di Simone Caponetti

Sommario: 1. Osservazioni minime sul d.lgs. n. 23 del 2015. 2. Il sistema dalle tutele crescenti sotto la lente della Consulta. 3. Le vesti delle sentenze e le questioni sottese. È stato aperto un vaso di Pandora?. 4. La portata di politica del diritto delle sentenze ed il ritorno alla discrezionalità del giudice nella quantificazione risarcitoria. 5. Il problema di fondo: risarcimento giusto o risarcimento certo? L’alternativa giudiziaria (giusta) al quantum legislativo (certo). 6. La personalizzazione del petitum doloris del lavoratore illegittimamente licenziato. 7. La funzione del risarcimento del danno subito dal lavoratore nel prisma della responsabilità civile “costituzionalmente orientata”. 

  1. 1.Osservazioni minime sul d. lgs. n. 23 del 2015 

La riforma del 2015, operata col d. lgs. n. 23 del 2015 e novellata, quanto alle sanzioni, con la l. n. 96 del 2018 (c.d. Decreto dignità), ha introdotto per coloro i quali sono stati assunti dopo il 7 marzo 2015 (c.d. “nuovi assunti”) – con un contenuto normativo che peraltro non corrisponde al titolo (“Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”) – null’altro che un regime di sanzioni, per il licenziamento illegittimo, diverso da quello dell’art. 18 riformato nel 2012, formalmente del tutto autonomo, ma in realtà ricalcato nelle linee generali su quello dello stesso art. 18 riformato, con significative differenze di disciplina che vanno essenzialmente nella direzione di una ulteriore riduzione delle ipotesi di sanzione reintegratoria ed un corrispondente ampliamento delle ipotesi di sanzione indennitaria.

 La formula propagandistica” delle c.d. tutele crescenti non rappresenta affatto, dunque, il contenuto essenziale di tale disciplina – che effettivamente ha attribuito ai lavoratori destinatari tutele crescenti, rispetto alla normativa previgente, in materia di sanzioni per licenziamento illegittimo –, ed è riferibile soltanto ad un aspetto marginale e meramente applicativo della disciplina, cioè alla determinazione della sanzione risarcitorio-indennitaria in misura proporzionale all’anzianità di servizio: del resto, che si tratti di tutele crescenti, avvertite come tali dagli interessati, è tangibilmente dimostrato dal fatto che la riforma del 2015 ha immediatamente prodotto l’ostilità dei lavoratori per i passaggi da una od altra società, nell’ambito dello stesso gruppo societario, mediante la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro (assoggettato quindi alle c.d. tutele crescenti), ostilità superabile solo assicurando al lavoratore un trattamento convenzionale – ammissibile in quanto, appunto, trattamento di maggior favore rispetto a quello legale – consistente nell’assoggettamento del rapporto, pur nuovo, al regime dell’art. 18 e non già a quello delle tutele crescenti. 

Per quanto riguarda l’ambito di applicazione, resta fermo (lo si deduce a contrario dall’art. 9 comma 1) il criterio oggettivo di applicabilità dell’art. 18, basato sul livello occupazionale dell’unità produttiva o dell’impresa cui il lavoratore è addetto. V’è però una importante novità quanto alle c.d. organizzazioni di tendenza (sindacati, partiti politici, etc.), per le quali viene opportunamenteeliminata (art. 9, comma 2) l’esenzione dalla sanzione di reintegrazione, alla quale dunque anche tali enti sono assoggettati (ovviamente, sussistendone i presupposti, oltre al requisito dimensionale). 

