Di Francesca Dimundo 

Sommario: 1. Premessa – 2. Caratteristiche strutturali delle Autorità Amministrative Indipendenti – 3.Natura giuridica delle Autorità Amministrative Indipendenti – 4. Funzioni delle A.A.I. –  5.A.A.I.  e poteri impliciti –  6.Controllo giurisdizionale sugli atti delle AAI – 7.Controllo giurisdizionale sulle sanzioni delle AAI – 8. Poteri extra ordinem delle AAI

1.Premessa

Le prime Autorità Amministrative Indipendenti si rintracciano negli anni ’70-’80, ma la loro proliferazione si realizza negli anni ’90 grazie all’influenza del diritto comunitario.

La loro istituzione rappresenta una risposta alla “crisi della legge”, da intendersi come incapacità della stessa di predefinire, in settori caratterizzati da elevato tecnicismo e soggetti a continua evoluzione, un sistema completo e preciso di regole e di comportamenti tali da consentire ai destinatari di valutare “ ex ante” i propri e gli altrui comportamenti in termini di liceità o illiceità.

Inoltre, si avverte l’esigenza di svincolare la gestione di determinati settori sensibili, implicante una posizione, non già di imparzialità amministrativa, quanto di neutralità rispetto agli interessi in gioco, dal condizionamento degli organi politici, da cui è scaturita la necessità di assegnare funzioni spesso non amministrative in senso classico, ma di tipo regolatorio, contenzioso e sanzionatorio, a soggetti in grado di assicurare un esercizio “terzo”, tecnicamente adeguato.

Fondamentale per la diffusione delle Autorità Amministrative Indipendenti è, altresì, il processo di progressiva abdicazione dello Stato dall’intervento diretto nell’economia.  L’assunzione da parte dello stesso, per effetto di processi di privatizzazione avviati in modo organico negli anni ’90, di un ruolo di arbitro in economia, c.d. Stato regolatore, ha reso necessaria l’istituzione di soggettività pubbliche indipendenti. Alle “Autorità” è stato affidato il compito di stimolare un processo di autentica liberalizzazione, volto ad assicurare l’apertura dei mercati.

2. Caratteristiche strutturali delle Autorità Amministrative Indipendenti

Passando alle caratteristiche strutturali delle Autorità Indipendenti, esse sono state definite enti o organi pubblici dotati di sostanziale indipendenza dal Governo e sono caratterizzate da: autonomia organizzatoria, finanziaria e contabile; sottrazione al potere di direttiva dell’esecutivo; funzione tutoria di interessi costituzionali in campi socialmente rilevanti; indipendenza rispetto al potere politico governativo ed ai relativi indirizzi; tendenziale equidistanza e neutralità rispetto agli interessi su cui la loro attività incide; alto tasso di competenza tecnica richiesta nell’esercizio delle competenze loro assegnate.

Con riferimento all’elemento dell’indipendenza dal potere esecutivo, preme precisare che le Autorità Indipendenti si collocano al di fuori della struttura organizzativa amministrativa piramidale, ideata e realizzata da Cavour e conservata sino ai nostri giorni. Esse godono di una forte indipendenza dal Governo, non rispondono del loro operato dinanzi ad alcun ministro e, pertanto, non possono subire l’influenza della politica governativa.

La loro indipendenza si manifesta attraverso la nomina dei relativi membri, che non è puramente governativa. Infatti, a seconda della legge istitutiva della singola Autorità, alla stessa provvedono o i Presidenti delle Camere, che sono soggetti autonomi rispetto all’indirizzo governativo, oppure il Governo, ma, in tale caso, al Parlamento compete confermarli con ampie maggioranze, normalmente quella dei 2/3, in modo da coinvolgere necessariamente anche l’opposizione.

A tanto si aggiunga che, diversamente dagli altri soggetti pubblici che fanno parte dell’ossatura amministrativa pubblica, in nessun modo il Governo può revocare e fare venire meno la nomina dei membri delle Autorità, in virtù del fatto che tra il Potere Esecutivo e detti enti pubblici non si instaura alcun rapporto autoritativo e di controllo, realizzando, di tale guisa, l’inamovibilità dei membri. Non bisogna neanche trascurare che, ogni anno, questi Soggetti trasmettono al Parlamento, quale rappresentante del popolo, e non al Governo, una relazione nella quale evidenziano le principali linee dell’attività svolta durante l’anno.

Accanto alle inamovibilità ed indipendenza dei membri, altra caratteristica fondamentale delle Autorità e che vale, ancora di più, a differenziarle dalle altre autorità amministrative, è la loro neutralità. Ai sensi dell’art. 97 della Costituzione, tutte le amministrazioni pubbliche orientano la propria attività all’imparzialità. Il che vuol dire che le amministrazioni pubbliche devono perseguire lo scopo che è loro attribuito dalla legge in modo imparziale, ma contro gli interessi di altre autorità  che pure agiscono in modo imparziale. Diversamente, le Autorità Amministrative Indipendenti non hanno un obiettivo, la loro attività è improntata al canone della neutralità; esse sono terze rispetto al mercato ed all’area amministrativa sottoposta alla loro giurisdizione; portano avanti l’interesse alla legalità, al rispetto della legge.

