Di Renato Rordorf
L’incerto confine tra diritto pubblico e diritto privato
Val la pena di rievocare subito l’antico insegnamento di Pugliatti: “Ogni crisi nel campo del diritto riconduce lo studioso alla distinzione tra diritto pubblico e diritto privato: e quando più acuta è la crisi, i più inclinano a negare la distinzione; cioè si fermano alla superficie e dimenticano che l’esigenza razionale del diritto come ordinamento è nella dinamica dei due termini: pubblico e privato”. Ed alcuni anni dopo lo stesso Pugliatti, pur ovviamente non disconoscendo l’esistenza di “zone di confine” e di “rapporti aventi natura spuria o ambigua”, non mancava di ricordare come le oscillazioni di significato nella distinzione tra diritto pubblico e privato e l’alterna tendenza a privilegiare ora l’uno or l’altro dipendano largamente dal mutare dello spirito dei tempi e siano legate ai momenti storici.
Oggidì è innegabile che il confine tra pubblico e privato si sia fatto assai incerto e che le linee di demarcazione tendono a sfumare. Lo si può vedere già in generale, nell’ambito del diritto dei contratti, ogni qual volta l’agire negoziale s’intrecci con i compiti propri della pubblica amministrazione: perché, se un tempo la formale pariteticità delle posizioni dei contraenti era il connotato saliente del fenomeno contrattuale, a fronte della supremazia riconosciuta alla p.a. nei rapporti con i privati, oggi ben può dirsi che entrambi tali connotati vanno sparendo o almeno attenuandosi:
Alla concezione della p.a. come soggetto dotato di poteri sovraordinati e d’imperio si è andata progressivamente sostituendo una concezione meramente funzionale di tali poteri, destinati al servizio dell’interesse generale ma che nulla vieta possa essere soddisfatto anche col ricorso a strumenti di stampo privatistico (quale, per esempio, la partecipazione a società di capitali). In questo contesto la tradizionale tendenza del diritto civile a porsi come modello di diritto comune emerge prepotentemente, per quel che concerne l’attività negoziale della p.a., anche quando essa è finalizzata alla realizzazione di interessi generali.
Tuttavia, la connotazione degli interessi generali di cui la p.a. non cessa di essere portatrice si riflette in vari modi sulla sfaccettata varietà del fenomeno contrattuale e non resta talora estranea neppure alla causa stessa del contratto. Emblematico, sotto questo profilo, è il modo in cui l’interesse pubblico oggi si realizza attraverso lo strumento societario, avvalendosi del carattere sempre più neutro di tale strumento e – con specifico riferimento alla società di capitali – della sua attitudine a costituire il punto di convergenza di interessi diversi, mai del tutto assorbiti dal solo interesse sociale.
Ma se l’interesse pubblico perseguito dalla p.a., contrattualizzandosi e scendendo sul terreno del mercato, si spoglia di alcune sue caratteristiche tradizionali, a cominciare dalla pretesa di essere prevalente e sovraordinato rispetto a quello della controparte privata, anche il contratto – ivi compreso il contratto di società – rischia di uscirne mutato, nel senso di divenire sempre più un mero strumento tecnico, essenzialmente neutro, utilizzabile per realizzare qualsiasi possibile interesse personale o collettivo.
La minor nettezza dei confini tra l’agire pubblico e l’agire privato, che da ciò deriva, è ovviamente destinata a riflettersi in modo problematico tanto sull’individuazione delle norme sostanziali di volta in volta applicabili, quanto sul piano processuale, ed anche per quel che attiene ai criteri di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario, amministrativo o contabile.
Il dilagare del fenomeno delle c.d. società pubbliche
Il fenomeno delle società a partecipazione pubblica non è certo nuovo, e trova eco già negli artt. 2458, 2459 e 2460 del codice civile del 1942 (poi divenuti artt. 2449 e 2550, il secondo dei quali poi abrogato). Queste norme manifestamente esprimono l’impostazione secondo la quale le società a partecipazione pubblica conservano intatto il loro statuto di enti di diritto privato, i quali perciò, fatte salve le poche specifiche previsioni eccezionali contenute negli articoli citati riguardanti la facoltà concessa al socio pubblico di nominare e revocare uno o più amministratori e sindaci, continuano ad essere in tutto e per tutto soggette alla disciplina del codice civile.