Quanto all’ambito soggettivo di applicazione, riferito al licenziamento dei “nuovi assunti”, per tali si intendono (art. 1) i lavoratori non dirigenti che: 

 – siano stati assunti a decorrere dalla data di entrata in vigore del d. lgs. n. 23 del 2015 (per l’appunto il 7 marzo 2015); 

 – siano stati assunti con contratto di lavoro a tempo determinato o con contratto di apprendistato che, pur di data precedente, siano stati convertiti in contratti di lavoro a tempo indeterminato con decorrenza dal 7 marzo 2015 in poi;  

 – anche se assunti in data precedente, siano addetti ad unità produttiva od impresa che raggiunge il livello occupazionale, previsto per l’applicazione dell’art. 18, a seguito di assunzioni effettuate dal 7 marzo 2015 in poi. Disposizione questa che palesa con evidenza finalità di promozione occupazionale nelle imprese medio-piccole, finalità perseguita dal legislatore assicurando a queste, in caso di raggiungimento del livello occupazionale per l’applicabilità dell’art. 18, un regime di sanzioni per il licenziamento illegittimo con rischio più ridotto di reintegrazione: altra dimostrazione tangibile che si tratta di tutele decrescenti, e che di ciò il legislatore del 2015 era ben consapevole. 

Dubbi son sorti invece sull’applicabilità o meno della disciplina ai lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni, non essendoci una diversa ed espressa previsione in tal senso (art. 2, comma 2, d.lgs. 165 del 2001). 

  1. 2. Il sistema dalle tutele crescenti sotto la lente della Consulta

Per semplificazione e chiarezza (nei limiti in cui è possibile fare chiarezza in una materia che la stratificazione normativa ha reso così intricata), sembra opportuno descrivere – seppur sinteticamente – quale sia il nucleo dichiarato incostituzionale dal Giudice delle leggi. Il riferimento è alle sanzioni per il licenziamento illegittimo per i “nuovi assunti”, introdotte dal d. lgs. n. 23 del 2015, secondo il criterio della differenziazione, o della coincidenza, rispetto al regime dell’art. 18 riformato nel 2012.

Come già detto, correlativamente al restringimento della sfera di operatività della sanzione reintegratoria, il d. lgs. n. 23 del 2015 amplia la sfera di operatività della sanzione indennitaria, con la cessazione del rapporto di lavoro (gli artt. 3 e 4 si riferiscono al rapporto “estinto”, anziché “risolto” come è affermato più propriamente nell’art. 18) nonostante l’illegittimità del licenziamento (quindi, tipica sanzione di stabilità obbligatoria), alle ipotesi di: 

  • licenziamento disciplinare ritenuto dal giudice privo di giusta causa e giustificato motivo soggettivo per ogni altra ragione diversa da quella della «insussistenza del fatto materiale contestato», la sola che «esclusivamente» comporta la reintegrazione; 
  • licenziamento per giustificato motivo oggettivo ritenuto comunque insussistente (anche “manifestamente”), ivi compreso il licenziamento intimato per malattia prima del superamento del periodo di comporto. 
  • violazione dei requisiti formali e procedurali. 

I blocchi delle c.d. tutele crescenti portati al vaglio del Giudice delle Leggi sono, nello specifico, due.

Il primo riguardante la sanzione indennitaria prevista dal comma 1 dell’art. 3 – cioè una prima parte della disciplina nella quale era ravvisabile qualcosa di “crescente” – ovvero il pagamento di un’indennità di natura puramente risarcitoria, pertanto «non assoggettata a contribuzione previdenziale» (come è invece, secondo l’art. 18, per il risarcimento danni sostitutivo delle retribuzioni perdute) di importo pari a due mensilità di retribuzione – per tale intendendosi l’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto –  per ogni anno di servizio (con proporzionamento in caso di frazioni di anno, e con computo come mese intero dei periodi superiori a quindici giorni: art. 8), con il limite minimo di quattro mensilità ed il limite massimo di ventiquattro mensilità che, dopo l’entrata in vigore del c.d. Decreto dignità, son passati ad un minimo di sei ed un massimo trentasei.   