3.Natura giuridica delle Autorità Amministrative Indipendenti

Una parte della dottrina, riflettendo sulla neutralità, sulla inamovibilità e indipendenza dei membri, ha messo in rilievo la vicinanza delle A.A.I. alla magistratura, riconoscendo alle stesse natura paragiurisidzionale.

Questa teoria non è mai stata accolta dalla giurisprudenza ed è stata affiancata da un’altra teoria che, invece, riconosce natura mista, in parte giurisdizionale e in parte amministrativa.

In proposito, la Corte di Cassazione afferma che, nel nostro ordinamento, non è consentito ipotizzare un “tertium genus”  fra amministrazione e giurisdizione cui attribuire i caratteri della paragiurisdizionalità. Il fatto che ad un organo amministrativo sia stato riconosciuto il compito di esercitare competenze peculiari e neutrali, non è sufficiente a fare dello stesso un giudice speciale, ai sensi dell’art. 102, co.2, della Costituzione. Inoltre, il provvedimento adottato a chiusura dell’istruttoria non è suscettibile di assumere autorità di cosa giudicata, com’è necessario perché si possa desumere la natura giurisdizionale dell’organo emanante.

Tali conclusioni hanno fatto, però, sorgere dubbi in ordine alla compatibilità costituzionale del modello organizzativo in questione.

Alcuni hanno evidenziato come sia rischioso che settori rilevanti della vita del Paese siano amministrati da soggetti pubblici che, svincolati dal controllo del Governo e del Parlamento, finiscano per essere privi di legittimazione democratica.

Così come ci si è interrogati in merito alla coerenza del modello in esame con l’art. 101 della Costituzione. Per quanto attiene al contrasto con l’art. 95 della Costituzione, si è osservato che il disposto costituzionale presuppone che l’ente pubblico costituisca braccio esecutivo utilizzato dal Governo per l’attuazione dell’indirizzo politico; un rapporto di dipendenza, al contrario, non si giustifica ove si consideri l’ottica essenzialmente regolatoria e paragiurisdizionale delle Authorities.

In merito al contrasto con l’art. 101 della Costituzione, si è osservato che la previsione costituzionale non preclude che un’autentica indipendenza strutturale e funzioni contenziose possano essere riconosciute in capo a soggetti diversi dalla magistratura; ma, impone che sia la magistratura a dettare l’ultima parola sulla vicenda conflittuale, senza che possa riconoscersi autorità di cosa giudicata a determinazioni di autorità diverse, assoggettate necessariamente al controllo giurisdizionale.

Da tanto, discende la sottoposizione delle Autorità Indipendenti al principio di legalità in senso procedimentale, che si sostanzia nella previsione di rafforzate forme di partecipazione degli operatori del settore  nell’ambito del procedimento di formazione degli atti regolamentari da parte delle Authorities.

Il riconoscimento della natura giuridica amministrativa in capo alle “Autorità” porta ad ammettere la giustiziabilità dei loro atti, i quali possono essere sottoposti al vaglio dell’autorità giurisdizionale, come desumibile dal combinato disposto di cui agli artt. 24 e 113 della Costituzione, secondo cui tutti i provvedimenti sono giustiziabili.

Inoltre, il codice del processo amministrativo prevede che gli atti delle Autorità Indipendenti siano assunti nell’ambito della giurisdizione esclusiva, quella in cui il giudice amministrativo conosce sia dell’interesse legittimo sia del diritto soggettivo e che, in merito alle sanzioni delle Autorità Indipendenti, ad esclusione delle sanzioni della Banca d’Italia e della Consob, il giudice amministrativo esercita una giurisdizione di merito.

Accanto a tali previsioni ci sono norme che sanciscono la competenza funzionale del TAR Lazio  per alcuni atti delle Autorità Indipendenti e del TAR di Milano per ciò che attiene agli atti delle Autorità per l’Energia e per il Gas.  

Oltre alla giustiziabilità degli atti, dire che le Autorità Indipendenti sono autorità amministrative porta al riconoscimento dell’applicabilità ai loro atti ed ai procedimenti incardinati dinanzi alle stesse della l.241/90 e degli importanti istituti in essa contemplati: l’obbligo di motivazione, l’art. 10 bis, il 21 octies, la trasparenza, il rispetto del principio del contraddittorio.

4. Funzioni delle A.A.I.

Chiarita la questione relativa alla natura giuridica delle A.A.I., è utile soffermarsi sulle funzioni loro attribuite, le quali non sono sussumibili all’interno di un’unica categoria.

Esse possono esercitare funzioni amministrative in senso proprio, come il rilascio di autorizzazioni, in passato attribuite alle amministrazioni in senso classico; funzioni arbitrali e contenziose o semicontenziose, finalizzate anche a filtrare l’accesso alla giustizia, a scopi deflattivi, cosiddetti compiti di “adjiudication”. In quest’ultimo caso, il ruolo delle Autorità è quello di arbitro posto in una posizione neutrale ed equidistante rispetto a situazioni giuridiche di tipo bilaterale ed orizzontale intercorrente tra soggetti privati.

