.p.) e di appropriazione di cose smarrite (647 c.p.). 10.- La modifica del reato di danneggiamento. 11.- Le norme abrogate e le… identiche norme sopravvissute altrove. 12.- Ulteriori rilievi sui rapporti tra i nuovi illeciti civili e le fattispecie penali: in particolare con riguardo alle falsità in scrittura privata. 13.- Le disposizioni di diritto intertemporale: cenni.
1.- Premesse. Con il decreto legislativo n. 7 del 15 gennaio 2016 è stata data esecuzione alle disposizioni della legge 28 aprile 2014, n. 67, nella specifica parte in cui ha conferito delega al Governo per provvedere alla abrogazione di determinati reati ed istituire, al loro posto, corrispondenti fattispecie di illecito civile, presidiate da sanzioni pecuniarie aggiuntive rispetto all’obbligo del risarcimento del danno.
Le considerazioni che si intende sviluppare non si occuperanno di ciò che si è riversato nel contiguo settore degli illeciti civili, in cui si è registrata la assoluta novità di fattispecie in cui viene in rilievo una sanzione ulteriore rispetto all’obbligo di risarcire il danno, che solo per amore di suggestivi raffronti può essere ricondotto ai danni punitivi di matrice anglosassone. Suggestione che, però, dura lo spazio di un attimo, giusto il tempo di rilevare che il danno punitivo ridonda a vantaggio di colui che ha ottenuto ragione in giudizio e non certo, come nell’asseto che si è creato, a favore delle casse erariali. Sicchè, sempre per amore di raffronti e riscontri, ciò che resta in piedi è semplicemente la stranezza di una illecito civile che ha la sostanziale fisionomia di un illecito amministrativo, appunto presidiato da una sanzione pecuniaria di natura punitiva[1].
Ciò di cui vogliamo comprendere termini e conseguenze è esclusivamente il profilo dell’intervento di squisita natura penale, che, pur profilandosi sotto l’essenziale veste di una abolitio criminis, solleva dubbi e perplessità[2].
2.- La legge delega (legge 28 aprile n. 2014, n. 67). In tale prospettiva conviene in primo luogo partire dalla legge delega, che al comma 3 dell’articolo 2 prescrive al Governo di “abrogare i reati previsti dalle seguenti disposizioni del codice penale:
1) delitti di cui al libro secondo, titolo VII, capo III, limitatamente alle condotte relative a scritture private, ad esclusione delle fattispecie previste all’articolo 491;
2) articolo 594;
3) articolo 627;
4) articoli 631, 632 e 633, primo comma, escluse le ipotesi di cui all’articolo 639-bis;
5) articolo 635, primo comma;
6) articolo 647.
La disposizione sopra indicata prevede i criteri direttivi cui deve uniformarsi il legislatore delegato, che appaiono puntuali e provvisti di univoco significato quanto all’ambito di attuazione della delega legislativa. In particolare, e rimanendo sul terreno degli interventi di natura penale, non vi sono dubbi sul fatto che il legislatore delegato debba provvedere solo ad espungere determinati reati, senza introdurne di nuovi e senza apportare, salvo ciò che è specifico oggetto della delega, modifiche di nessun tipo su ciò che continuerà a far parte della normazione penale incriminatrice.
3.- L’abrogazione degli articoli 485 e 486 del codice penale. Vediamo se ed in che misura il legislatore ha dato attuazione a tale delega, seguendo proprio l’ordine dei reati oggetto di abolitio criminis ed iniziando dalle fattispecie di falso in scrittura privata.
Il criterio direttivo che presidia questa parte della legge delega è espressamente circoscritto alle “condotte relative a scritture private”. Presa alla lettera, la delega parrebbe prescrivere, salvo l’espressa esclusione di cui all’articolo 491 (su cui si dirà oltre), la abolizione di tutti i reati che siano contenuti nel capo III (da articolo 476 a 493 bis) e che concernano condotte di falsificazioni di scritture private. Non si specifica in alcun modo la tipologia della falsificazione e quindi il criterio direttivo sembrerebbe comprendere anche le ipotesi di falsità ideologica di scritture private: cioè a dire le fattispecie di reato di cui agli articoli articolo 481 e 484 del codice penale, che, in conformità ad una nota pronuncia della Suprema corte a sezioni unite, contemplano una ipotesi eccezionale di falsità ideologica di scritture private, tali essendo gli atti in cui si esprime la attività degli esercenti servizi di pubblica necessità[3].
E’ però plausibile ritenere che il riferimento alle “scritture private” stia a designare solo quelle norme incriminatrice che contengono, nella formulazione letterale o nella rubrica, la espressa menzione di una scrittura privata; e quindi le norme di cui agli articoli 485 e 486 del codice penale.
In verosimile esplicazione di tale premessa, il decreto legislativo, all’articolo 1, ha espressamente disposto la abrogazione dei due articoli sopra indicati.
Per effetto di tale abrogazione, scompaiono dal codice penale i reati di falsità in scrittura privata e di falsità di foglio firmato in bianco.
In primo luogo, scompare il reato di cui all’articolo 485, che contemplava una ipotesi di falsità materiale e prevedeva come essenziale componente del delitto in esso previsto una duplice, e cumulativa, condotta: a) falsificazione materiale di una scrittura privata; b) uso di tale atto falso, anche nella forma del consentire ad altri di farne uso.
Sul piano soggettivo, infine, la norma incriminatrice richiedeva il dolo specifico dell’aver agito “ al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno”.
Indi viene abrogato l’articolo 496, che prevedeva, come esplicitato nella rubrica, il fatto di colui che, con il medesimo dolo specifico del falso in scrittura privata, apponeva nel foglio (atto privato) firmato in bianco annotazioni diverse da quelle a cui era obbligato o autorizzato ed utilizzava o lasciava utilizzare l’atto abusivamente compilato.
La soppressione delle norme in esame ha comportato l’adattamento della formulazione letterale dell’articolo 488 (altre falsità in foglio firmato in bianco), in cui è stato rimosso il riferimento alle scritture private (perché oggetto delle norme abrogate) e si è costruito il precetto con esclusivo riguardo allo spazio lasciato libero dalla norma di cui al 487 (annotazione in foglio firmato in bianco di atto pubblico diverso da cui si era obbligati o autorizzati), coprendo quindi le ipotesi in cui il “foglio firmato in bianco” sia compilato e “riempito” da parte di chi non aveva il potere di disporre del foglio e se ne era abusivamente impossessato o, comunque, non era, nel momento in cui ha apposto le annotazioni, munito di un valido mandato “ad scribendum”.
Non è chiaro quale sia il residuo spazio di efficacia della norma contenuta nell’indicato articolo 488, ormai privato di ogni riferimento alla falsità materiale in scrittura privata (abrogata) ed alla luce delle sue, per vero rare, applicazioni giurisprudenziali, che appunto ne facevano una variante particolare della fattispecie di cui all’articolo 485 del codice penale.[4]
4.- La attuale rilevanza penale del falso in scrittura privata. Analogo adattamento si è reso necessario con riguardo alla diposizione contenuta nell’articolo 490, ove si prevede, in qualche modo anticipando la norma contenuta nell’articolo successivo, il fatto di «Chiunque, in tutto o in parte, distrugge, sopprime od occulta un atto pubblico vero o, al fine di recare a se’ o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, distrugge, sopprime od occulta un testamento olografo, una cambiale o un altro titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore veri”.