Il secondo riguardante la sanzione indennitaria prevista dall’art. 4 – cioè la seconda parte della disciplina nella quale era ravvisabile qualcosa di “crescente” – ovvero il pagamento di un’indennità di natura puramente risarcitoria, pertanto «non assoggettata a contribuzione previdenziale», in caso di licenziamento inficiato da vizi formali e/o procedurali. In questa ipotesi il licenziamento intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’art. 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 oppure della procedura di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970, produce la declaratoria di estinzione del rapporto da parte del giudice alla data del licenziamento e la condanna per  il datore di lavoro al pagamento di una indennità (sempre non assoggettata a contribuzione previdenziale) di importo pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupporti per l’applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3. 

  1. 3.Le vesti delle sentenze e le questioni sottese. È stato aperto un vaso di Pandora? 

Le sentenze della Corte Costituzionale n. 194 del 2018e n. 150 del 2020, nel dichiarare l’illegittimità di parte dell’art. 3, primo comma, e dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, pongono complesse questioni interpretative di impatto sistematico e applicativo, che vanno ben al di là dell’inciso dichiarato incostituzionale. Le questioni interpretative, invero, riguardano anche il tipo di decisione che la Consulta ha utilizzato per la dichiarazione di incostituzionalità. Difatti, anche se esse potrebbero essere annoverate formalmente tra le sentenze di accoglimento parziale, in quanto si limitano a caducare una parte degli articoli portati dinanzi allo scrutinio del Giudice delle leggi, in letteratura sono state considerate sostanzialmente delle sentenze additive di regola, adottate cioè quando «la soluzione normativa idonea a colmare la lacuna è implicita nell’ordinamento». 

A ben vedere però si potrebbe affermare che esse possano rientrare anche nell’alveo delle decisioni di illegittimità costituzionale c.d. consequenziale.  

Sul punto occorre far riferimento all’art. 27 della legge n. 87 del 1953, secondo cui la Corte costituzionale «quando accoglie una istanza o un ricorso relativo a questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, dichiara, nei limiti dell’impugnazione, quali sono le disposizioni legislative illegittime». Il principio del chiesto e pronunciato, stabilito da questa disposizione e valido tanto con riferimento ai giudizi in via incidentale, quanto in relazione ai giudizi in via principale, trova esplicita deroga nello stesso art. 27, nella cui seconda parte si legge che la Corte «dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata». L’intento è stato quello di evitare che una legge resti in vigore «quando un’altra, che ne costituisce il necessario presupposto e fondamento, sia dichiarata illegittima» (come si legge nella relazione illustrativa della legge n. 87 del 1953).  Tale disposizione è stata tuttavia interpretata estensivamente dalla Corte, che utilizza di fatto la dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale in una ampia serie di ipotesi, anche senza farne esplicito riferimento: a titolo esemplificativo, si può ricordare il caso in cui una disposizione non impugnata concorra, unitamente a quella impugnata, a produrre l’effetto incostituzionale, oppure l’ipotesi in cui una disposizione contenga la stessa espressione ritenuta incostituzionale o faccia espresso riferimento alla disposizione impugnata, o ancora il caso in cui la disposizione si presenti come strumentale o comunque strettamente connessa alla regola sostanziale dichiarata illegittima, oppure quando applicando la ratio decidendi della decisione di incostituzionalità, si giunge all’accertamento dell’illegittimità costituzionale di una disposizione diversa da quella impugnata dal giudice ma ritenuta dalla Corte analoga o simile e dunque affetta dallo stesso vizio di costituzionalità. Tornando al caso che ci occupa, credo sia alquanto chiaro che le decisioni della Consulta non si limitano agli incisi dichiarati incostituzionali, bensì vogliano censurare – a quanto si può intendere dalle motivazioni – il principio posto a fondamento delle tutele crescenti. E difatti, il “vaso di Pandora” aperto dalla Consulta non è di poca entità se si considera che tale decisione potrà avere effetti anche sui giudizi in corso nei vari gradi processuali, oppure sul regime di tutela applicabile ai datori di lavoro di “piccole” dimensioni, oppure sull’offerta di conciliazione (ex art. 6 d.lgs. n. 23 del 2015), oppure ancora sui licenziamenti collettivi illegittimi. 