A dette funzioni si aggiungono le funzioni normative, cosiddette di regolamentazione, nell’esercizio delle quali le Autorità adottano misure generali volte agli operatori, in settori di alto tecnicismo e privi di una puntuale disciplina legislativa, nel rispetto delle garanzie del giusto procedimento e del controllo giurisdizionale; nonché funzioni ausiliarie, esercitate nei confronti di organi costituzionali, in specie Parlamento e Governo, attraverso pareri, segnalazioni e relazioni periodiche nelle materie rientranti nelle loro competenze, cosiddette attività di “moral suasion”.

Fondamentale è il potere di vigilanza che le A.A.I. esercitano sull’area amministrativa attribuita alla loro competenza. In particolare, la vigilanza può essere cartolare, cioè realizzata su carta e documenti, oppure ispettiva, che è quella che si compie in loco.

Esse sono anche titolari di poteri sanzionatori esercitati in caso di violazione della legge da parte di soggetti sottoposti alla loro autorità.

Con particolare riferimento all’Autorità Nazionale Anticorruzione, occorre precisare come la stessa si sia trovata  di fronte ad una particolare attribuzione normativa riconosciutale dal Codice dei Contratti Pubblici, consistente nella possibilità di esercitare un potere regolatorio, estrinsecantesi nella adozione di linee guida, vincolanti e non vincolanti.

Trattasi di un potere regolatorio speciale, poiché non riguarda solo i soggetti che partecipano ad un determinato mercato, ma, al contrario, ha una proiezione esterna molto ampia.

Il Consiglio di Stato ha ritenuto che, attraverso l’adozione di linee guida vincolanti, si esprima un vero e proprio potere normativo; invece, nel caso di linee guida non vincolanti ci troveremmo di fronte ad atti amministrativi veri e propri. La conseguenza è che la violazione delle linee guida vincolanti dell’ANAC porta al vizio di violazione di legge; mentre la violazione di linee guida non vincolanti, non accompagnata da motivazione adeguata, porta all’eccesso di potere.

5.A.A.I.  e poteri impliciti

I poteri riconosciuti alle A.A.I., come innanzi descritti, si atteggiano in modo originale rispetto al sistema amministrativo italiano, dominato dal principio di legalità, in virtù del quale ogni potere attribuito ad una pubblica amministrazione trova fondamento nella legge. La caratteristica del potere amministrativo è rappresentata dalla capacità dello stesso di incidere unilateralmente sulla sfera giuridica altrui e, per tale motivo, è necessario che qualunque potere sia previsto da una legge.

Detto principio di legalità si contrappone al principio di funzionalizzazione, tipico dell’ordinamento giuridico comunitario, nel quale i poteri riconosciuti alle autorità comunitarie non sono esattamente indicati dalla fonte normativa, nella quale gli stessi sono genericamente previsti. In virtù di tale principio, alle Autorità è riconosciuta la possibilità di utilizzare ogni mezzo per realizzare lo scopo che la fonte normativa gli ha attribuito.

Pertanto, gli organi comunitari possono esercitare i cosiddetti poteri impliciti, nel senso che, oltre ai poteri attribuiti espressamente dalla fonte primaria, esse hanno tutti i poteri che, anche se non esplicitamente enunciati, sono necessari per il raggiungimento dell’obiettivo che la norma vuole che essi raggiungano.

Le Autorità Indipendenti, sulla base dell’esperienza comunitaria, si sono viste attribuire dalla giurisprudenza poteri impliciti, al pari degli organi comunitari, per i quali la norma di riferimento è l’art. 325 del TFUE.

Il banco di prova per il riconoscimento di detti poteri impliciti alle A.A.I. è stato il tema dei poteri ispettivi, in particolare, della Banca d’Italia, non espressamente previsti da alcuna norma. In particolare, la giurisprudenza ha ritenuto che i poteri ispettivi siano strettamente connessi e connaturati al potere di vigilanza e controllo, riconosciuti in capo alle AAI. In proposito, il Consiglio di Stato, con due importanti sentenze, le nrr. 2533 e 6770 del 2003, ha affermato che la descrizione dei poteri delle Autorità Indipendenti viene fatta dal legislatore in modo generico ed è necessario che questa attribuzione di poteri venga valutata con elasticità e duttilità.

In argomento, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha avuto due atteggiamenti. Da un alto, si è affermato che, nel riconoscere poteri ispettivi impliciti, non si realizza alcuna deroga al principio di legalità, perché bisogna interpretare le norme in modo ampliativo e corretto. Dall’altro, si è sottolineato che il principio di legalità con riferimento alle AAI ha una intensità minore, poiché tutte queste autorità sono state costruite mediante un programma legislativo aperto: la legge attribuisce lo scopo, lasciando dette Autorità libere di individuare i mezzi migliori per realizzare lo scopo che la legge gli ha attribuito.

Lo stesso Consiglio di Stato ha, però, ritenuto di affermare che i poteri impliciti, come riconosciuti in capo alle AAI, incontrano alcuni limiti.