Esplicita in tal senso è anche la relazione al codice, secondo cui “è lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge delle società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici”.
E’ con la stagione delle cosiddette privatizzazioni, pressappoco a partire dagli anni 90 del novecento, che la situazione comincia però a complicarsi, soprattutto in quanto la privatizzazione non ha determinato solo la dismissione, in favore di soggetti privati, di beni e di partecipazioni societarie prima appartenenti allo Stato o ad altri enti pubblici, ma anche la trasformazione di organismi pubblici, destinati a svolgere pubbliche funzioni, in società configurate secondo gli schemi del diritto privato, delle quali lo Stato o altri enti pubblici hanno assunto in tutto o in parte la veste di soci. Vi era sottesa l’idea che il mercato e le sue intrinseche dinamiche potessero fungere da regolatore del funzionamento anche dei servizi pubblici, meglio di quanto non lo avessero fino ad allora fatto gli strumenti tipici del diritto amministrativo, e che quindi anche l’operatività degli enti che quei servizi sono chiamati ad erogare dovessero in qualche misura mimare il mercato, se non addirittura agire in un vero e proprio regime di libero mercato.
Ne è scaturito un panorama societario assai variegato, frutto dell’intreccio tra l’iniziativa statutaria, una miriade di disposizioni di legge speciale, che si sono succedute negli anni quasi sempre al di fuori di qualsiasi visione sistematica, ed affannosi tentativi della giurisprudenza (non solo nazionale ma anche comunitaria) di modellare figure che avessero un carattere riconoscibile almeno nel c.d. diritto vivente. E si è parlato quindi, non senza un inevitabile tasso di approssimazione semantica, oltre che in generale di “società pubbliche”, di volta in volta, a seconda dei casi, di “società legali”, di “società miste”, di “società strumentali”, di “società in huose providing”, ecc.
La natura, l’attività e la causa delle società pubbliche
La scelta della forma societaria genera, sul piano giuridico, la necessità di coniugare la disciplina propria del fenomeno societario con i profili specifici derivanti dalla funzione di servizio pubblico che la società è chiamata ad esercitare.
E’ da escludere che la specificità di tale funzione valga a conferire alla società una personalità di diritto pubblico, non foss’altro che per il tuttora vigente principio generale stabilito dall’art. 4 della legge n. 70/75, che, nel richiedere l’intervento espresso del legislatore per l’istituzione di nuovi enti pubblici, evidentemente suggerisce che un tale istituzione presupponga, se non necessariamente una disposizione di legge espressa, quanto meno un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco. Riconoscere ad un ente una personalità giuridica di diritto pubblico, infatti, non è cosa di poco momento: significa ammetterlo, almeno in via di principio, all’uso degli strumenti del diritto pubblico, il quale implica il potere autarchico d’incidenza sulle situazioni giuridiche soggettive dei privati, ai quali è invece consentito solo l’esercizio dell’autonomia negoziale. Eventuali norme speciali che siano volte a regolare la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione degli organi sociali non si riflettono, di per sé sole, sul modo in cui la società opera nei confronti dei terzi e del mercato. Allo stesso modo non è sufficiente l’esistenza di una o più disposizioni volte a regolare o limitare l’operatività della società, in conseguenza della partecipazione pubblica, per incidere sulla natura privata dell’ente. D’altronde, non va dimenticato che gran parte delle disposizioni volte a regolare l’attività delle c.d. società pubbliche hanno origine comunitaria e sono essenzialmente volte ad impedire rischi d’inquinamento del meccanismo concorrenziale del mercato, senza alcuna pretesa di dar vita in modo sistematico a nuove figure soggettive, pur quando l’uso di un’espressione quale quella di “organismo di diritto pubblico” (adoperata, ad esempio, nel codice dei contratti pubblici) potrebbe a prima vista farlo credere.
Il discorso si fa più delicato quando il modus operandi della società pubblica, come accade in talune società affidatarie di pubblici servizi, presenti tali caratteristiche da potersi riflettere sul piano causale, non consentendo di ravvisare quell’attività economica a scopo di lucro che l’art. 2247 c.c. tuttora indica come elemento caratteristico di ogni società di capitali. Non si può negare, pur prescindendo dalle annose discussioni sull’esatta definizione della causa societaria lucrativa, che in simili casi il modello societario sia messo fortemente in tensione, e tuttavia non è agevole ipotizzare una mutazione genetica in conseguenza della quale siffatti organismi perdano la natura di società di diritto privato per rifluire nell’alveo degli enti pubblici.