Ma vi è di più; esse, plausibilmente, avranno concrete ricadute sui rapporti tra convenzioni internazionali, diritto dell’Unione Europea e diritto del lavoro interno; sui principi e sugli orientamenti sovranazionali in materia di “congruità” dell’indennizzo dovuto in caso di licenziamento ingiustificato; sui criteri di indennizzo del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo (anche in comparazione rispetto agli altri paesi europei); sulla natura della tutela (indennitaria, risarcitoria, ecc..) ora apprestata al lavoratore illegittimamente licenziato; sull’inquadramento sistematico di questa specifica tutela lavoristica; sulla possibilità del risarcimento per il maggior danno e, eventualmente, in che termini (sostanziali e/o processuali?); sui criteri in base al quale il Giudice dovrà quantificare l’entità del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo; sul nuovo ruolo assunto dal criterio dell’anzianità (tenendo conto delle indicazioni della Corte e delle complessive motivazioni delle sentenze); sulla prospettiva dell’impugnazione in cassazione dei criteri di quantificazione del danno adottati dal giudice del merito, solo per citare alcuni esempi tra i più evidenti consequenzialmente legati alle pronunce di costituzionalità in parola. 

Come si può vedere da questa pedissequa descrizione, i profili su cui incidono le sentenze sopra richiamate sono molteplici e meriterebbero tutti un’apposita trattazione. Per opportuna economia del presente contributo qui si vuole analizzare solo uno degli aspetti coinvolti dalle declaratorie di incostituzionalità: quello relativo alle coordinate su cui fondare il risarcimento del lavoratore illegittimamente licenziato. 

  1. 4.La portata di politica del diritto delle sentenze ed il ritorno alla discrezionalità del giudice nella quantificazione risarcitoria.

Al di là dell’approfondimento che ci si accinge a compiere, sembra opportuno spendere qualche battuta anche sulla portata di politica del diritto delle sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020.

 Scorgendo i passi salienti del disposto del Giudice delle leggi, è chiaro che esso sia entrato nel merito quanto al dibattito sulla politica del diritto sorto tra chi, da un lato, caldeggia istanze umanistiche sul “calcolo del diritto” effettuato ex post e attraverso il ricorso ad un’equità giudiziaria motivata e chi, dall’altro lato, supporta tesi di tipo mercantilistico, collegate a politiche d’investimento ed occupazione, attraverso un calcolo ex ante delle situazioni giuridiche in gran parte sottratte al potere discrezionale del magistrato.  Ebbene, la Consulta aderendo al primo orientamento, si muove all’antitesi rispetto al tracciato posto in essere dal Jobs Act, portavoce, lo ricordiamo, di un calcolo aritmetico del quantum di risarcimento fondato sull’unico criterio dell’anzianità di servizio. Non ci son dubbi infatti che l’operazione compiuta dalla Corte sia stata quello di riaffidare la quantificazione del risarcimento alla discrezionalità del giudice, riconsegnando a questi la piena titolarità nel farlo. A riguardo non va taciuto che, nell’ultimo decennio, le riforme riguardanti la materia lavoristica sono state tese all’indebolimento della figura del magistrato, anche solo per via indiretta, allentando così le strette maglie della materia. E così la Consulta ha voluto porre un freno a questa continua erosione, censurando l’indebolimento dei poteri discrezionali del magistrato la cui attività decisoria s’attestava – a seguito del Jobs Act e per questo specifico aspetto – a mero calcolo matematico. Tale obiettivo, fin da subito non è stato esente da critiche giacché, a parere di una parte della dottrina il quantum risarcitorio ora è considerabile una «terra di nessuno dominata dal soggettivismo e dall’imprevedibilità». E difatti un fondamento teoretico si può riconoscere a questa considerazione perché è vero che le motivazioni poste alla base dell’indebolimento dei poteri del magistrato non sono mere prese di posizione, bensì si ergono su principi quali la certezza del diritto, derivanti a loro volta da precise spinte comunitarie finalizzate all’aumento del tasso di occupazione oppure all’incremento degli investitori esteri sul suolo nazionale. Vien da sé che lo spirito del Jobs Act, in particolare il sistema delle c.d. tutele crescenti, introdotto da un lato per incentivare le imprese alle assunzioni di lavoratori con contratto tipico attraverso il meccanismo della certezza del quantum risarcitorio in caso di licenziamento illegittimo e dall’altro lato per deflazionare il contenzioso che gravava sulle spalle dei magistrati, tramite la calcolabilità ex ante del suddetto quantum, risulta oggi svuotato completamente.  