Il primo limite fondamentale, avente carattere generale poiché è tipico del potere amministrativo, è rappresentato dalla proporzionalità: i poteri vanno esercitati in modo proporzionale rispetto all’obiettivo da raggiungere.

L’altro limite è rappresentato dall’assenza di una previsione legislativa: si può parlare di poteri impliciti, quando la legge non sancisce poteri speciali per quelle Autorità.

Il terzo limite, che accomuna poteri impliciti e poteri regolatori, attiene all’aggravio procedimentale. A riguardo, il Consiglio di Stato afferma che queste Autorità possono esercitare poteri impliciti e regolamentari, ma solo assicurando una maggiore garanzia procedimentale, come prevista dalla legge 241/90. Più precisamente, le garanzie procedimentali di cui alla legge 241/90 devono essere rispettate anche quando la norma che le prevede le esclude per talune categorie di atti. Si pensi, per esempio, che l’art. 13 della l.241/90 esclude l’applicazione delle norme sulla partecipazione nel caso di atti normativi; tale esclusione non vale rispetto alle AAI, le quali devono fare partecipare i soggetti interessati alla formazione degli atti regolamentari. Inoltre, il Consiglio di Stato pretende che l’adozione di atti normativi di queste Autorità sia preceduta da consultazioni. Quindi, l’aumento e l’aggravio delle garanzie procedimentali rappresentano una condizione di legittimità dell’atto delle Autorità Indipendenti e il modo attraverso cui è colmata la carenza di legittimazione democratica di queste autorità.

La giurisprudenza dominante esclude poteri impliciti in capo ad autorità amministrative che non siano AAI, poiché il principio di legalità ha un momento di crisi solo con riferimento alle AAI e non anche rispetto ad altre che pure esercitino poteri di vigilanza.

Da quanto sinora esposto, si evince che le Autorità Indipendenti, nel nostro ordinamento, rappresentano un modello di amministrazione diverso rispetto a quello tradizionale, introdotto per rendere più efficace e per porre al di fuori della sfera dell’indirizzo politico l’intervento amministrativo in settori economici e sociali particolarmente rilevanti, caratterizzati da una grande dinamicità dei mercati e da un continuo progresso tecnologico, rispetto al quale il tradizionale “modus operandi” si rivela inadeguato.

6.Controllo giurisdizionale sugli atti delle AAI

Naturalmente, le peculiarità innanzi esposte hanno immediati riflessi anche sul contenzioso relativo agli atti delle Autorità Indipendenti. In proposito, il legislatore ha preferito attribuire la maggiore parte delle stesse alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, facendo rientrare nell’alveo della giurisdizione ordinaria talune controversie, ad esempio quelle aventi ad oggetto gli atti del Garante della Privacy, ai sensi dell’art. 145, d.lgs 196/2003.

I limiti e le modalità di esercizio del sindacato giurisdizionale sono stati oggetto di una vera e propria evoluzione nel corso degli anni, connessa alle problematiche relative alla corretta qualificazione della cosiddetta discrezionalità tecnica, la quale è una caratteristica delle “Authorities”.

La discrezionalità tecnica si distingue dalla discrezionalità amministrativa, la quale ricorre quando la disposizione legislativa si limita ad attribuire alle Amministrazioni il potere di agire, lasciando alla medesima ampia facoltà di scelta circa l’an, il quando, il quomodo ed il quid dell’azione, demandando ad esse la scelta del migliore mezzo per la realizzazione del pubblico interesse. La discrezionalità tecnica, invece, si concretizza in valutazioni proprie dell’organo amministrativo, che, pur basate su concetti richiamati dalla norma sono improntate ad un criterio orientativo diverso da quello tradizionale, consistente in regole scientifiche inesatte e opinabili, strumentali alla definizione dei cosiddetti concetti giuridici indeterminati.

Evidenziata la sostanziale diversità tra discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa, sia la dottrina che la giurisprudenza si sono interrogate sulla possibilità di un sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica e sui limiti dello stesso.

In passato, vi era chi negava l’esistenza della discrezionalità tecnica e chi, invece, la assimilava alla discrezionalità amministrativa, con la conseguente impossibilità per il giudice di penetrare in ambiti demandati in via esclusiva alla Pubblica Amministrazione, in aderenza alla logica della tripartizione dei poteri.

La tesi prevalente era dell’idea che il giudice non potesse sindacare le valutazioni tecniche compiute dalla P.A., poiché rientranti nelle competenze specialistiche della medesima, in virtù delle garanzie di imparzialità da essa offerta e dalla sua posizione di preminenza rispetto al privato. Secondo tale orientamento, il giudice poteva esercitare un controllo di natura meramente “estrinseca”, con esclusione dello stesso di potere applicare e ripetere le valutazioni   tecniche con le stesse cognizioni usate dalla Pubblica Amministrazione.

Successivamente, con la stessa sentenza n.601/99, il Consiglio di Stato segna una importante svolta, riconoscendo, per la prima volta, la possibilità di un sindacato “intrinseco” del giudice amministrativo in merito alla discrezionalità tecnica dell’amministrazione.

