2 Sentenza dichiarativa di fallimento e bancarotta prefallimentare
Per l’art. 216 (come per l’art. 217) risponde di bancarotta fraudolenta (o semplice) l’imprenditore che ha commesso taluno dei fatti indicati negli articoli stessi «se è dichiarato fallito», formula con la quale, per concorde e consolidata opinione della dottrina e della giurisprudenza, il legislatore ha per l’appunto ancorato la rilevanza penale delle condotte incriminate alla formale pronunzia della sentenza dichiarativa del fallimento.
2.1 Sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo del reato di bancarotta prefallimentare secondo la giurisprudenza
Con riguardo ai fatti prefallimentari di bancarotta la Relazione al r.d. n. 267/1942 qualificava la sentenza dichiarativa di fallimento come «condizione di punibilità», chiarendo come la precisa intenzione del legislatore fosse quella di non configurarla come evento del reato al fine di non indebolire la tutela penale del credito (3).
Dopo alcune incertezze iniziali, la giurisprudenza, pur escludendo che la sentenza dichiarativa rappresenti l’evento della bancarotta prefallimentare, ha ritenuto che essa configuri piuttosto una condizione di esistenza del reato, formula che nel tempo è stata progressivamente sostituita con quella di elemento essenziale o costitutivo del reato.
In particolare, le Sezioni Unite della Corte di cassazione (4), alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, hanno affermato che «la dichiarazione di fallimento, pur costituendo un elemento imprescindibile per la punibilità dei reati di bancarotta, si differenzia concettualmente dalle condizioni obiettive di punibilità vere e proprie perché, mentre queste presuppongono un reato già strutturalmente perfetto, sotto l’aspetto oggettivo e soggettivo, essa, invece, costituisce, addirittura, una condizione di esistenza del reato o, per meglio dire, un elemento al cui concorso è collegata l’esistenza del reato, relativamente a quei fatti commissivi od omissivi anteriori alla sua pronunzia, e ciò in quanto attiene così strettamente all’integrazione giuridica della fattispecie penale, da qualificare i fatti medesimi, i quali, fuori del fallimento, sarebbero, come fatti di bancarotta, penalmente irrilevanti».
Su questa linea si è affermato che «gli atti di disposizione che l’imprenditore compie sui propri beni ed i comportamenti, attivi od omissivi, che egli tiene nella conduzione dei propri affari sono penalmente irrilevanti siccome libera manifestazione del diritto di gestire l’impresa nel modo che a lui sembra più conveniente per la tutela dei propri interessi; essi, invece, diventano rilevanti penalmente quando, con la constatazione giudiziale della insolvenza, viene accertata la lesione arrecata ai diritti dei creditori … pertanto, soltanto con la dichiarazione di fallimento si verifica l’esposizione a pericolo (e, quindi, si realizza l’offesa) dell’interesse tutelato; prima di tale momento è, per contro, impossibile affermare che la condotta abbia intaccato l’interesse dei creditori, perché esso è pienamente salvaguardato finché esistono altri beni sufficienti (ossia una capacità patrimoniale adeguata) a soddisfare regolarmente le obbligazioni. In altre parole, finché non sopraggiunge il fallimento, che è l’unico mezzo tecnico idoneo ad accertare lo stato di dissesto, si deve ritenere che la capacità patrimoniale sia adeguata e che non sia, pertanto, attuale l’ipotesi di una lesione dell’interesse dei creditori» (5).
Si è inoltre efficacemente sintetizzato che «la sentenza dichiarativa di fallimento è un elemento costitutivo del reato di bancarotta fraudolenta, con la conseguenza che fatti altrimenti irrilevanti sul piano penale o, comunque, integranti altri reati possono essere considerati lesivi degli interessi dei creditori ed incidenti negativamente sul regolare svolgimento dell’attività imprenditoriale, tanto da essere specificamente perseguiti penalmente» (6).