Come può agevolmente rilevarsi, la norma incriminatrice contempla due distinte condotte: la prima, relativa ad atti pubblici veri, si esaurisce nella condotta di distruzione, soppressione od occultamento e richiede il dolo generico; la seconda, che concerne alcune tassative fattispecie di scritture private, si distingue dalla prima per il dolo specifico “di recare a se’ o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno”.
In relazione al fatto (in realtà ai fatti) contemplato da tale norme incriminatrice si prevede la applicazione delle “pene stabilite negli articoli 476, 477 e 482, secondo le distinzioni in essi contenute.”.
La norma sopra indicata consente di comprendere subito quale sia la sanzione delle condotte che incidano su atti pubblici, perché in tal caso il riferimento agli articoli 476, 477 e 482 si specifica in ragione della natura dell’atto pubblico (atto pubblico vero e proprio; certificazioni o autorizzazioni amministrative) ed in ragione della qualifica del soggetto attivo e del contesto di svolgimento della condotta (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio oppure soggetto privato, cui viene equiparato il soggetto pubblico che agisca “fuori dall’esercizio delle sue funzioni”.
Al resto provvede la norma di cui al successivo articolo 491 c.p., ai sensi della quale ”Se alcuna delle falsita’ prevedute dagli articoli precedenti riguarda un testamento olografo, ovvero una cambiale o un altro titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore e il fatto è commesso al fine di recare a se’ o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, si applicano le pene rispettivamente stabilite nella prima parte dell’articolo 476 e nell’articolo 482.”.
Il comma 2 di tale articolo prevede che “Nel caso di contraffazione o alterazione degli atti di cui al primo comma, chi ne fa uso, senza essere concorso nella falsita’, soggiace alla pena stabilita nell’articolo 489 per l’uso di atto pubblico falso.».
Il comma 1 della disposizione in esame, peraltro confermativo del previgente assetto, indica quindi chiaramente che la falsità che concerna le scritture private espressamente menzionate richiede il dolo specifico della finalità di vantaggio o danno ed è punita con le pene previste per il reato di falso materiale in atto pubblico (art. 476): cioè con la reclusione da uno a sei anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale e con le pene di cui all’articolo 482 se a commetterlo sia un privato (o un pubblico ufficiale fuori dall’esercizio delle sue funzioni).
Per contro, non è del tutto conforme alla pregressa disciplina, sempre con esclusivo riferimento alle tassative scritture private in esame, la formulazione del comma 2. E’ infatti scomparsa la menzione del dolo specifico ( fine di vantaggio e danno), che era parte essenziale della fattispecie abrogata, grazie alla previsione contenuta nel comma 2 dell’articolo 489, che appunto prevedeva, con indifferenziato riguardo a tutte le condotte di falso incidenti su scritture private, e quindi anche per testamento olografo e titoli di credito, che l’uso da parte di chi non era concorso nella falsità fosse punibile” soltanto ”se il soggetto avesse “agito al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno”.
Nel nuovo quadro normativo, scomparso, per espressa abrogazione, il comma 2 dell’articolo 489 (articolo 2, lettera b, del decreto legislativo n. 7 del 2016) e scomparso ogni riferimento al dolo specifico nella specifica previsione che contempla e sanziona l’uso dell’atto privato da altri falsificato, è venuto a delinearsi un assetto in cui la falsità richiede il dolo specifico, mentre l’uso si appaga del dolo generico.
Infine viene in rilievo la nuova formulazione dell’articolo 493-bis, che si limita a riprodurre la procedibilità a querela per i sopravvissuti reati concernenti le scritture private (articoli 490 e 491), con la sola eccezione delle condotte che riguardino un testamento olografo, procedibili di ufficio.
5.- Alcune perplessità sul reato di falso in scrittura privata. Parrebbe, quindi, che la sostanza, limitatamente a tali scritture private, non sia mutata e che il legislatore delegato abbia puntualmente attuato la legge delega sul punto specifico, che prescriveva di abolire il reato di falsità materiale in scrittura privata con la sola eccezione delle falsità concernenti il testamento olografo ed i titoli di credito espressamente menzionati.
In realtà, nel percorso di attuazione della legge delega, qualcosa si è perso, perché la norma incriminatrice che attualmente contempla e sanzione la falsità delle predette scritture private non è la riproduzione identica di quella precedente. In particolare è scomparsa la condotta di “uso” del documento falsificato, che, nelle due forme previste (usare o lasciare che altri ne faccia uso), costituiva un connotato specifico del pregresso reato di falsità in scrittura privata e, in ciò distinguendolo dalle altre falsità documentali, si aggiungeva alla condotta di materiale falsificazione.
Ne è derivato, pare, una norma incriminatrice con più ampia sfera di efficacia, in cui la falsità materiale delle predette scritture private costituisce reato a prescindere dall’uso dell’atto falsificato. Quindi si è costruita una fattispecie che, per molti aspetti e salvo il dolo specifico, è sovrapponibile al reato di falsità materiale in atto pubblico, che, come è noto, si perfezione in virtù della sola condotta di falsificazione e non richiede in alcun modo l’uso dell’atto falso.
Analoga modifica in peius si riscontra, come già anticipato, con riguardo alla autonoma fattispecie di uso di atto falso (nuovo comma 2 dell’articolo 491 c.p.), che, pur avendo ad oggetto una scrittura privata e in difetto di qualsiasi criterio direttivo che preveda tale aggravio di statuto penale, è attualmente del tutto coincidente con la fattispecie di uso di atto pubblico falso, punita a titolo di dolo generico. Ed è appena il caso di rilevare come il transito dal dolo specifico al dolo generico, privando la norma incriminatrice di un estremo che ha la specifica funzione di restringere l’area della punibilità, comporti un aumento della sfera di rilevanza penale del fatto.
Tirando le fila di quanto si è esposto, può quindi concludersi che si è realizzata una modifica in peius della disciplina penale della falsificazione materiale che incida su testamento olografo e titoli di credito. Ed è solo il caso di evidenziare come tale modifica, forse dovuta ad un difetto di coordinamento, non trovi alcun addentellato nei criteri direttivi della legge delega.
Per altro verso si è determinata una lacuna di tutela non del tutto comprensibile, anche se apparentemente in linea con quanto disposto dalle legge delega, che, si ribadisce, prescrive di mantenere in vita solo le falsità che concernono le “fattispecie previste dall’articolo 491”, cioè quelle che incidono su “un testamento olografo, ovvero una cambiale o un altro titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore”.
La lacuna concerne le falsità commesse in assegno bancario o in assegno circolare munito della clausola di non trasferibilità, che fuoriescono dall’oggetto materiale delle nuove fattispecie di falsità in scrittura privata e che, per pacifica giurisprudenza, avallata dalle sezioni unite, trovavano esclusiva sanzione nella fattispecie di cui all’abrogato articolo 485 del codice penale[5].
Almeno con riguardo agli assegni, va rilevato come la lacuna di tutela incida proprio all’area di maggior impiego dei medesimi, posto che, a seguito del decreto legislativo 231/07 (articolo 49) e successive modifiche (art. 12 comma 1 del DL 201/2011) l’assegno non trasferibile è diventata la regola, e quello libero è consentito solo per importi inferiori ai 1000 euro.