Si è sostenuto che il giudice, in assenza di una espressa riserva in favore della P.A., ha la possibilità di accedere in modo pieno e diretto a fatti posti alla base del procedimento, atteso che è solo la c.d. opportunità, ovvero la valutazione dell’interesse pubblico, ad attenersi all’ambito del merito amministrativo e ad essere, per ciò solo, insindacabile.

Il Consiglio di Stato ha evidenziato che, nel quadro costituzionale dei poteri, non c’è un’area sottratta al giudice. Gli artt. 24 e 113 della Costituzione attribuiscono al giudice tutta l’area amministrativa; quel che è sottratto al giudice è una particolare ottica, che è quella del merito e, quindi, l’area libera dell’Amministrazione.

Quando, invece, sono applicate regole tecniche, il giudice può sindacare.

Prima della sentenza 601/99, il giudice, di fronte ad un atto di discrezionalità tecnica, non entrava nel contenuto dell’atto, ma lo guardava dall’esterno, al fine di verificare se ci fossero elementi di anomalia che emergessero “icto oculi” e che potessero essere notati da chiunque.

Dal ’99, si passa dal sindacato estrinseco a quello intrinseco ed il giudice può controllare l’atto in modo forte, avendo accesso all’atto ed all’attività della P.A. dalla quale è promanato l’atto stesso.

A seguito della citata sentenza del Consiglio di Stato, la dottrina e la giurisprudenza spostano l’attenzione sulla intensità di tale controllo, chiedendosi se lo stesso debba qualificarsi “forte” o “debole” e, se si, in che misura si possa consentire al giudice l’esercizio di un potere sostitutivo relativamente alle valutazioni tecniche compiute dall’amministrazione.

In caso di sindacato intrinseco “forte”, il giudice potrebbe sovrapporre il proprio giudizio tecnico a quello della P.A; diversamente, in caso di sindacato intrinseco “debole”, non sostitutivo, egli potrebbe censurare le sole valutazioni tecniche manifestamente inattendibili, vagliandone l’inattendibilità sul piano scientifico tramite un controllo  di c.d. ragionevolezza tecnica.

Il controllo debole o il controllo forte attengono al metodo utilizzato dalla pubblica amministrazione.

Attraverso il sindacato forte, il giudice verifica non soltanto i fatti, ma anche il metodo utilizzato dalla pubblica amministrazione.

Egli controlla se il metodo scientifico utilizzato dalla pubblica amministrazione sia corretto oppure no e se lo stesso sia stato applicato correttamente: quindi, verifica della correttezza nella scelta del metodo e nell’applicazione del metodo.

Se, all’esito di tale analisi, il giudice accerta che il metodo scelto non è corretto o che, pur essendo giusto, non è stato applicato esattamente, egli può annullare l’atto.

Nel solco di tale mutato orientamento giurisprudenziale, con la legge 205/2000, il giudice amministrativo viene dotato della consulenza tecnica, attraverso la quale egli può compiere l’accesso al fatto e controllarlo, può verificare se il metodo scientifico è corretto ed è stato utilizzato correttamente.

Se il consulente tecnico nominato dal giudice accerta che il metodo scientifico non è corretto o non è stato utilizzato correttamente, il giudice amministrativo annullerà il provvedimento.

L’evoluzione registratasi in ordine alla nozione di discrezionalità tecnica ha interessato anche il sindacato esercitato dal giudice amministrativo circa i provvedimenti delle Autorità Indipendenti, la cui problematica è stata affrontata con riguardo, principalmente, agli atti dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. L’orientamento sorto a seguito della sentenza 601/99 ha portato a riconoscere la natura intrinseca del sindacato giudiziale anche relativamente ad essi. Si è ritenuto che tali provvedimenti siano assoggettabili esclusivamente ad un controllo di legittimità nell’ambito del quale il sindacato giudiziale non incontrerebbe limiti, potendo essere esercitato sia relativamente ai vizi di incompetenza e di violazione di legge, che ai vizi dell’eccesso di potere in tutte le sue forme sintomatiche.

Con riferimento agli atti delle Autorità Amministrative Indipendenti è bene sottolineare che i giudizi compiuti da queste autorità sono molto complessi e fanno riferimento a concetti giuridici indeterminati ed a nozioni non sempre unanimi e univoche nella scienza economica o in quell’altra di riferimento. Potrebbe, infatti, bene verificarsi il caso in cui il risultato al quale perviene il perito nominato dal giudice sia differente da quello realizzato dalle AAI per diversi motivi. Per esempio, in ordine ad una determinata fattispecie, ben potrebbero essere configurabili diversi e validi metodi scientifici di valutazione, tra i quali l’amministrazione ne ha individuato uno ritenendolo il migliore, invece, il consulente ne ha scelto un altro ritenendo fosse da preferire.

Oppure è possibile che rispetto ad un settore siano applicabili leggi che non sono caratterizzate dalla certezza e dalla inopinabilità, ma, al contrario, che portano a risultati incerti e che per questo sono dette leggi probabilistiche.