Tale orientamento è stato confermato dalle stesse Sezioni Unite (7) che, nel ribadire, a commento del comma secondo dell’art. 236, «che il decreto di ammissione all’amministrazione controllata ripete, nell’ambito della corrispondente fattispecie di bancarotta, la stessa natura e gli stessi effetti della sentenza dichiarativa di fallimento ed integra, pertanto, un elemento costitutivo del reato e non già una mera condizione obiettiva di punibilità, presupponendo questa un reato già strutturalmente perfetto, sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo » e che « é solo per effetto dell’ammissione all’amministrazione controllata che determinate condotte del ceto gestorio della società si connotano come bancarotta », ha ulteriormente precisato, esplicitamente evocando la concezione belinghiana del fatto tipico (tatbestand), che questo racchiude «l’insieme o la somma degli elementi che incarnano il volto di una specifica figura di reato», ivi compresi i così detti elementi normativi i quali, instaurando una stretta relazione giuridica con la condotta, partecipano alla descrizione della medesima fattispecie e rimangono imprescindibilmente inseriti nel suo nucleo essenziale.
E tra questi, per l’appunto, le Sezioni Unite hanno ritenuto debba essere annoverata anche la sentenza dichiarativa di fallimento, elemento normativo interno alla fattispecie incriminatrice della bancarotta.
2.2 (Segue): … ma non è l’evento del reato
A corollario dell’illustrata scelta qualificatoria, si sostiene comunemente che la dichiarazione di fallimento non costituisce l’evento del reato di bancarotta, con la conseguenza che è del tutto irrilevante il nesso eziologico tra la condotta realizzatasi con l’attuazione di un atto dispositivo — che incide sulla consistenza patrimoniale di un’impresa commerciale — ed il fallimento (v. anche supra cap. 2 par. 2) (8).
Il che ha condotto ad affermare che i fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare sono perseguibili in qualunque momento siano stati commessi (9), notandosi tra l’altro come nelle disposizioni penali della legge fallimentare, il legislatore, quando lo ha ritenuto necessario, ha previsto espressamente il termine a decorrere dal quale la condotta dell’imprenditore, o di uno degli altri soggetti indicati nell’art. 223, comma primo, assuma rilievo penale — così, ad es., per la bancarotta semplice documentale di cui all’art. 217, comma secondo, la condotta è incriminabile solo se posta in essere entro i tre anni antecedenti la dichiarazione di fallimento — e come pertanto ritenere diversamente porterebbe ad incidere in maniera ingiustificata sulla tassatività della fattispecie di reato in quanto includerebbe in essa un elemento di arbitrarietà riguardante il momento nel quale il fallimento deve essere considerato prossimo o soggettivamente probabile (10).
Nel ribadire l’assunto, la Corte ha peraltro tenuto a sottolineare, in parte discostandosi dall’idea che soltanto con la dichiarazione di fallimento si realizza l’offesa al bene giuridico tutelato, come la disciplina relativa alla bancarotta fraudolenta patrimoniale sia in grado, nella sua concreta applicazione, di selezionare i comportamenti in ragione del tempo che li separa dalla pronuncia giudiziale, dovendo il giudice pur sempre dar conto dell’effettiva offesa alla massa dei creditori (oggetto della tutela penale), quale portato del comportamento illecito, anche mediato e consequenziale, derivato dalla perdita di ricchezza e non compensato medio tempore da alcun riequilibrio economico (11).
2.3 (Segue): … e non è oggetto del dolo
È affermazione altrettanto costante nella giurisprudenza di legittimità che la dichiarazione di fallimento è svincolata dal dolo e dalla colpa necessari per la sussistenza dei reati di bancarotta fraudolenta e bancarotta semplice.
La rappresentazione del fallimento esula dall’elemento soggettivo del reato, con la conseguente irrilevanza del fatto che nell’agente manchi la consapevolezza di poter fallire, anche perché, oltretutto, siffatta convinzione si risolverebbe in errore su legge extrapenale, richiamata da quella penale (12). E nel medesimo senso si è precisato che per la sussistenza del dolo della bancarotta distrattiva non è necessario che l’agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, risultando dunque irrilevante che questo si sia o meno già manifestato al momento della consumazione della condotta illecita (v. anche supra cap. 2 par. 4) (13).