A prescindere da tale inconveniente, rimane da chiedersi, in generale, come mai il legislatore delegato non abbia, attuando puntualmente la delega, modificato direttamente la norma di cui all’articolo 485, lasciandone inalterata la struttura (falsificazione ed uso) e circoscrivendone la applicazione al testamento olografo ed ai titoli di credito. In tal caso, sarebbe stato sufficiente introdurre nel corpo del nuovo articolo 485 le previsioni sanzionatorie, che sono rimaste uguali alle precedenti, il differenziato regime di procedibilità, sempre uguale al pregresso, e la autonoma previsione della condotta di uso da parte di colui che non fosse concorso nella falsificazione.
Siffatta previsione avrebbe avuto l’effetto di lasciare inalterato il pregresso trattamento penale della falsificazione delle predette scritture private e avrebbe richiesto, come logico completamento, la cancellazione della inutile norma di cui all’articolo 491, il cui contenuto si sarebbe interamente riversato nella appropriata formulazione dell’articolo 485[6].
6.- Abolizione del reato di ingiuria. L’ulteriore norma abrogata dal decreto legislativo in esame è quella di cui all’articolo 594 del codice penale, che prevedeva il reato di ingiuria, qualificato come aggravato, tra l’altro, per l’ipotesi di “offesa commessa in presenza di più persone”.
Ciò che immediatamente balza agli occhi è il mancato coordinamento tra la abrogazione della norma e la norma successiva, che prevede il reato di diffamazione.
Quest’ultima norma, infatti, si apre con la formula “Chiunque, fuori dai casi indicati nell’articolo precedente….”.
Può darsi che la svista sia innocua e che la esperienza applicativa continuerà a vedere nella diffamazione il reato di chi offende l’altrui reputazione, in assenza della persona cui è diretto l’addebito e comunicando con più persone.
Di certo si aprono scenari nuovi, in cui occorrerà porsi il problema di come debbano delinearsi i rapporti e gli intrecci tra la fattispecie penale della diffamazione e l’illecito civile dell’ingiuria. Ed occorrerà stabilire, in particolare, se possano delinearsi dei rapporti di specialità tra le anzidette figure di illecito, allo stesso modo di quanto accaduto in ordine ai rapporti tra illecito penale ed illecito amministrativo o se debba, come parrebbe, accordarsi natura speciale all’illecito penale.
In altri termini: per capire quale sia attualmente lo spazio di operatività del reato di diffamazione, e quale ne sia il puntuale precetto, occorre previamente considerare ciò che rientra nella figura dell’illecito civile di ingiuria? Oppure, come parrebbe plausibile, fare il contrario? E quindi prima stabilire se il fatto sia o non da ricondurre al reato di diffamazione; e solo in un secondo momento, escluso tale reato, ravvisare la meno grave figura di illecito civile. Non c’è bisogno di sottolineare quanto sia complessa tale questione e quanto sia difficoltoso, in assenza di puntuali indici normativi e giurisprudenziali, individuare i percorsi che conducono ad una plausibile soluzione.
Non è un caso se si è evidenziato come la pregressa fattispecie di ingiuria contemplasse la circostanza aggravante dell’offesa “commessa in presenza di più persone”. E quindi contemplasse, sanzionandolo più gravemente, un fatto di ingiuria in cui le espressioni offensive fossero state percepite sia dalla persona offesa che da altre persone.
Ed è noto come tale fattispecie aggravata ha posto il problema di come distinguerla dal contiguo reato di diffamazione, fondato sulla assenza della persona offesa e sul requisito della “comunicazione con più persone”. Distinzione che richiedeva di considerare adeguatamente il fatto che, per chiara opzione normativa (comma 2 dell’abrogato 594), vi era una assoluta equipollenza tra offesa realizzata alla presenza fisica del destinatario della medesima ed offesa realizzate “mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni diretti alla persona offesa”.
Sicchè si trattava di stabilire, nel pregresso assetto e solo allo scopo di stabilire la appropriata qualifica giuridica del fatto, se l’offesa realizzata in danno di persona presente ed in un contesto contrassegnato da una pluralità di persone fosse da equiparare alla ipotesi di chi, con una missiva diretta alla persona offesa ed ad altre persone, offendesse l’onore ed il decoro della prima.
Il punto è stato più volte affrontato dalla giurisprudenza di legittimità, anche se con specifico riguardo alla ipotesi di missive dirette sia alla persona offesa che a terze persone.
A fronte di tali ipotesi, e verosimilmente per la specificità della sua conformazione – missive dirette anche a terze persone e diversi contesti di percezione della offesa- si è ritenuto che fossero integrati sia il reato di ingiuria che quello di diffamazione[7].
Sta di fatto che attualmente la questione ha assunto una più incisiva rilevanza, per via della trasformazione dell’ingiuria in un illecito civile, con il corredo di previsione che, nella sostanza, recuperano le abrogate circostanze aggravanti e le abrogate cause di esenzione da pena. E’ indubbio, infatti, che tale abrogazione-novazione dell’ingiuria ha prodotto delle conseguenze sul perdurante reato di diffamazione, che, anche a prescindere dalla non ben coordinata clausola di esclusione (fuori da casi indicati nell’articolo precedente), va distinta, quanto alla sua attuale conformazione, non più dalla contigua fattispecie incriminatrice dell’ingiuria ma da una fattispecie di illecito civile.
7.- La fattispecie di illecito civile a tutela dell’onore. L’illecito civile, nella sua forma base, consiste nel fatto di “chi offende l’onore o il decoro di una persona presente, ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica o telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa”(articolo 5, comma 1, lettera a) del decreto legislativo n. 7 del 2016).
Per tale illecito è previsto, oltre all’obbligo del risarcimento del danno secondo le leggi civili, il pagamento di una sanzione pecuniaria civile da euro cento ad euro ottomila.
Nei commi 2 e 3 del citato articolo 2 si prevedono due cause di esonero dalla sanzione pecuniaria: la prima, mutuata dalla abrogata previsione di cui al primo comma dell’articolo 599 c.p., consiste nella reciprocità delle offese; la seconda, sempre mutuata dall’abrogato articolo 599, consiste nell’avere commesso l’ingiuria nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso[8] .
Infine sono previste, mutuate dalle pregresse ed abrogate circostanze aggravanti, della fattispecie aggravate di illecito civile, punite con la sanzione pecuniaria da euro duecento ad euro dodicimila e che consistono: a) nella realizzazione dell’ingiuria mediante la attribuzione di un fatto determinata; b) nella realizzazione della ingiuria “in presenza di più persone” (articolo 4, del citato decreto, comma 4, lettera f, e comma 8).
8.- Il discrimine tra l’illecito civile di ingiuria e il reato di diffamazione. A questo punto disponiamo di tutti gli ingredienti necessari per affrontare la questione della attuale linea di confine tra il reato di diffamazione e l’illecito civile di ingiuria.
In particolare occorre chiedersi quale fattispecie di illecito sia configurabile nella ipotesi in cui l’addebito lesivo venga pronunciato alla presenza della persona offesa e nel contesto di una conversazione cui prendano parte una pluralità di soggetti[9]. In un caso del genere, del tutto riconducibile alla circostanza aggravante dell’ultimo comma dell’abrogato articolo 594 c.p. (offesa commessa alla presenza di più persone), sembrava scontato doversi riscontrare il solo reato di ingiuria aggravata.
Era infatti pacifico che l’ingiuria fosse da ravvisare in ogni addebito lesivo dell’onore e del decoro di una persona presente (o situazione ad essa equiparate) e che la diffamazione, proprio per la clausola di esordio della norma incriminatrice (fuori dai casi indicati nell’articolo precedente) fosse da riscontrare nell’offesa alla reputazione di una persona assente e per il tramite della comunicazione con più persone.