In presenza di tali leggi probabilistiche, il diritto penale, incidendo sulle libertà fondamentali, si fonda sul principio dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”; il diritto civile e il diritto amministrativo su quello del “più probabile che non”.

In presenza di più metodi scientifici validamente utilizzabili e di leggi probabilistiche si realizza una situazione di opinabilità, di fronte alla quale il giudice amministrativo deve arretrarsi.

Sia il Consiglio di Stato che la Corte di Cassazione sono concordi nel ritenere che l’opinabilità costituisce il limite del controllo del giudice sugli atti delle AAI. Si ammette il sindacato intrinseco, con accesso al fatto ed alle valutazioni tecniche, ma non si consente il sindacato sostituivo, il quale si realizza quando il giudice sostituisce con la propria valutazione quella dell’amministrazione nel caso di giudizi opinabili.

7.Controllo giurisdizionale sulle sanzioni delle AAI

Una particolare attenzione merita il sindacato che il giudice amministrativo può esercitare nei confronti delle sanzioni delle Autorità Amministrative Indipendenti, che è un sindacato di merito, fatta eccezione per le sanzioni della Consob e della Banca d’Italia, che, a differenza degli altri atti adottati dalle medesime autorità, sono attribuiti al giudice ordinario. Quindi, con riferimento alle sanzioni delle Autorità in parola, il giudice amministrativo può oltre che annullare l’atto anche sostituirlo.

Rispetto ai poteri sanzionatori delle AAI si è avvertita l’esigenza di assicurare maggiori garanzie procedimentali.

La questione è emersa a seguito del caso “Grande Stevens”, nel quale la Corte di Strasburgo, chiamata a valutare la coerenza del sistema normativo italiano in materia di abusi di mercato con il diritto ad un “processo equo”, oltre che con quello a non essere giudicati o puniti due volte per lo stesso fatto, c.d. “ne bis in idem”, ha riconosciuto il contrasto della disciplina procedimentale allora vigente con l’art. 6 della Convenzione e con il diritto al giusto processo sotto diversi profili, tra cui mancanza di contraddittorio e di pubblicità del procedimento.

Nel dare soluzione alle questioni sollevate dai ricorrenti, condannati dalla Consob al pagamento di cospicue sanzioni amministrative pecuniarie, la Corte EDU ha dovuto prendere posizione sulla questione relativa alla natura da riconoscere alle sanzioni comminate dall’Autorità Nazionale, atteso che solo alla materia penale l’art. 6 riferisce il principio dell’equo processo.

La Corte Europea ha evidenziato che la qualificazione da parte del diritto nazionale costituisce un punto di partenza, non di arrivo, mentre la nozione di pena e accusa penale, ai fini del concreto rispetto della Convenzione, vanno ricostruite sulla scorta dell’interpretazione autonomamente fornita dalla stessa Corte, libera di andare oltre le apparenze e valutare se una misura particolare costituisce in sostanza una pena ai sensi della Convenzione.

I criteri, di natura prettamente sostanziale, progressivamente elaborati dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ai fini della individuazione del carattere penale di una sanzione prevista dal diritto interno sono riconducibili a quattro grandi categorie, cosiddetti “Engel criteria”: 1) qualificazione prevalente negli Stati contraenti; 2) natura penale dell’infrazione; 3) natura punitiva e gravità della sanzione diretta  a fini preventivi e punitivi; 4) collegamento con una violazione penale.

Recentemente, la Cassazione ha precisato che in materia di irrogazione di sanzioni che, pur qualificate come amministrative, abbiano, alla stregua di criteri elaborati dalla Corte EDU, natura sostanzialmente penale, gli Stati possono scegliere se realizzare le garanzie del giusto processo di cui all’art. 6 della CEDU già nella fase amministrativa o mediante l’assoggettamento del provvedimento sanzionatorio applicato dall’autorità amministrativa, all’esito di un procedimento non connotato da quelle garanzie, ad un sindacato giurisdizionale pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva, attuato attraverso un procedimento conforme alle prescrizioni dell’art. 6 della Convenzione. Nel secondo caso, non può ritenersi che il procedimento amministrativo sia illegittimo, in relazione ai parametri fissati dall’art. 6 della Convenzione e che la successiva fase giurisdizionale determini una sorta di sanatoria di tale originaria illegittimità. Al contrario, il procedimento amministrativo, pur non offrendo esso stesso le garanzie di cui all’art. 6 della Convenzione, risulta all’origine conforme alle prescrizioni di detto articolo, proprio perchè è destinato a concludersi con un provvedimento suscettibile di un sindacato giurisdizionale pieno, nell’ambito di un giudizio che assicura le garanzie del giusto processo.

In alcune sentenze, per esempio la sentenza Grande Stevens del 2014, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ritenuto che alcune sanzioni amministrative italiane fossero, per il loro livello di afflittività, da ritenersi penali. Quindi, benchè definite amministrative dall’ordinamento giuridico italiano, sono da ritenersi penali. Questo principio può estendersi a molte delle sanzioni applicate dalle AAI italiane, sia con riguardo al valore del bene giuridico che esse proteggono, sia con riguardo al grave livello di afflittività.