Secondo tale orientamento, dunque, la sentenza dichiarativa di fallimento è elemento costitutivo del reato, diverso però dalla condotta e dall’evento, ma oltremodo singolare, dato che non è necessario che l’elemento psicologico cada su di esso (ed in tal senso si è giunti in passato ad affermare perfino che i reati previsti dalla legge fallimentare sarebbero sottratti alla disciplina comune del codice penale e per essere invece regolati dalla legge fallimentare per quanto concerne elementi costitutivi e circostanze) (14).
La giurisprudenza costituzionale (15), seppure in tempi non recenti, ha affermato che tale soluzione non contrasta né con il principio di uguaglianza (art. 3, comma primo, Cost.) né con quello di personalità della responsabilità penale (art. 27 Cost.), in quanto la fattispecie criminosa prende in considerazione un’unitaria situazione di fatto e per essa opera un’unitaria previsione del fatto come reato e delle sanzioni penali; inoltre, per il giudice delle leggi, la possibilità che la declaratoria di fallimento sia pronunciata su istanza, meramente discrezionale, dei terzi creditori non esclude che la medesima sia pronunciata anche d’ufficio dal tribunale (argomento questo che ha peraltro perduto la sua valenza atteso che questa possibilità, in seguito alla riforma della legge fallimentare, è venuta meno (16)); infine, sempre per la Corte, l’art. 27, comma primo, Cost. non implica necessariamente che tutti gli elementi della fattispecie criminosa siano dipendenti dall’atteggiamento psichico del soggetto agente.
La Corte ha osservato, poi, che «giusta l’interpretazione che ne dà la Corte di cassazione, il legislatore ha ritenuto che il semplice comportamento dell’imprenditore commerciale, consistente nella mancata, irregolare o incompleta tenuta dei libri e delle altre scritture contabili, in violazione dell’obbligo posto dagli artt. 2214 segg. c.c., non metta in pericolo il bene che con quella ipotesi ha inteso tutelare, e ha invece ravvisato come attuale codesta messa in pericolo solo e all’atto in cui l’imprenditore commerciale venga dichiarato fallito »; « il legislatore avrebbe potuto considerare — aggiungono i giudici delle leggi — la dichiarazione di fallimento tra l’altro come semplice condizione di procedibilità o di punibilità, ma ha invece voluto, come è riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, richiedere l’emissione della sentenza per l’esistenza stessa del reato. E ciò perché, intervenendo la sentenza dichiarativa del fallimento, la messa in pericolo di lesione del bene protetto si presenta come effettiva e attuale» (17).
Alla predetta sentenza si richiama, esplicitamente o implicitamente, anche la giurisprudenza successiva della Corte costituzionale (18).
Va ricordato altresì che la Corte costituzionale (19) si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale — sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. — del combinato disposto degli artt. 82, comma 2, del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) e 202 l. fall. nella parte in cui prevede che la dichiarazione giudiziale dello stato d’insolvenza successiva al decreto di sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa di una banca possa essere pronunciata anche dopo il decorso di un anno dalla data di emissione di tale decreto: con riferimento alla possibile divaricazione temporale tra momento di realizzazione della condotta materiale dei reati di bancarotta e momento consumativo di tali reati posta a fondamento di una delle eccezioni, il giudice delle leggi ha peraltro osservato che «si tratta di situazione consequenziale alla scelta discrezionale del legislatore di configurare la sentenza di fallimento (o di accertamento dello stato di insolvenza di impresa) o come elemento costitutivo del reato (secondo la prevalente giurisprudenza), o come condizione obiettiva del reato, ovvero come condizione per la produzione dell’evento costituito dalla lesione o messa in pericolo dell’interesse tutelato dalla norma penale (secondo diverse impostazioni della dottrina)», senza esprimere una preferenza per alcuna delle soluzioni interpretative prese in considerazione.
2.4 Critiche della dottrina
Secondo la dottrina prevalente (20), la concezione fin qui esposta lascia indeterminata la natura di un elemento della fattispecie ed è fonte di contrasto con il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale (art. 27, comma primo, Cost.) poiché dà corpo ad un’illiceità non riferibile al soggetto agente in quanto non coeva ai fatti di bancarotta, ma frutto del riverbero di un accadimento successivo (la sentenza dichiarativa di fallimento) che, non costituendo un effetto causale della condotta, non può neppure essere oggetto di rimprovero.