  1. 5.Il problema di fondo: risarcimento giusto o risarcimento certo? L’alternativa giudiziaria (giusta) al quantum legislativo (certo)

Le sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020 intervengono sul canone che il magistrato debba seguire per risarcire un lavoratore da un licenziamento illegittimo e sceglie la via del risarcimento “giusto”, mettendo in secondo piano la quantificazione legale del risarcimento “certo”. 

Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che nel nostro ordinamento vige la regola iuris per cui la vittima di un fatto illecito o illegittimo deve trovare “soddisfazione” attraverso un risarcimento che sia al tempo stesso giusto e certo. 

Senza dubbio un risarcimento è giusto quando è conforme al principio di integrale riparazione del danno – che peraltro è il fondamento della responsabilità civile – avendo come fine quello di permettere al danneggiato di esser rimesso nella stessa situazione in cui si trovava prima dell’atto illegittimo, seppur attraverso il mezzo pecuniario. Ma la ricostruzione non gode di una tale ed incontrovertibile linearità poiché è assai difficile compensare con la giusta pecunia situazioni, perdite e valori non patrimoniali, oltre al fatto che tale compensazione è gravata dalle interpretazioni oscillanti dei giudici, vieppiù in un ordinamento di civil law quale quello italiano. Parimenti un risarcimento del danno patito dal lavoratore esige dei forti livelli di certezza, al punto da spingere il Legislatore a porre un punto fermo ed affermare che esso si debba parametrare a canoni certi, ma anche qui si possono levare perplessità in merito alla sostanziale impossibilità di soddisfarli. Seppure in letteratura il risarcimento del danno è stato di recente paragonato alla pena conseguente un illecito penale (proprio con riferimento alle esigenze di certezza), ci si rende conto agevolmente che tale ricostruzione manca della parte relativa all’impossibilità di determinare il quantum ex ante, di talché il risarcimento del danno si poggia sulla specificità del caso concreto, al punto da rendere impossibile una ragionevole previsione. 

Da queste considerazioni sorge un interrogativo: a chi dunque spetta il compito di determinare il quantum del risarcimento e, soprattutto, giustizia e certezza devono esser cumulativamente considerate, oppure una può prevaricare sull’altra?

Il punto di partenza per rispondere al quesito è il dato positivo: il codice civile affida il compito di fissare il risarcimento al giudice (seppur con qualche eccezione). Il sistema giuridico italiano infatti individua il giudice come il soggetto che è più idoneo a raggiungere l’obiettivo del ristoro certo e giusto. D’altra parte il giudice interviene in un momento storico successivo rispetto alla vicenda, e, avendo avanti a sé la fattispecie completa in tutti i suoi elementi, è in grado di garantire un risarcimento dell’intero danno causato al lavoratore. Non si può dire altrettanto del Legislatore, il quale opera ex ante, in base a situazioni astratte, su cui gravano tutte le incertezze relative ad un sistema preventivo, non potendo avvalersi di quella «flessibilità dell’intervento giudiziale». 

Venendo al secondo punto, occorre verificare la compatibilità tra i due concetti – al fine di non derubricarne uno a secondario – in modo da permettere un ristoro al lavoratore tanto giusto, quanto certo. 