Sono trascorsi 40 anni da quando Gerardo Santini pubblicò il suo celebre saggio sul tramonto dello scopo lucrativo nelle società di capitali, e benché quella tesi abbia avuto alterna fortuna in dottrina e giurisprudenza, non si può disconoscere che effettivamente il modello societario è andato assumendo nel tempo connotati sempre più elastici, in qualche modo svincolandosi dalla tradizionale alternativa tra causa di lucro e causa mutualistica, sino a divenire un contenitore adattabile a finalità diverse (si pensi, ad esempio, alle società sportive di cui alla legge n. 91 del 1981). L’eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo di cui al citato art. 2247 non pare perciò sufficiente ad escludere che, ove nondimeno sia stato adoperato il modello societario, la natura giuridica e le regole strutturali e di governance da cui l’ente è retto restino quelle proprie di una società di capitali, come tale disciplinata in via generale dal codice civile.
L’azione di responsabilità nei confronti degli organi delle società pubbliche
Quanto sopra si riflette sul regime della responsabilità degli organi delle società pubbliche: sul piano non solo del riparto di giurisdizione ma anche, consequenzialmente, su quello della legittimazione ad agire e del regime stesso della responsabilità, che è diverso per quella civile e per quella contabile.
L’autonomia soggettiva e patrimoniale della società rispetto al socio pubblico non consente di configurare un danno erariale perseguibile mediante l’azione del Procuratore contabile ogni qual volta la denunciata mala gestio degli organi sociali abbia cagionato un danno riferibile al patrimonio sociale e non direttamente a quello del socio pubblico (Sez. un., n. 26806/09, alla quale anche la giurisprudenza successiva si è allineata quasi senza eccezioni).
Ad una conclusione diversa si è giunti solo in casi del tutto particolari: quando le peculiari finalità dell’ente determinano anche un regime di governance affatto speciale, come, ad esempio, per la Rai (Sez. un. n. 27092/09), per l’Enav (Sez. un. 5032/10) e per l’Anas (Sez. un. 15594/14).
Sussiste pur sempre in via generale la giurisdizione contabile quando l’azione di responsabilità trovi fondamento nel comportamento di chi, quale rappresentante dell’ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione, ovvero in comportamenti tali da compromettere la ragione stessa della partecipazione sociale dell’ente pubblico, strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed implicante l’impiego di risorse pubbliche, o da arrecare direttamente pregiudizio al suo patrimonio Sez. un., n. 26806/09, cit.).
Un discorso diverso si è fatto per le c.d. società in house: figura, com’è noto, essenzialmente di origine pretoria, essendo stata inizialmente elaborata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea (sin dalla nota sentenza Teckal del 18 novembre 1999, n. 107/98) al fine di escludere dall’obbligo di gara ad evidenza pubblica società estranee alla dinamica concorrenziale.
La giurisprudenza (formatasi prima del recente testo unico sulle società pubbliche ha affermato) che la società in house deve: a) essere totalmente partecipata da un ente pubblico, b) essere destinata ad operare in via esclusiva o prevalente in favore dell’amministrazione pubblica, c) essere soggetta ad una forma di direzione e controllo, da parte della pubblica amministrazione, analoga a quella che la medesima amministrazione eserciterebbe su una propria articolazione interna.
Anche il legislatore nazionale vi ha fatto riferimento in molteplici disposizioni normative, sia pur talvolta in modo alquanto disorganico – e da ultimo nel testo unico in materia di società partecipate (di cui si dirà) – sicché la figura della società in house appare ormai in qualche misura tipizzata.
Si è parlato, in simili casi, di una sorta di delegazione interorganica, connotata da un rapporto di subordinazione gerarchica della società all’amministrazione, che assume un’intensità ed una pregnanza ben maggiore di quella normalmente spettante al socio titolare di una partecipazione di controllo (foss’anche totalitaria).
Non v’è dubbio che, nei limiti in cui sia possibile dar vita a simili organismi, la distanza rispetto al modello societario disegnato dal codice civile ne risulta assai marcata, perché non si tratta solo di derogare ad alcune regole organizzative proprie di quel modello, ma di mettere in discussione la possibilità stessa d’individuare nella società un centro di decisione autonomo e distinto rispetto al socio pubblico da cui proviene il capitale sociale.