In particolare, si è osservato (21) che, dopo le sentenze della Corte costituzionale 23 marzo 1988, n. 364 e 28 settembre 1988, n. 1085, in cui si è affermato che tutti gli elementi più significativi della fattispecie devono essere imputabili soggettivamente all’autore del reato, la Corte costituzionale non potrebbe più, senza cadere in contraddizione, salvare dall’eventuale nuova censura di incostituzionalità le fattispecie di bancarotta secondo l’interpretazione datane dalla giurisprudenza di legittimità (22).
La dottrina prevalente, pertanto, sul presupposto che il disvalore penale dei fatti prefallimentari di bancarotta non è un riflesso retrospettivo del fallimento, ma si radica in una carica offensiva immanente rappresentata dalla violazione di regole gestionali poste a protezione delle ragioni creditorie, espressa nel divieto di porre in essere condotte, sul piano patrimoniale e documentale, atte a pregiudicare il soddisfacimento dei creditori, riconosce alla dichiarazione di fallimento nella bancarotta prefallimentare la natura di condizione obiettiva ed estrinseca di punibilità, vale a dire, secondo la preferibile interpretazione dell’art. 44 c.p., di evento, menzionato nella norma incriminatrice, che non contribuisce a descrivere l’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma, ma esprime solo una valutazione di opportunità in ordine all’inflizione della pena (23).
Si afferma (24), in particolare, che incisi come “è punito… se è dichiarato fallito, l’imprenditore…” (artt. 216, comma primo e 217, comma primo) ovvero “si applicano le pene stabilite nell’articolo 216” (e rispettivamente 217) “agli amministratori… di società dichiarate fallite”, ben si adeguano alla considerazione del fallimento come avvenimento futuro o incerto cui è subordinata la punibilità di comportamenti antidoverosi dei soggetti qualificati.
2.5 “Resistenze” della giurisprudenza
La giurisprudenza di legittimità ha peraltro progressivamente sottolineato con sempre maggior decisione come, per la configurabilità del dolo di bancarotta patrimoniale, sia necessaria la rappresentazione da parte dell’agente della pericolosità della condotta distrattiva, da intendersi come probabilità dell’effetto depressivo sulla garanzia patrimoniale che la stessa è in grado di determinare e, dunque, la rappresentazione del rischio di lesione degli interessi creditori tutelati dalla norma incriminatrice.
In tal senso si è, ad esempio, precisato che l’elemento psicologico della bancarotta patrimoniale, desumibile da tutte le componenti che caratterizzano la condotta dell’imputato, consisterebbe nel dolo generico, cioè nella consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alle finalità dell’impresa e di compiere atti che cagionino, o possano cagionare, danno ai creditori, e questo anche nel caso in cui l’agente, pur non perseguendo direttamente il risultato, tuttavia lo preveda e, ciò nonostante, agisca, consentendo, in tal modo, il suo realizzarsi (25). E in senso analogo si è anche sostenuto che non è concepibile la realizzazione di un reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale o documentale, che non si accompagni alla volontà deliberata o quanto meno all’accettazione del rischio che la condotta costituisca causa — unica o concorrente — del fallimento, che è elemento costitutivo del reato (26).
In definitiva l’orientamento della Corte si è oramai assestato verso una lettura della fattispecie prevista dal comma primo dell’art. 216 come reato di condotta e di pericolo, sorretto dal dolo generico, al cui oggetto rimarrebbe estranea non solo la sentenza dichiarativa di fallimento, ma anche solo lo stato d’insolvenza o il dissesto che ne costituiscono il presupposto (i due termini in tale contesto interpretativo vengono in realtà utilizzati sostanzialmente come sinonimi o al più come definitori del medesimo concetto dal punto di vista, rispettivamente, giuridico ed economico) (v. anche supra cap. 2 par. 2).
Non di meno, come detto, emerge un’elaborazione (non sempre esplicita e lineare, nonché singolarmente concentrata sul versante dell’elemento soggettivo) di questi concetti, tesa a prospettare la necessaria concretezza del pericolo generato dalla condotta illecita e la sua conseguente rappresentazione da parte dell’agente.