Qui c’è d’ausilio la tecnica “politichese” con cui sono state redatte le sentenze perché, se da un lato esse sanzionano come incostituzionale il calcolo dell’indennità di licenziamento, in quanto non conforme al principio di uguaglianza (artt. 3, 4 comma 1, 35, 117 comma 1 e 76 Cost.), nonché di conformità al diritto internazionale (art. 24 Carta sociale europea), dall’altro lato – a ben vedere – dichiara conforme a Costituzione la misura massima delle mensilità a cui può ambire un lavoratore (nella specie 36 mesi nella prima sentenza; 12, nella seconda). Non a caso, come segnalato in letteratura, esse risultano (apparentemente) apodittiche allorquando affermano che tale indennità massima «attua un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto».  E difatti, le pronunce di incostituzionalità investono soltanto parte del comma 1 dell’art. 3 e dell’art. 4 del Jobs Act., limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio» oppure nella seconda sentenza l’inciso «di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», affidando alla magistratura il compito di determinarne il quantum tenendo a mente l’intervallo fra il limite minimo ed il massimo fissato dalla legge. Entro tale range essa dovrà tener conto, si legge in motivazione, «innanzitutto dell’anzianità di servizio – criterio che è prescritto dall’art. 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 – nonché degli altri criteri […] desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti» (a titolo esemplificativo e non già esaustivo, il numero di dipendenti occupati, la dimensione dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti).

L’apparente alternativa, dunque, tra risarcimento giusto vs risarcimento certo – da alcuni enfatizzata – non deve essere sostenuta, soprattutto in materie delicate come il diritto del lavoro; si può ambire, infatti ad un risarcimento sia giusto che certo, ambizione questa non utopica, poiché, come meglio si vedrà nel paragrafo a seguire, la risposta risiede nella personalizzazione del risarcimento operata per via equitativa dal giudice, strada questa che dovrebbe contenere le istanze di giustizia – perché è il giudice a determinare ex post il quantum – ma anche esigenze di certezza – perché rimane il quantum (minimo e massimo) individuato ex ante dal legislatore. È ovvio che qui il concetto di certezza pensato dal legislatore è stato rivisto, potendo ora riferirci ad un concetto di certezza parziale, ma che comunque costituisce un argine al potere discrezionale della magistratura. Certezza e giustizia così non devono essere considerati come concetti alternativi quando si vuole ristorare un danno patito dal lavoratore, ben potendo convivere nel più ampio concetto della personalizzazione del risarcimento nell’ambito di parametri minimi e massimi individuati per via legale.   

  1. 6.La personalizzazione del petitum doloris del lavoratore illegittimamente licenziato

La personalizzazione del risarcimento imposto dalla Consulta nel 2018 e nel 2020, non è una novità nel panorama giuridico. Sulla scia di un preciso orientamento della stessa, inaugurato con la storica sentenza n. 184 del 1986, già da tempo sono stati censurati i passaggi di quantificazione del risarcimento che non operino una corretta personalizzazione dello stesso. Non c’è dubbio che detta personalizzazione può esser garantita solo da una concreta, effettiva e attenta valutazione della compromissione di vari fattori e può essere operata solo dal magistrato adito dalle parti a dirimere sulla controversia. 

La nozione (complessa) di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo affidata ora alla Consulta avrà a suo fondamento diverse componenti che attengono variegati aspetti legati alla persona nel suo complesso, scomposta in sottovoci storiche, nel senso che non hanno carattere innovativo, recettori di quella tradizione giuridica giurisprudenziale oramai consolidata. In sostanza, la questione è stata spostata ponendo l’attenzione sul rilievo costituzionale di tutte le dinamiche interrelazionali e di vita partecipativa che, nella specie, devono contribuire alla quantificazione del danno al lavoratore danneggiato. Del resto, è stato già dimostrato come il metodo della personalizzazione del risarcimento, nella pratica giudiziaria, è quello idoneo al ristoro integrale del danneggiato.     

Un sistema così impostato però non è esente da critiche, già sollevate peraltro in letteratura. 