Alcune garanzie del diritto penale e della procedura penale vanno estese a queste sanzioni, come per esempio, il principio del contraddittorio, il principio del ne bis in idem, in virtù del quale, per il medesimo fatto, non si può procedere per via amministrativa e per via penale.

La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha perimetrato il principio del ne bis in idem, che và valutato in termini di coordinamento tra la procedura amministrativa e quella penale.

Quindi, rispetto alle sanzioni delle Autorità Indipendenti, escluse quelle di Consob e Banca d’Italia, il giudice amministrativo esercita la giurisdizione di merito, in virtù della quale può intervenire direttamente sul loro ammontare, sul tipo di sanzione da applicare e, nel farlo, utilizza i criteri di cui all’art. 133 c.p..

Con riferimento alla tutela giustiziale esperibile nei confronti delle sanzioni delle AAI, va escluso che siano proponibili i ricorsi in opposizione, gerarchico improprio e proprio: i primi due perchè sono rimedi tassativi, azionabili solo se il legislatore lo preveda; il terzo in quanto presuppone un rapporto di gerarchia non concepibile per le Autorità Indipendenti. È, invece, riconosciuta la possibilità di esperire il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.

8. Poteri extra ordinem delle AAI

Altro tema fondamentale legato alle AAI è quello relativo al riconoscimento in capo all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ed all’Autorità Nazionale Anticorruzione di poteri extra – ordinem, ad opera rispettivamente dell’art. 21 bis, l. 10 ottobre 1990, n.287, e art. 211, co.1 bis e co.1 ter del d.lgs 50/2016.

In particolare, l’AGCM e l’ANAC possono impugnare provvedimenti di altre autorità amministrative qualora gli stessi siano illegittimi. Trattasi di una situazione straordinaria nel nostro ordinamento giuridico, alla luce del quale una delle principali caratteristiche della giustizia amministrativa è il suo carattere soggettivo.

Con il processo amministrativo si vuole assicurare la tutela e il soddisfacimento della posizione e dell’interesse di cui è titolare il soggetto ricorrente. È questo il principio di effettività della tutela normato espressamente dal codice del processo amministrativo, all’art. 1.

In ambito europeo, l’effettività della tutela giurisdizionale è assicurata dall’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE, che attribuisce ad ogni individuo il diritto ad un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice.

In ambito nazionale, l’art. 113 della Costituzione prevede il diritto ad agire contro gli atti della p.a.  per la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi.

Dal momento che l’attività giurisdizionale è strumentale alla tutela di posizioni qualificate e differenziate, ne consegue l’inammissibilità di una giurisdizione di stampo oggettivo, intesa come tutela di un interesse generale che non fa capo ad un soggetto determinato, individuo o ente esponenziale che sia.

La giustizia amministrativa non è attuata per tutelare interessi generali: il singolo propone ricorso avverso l’atto che, a cagione della sua illegittimità, lede la posizione sostanziale della quale egli è specificamente titolare; non agisce per la illegittimità genericamente intesa, per il solo ripristino della legalità violata. Tanto è confermato dal fatto che, per ottenere una pronuncia sul merito, è necessario che rispetto alla domanda, sussistano determinate condizioni.

L’art. 100 del codice di procedura civile, applicabile anche al processo amministrativo, statuisce che costituisce condizione per l’ammissibilità dell’azione, oltre alla titolarità di una situazione giuridica sostanziale di diritto soggettivo o interesse legittimo, anche la sussistenza dell’interesse a ricorrere, inteso come l’interesse proprio del ricorrente al conseguimento di un risultato utile grazie all’avvio del processo ed all’accoglimento dell’azione proposta.

Altra condizione dell’azione è la legittimazione ad agire, nel senso che la posizione che si assume lesa deve essere propria del soggetto che invoca la tutela, non essendo ammesso agire in nome proprio per la tutela di un diritto altrui.

Nel nostro ordinamento giuridico manca la figura del pubblico ministero amministrativo; non c’è un soggetto che può impugnare in nome della legge; può impugnare solo il soggetto che abbia una legittimazione, cioè che abbia un interesse immediato, diretto ed attuale.

Alla luce di tanto, il riconoscimento di una legittimazione ad agire all’AGCM ed all’ANAC, autorità amministrative indipendenti, per loro stessa natura neutrali rispetto a gli interessi che sono chiamate a regolare, comporta conseguenze di un certo rilievo.

Con il ricorso che l’Autorità va a proporre non sono fatti valere interessi di soggetti singoli, né specifiche lesioni, ma l’interesse generale al funzionamento del mercato concorrenziale. Inoltre, la normativa riconosce alle Autorità la possibilità di agire, secondo il procedimento delineato dalla stessa normativa speciale, anche a prescindere dal verificarsi di una effettiva lesione.