Elaborazione che può dirsi ispirata in qualche modo al principio di offensività ed all’esigenza di espungere dall’ambito applicativo della norma incriminatrice fatti di cui lo stesso agente non sarebbe in grado di prevedere l’effettiva carica lesiva, come, ad esempio, nel caso di distrazioni commesse in epoca assai antecedente rispetto alla declaratoria di fallimento e nel mentre l’impresa era florida.
2.6 Primi segnali di mutamento
Questo consolidato contesto interpretativo è stato incrinato da una pronunzia (27), la quale, pur non volendosi discostare dall’affermazione per cui la sentenza dichiarativa del fallimento è elemento costitutivo del reato, in adesione alle critiche espressa dalla dottrina, ne ha tratto la conseguenza per cui lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento costituirebbe l’evento dei reati di bancarotta e pertanto dovrebbe porsi in rapporto causale con la condotta dell’agente ed essere, altresì, oggetto del dolo.
Già si sono illustrate le ragioni per cui tale decisione non può ossa essere condivisa (v. supra cap. 2 par. 2) e come quelle successive non l’abbiano di fatto condivisa, ribadendo la natura di pericolo dei reati di bancarotta.
La stessa ha però in qualche modo innescato una riflessione nella giurisprudenza di legittimità sul ruolo svolto dalla dichiarazione di fallimento nella struttura dei suddetti reati.
In proposito è innanzi tutto necessario chiarire possibili dubbi classificatori. Per l’orientamento tradizionale, così come manifestatosi negli ultimi vent’anni, la declaratoria giudiziale del fallimento è, per l’appunto, “elemento costitutivo del reato”, giacché la sua ambigua qualificazione come “condizione di esistenza del reato” (28), che ancora riecheggia tralaticiamente in alcune pronunzie, rappresenta null’altro che il tentativo di riaccreditare (trattandosi di categoria già accantonata dai compilatori del codice penale) l’esistenza di un ipotetico tertium genus accanto agli elementi che definiscono il fatto tipico di reato ed alle condizioni di punibilità dello stesso, finalizzato ad allentare i vincoli di imputazione soggettiva e la cui praticabilità è stata messa in discussione dalle già menzionate pronunziedel 1988 della Corte costituzionale (v. supra sub e).
Se dunque l’instaurazione della concorsualità è elemento costitutivo appare quantomeno problematico negare che tale accadimento debba vantare un qualche collegamento soggettivo con l’agente, alla luce della giurisprudenza costituzionale testè evocata laddove si ritenga che la sentenza di fallimento concorra a definire l’effettivo disvalore penale di condotte altrimenti lecite.
All’originaria impostazione delle Sezioni Unite — per cui « la dichiarazione di fallimento inerisce all’attività antecedente dell’imprenditore, trasformandola in attività trasgressiva della norma penale » — ribadita successivamente anche in termini fors’anche più radicali attraverso l’affermazione che, ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta, i prelievi compiuti dall’imprenditore commerciale sono configurabili come illecite sottrazioni, poiché su di essi operi, con effetto ex tunc, la presunzione di volontaria distrazione in pregiudizio dei creditori (29), la giurisprudenza ha in realtà nel tempo preferito una posizione più sfumata, secondo la quale la sopravvenienza del fallimento renderebbe attuale il pericolo per gli interessi creditori comunque determinato dalle condotte enucleate dal comma primo dell’art. 216.
Si è in tal modo progressivamente rivelata l’esigenza di escludere che l’agente possa essere chiamato a rispondere penalmente per fatti privi di disvalore al momento in cui vengono commessi e che invece lo assumerebbero solo retrospettivamente in forza di un accadimento (la dichiarazione giudiziale del fallimento per l’appunto) successivo e indipendente dagli stessi (non essendo richiesto, come già chiarito, che tale dichiarazione rappresenti lo sviluppo in senso causale delle condotte punite, né l’obiettivo cui tende la volontà del loro autore).