Si è infatti affermato che la società in house sarebbe in realtà, solo una longa manus dell’amministrazione, sicché l’affidamento del servizio pubblico mediante l’in house contract non configurerebbe, nella sostanza, un rapporto contrattuale intersoggettivo tra aggiudicante ed affidatario (così, da ultimo, anche Corte cost. n. 46 del 2013; nonché Cons. Stato n. 7636/04, 962/06, 1513/07, 2765/09, 5808/09, 7092/10 ed 1447/11 e Corte dei conti n. 546/13).
Si è detto perciò che “l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa” (Cons. Stato, Ad. plen., n. 1/08)
Muovendo da tale premessa, Sez. un n. 26283/13, ha affermato la giurisdizione della Corte dei conti nell’azione di responsabilità contro amministratori di una società in house, per tale intendendo quella “costituita da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente tali enti possano esser soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici”.
Quando tale situazione si realizzi e sia consacrata nello statuto dell’ente “il velo che normalmente nasconde il socio dietro la società è dunque squarciato: la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizza più in termini di alterità soggettiva”; sicché “l’uso del vocabolo società qui serve solo allora a significare che, ove manchino più specifiche disposizioni di segno contrario, il paradigma organizzativo va desunto dal modello societario; ma di una società di capitali, intesa come persona giuridica autonoma cui corrisponda un autonomo centro decisionale e di cui sia possibile individuare un interesse suo proprio, non è più possibile parlare.”
Donde la conclusione che: “quanto meno ai limitati fini del riparto di giurisdizione” siffatte società hanno della società solo la forma esteriore ma, come s’è visto, costituiscono in realtà delle articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano e non dei soggetti giuridici ad essa esterni e da essa autonomi”.
La Corte di cassazione, nelle citata sentenza n. 26283/13, pur sforzandosi di delineare i confini di questa figura nel modo più netto possibile, ha voluto sottolineare che la portata delle proprie affermazioni era da circoscrivere al tema del riparto di giurisdizione, per il quale un diverso regime della responsabilità degli amministratori di società in house sarebbe risultato ingiustificato rispetto alla disciplina della responsabilità cui sono assoggettati i dipendenti della pubblica amministrazione, lasciando quindi volutamente impregiudicate le altre possibili questioni ed in particolare quella della fallibilità.
Nomina e revoca degli organi sociali e fallimento
Ed infatti, sempre sul terreno del riparto di giurisdizione, le medesime Sezioni unite hanno di recente specificato che le azioni concernenti la nomina o la revoca di amministratori e sindaci delle società a totale o parziale partecipazione pubblica sono sottoposte alla giurisdizione del giudice ordinario, anche nel caso in cui le società stesse siano costituite secondo il modello del c.d. in house providing (Sez. un. 24591/16).
Anche questo profilo, peraltro, si riflette sul regime di diritto sostanziale applicabile, giacché l’azione di annullamento dell’atto di nomina o di revoca dinanzi al tar implica una forma di tutela reale che è invece esclusa dall’art. 2383 c.c. per gli amministratori e soggetta alla particolare disciplina dell’art. 2400, c.3, quanto ai sindaci.
Parimenti attuale e dibattuta è la questione dell’assoggettabilità a fallimento delle società pubbliche, risolta di recente da Cass. 21991/12 Cass. 22209/13 e Cass. 3196/17.
Non constano però precedenti di legittimità sulla assoggettabilità a fallimento di società in house.
Il testo unico delle società a partecipazione pubblica
In questo quadro è ora sopravvenuto il d.lgs. 175 del 2016, denominato Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica.
Il sistema delineato dal testo unico si può descrivere come una figura a cerchi concentrici: quello più ampio costituto dalle società a partecipazione pubblica, uno intermedio costituito dalle società a controllo pubblico ed infine quello costituito dalle società in house. Regole a latere sono dettate per le società quotate e per le partecipate miste-pubblico-private
La regola fondamentale è contenuta nell’art. 1, c. 3, che assoggetta alla disciplina privatistica e codicistica tutte le società partecipate, salvo le deroghe apportate dal medesimo testo unico (e salvo le specifiche disposizioni dettate per le società “di diritto singolare”: art. cit., c. 4, lett. a).