Ed era altresì pacifico che l’ingiuria commessa alla presenza di più persone configurasse il reato di ingiuria aggravata, senza concorso con il reato di diffamazione e per la determinante ragione che quest’ultimo reato postulava la “assenza della persona” raggiunta dall’addebito lesivo”[10].
In particolare si sottolineava come il reato di diffamazione, proprio per il fatto di consistere in una offesa fatta ad un assente, fosse più grave di quello dell’ingiuria, “perché costituisce un maggior pericolo o un maggior danno per l’altrui personalità morale, in quanto l’assenza dell’offeso toglie a costui la possibilità di difendersi immediatamente[11].
Quid iuris nell’attuale assetto delle norme incriminatrici? L’ingiuria non è più reato ed è scomparso l’articolo 594 del codice penale; al suo posto è subentrato quel singolare illecito civile cui abbiamo già accennato, che presenta una componente punitiva e il cui accertamento è rimesso alla esclusiva iniziativa della persona offesa, che, sia detto per inciso, non dispone di alcun percorso processuale privilegiato e che non potrà certo far valere la granitica giurisprudenza penale in ordine alla sufficienza della testimonianza della persona offesa.
L’unica norma penale che presidia l’onore individuale è quella della diffamazione, che, per come attualmente formulata, sconta un deficit di coordinamento con la abrogazione del reato di ingiuria. Essa, infatti e come già rilevato, reca un inciso “fuori dai casi indicati nell’articolo precedente” che non ha più senso compiuto, perché l’articolo precedente è transitato, nella sostanza, nell’area degli illeciti civili. Sicchè è come se la norma avesse mutato la sua componente precettiva e contemplasse il fatto di chi, comunicando con più persone, offende la altrui reputazione.
Non vi è più traccia dell’estremo della assenza della persona offesa e ciò che sembra assumere rilevanza è il fatto di pronunciare addebiti lesivi dell’altrui patrimonio individuale e professionale nel contesto di una comunicazione con almeno due persone, vi sia o no presente la persona offesa e, ovviamente, senza computarla nel novero della pluralità richiesta per la esistenza del reato. Non sembra, inoltre, che il concetto di “reputazione” abbia sufficiente attitudine delimitativa e possa consentire di recuperare per suo tramite quel requisito delle “assenza” della persona offesa ormai fuoruscito dalla contenuto letterale della fattispecie incriminatrice.
E’ indubbio che le cose stessero in questi termini nell’abrogato assetto normativo, dove era unanime la affermazione che soltanto la mancanza di una comunicazione diretta o direttamente percepibile dal destinatario caratterizzasse il delitto di diffamazione rispetto a quello della ingiuria e che solo ad una situazione del genere fosse legata la esistenza di una offesa alla reputazione del soggetto passivo. Ma è altrettanto indubbio come tale conclusione fosse il risultato della interpretazione sistematica e congiunta delle due norme incriminatrici (ingiuria e diffamazione) e della delimitazione delle rispettive aree di configurabilità. Delimitazione che, appunto, traeva essenziale alimento dalla formulazione letterale del reato di diffamazione, che si profilava “al fuori dei casi” che ricadevano nel reato di ingiuria.
Sicchè pare doversi concludere che nell’assetto penale attualmente vigente non può più assegnarsi alla presenza della persona offesa la funzione di precludere la configurabilità del reato di diffamazione; e che non si possa più affermare che il primo requisito della diffamazione sia costituito dalla impossibilità che la persona offesa “percepisca direttamente l’offesa”[12].
Su tali premesse, e con le ovvie cautela che discendono dai non chiari rapporti tra illecito penale e nuovo illecito civile, può affermarsi che l’intervento soppressivo del reato di ingiuria potrebbe avere comportato un ampliamento della contigua fattispecie di diffamazione, che può realizzarsi, nella ricorrenza dei suoi elementi costitutivi, anche se il destinatario dell’addebito offensivo sia presente e percepisca l’offesa.
E questo, sia consentito accennarvi, apre qualche ulteriore problema, in relazione alla possibilità che l’offeso, in un secondo momento e quindi non subito dopo la diffamazione subita, offenda a sua volta, da solo o comunicando con più persone, colui che la aveva offeso in precedenza. Se il fatto commesso integra l’illecito civile della ingiuria, troverà applicazione la clausola di esonero dalla sanzione pecuniaria civile, prevista dall’articolo 4, comma 2 del decreto legislativo n. 6 del 2016. Se il fatto commesso sia da qualificare come diffamazione viene ad essere inibito l’accesso a qualsiasi specifica causa di non punibilità: non può trovare applicazione la non punibilità della reazione al fatto ingiusto altrui (attuale formulazione dell’articolo 599) perché, per il tempus di commissione del fatto, non ricorrono i relativi presupposti; e non può trovare applicazione, pur replicando la complessa vicenda i puntuali termini della pregressa ingiuria reciproca, la non punibilità delle reciprocità delle offese, perché la relativa previsione, a suo tempo coerentemente relativa ai soli reati di ingiuria, è stata abrogata.
Vi è dire che il quadro normativo riacquista la sua pregressa ed intrinseca coerenza ove: si correli la clausola iniziale della fattispecie di diffamazione alla fattispecie dell’illecito civile della ingiuria; si ritenga che la assenza della persona offesa continui ad essere il requisito qualificante del reato di diffamazione; e si ravvisi la ingiuria tutte le volte che l’offesa, anche se alla presenza di altre persone, sia fatta in danno di un soggetto presente, in tutte le forme in cui la presenza è considerata tale e quindi anche nel caso in cui essa sia realizzata “mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica o telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa (art. 4, comma 1, lettera a) del decreto legislativo in esame).
9.- Abolizione del reato di sottrazione di cose comuni (627 c.p.) e di appropriazione di cose smarrite (647 c.p.). I due reati aboliti sono menzionati nell’articolo 1, lettere d) ed e) del decreto legislativo ed il fatto tipico da essi contemplato è stato riversato nelle due fattispecie di illecito civile previsti dall’articolo 4, lettere da b) a f) dello stesso decreto.
L’abrogazione del reato di sottrazione di cose comuni, di per sé considerata, non sembra porre particolari problemi e non dovrebbe comportare alcuna conseguenza in ordine alla impostazione e soluzione dell’antica questione sulla configurabilità o meno del furto comune nel caso di sottrazione di beni da parte di colui che ne sia il proprietario; beni ovviamente detenuti da altri sulla base di un legittimo titolo di possesso[13]. Ciò che è stato abrogato è ben delineato nelle sue componenti oggettive ed è circoscritto solo alle situazioni di comproprietà.
Piuttosto la abrogazione di tale norma incriminatrice va ad incidere sulla congruità del complessivo quadro di tutela penale delle situazione di comproprietà e rende poco ragionevole la perdurante rilevanza penale delle condotte che si estrinsechino su beni comuni e vengano poste in essere da soggetti che siano nel possesso di tali beni, pacificamente ricondotte nel reato di appropriazione indebita. Forse sarebbe stato più logico prevedere, nel contesto della creazione del nuovo illecito civile, ampliarne la portata precettiva e comprendervi anche i fatti per ultimo menzionati, espressivi di un medesimo disvalore e comunque non tali da rilevare una offensività che ne giustifichi, valutati in rapporto al novum normativo, la loro previsione come reati.