Le ordinanze di rimessione prima, e tanto più le sentenze della Consulta attualmente, non hanno considerato che le finalità del d.lgs. n. 23 del 2015 non erano quelle di incrementare i profitti dell’impresa, bensì quelle più nobili di incrementare le opportunità di occupazione. La conseguente riduzione dell’indennità di risarcimento (per i soli “nuovi assunti”) è stata una misura diretta a favorire, a beneficio dei lavoratori privi di occupazione, l’accesso ad un posto di lavoro a tempo indeterminato. In sostanza, il legislatore ha cercato un nuovo bilanciamento tra maggiori opportunità di accesso al lavoro e una ridotta quantificazione di tutele in caso di licenziamento.     

  1. 7.La funzione del risarcimento del danno subito dal lavoratore nel prisma della responsabilità civile “costituzionalmente orientata”

In tempi recenti si è assistito ad una rinnovata attenzione nei confronti dell’analisi funzionale della responsabilità civile e le sentenze della Consulta del 2018 e del 2020 hanno coinvolto anche la materia lavoristica su questo tracciato. Spicca sul punto l’orientamento del diritto vivente rappresentato da Cass. n. 1183 del 2007, la quale ha affermato che nel nostro ordinamento la responsabilità civile ha l’unica funzione di riparare il danno subito (compensation, se si vuole utilizzare un termine più internazionale), esistendo una stretta correlazione tra quantum risarcitorio e funzione della responsabilità. D’altra parte, la “regola aurea” dell’equivalenza tra risarcimento e danno si fonda proprio sul principio dell’integrale riparazione del danno. 

Il Giudice delle Leggi, in molte occasioni, ha invece negato la rilevanza costituzionale di tale assunto, sostenendo che il legislatore avesse piena legittimità ad intervenire limitandone il quantum. Ne sono esempi passati l’espropriazione per pubblico interesse, l’occupazione appropriativa, ed ora anche il limite minimo/massimo del quantum per un licenziamento illegittimo, ipotesi tutte legittime in quanto riconducibili a più alti interessi quali sono quello economico e sociale. E difatti tanto la sentenza n. 194 del 2018 che la n. 150 del 2020 non toccano tale aspetto, che dopo il giudizio di legittimità costituzionale rimane ancora in vigore. Ciò che invece viene censurato è quel meccanismo di automatismi, meccanici e standardizzati, che rende uniforme le indennità dovute a tutti i lavoratori con la stessa anzianità. In questo modo il risarcimento del danno, ancorché non necessariamente riparatorio dell’intero pregiudizio subito dal danneggiato, sarà comunque effettivo e adeguato – come postulato dall’art. 24 della Carta sociale europea – di modo da liquidare un congruo ristoro al danneggiato rispetto al danno prodotto da un eventuale licenziamento illegittimo. 

Ancora un dubbio rimane sull’ulteriore e probabile funzione che potrebbe esser sottesa alle pronunce in esame. Il punto è se il Giudice delle leggi abbia voluto coniugare una logica intrisa di diritti costituzionali con il principio di general deterrence. La proporzionalità tra offesa e funzione satisfattiva del risarcimento evidenzia infatti una sottesa logica di general deterrence del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo. Ciò ha un senso lì dove si consideri che il disincentivo a commettere illeciti è figlio del risarcimento determinato in via discrezionale dal giudice, soprattutto lì dove induca – anche indirettamente, come nel caso di specie – a comportamenti simbolici volti ad evitare le offese. Di talché non occorre sottovalutare l’opzione deterrente che il Giudice delle leggi – a parere di chi scrive – affiderebbe al magistrato, elevandola a ruolo nient’affatto ancillare o puramente eventuale nella determinazione dell’importo. Il traslation problem che si porrà a seguire è però che una sottesa logica di general deterrence si frapporrà con valutazioni equitative che minano il rapporto di proporzionalità con la gravità dell’offesa del danno. 

Rimane pur tuttavia la non dimostrabilità del risultato probabilmente atteso: l’apertura proposta dalla Consulta sarà davvero idonea a contenere o limitare in qualche modo i licenziamenti illegittimi?