Con riguardo alla disciplina della responsabilità degli organi e del fallimento il testo unico introduce deroghe alla normativa generale negli artt. 12 e 14 (l’art. 13 riguarda il procedimento ex art. 2409 c.c.).
L’art. 12, c. 1, primo periodo, dopo aver ribadito la regola generale dell’assoggettamento al regime codicistico della responsabilità degli organi sociali, fa “salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house”. Il secondo periodo dello stesso comma detta una disposizione un po’ oscura, con cui si devolve alla Corte dei conti, “nei limiti della quota di partecipazione pubblica”, la giurisdizione in materia di danno erariale “di cui al comma 2”. Il citato comma 2 definisce il danno erariale come quello sofferto (non dalla società, bensì) dal socio pubblico, ivi compreso quello derivante dalla condotta scorretta di coloro che rappresentano l’ente pubblico socio e ne dovrebbero esercitare i diritti in seno alla società.
Prima di esaminare tali disposizioni, conviene osservare che il legislatore ha inteso dare una propria definizione di società in house, L’art. 2, lett. o), individua infatti come requisito qualificante non solo il controllo analogo (anche congiunto), a propria volta definito dalle precedenti lett. c) e d) in termini sostanzialmente coincidenti a quelli già adoperati nel codice degli appalti pubblici, ma anche quello dell’attività prevalentemente svolta in favore della pubblica amministrazione e della partecipazione al capitale di privati unicamente nelle forme di cui al successivo art. 16, 1° comma (ossia quanto la partecipazione privata “avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società controllata”)
Tornando al regime della responsabilità ed all’interpretazione dell’art. 12, se ne ricava che per le partecipate e le controllate non in house (anche probabilmente per le società “legali” di diritto speciale) il solo regime applicabile è quello civilistico ordinario, ossia l’esperimento delle normali azioni di responsabilità da parte della società ed, eventualmente, dei creditori sociali.
Per le società in house, invece, la giurisdizione per il arrecato danno al patrimonio sociale è della Corte dei conti, nei termini indicati dalla pregressa citata giurisprudenza delle Sezioni unite, ma con una importante specificazione: che il danno al patrimonio di una società in house è definibile come erariale solo nella misura in cui si riflette proporzionalmente sulla quota di partecipazione pubblica (il che si comprende solo muovendo dal presupposto che, sia pure entro i limiti sopra ricordati, la società in house ora potrebbe anche non essere partecipata totalitariamente da enti pubblici). Ne consegue che l’azione contabile avrà di mira la reintegra del patrimonio del socio pubblico, e non del patrimonio sociale.
Resta ovviamente invariata la giurisdizione contabile per il danno diretto arrecato alla quota di partecipazione pubblica e per quello conseguente al comportamento di chi rappresenta l’ente partecipante (ma in quest’ultimo caso è la legittimazione passiva a mutare).
L’eventuale coesistenza di soci pubblici e privati, in caso di azione contabile per il danno erariale “pro quota”, apre peraltro la strada alla coesistenza dell’azione ordinaria quanto al risarcimento del residuo danno arrecato dalla mala gestio degli organi al patrimonio sociale. Resta quindi aperto il difficile interrogativo della convivenza tra azione contabile, volta a beneficio del solo socio pubblico, ed azione di responsabilità dei creditori sociali.
In caso di crisi e d’insolvenza l’art. 14 detta alcune disposizioni speciali valevoli per le società a partecipazione pubblica, ma ne ribadisce espressamente l’assoggettabilità a fallimento (comma 1), senza formulare eccezione per le in house. La fallibilità di questa ultime sembra, anzi, confermata dalla disposizione dell’ultimo comma riguardanti le società a controllo pubblico titolari di affidamenti diretti (quali sono, appunto, le in house).
Questo però comporta la necessità di coordinare la disciplina dell’azione di responsabilità nel fallimento con quella di cui al citato art. 12, e ripropone la difficoltà di coordinamento con l’azione dei creditori sociali, in questo caso esercitata dal curatore. Ciò tenendo conto del fatto che l’azione contabile dovrebbe pur sempre essere dispiegata in favore dell’ente partecipante (e non della società partecipata), oltre che delle peculiarità della responsabilità contabile, normalmente caratterizzata dalla intrasmissibilità agli eredi e dal potere riduttivo del giudice.