Infine è da rilevare come siano rimasti in ombra i rapporti tra i due illeciti civili che hanno preso il posto dei pregressi reati e la causa di non punibilità prevista dall’articolo 649 del codice penale, che rendeva immuni da sanzione penale i fatti contro il patrimonio commessi in danno di prossimi congiunti. La questione non concerne tanto il risarcimento del danno, che poteva residuare anche nel contesto della applicazione della causa di non punibilità; ciò che, per contro, va chiarito è se la conversione dei due reati in altrettanti illeciti civili, con sanzione pecuniaria indubbiamente punitiva, consenta di dare indiretta rilevanza a quella causa di non punibilità che perseguiva l’obiettivo di assegnare tutela prevalente ai rapporti di famiglia. Verosimilmente essa non potrà trovare applicazione nell’ambito degli illeciti civili, per il suo inscindibile collegamento con la rilevanza penale dei fatti e la sua esclusiva funzione di inibire la applicazione della sanzione penale. E sotto questo profilo viene in rilievo una ulteriore discrasia del sistema di tutela delle situazioni di comproprietà, posto che i corrispondenti fatti di appropriazione indebita, cioè posti in essere da soggetti che siano nell’esclusivo possesso di beni comuni, continuano a beneficiare, ove ne sussistano gli estremi costitutivi, dalla causa di non punibilità prevista dall’articolo 649 del codice penale.
10.- La modifica del reato di danneggiamento. Il legislatore delegato non ha decretato la abrogazione tout court del reato di danneggiamento ed ha scelto di modificarne la struttura. In particolare si è abrogato solo il primo comma dell’articolo 635 del codice penale, con contestuale trasformazione delle previsioni di cui al secondo comma da ipotesi circostanziate in fattispecie autonome di reato[14].
La nuova norma incriminatrice viene quindi a delinearsi nei seguenti termini: <<Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui con violenza alla persona o con minaccia ovvero in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico o del delitto previsto dall’articolo 331, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni>>.
La rilevanza penale dei fatti di danneggiamento viene così correlata al contesto in cui si collocano le condotte (svolgimento di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico) e alle specifiche modalità di realizzazione della condotta (con violenza alle persone o con minaccia).
Anche in questo caso, sia detto per inciso, si pone il problema dei rapporti con la previsione di non punibilità di cui all’articolo 649 del codice penale, con specifico riguardo ai fatti di danneggiamento transitati nel settore degli illeciti civili.
11.- Le norme abrogate e le… identiche norme sopravvissute altrove. Sia la legge delega che il decreto delegato hanno puntualmente delimitato l’ambito delle norme incriminatrici da abrogare, con specifica indicazione dell’articolo che le prevedeva. L’impiego di siffatta tecnica di normazione consente di dare per scontato che nessuna modifica abbiano subito le norme incriminatrici diverse da quelle specificamente indicate, ancorchè connotate da un espresso richiamo ai fatti di reato oggetto di espressa abolizione.
Il rilievo vale in particolare con riguardo ai reati di ingiuria e di danneggiamento, sovente componenti di altri reati e talvolta configurati in modo da esaurire la specifica dimensione offensiva dei medesimi. Si pensi, per un esempio di quest’ultimo tipo, al reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenze sulle cose (articolo 392 c.p.), che viene a risolversi in un fatto di danneggiamento preordinato alla realizzazione di una pretesa munita di azione giudiziale. Nonché al reato di cui all’articolo 278 del codice penale, che prevede, anche, l’offesa all’onore del Presidente della Repubblica.
Un discorso a parte meritano i reati di ingiuria ed appropriazione di cose smarrite previsti dal codice penale militare di pace (articoli 226 e 236), che hanno la medesima formula strutturale dei corrispondenti ed abrogati reati del codice comune e se ne distinguono per lo status del soggetto attivo, che è un militare.
In primo luogo è da rilevare che entrambi i reati del codice penale militare presentano, tendenzialmente, la peculiarità di essere sottoposti alla condizione di procedibilità della richiesta di procedimento, così configurandosi come reati la cui procedibilità non è rimessa alla iniziativa del soggetto passivo bensì ad una istanza di comando (Comandante di Corpo).
Siffatta peculiarità imprime ai reati connotati non compatibili con il dispositivo di tutela introdotto dalla normativa in esame, che, rimuovendo la rilevanza penale dei fatti e traferendone la sanzione nel campo dell’illecito civile, appare inscindibilmente legata alla pregressa procedibilità a querela ed alla esclusiva iniziativa della persona offesa nel decidere se chiedere o meno la prevista tutela di carattere civile.
In secondo, e decisivo luogo, vale sottolineare come i reati previsti dal codice penale militare sono diversi dai corrispondenti reati comuni e non condividono, salvo che non sia diversamente disposto, le vicende abrogative e modificative che concernano questi ultimi.
Rimane però un rilievo critico, che ha a che fare con la struttura del reato di ingiuria militare e con il fatto che l’unico elemento che lo differenzia dal corrispondente ed abrogato reato comune consiste nello qualità militare dei soggetti attivo e passivo. Detto reato, in altri termini, non esprime, sempre ed in ogni caso, una reale lesione di interessi militari e può delinearsi anche nel contesto di rapporti esclusivamente privati e privi di qualsiasi raccordo con i tradizionali parametri della disciplina e del servizio[15]. Difficile sostenere che in tali casi non debba trovare applicazione lo statuto giuridico che vale per qualsiasi cittadino e che ci si debba rassegnare alla idea di uno status militare che sopravvive in ogni circostanza di tempo e luogo. Sicchè è verosimile che, a fronte di episodi così congegnati, debba valutarsi se sia costituzionalmente ragionevole un assetto normativo che ravvisi reati militari in fatti che attengono esclusivamente alla dimensione della vita privata. E vale altresì notare, per concludere sul punto, che l’anomalia rischia anche di coinvolgere soggetti non militari, nel caso in cui costoro concorrano nel fatto di ingiuria ed in virtù d quanto previsto dall’articolo 14, primo comma, del codice penale militare (sono soggette alla legge penale militare le persone estranee alle forze armate dello stato che concorrono a commettere un reato militare).
12.- Ulteriori rilievi sui rapporti tra i nuovi illeciti civili e le fattispecie penali: in particolare con riguardo alle falsità in scrittura privata.
Vi è un’indubbia correlazione tra i reati aboliti ed i nuovi e tassativi illeciti civili, che sono geminati proprio sul terreno in passato occupato dai corrispondenti illeciti penali.
Siffatta correlazione, però, non sembra essersi tradotta in un appropriato requisito delle singole e neonate figure di illeciti civili, la cui formula strutturale non contempla la clausola “salvo che il fatto costituisca reato”. Sicchè si pone inevitabilmente il problema di comprendere se ed in che misura è possibile che il medesimo fatto abbia, nel contempo, sia una rilevanza penale sia una rilevanza civile.
A titolo esemplificativo, e salvo quanto si dirà in seguito, si consideri il rapporto tra l’abolito reato di ingiuria e la peculiare fattispecie di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), nel cui ambito, come è noto, l’ingiuria rileva come uno dei possibili mattoni costitutivi. Ed è altresì noto come in tali casi l’ingiuria perdesse la sua specifica rilevanza penale e venisse assorbita nel più ampio ed abituale reato di maltrattamenti in famiglia, concorrendo, proprio per il suo collocarsi nel contesto di una serie di fatti offensivi della complessiva personalità della vittima, alla integrazione dell’elemento oggettivo di tale ultimo reato.