Il TAR LAZIO ROMA, con sentenza n.2720 del 2013, ha interpretato l’art. 21 bis, l.287 del 1990, come una norma volta ad introdurre, non un potere di azione nell’interesse generale della legge in uno specifico settore, di difficile riconduzione all’interesse legittimo, quanto piuttosto uno strumento volto a garantire l’attuazione dell’interesse pubblico, ma pur sempre particolare e differenziato, alla migliore attuazione del valore “concorrenza”, di cui è specifica affidataria l’Autorità.

Il TAR ha chiarito che proprio la peculiarità della dimensione ontologica del bene della vita “concorrenza” e la primazia della sua rilevanza nel quadro dei valori costituzionali e comunitari, impone che la giustiziabilità dell’interesse al libero mercato sia garantita anche quando la violazione delle norme sulla concorrenza non evidenzi una lesione concreta di interessi di operatori privati e non sussistano posizioni giuridiche soggettive.

Inoltre, la Corte Costituzionale, con sentenza n.20 del 2013, ha osservato come l’art. 21 bis L. 287/90, piuttosto che introdurre un nuovo e generalizzato controllo di legittimità in capo all’Autorità nei confronti degli atti delle pubbliche amministrazioni, ha soltanto integrato i poteri conoscitivi e consultivi già attribuiti all’Autorità Garante dagli artt. 21 e segg. L.287/90, prevedendo un potere di iniziativa finalizzato a contribuire ad una più complessa tutela della concorrenza e del corretto funzionamento del mercato e, comunque, non generalizzato poiché azionabile solo nei confronti di atti amministrativi che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato.

Secondo la tesi prevalente, il potere di impugnazione attribuito all’AGCM non è una nuova forma di giurisdizione oggettiva posta a tutela della legalità.

L’interesse alla concorrenza non è un interesse di mero fatto, ma un interesse pubblico qualificato e differenziato dall’art. 21 bis in rapporto ad un bene della vita di cui è portatrice, sul versante pubblico, l’AGCM. L’autorità agisce non a tutela della legalità, ma in forza di un ordinario potere di azione riconducibile alla giurisdizione a tutela di situazioni giuridiche individuali.

Alla luce delle conclusioni cui è giunta la giurisprudenza in riferimento all’art. 21 bis della legge 287/90, anche il potere di impugnativa riconosciuto all’ANAC, in forza dell’art. 211, co.1 bis e co.1 ter, D.LGS 50/2016, può essere letto non come una deroga ai principi generali della giustizia amministrativa, ma come una forma di concretizzazione dell’interesse alla legittimità e trasparenza delle procedure ad evidenza pubblica che risulta qualificato e differenziato rispetto ad uno specifico ente esponenziale pubblico, come è l’ANAC.

Sia l’AGCM che l’ANAC possono emanare un parere motivato, prima dell’esercizio del potere di agire in giudizio, rivolto alla pubblica amministrazione, con indicazione specifica dei motivi delle violazioni riscontrate e dei rimedi per eliminarli.

Il Consiglio di Stato, nella emissione del parere, individua una doppia funzione.

Da un lato, ritiene che tale strumento sia finalizzato a sollecitare la stessa amministrazione che ha emanato l’atto sospetto a rivedere la propria determinazione e ad allinearsi alle indicazioni rese dall’Autorità nel parere motivato, esercitando uno speciale potere di autotutela ispirato e giustificato al particolare interesse pubblico sotteso a tutto l’istituto che viene in gioco, così che la tutela di tale interesse sia risolto già in tale fase e sia limitato il ricorso in sede giudiziale ad una ipotesi di extrema ratio.

Dall’altro, la fase precontenziosa, scissa in parere ed intervento in autotutela, si pone come uno strumento di deflazione del contenzioso, che, ove avviatosi, vedrebbe contrapposte due amministrazioni, il che è, per il Legislatore, da evitare.

L’ANAC ha un potere speciale riconosciutole dal co.1 bis dell’art. 211 del Codice Appalti, in virtù del quale, quando vi siano gravi violazioni di legge, essa può impugnare direttamente il provvedimento amministrativo, senza il passaggio attraverso il parere motivato.

L’esercizio di questo potere fa sorgere qualche problema. Il nostro sistema giuridico è fortemente dominato dal principio di decadenza, in base al quale, trascorsi 60 giorni, ovvero 30 in materia di appalti, l’atto diventa inattaccabile se non è stato impugnato nei termini di legge. Per le Autorità in questione, detto termine decorre dal momento in cui hanno notizia dell’atto e, pertanto, in questo modo, potrebbe realizzare un disallineamento del termine di impugnazione da parte del soggetto interessato ed il termine di impugnazione assegnato alle AAI. Per esempio, nel caso in cui l’Autorità Anticorruzione dovesse agire su segnalazione del soggetto interessato, che, pur avendo avuto la possibilità di proporre ricorso, non lo ha fatto nei termini.

Tale eventualità stride con l’importanza che nel nostro ordinamento giuridico assume la decadenza, la quale, come affermato dalla Corte Costituzionale, rappresenta uno strumento utile alla realizzazione della stabilità dell’azione amministrativa. Anche la Corte di Giustizia, nella sentenza “Santex”, ha reputato la decadenza non in contrasto con il diritto comunitario.