In tal senso va quindi sottolineato come, sostanzialmente, nella sua evoluzione la giurisprudenza di legittimità sia giunta ad ammettere che, se la dichiarazione di fallimento attribuisce rilevanza penale alle condotte contemplate dall’art. 216 (essendo al pari di tutti gli elementi della fattispecie uno dei presupposti di tale rilevanza), non per questo può essergli attribuita anche un’efficacia — per di più retrospettiva — qualificante dei fatti di bancarotta sul piano dell’illiceità o addirittura della tipicità.
Si è insomma giunti a sostenere — a volte esplicitamente, altre implicitamente — che le condotte incriminate non sono prive di un autonomo disvalore, anche prima della declaratoria giudiziale del fallimento (v. supra cap. 2 par. 2).
2.7 Apparente revirement della giurisprudenza di legittimità
Questo genere di riflessioni ha portato recentemente ad un apparente revirement nella giurisprudenza di legittimità, la cui capacità di soppiantare l’orientamento consolidatosi in precedenza è probabilmente prematuro valutare, ancorché, più che determinare una repentina ed inaspettata frattura con quest’ultimo, sembra averne sviluppato le più recenti linee evolutive.
Una timida apertura alle tradizionali posizioni della dottrina si è innanzi tutto registrato in una già citata pronunzia delle Sezioni Unite della Cassazione (30), la quale ha affermato che la bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare «si perfeziona con la distrazione, mentre la punibilità della stessa è subordinata alla dichiarazione di fallimento, che, ovviamente, consistendo in una pronunzia giudiziaria, si pone come evento successivo e comunque esterno alla condotta stessa».
In maniera più esplicita e decisa, invece, la Suprema Corte, con riferimento alla fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale, è giunta da ultimo a qualificarela sentenza dichiarativa del fallimento come vera e propria condizione obiettiva estrinseca di punibilità (31).
In tal senso viene osservato che la qualificazione della dichiarazione di fallimento come elemento costitutivo “improprio” tradisce la difficoltà di giustificare l’irrilevanza dell’accertamento del nesso causale e psicologico tra la condotta dell’agente e la dichiarazione di fallimento e, soprattutto, di spiegarne la compatibilità con i principi costituzionali in materia di personalità della responsabilità penale.
In realtà, secondo la sentenza in esame, è necessario ribadire come il fallimento in quanto tale non costituisca oggetto di rimprovero per l’agente nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, essendo egli chiamato a rispondere della lesione dell’integrità del proprio patrimonio posto a garanzia dei creditori.
In tale ottica, l’imprenditore non può essere considerato «il dominus assoluto e incontrollato del patrimonio aziendale. Egli, pertanto, non ha una sorta di jus utendi et abutendi sui beni aziendali, i quali, viceversa, pur essendo strumentali al legittimo obiettivo del raggiungimento del profitto dell’imprenditore medesimo, sono finalisticamente vincolati, per così dire, “in negativo”, nel senso che degli stessi non può farsi un utilizzo che leda o metta in pericolo gli interessi» tutelati dall’art. 41 Cost.
In altre parole, la libertà di intrapresa è disciplinata dal legislatore nella consapevolezza della pluralità di interessi che vengono coinvolti, quando l’attività economica organizzata si alimenta del credito e implica una rilevante responsabilità sociale per l’intero sistema produttivo e lavorativo.
Da tali premesse discende, per i giudici di legittimità, « che l’offesa agli interessi patrimoniali dei creditori si realizza indubbiamente già con l’atto depauperativo dell’imprenditore » (32) e cioè (e per l’appunto) che il disvalore del fatto tipizzato si concentra nella condotta incriminata, come del resto testimonia la stessa disciplina prevista dal comma secondo dell’art. 238 sull’esercizio “anticipato” dell’azione penale.
PRECISAZIONE sull’art. 238
Non vi è dubbio che l’art. 238 non sia stato espressamente abrogato dal nuovo codice di rito e dalle relative norme di attuazione, coordinamento e transitorie.
È altrettanto evidente, peraltro, che l’interpretazione della norma deve essere adeguata ai principi del nuovo sistema processuale.
L’esercizio dell’azione penale si colloca, quale alternativa alla richiesta di archiviazione, solo al termine della fase delle indagini preliminari.