Quid iuris nel nuovo assetto di tutela? E’ possibile affermare che l’ingiuria costitutiva del reato di maltrattamenti rilevi sia come parte di tale reato e sia come autonomo illecito civile? Un illecito, cioè, in cui si registra una duplice risposta punitiva: la prima consistente nel risarcimento del danno; la seconda consistente in una sanzione pecuniaria civile che sembra avere preso il posto della pregressa sanzione penale. Ed allora, a dare risposta positiva al quesito sopra evidenziato, non si incorre nella violazione del ne bis in idem sostanziale?
Ed ancora. Si è già evidenziato come l’attuale statuto delle falsità in scrittura privata componga un quadro in cui coesistono illeciti civili ed illeciti penali, differenziati essenzialmente in base alla tipologia di documento falsificato. Occorre ora rilevare come entrambe le tipologie di illecito, soprattutto quando concernano titoli di credito e cambiali, possono venire in rilievo come modalità costitutive del reato di truffa, configurandosi in entrambi i casi gli estremi degli artifici e raggiri ed essendo indubbio che a tal fine assuma specifica rilevanza penale, sia pure indiretta e mediata, anche la falsità che integri, di per sé, un illecito civile.
Del pari è noto come per costante giurisprudenza gli artifici e raggiri che configurano un autonomo reato di falso non siano assorbiti nel delitto di truffa e diano vita ad un concorso di reati.
Quid iuris nel caso di falsità in scrittura privata che, oltre a costituire la modalità di realizzazione delle truffa, costituisca un illecito civile? Può estendersi anche a tale ipotesi il principio di diritto sul concorso di reati, così configurandosi un concorso tra il reato di truffa e l’illecito civile di falso in scrittura privata?
Difficile, in assenza di precedenti specifici e rassicuranti parametri normativi, dare una risposta appagante. Di certo la soluzione del concorso di illeciti è impegnativa, oltre che fortemente onerosa per la vittima, che dovrà attivare due distinti procedimenti, almeno nei casi in cui la truffa risulti procedibile a querela.
La predetta soluzione, inoltre, rischia di dare vita a notevoli inconvenienti sul piano della complessiva adeguatezza della risposta sanzionatoria, posto che il falso che sia illecito penale vedrà diluirsi la sua specifica rilevanza gravatoria grazie all’istituto della continuazione mentre il falso che sia illecito civile dovrà essere applicato in tutto il suo autonomo rigore sanzionatorio.
Pur con la doverosa cautela, non sembra da escludersi la possibilità che l’illecito civile esaurisca la sua intera rilevanza nell’ambito del reato di truffa, considerando l’unitario vantaggio che l’autore della truffa ha inteso perseguire e la funzione strumentale assolta, in tale contesto, dal falso in scrittura privata.
Infine, e con riferimento a tutti gli illeciti civili che hanno preso il posto dei pregressi reati, vi è da rilevare come rispetto ad essi, che pure contemplano una sanzione pecuniaria punitiva ed aggiuntiva rispetto al risarcimento del danno, non possa operare la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto. Verosimilmente la lacuna sarà colmata da una prudente considerazione del danno e della sua entità, sicchè non dovrebbero delinearsi situazione in cui un reato (falso in scrittura privata che sia penalmente rilevante) sia dichiarato non punibile e lo stesso fatto (analoga scrittura privata con diverso oggetto), in quanto illecito civile, venga assoggettato al risarcimento del danno ed alla pesante sanzione pecuniaria punitiva.
Rilievi particolari, infine, si impongono con specifico riguardo a quei reati i quali, pur del tutto corrispondenti a quelli aboliti, sono sopravvissuti come reati per la determinante ragione che trovano la loro fonte in una disposizione diversa da quella puntualmente abrogata. Basti pensare al reato di ingiuria tra militari (articolo 226 del codice penale militare di pace) per avere subito una chiaro esempio di tale particolare situazione.
Non occorre eccessivo sforzo per rendersi conto di una evidente discrasia del sistema di tutela complessiva. L’ingiuria militare è un reato sottoposto alla condizione di procedibilità della richiesta di procedimento del Comandante di Corpo e per esso non è contemplata alcuna facoltà di querela. Sicchè il fatto di ingiuria può dare vita alla seguente alternativa: il procedimento penale, ove la condizione di procedibilità venga a realizzarsi; oppure il procedimento disciplinare, ove il comandante di Corpo non chieda il procedimento penale e si avvalga della potestà di sanzionarlo disciplinarmente.
In tale ultima evenienza, quindi, si assiste ad un meccanismo sanzionatorio che si sostituisce e prende il posto di quello previsto dalla norma penale incriminatrice.
Orbene, che succede se, a procedimento disciplinare esaurito, la vittima del reato di ingiuria militare attivi il procedimento per l’accertamento dell’illecito civile di ingiuria tout court? La norma che contempla tale illecito, per come è formulata e strutturata, ha una virtualità applicativa che comprende ogni e qualsiasi fatto di ingiuria e non è condizionata, quanto alla sua applicabilità, alla circostanza che il fatto non costituisca reato.
Eppure nel caso in esame è indubbio che quel fatto costituiva e continua a costituire reato; ed è indubbio che la sua rilevanza penale si è tradotta nella specifica ed alternativa rilevanza disciplinare, vero e proprio surrogato della sua rilevanza penale. Sicchè la previsione di una concorrente sanzione pecuniaria civile, aggiuntiva al pacifico risarcimento del danno, viene a risolversi nel punire due volte lo stesso fatto: una prima volta con una sanzione (quella disciplinare) alternativa alla sanzione penale; ed una seconda volta ( quella pecuniaria civile) con una sanzione ancora una volta alternativa a quella penale[16].
13.- Le disposizioni di diritto intertemporale: cenni. Ai sensi dell’articolo 12 del decreto legislativo in esame:
“1. Le disposizioni relative alle sanzioni pecuniarie civili del presente decreto si applicano anche ai fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore dello stesso, salvo che il procedimento penale sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili.
- Se i procedimenti penali per i reati abrogati dal presente decreto sono stati definiti, prima della sua entrata in vigore, con sentenza di condanna o decreto irrevocabili, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non e’ previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti. Il giudice dell’esecuzione provvede con l’osservanza delle disposizioni dell’articolo 667, comma 4, del codice di procedura penale.”.
Qualche perplessità presenta il primo comma di tale disposizione, che è chiaro ed univoco solo nella parte in cui statuisce il limite a partire dal quale non trovano applicazione le nuove disposizioni concernenti le sanzioni pecuniarie civili, per l’ovvia ragione che i fatti sono stati irreversibilmente già giudicati con sentenza irrevocabile.
Perplessità che si delinea per via della formulazione letterale di tale norma, che si riferisce “ai fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore” del decreto e ne prevede, senza ulteriori specificazioni, la assoggettabilità alle nuove sanzioni pecuniarie.
Si tratta, quindi, di comprendere quale sia il senso di tale disposizione; in particolare comprendere se essa si applichi a tutti i fatti commessi anteriormente, con il solo limite della intervenuta prescrizione dell’illecito civile, o solamente ai fatti che costituiscano oggetto di un procedimento penale pendente alla data di entrata in vigore del decreto.
Per impostare rettamente la questione occorre muovere da due constatazioni preliminari: la norma sopra riportata statuisce che le nuove sanzioni pecuniarie si applicano ai “fatti commessi anteriormente” e non pone alcun limite, quanto alla positiva applicabilità delle sanzioni, circa l’arco temporale di riferimento; del pari la norma non richiede che per quei fatti sia stato iniziato il procedimento penale.
La lacuna circa l’arco temporale di riferimento può essere rimediata considerando che la nuova sanzione presidia e reprime un illecito civile, che ha un termine di prescrizione di cinque anni [17].
La seconda lacuna…. Forse non è tale, ma espressione di una precisa scelta legislativa, perché condizionare la applicabilità delle sanzioni pecuniarie civili alla pendenza del procedimento penale avrebbe avuto il senso di lasciare sospesi nel vuoto normativo quei fatti “commessi anteriormente” e per i quali, sulla base delle normativa abrogata, fosse ancora possibile proporre la querela.
E così giungiamo al nodo della questione, che attiene, come è intuitivo, alla procedibilità a querela dei reati aboliti e trasformati in illeciti civili. Il che ha il senso di dire che la sanzione penale era eventuale e richiedeva un tempestivo atto di innesco da parte della vittima.
Da ciò, pare, non può che discendere la conclusione che l’inerzia della persona offesa, protratta per tutto il tempo di presentazione della querela, ha irreversibilmente consumato la rilevanza penale del fatto e lo ha declassato, nel sistema previgente, in un fatto suscettibile solo di tutela civile, con la sola ed esclusiva misura del risarcimento del danno.
Su che basi si applica a tali fatti la sanzione civile pecuniaria, introdotta dal decreto in esame e non esistente al momento della commissione del fatto? Anche ad ipotizzare che tale previsione sanzionatoria abbia preso il posto della pregressa sanzione penale, rimane pur sempre da superare l’ostacolo della irreversibile consunzione del potere di presentare querela, che ha comportato la assoluta irrilevanza penale di quei fatti e la assoluta cancellazione della potestà punitiva statuale e, parrebbe, di ogni suo prospettico surrogato.
Dovrebbe quindi concludersi nel senso che la applicazione delle neonate sanzioni pecuniarie civili non potrà riguardare quei fatti pregressi per i quali non sia stata presentata la querela e per i quali, per il tempo decorso, tale potere di querela si sia irreversibilmente consumato.
Rimane quindi da chiarire come si proceda per i residui fatti pregressi; e cioè quei fatti rispetto ai quali, per essere stati commessi nei tre mesi antecedenti l’entrata in vigore del decreto legislativo in esame, il potere di presentare querela non si sia consumato.
Di certo non può più trovare applicazione la querela, perché non costituiscono più reato. Altrettanto certamente, però, si tratta di fatti che hanno subito una metamorfosi in un momento in cui era ancora possibile la loro rilevanza penale. Sicchè non appare del tutto implausibile la conclusione che per questi fatti possa funzionare il dispositivo che ha sostituito la sanzione penale con la sanzione pecuniaria civile, allo stesso modo di quei fatti che, per essere stata presentata valida querela, fossero oggetto di procedimenti penali pendenti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo di abolitio criminis.
[1] In merito ai caratteri della sanzione pecuniaria si veda, G. Buffone, in Guida al Diritto, n. 8 del 2016, p. 55 e seguenti. Nonché, sempre nella medesima rivista e con riferimento ai nuovi illeciti civili, T. Padovani, p. 76 e seguenti,
[2] Non è questa la sede per affrontare la delicata questione sulle ragioni della abolitio criminis attuata con il decreto legislativo in esame. In particolare su cosa possa avere indotto il legislatore a trasferire la tutela dell’onore individuale nel settore degli illeciti civili e prevederne la protezione con un congegno che può funzionare solo alla duplice condizione che: l’offeso abbia risorse finanziarie idonee a consentirgli di affrontare i non lievi costi del processo ( i beati possidentes di cui parla Padovani nell’articolo citato nella nota precedente); e l’offensore sia dotato di risorse finanziarie che rendano per lui reale la prospettiva sanzionatoria di dover sborsare soldi, sia a titolo di risarcimento del danno che a titolo di sanzione pecuniaria civile. Insomma sembra essersi inaugurato un capitolo di tutela in cui l’onore è agganciato a doppia mandata al portafoglio, sia di chi lo offende e sia di chi subisce l’offesa. E rimane quindi il vago rumore di fondo di epoche in cui l’onore costituiva un irriducibile attributo di ogni persona, espressione della sua intrinseca dignità e da proteggere con strumenti che rispettino l’uguaglianza di tutti i consociati e non discrimino tra chi ha risorse finanziarie e chi non ne ha.
[3] In merito cfr. Sez. U, Sentenza n. 18056 del 2002, ove si evidenzia come la dottrina e la giurisprudenza prevalenti considerino scritture private i certificati di persone esercenti un servizio di pubblica necessità (art. 481 c.p.), come i registri e le notificazioni soggette all’ispezione dell’autorità di P.S. (art. 484 c.p.), ritenendo che questi atti: a) siano riconducibili alla tutela degli art. 481 e 484 c.p. quando sono oggetto di falsità ideologica; b) siano invece riconducibili alla tutela dell’art. 485 c.p. o dell’art. 490 c.p. quando costituiscano oggetto di falsità materiale, per contraffazione o per alterazione, ovvero di soppressione. La natura di scritture private discende dalla circostanza che esse provengono da soggetti che non svolgono né pubbliche funzioni né servizi pubblici e sono qualificati come “privati” dallo stesso art. 359 c.p., nel quale è offerta la definizione di persona esercente un servizio di pubblica necessità. Infine si rileva come queste scritture, essendo rappresentative di atti aventi una particolare rilevanza pubblica, sono tutelate anche contro le falsità ideologiche, a differenza delle altre scritture private che, di regola, sono tutelate solo contro le falsità materiali.
Su tali premesse, le sezioni unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: I certificati rilasciati da persone esercenti un servizio di pubblica necessità sono attestazioni private qualificate di una particolare rilevanza pubblica, che ne giustifica la tutela anche contro le falsità ideologiche, punite a norma dell’art. 481 c.p.; ma quando i relativi documenti sono oggetto di falsità materiale, per contraffazione o per alterazione, il reato configurabile è quello di falsità in scrittura privata previsto dall’art. 485 c.p..
[4] Sez. 5, Sentenza n. 4647 del 24/03/1993 Ud. (dep. 07/05/1993 ) Rv. 195019 “Ai fini della fattispecie di cui agli artt. 488 e 485 cod. pen. (falsità su foglio firmato in bianco costituente scrittura privata, diversa da quella prevista dagli artt. 486 e 487 cod. pen.), per “vantaggio” va inteso ogni possibile utilità materiale o morale che l’agente si ripromette di conseguire. (Secondo la S.C. in tale nozione rientra, dunque, anche la sospensione dello sfratto che la parte si ripromette di ottenere mediante l’esibizione di un falso contratto di affitto essendo irrilevante, ai fini del falso, la possibilità di realizzare il risultato avuto di mira).