È inevitabile, pertanto, ritenere che l’art. 238 vada letto nel senso che al pubblico ministero, nei casi di cui al comma secondo, sia consentito dare inizio ad attività di indagine preliminare (con la conseguente adozione delle iniziative ritenute opportune) prima ancora che il tribunale abbia pronunciato la sentenza dichiarativa di fallimento.
Non sembra, invece, possibile che il pubblico ministero eserciti l’azione penale prima dell’anzidetta pronuncia in quanto, in tal caso, il giudice, investito della medesima, dovrebbe rilevare l’assenza di un elemento essenziale della fattispecie tipica.
Va rilevato, in ogni caso, che nell’ipotesi di cui all’art. 7 (richiamato dal comma secondo dell’art. 238) il pubblico ministero, nel momento in cui decide, sussistendone i presupposti, di dare corso ad attività di indagine, deve anche contestualmente richiedere il fallimento dell’imprenditore, fallimento che è ragionevole ritenere venga dichiarato nell’arco di breve spazio di tempo.
Situazione analoga viene a verificarsi per l’altra ipotesi delineata dal comma secondo dell’art. 238, dove già esiste un’istanza di fallimento presentata da un creditore.
Qualora il tribunale non dichiari il fallimento dell’imprenditore, il pubblico ministero sarà obbligato a richiedere l’archiviazione.
In definitiva la dichiarazione di fallimento non aggrava in alcun modo l’offesa che i creditori soffrono per effetto delle condotte dell’imprenditore, ma, anzi garantisce una più efficace protezione delle ragioni dei creditori stessi. (33).
Conseguentemente, la dichiarazione di fallimento, in quanto evento estraneo all’offesa tipica ed alla sfera di volizione dell’agente, costituirebbe per l’appunto una condizione obiettiva estrinseca di punibilità, funzionale a restringere l’area del penalmente illecito, imponendo la sanzione penale solo in quei casi nei quali alle condotte del debitore, di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua l’effettiva instaurazione della concorsualità.
In quanto tale la dichiarazione di fallimento fungerebbe dunque da filtro selettivo nel ricorso alla sanzione criminale per fatti pur (astrattamente) ritenuti meritevoli di pena. Ma, non concorrendo a definire il discrimine fra lecito ed illecito, non deve sottostare ad un’esigenza di determinatezza in funzione di garanzia della libertà (assicurata con la previsione di un’offesa dal contenuto tipico tassativamente definito), bensì in funzione della parità di trattamento tra gli autori del fatto illecito, la cui selezione repressiva non può porsi in contrasto con il principio d’uguaglianza (34).
La giurisprudenza sembra, dunque, affermare che dum condicio pendet il reato (condizionale) non esiste, facendo così rivivere l’idea che il reato è un fatto punibile per sua essenza, ragion per cui non può dirsi reato quel fatto cui non consegue la pena se non quando la condizione si avvera.
Insomma. avveramento della condizione e momento consumativo coincidono (come dimostrerebbe l’art. 158 c.p.), perché non può ritenersi consumato un reato prima che il fatto assuma rilevanza penale e il fatto assume rilevanza penale solo all’avveramento della condizione.
Resterebbe semmai da chiedersi il perché si qualifichi la condizione obiettiva di punibilità come “estrinseca”, dato che esterna al reato, nell’opinione della giurisprudenza in esame, non è, ma è assai più utile riflettere sulle conseguenze.
2.8 Prime riflessioni sulle conseguenze
Secondo il tradizionale orientamento della giurisprudenza — come accennato — per i fatti prefallimentari di bancarotta la sentenza dichiarativa del fallimento, quale ultimo atto che perfeziona il reato, determina luogo e tempo di commissione del medesimo (35).