[5] In merito, cfr., Sez. U, Sentenza n. 4 del 20/02/1971 Ud. (dep. 17/05/1971 ) Rv. 118012: “La ragione della piu’ rigorosa tutela accordata dall’art 491 cod. pen ai titoli di credito al portatore o trasmissibili per girata, nella equiparazione quoad poenam di tali titoli agli Atti pubblici, non risiede nella loro natura giuridica ne nella loro attitudine alla circolazione illimitata, che e comune a tutti i titoli di credito, ma e determinata dal maggiore pericolo di falsificazione, insito nel regime di circolazione proprio del titolo al portatore o trasmissibile per girata rispetto al regime di circolazione dei titoli nominativi. Ne deriva che la circolabilita propria dei titoli presi in considerazione dalla norma citata deve esistere in concreto, come requisito essenziale condizionante l’inquadramento dell’illecito nella norma stessa il che comporta che non si possa prescindere dalle clausole che in concreto ostacolino la circolazione dei titoli anzidetti. La clausola di non trasferibilità apponibile all’assegno bancario o all’assegno circolare (artt. 43 e 86 RD 21 12 1933, n 1736), immobilizzando il titolo nelle mani del prenditore, ne esclude la trasmissibilità per girata, tale non potendo considerarsi la girata ad un banchiere per l’incasso, che ha natura di semplice mandato a riscuotere ed e priva di effetti traslativi del diritto inerente al titolo. Pertanto la falsità commessa in assegno bancario o in assegno circolare munito della clausola di non trasferibilita non e punibile a norma dell’art 491 bensì a norma dell’art 485 cod. pen.”. Nei medesimi termini, Sez. 6, Sentenza n. 538 del 05/10/1979 Ud. (dep. 17/01/1980 ) Rv. 143953. “la falsità commessa in assegno bancario o in assegno circolare munito della clausola di non trasferibilità non è punibile a norma dell’articolo 491 bensì a norma dell’articolo 485 cod. pen.”.
[6] La nuova formulazione dell’articolo 485 avrebbe potuto essere congegnata nel seguente modo: Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un fanno, forma in tutto o in parte o altera un testamento olografo ovvero una cambiale o cambiale o altro titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore, né punito, qualora ne faccia uso o lasci che altri nel faccia uso, con le pene rispettivamente stabilite nella prima parte dell’articolo 476 e nell’articolo 482.
Chiunque, senza essere concorso nelle falsità indicate nel comma precedente, fa uso, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, degli atti contraffatti o alterati, soggiace alla pene ivi stabilite ridotte di un terzo.
[7] Sez. 5, Sentenza n. 48651 del 22/10/2009 Ud. (dep. 18/12/2009 ) Rv. 245827: “In tema di delitti contro l’onore, sussiste il concorso dei reati di ingiuria e diffamazione qualora le lettere offensive indirizzate a più persone siano inviate anche alla persona offesa.”. la motivazione della sentenza non è particolarmente approfondita e si limita ad un mero richiamo ai precedenti giurisprudenziali, affermandosi che “Circa la configurabilità del delitto di diffamazione, in una fattispecie nella quale l’offesa risulta formulata in una lettera indirizzata all’offeso e ad altri soggetti, non vi è che da richiamarsi alla giurisprudenza di questa Corte Suprema, secondo la quale “in tema di delitti contro l’onore, quando l’offesa sia arrecata a mezzo di uno scritto e sia indirizzata all’interessato ed a terzi estranei, non può escludersi il concorso tra ingiuria e diffamazione, nel caso in cui la concreta fattispecie comprenda elementi costitutivi delle due distinte norme incriminatrici”: così si è pronunciata Cass. 4 febbraio 2002 n. 12160; ancor più incisiva (“Nell’ipotesi di diffamazione a mezzo di lettera indirizzata a più persone, concorre il reato di ingiuria, qualora la missiva venga inviata anche alla parte offesa”) la meno recente Cass. 7 luglio 1983 n. 2498.
[8] La previsione non è molto chiara e sembrerebbe che l’esonero da responsabilità sia circoscritto alla sola sanzione pecuniaria civile. Sicchè parrebbe residuare l’obbligo del risarcimento del danno.
[9] Per esempio, discutendosi su un qualsiasi argomento, Tizio zittisce aspramente Caio rivolgendogli delle espressioni chiaramente offensive del suo onore e decoro, percepite da tutti gli astanti, oltre che da Caio.
[10] In tal senso, Manzini, Trattato di Diritto Penale, Utet, 1985, p. 554 e seguenti. Nella nota 5 alla pagina 554, si cita il passo della relazione ministeriale sul progetto del codice penale, ove si afferma che in tal caso, cioè quando l’offeso è presente e quindi quando questi può replicare alla offesa e difendersi, viene attenuata “la influenza nociva, che le offese possono spiegare nell’opinione che le persone presenti abbiano del suo valore”. Inoltre l’indicata dottrina precisa come questa previsione aggravatrice, che rendeva inconfigurabile il reato di diffamazione, trovasse applicazione solo in caso di presenza fisica della persona offesa e non nelle situazioni ad essa equiparate (comunicazioni telegrafiche o telefoniche e scritti e disegni diretti all’offeso), in quanto tali situazioni non erano contemplate nella previsione dell’aggravante e quest’ultima, avendo carattere di disposizione eccezionale, non era estensibile (Manzini, op. cit., pag. 556). Rilievo, quest’ultimo, che forse andrebbe rimeditato, perché ne è scaturito l’effetto di ravvisare, nonostante la presenza “virtuale” della persona offesa, il più grave reato di diffamazione. Ed attualmente la questione, come già detto, è più stringente, perché si tratta di capire se sussista il reato di diffamazione o l’illecito civile di ingiuria. Ma, per evitare di complicare le cose, conviene per il momento limitarsi alla ipotesi di offesa commessa alla presenza fisica del destinatario della medesima.
[11] Manzini, op.cit. pag. 691.
[12] In tal senso, con riguardo al vecchio assetto normativo, M. Spasari, voce “Diffamazione ed ingiuria”, in Enciclopedia del diritto, volume XII, Giuffrè, 1964, p. 485.
[13] In merito si veda, per una rassegna dei diversi orientamenti, Pecorella, Patrimonio, furto (furto comune), in Enciclopedia del diritto, XVIII, 1969, p. 347 e ss.
[14] Qualche perplessità si pone in merito alla competenza a giudicare il reato di cui al primo comma, ormai diverso da quello pregresso, che, come è noto, rientrava nelle attribuzioni del giudice di pace (articolo 4, c. 1, lettera a) del decreto legislativo n. 274 del 2000. La questione non mancherà di porsi, anche in relazione al beneficio della sospensione condizionale della pena, che non può essere applicato nella giurisdizione di pace, mentre può trovare applicazione nella giurisdizione ordinaria, sia pure in presenza di determinati presupposti, espressamente modulati con riguardo ai reati di danneggiamento.
[15] Sicchè esso può riscontrarsi anche nella offese che coinvolgono soggetti che assistano ad una competizione sportiva, come comuni cittadini ed in cui la lesione dell’onore e del decoro tragga origine dalla mal governata passione sportiva.
[16] Inoltre va considerata l’ipotesi più radicale di una vittima del reato di ingiuria militare che non segnali l’illecito al suo comando e decida di rivolgersi autonomamente al giudice civile. Difficile sostenere che non ne abbia la possibilità, perché la via del risarcimento del danno non può essergli preclusa ed è indubbio che il cittadino in servizio alle armi non perda il suo diritto al risarcimento di danni comunque dipendenti da un fatto di reato. La questione viene a porsi, quindi, con riguardo, ancora una volta, alla sanzione pecuniaria civile. Ed è evidente che se si ammette tale eventualità, e quindi se si ritiene che il giudice civile non possa opporre la condizione preclusiva della rilevanza penale del fatto, si arriva alla conseguenza di una strisciante trasformazione del reato militare in un illecito civile. Ed è verosimile che tale conseguenza non sia stata minimamente prevista e voluta dal legislatore delegato.
[17] In merito alla prescrizione dei nuovi illeciti civili si veda, Buffone, cit., p. 86 3 seguenti.