Ne consegue:
— che, intervenuta la sentenza (anche non definitiva), i fatti ad essa successivi risultano indifferenti per la dimostrazione dell’esistenza del reato: in altre parole, gli esiti della procedura (in termini di realizzo, profittevole liquidazione, espletamento di azioni revocatorie, etc.) non costituiscono riferimento appropriato alla valutazione delle condotte incriminate;
— che la data della sentenza dichiarativa del fallimento segna il punto di riferimento per valutare l’applicabilità di amnistia, indulto, prescrizione, ecc. (36);
— che il luogo di consumazione della bancarotta è quello dove ha sede il tribunale che ha pronunciato la sentenza (37);
— che, ove vi siano più persone dichiarate fallite, anche in estensione rispetto ad un’originaria dichiarazione di fallimento, il momento consumativo è per ciascuno la data della « propria » sentenza (38); in tal senso, si è, ad esempio, affermato che, ai fini del reato di bancarotta, la sentenza dichiarativa di fallimento di una società occulta o di soci occulti dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore ritenuto inesattamente individuale, costituisce una pronuncia autonoma, non già meramente integrativa della prima, con efficacia ex nunc dal momento in cui è pronunciata e non già dalla data diversa del fallimento dell’imprenditore ritenuto inesattamente individuale (39) e che, nell’ipotesi di società in nome collettivo, il socio illimitatamente responsabile acquista la qualità di fallito non già nel momento in cui è emessa la sentenza dichiarativa di fallimento della società, ma allorché viene dichiarato il suo fallimento personale ed è soltanto dalla data di quest’ultimo che i fatti addebitabili al socio, ai quali la legge fallimentare ricollega responsabilità penale, acquistano natura di reato (40).
Gli illustrati principi, come detto, sono stati affermati presupponendo la qualificazione della sentenza dichiarativa del fallimento come elemento costitutivo del reato.
È peraltro necessario valutare la loro tenuta anche alla luce dell’alternativa soluzione elaborata dai recenti interventi giurisprudenziali di cui si è dato conto in precedenza. Esigenza di cui invero si è fatta carico anche la stessa pronunzia che ha riqualificato la declaratoria di fallimento come condizione estrinseca di punibilità (41).
Quanto alla prescrizione, alcuna conseguenza sul piano applicativo discende dal citato mutamento giurisprudenziale, poiché è lo stesso comma secondo dell’art. 158 c.p. a prevedere che, con specifico riferimento al reato condizionato, il relativo termine inizia a decorrere dal momento in cui si verifica la condizione da cui dipende la punibilità e quindi, nel nostro caso, proprio dalla pronunzia della sentenza di fallimento.
Dalla disposizione testé ricordata parte della dottrina e la sentenza citata (42) traggono più in generale una indicazione di ordine sistematico in merito all’individuazione del momento consumativo del reato condizionato, da identificarsi per l’appunto con quello dell’avveramento della condizione, in quanto momento in cui si perfeziona la fattispecie che la stessa condizione concorre a definire (43), con le conseguenti ricadute in merito all’applicazione degli altri istituti sostanziali (come l’amnistia e l’indulto) la cui operatività è in qualche misura influenzata dalla collocazione del tempus commissi delicti.
Con riguardo alla individuazione del locus commissi delicti, funzionale alla determinazione della competenza territoriale, si afferma come una volta stabilito che il reato si consuma al momento della pronunzia della declaratoria di fallimento, lo stesso non possa che coincidere con il luogo in cui tale pronunziamento è avvenuto, osservandosi come peraltro non mancherebbero indici che consentano di rinvenire nel sistema della legge fallimentare la volontà di radicare la competenza territoriale presso il tribunale del luogo nel quale è stato dichiarato il fallimento.
A parte riferimenti normativi non più attuali (come l’originario art. 16 che consentiva al tribunale, con la sentenza dichiarativa di fallimento o con successivo decreto, di ordinare la cattura del fallito, per poi comunicare il provvedimento al procuratore della Repubblica, chiamato a curarne l’esecuzione), soccorrerebbero in tal senso riferimenti impliciti (come l’art. 17, comma primo, che si raccorda al successivo art. 238 o quelli che si possono trarre dall’esigenza di concentrare nel medesimo circondario il luogo in cui devono essere depositate le scritture contabili e quello nel quale compiere l’accertamento dei fatti di penale rilevanza), tutti espressivi del medesimo principio di prossimità sul quale riposa la regola dettata dall’art. 8 c.p.p.
(3) V. Gazz. Uff. 6 aprile 1942, n. 82, 17.
(7) Cass., sez. un., 26 febbraio 2009, Rizzoli, cit.
(10) Cass., sez. V, 26 giugno 1990, n. 15850, Bordoni, Ced 185891 e in motivazione.
(11) Cass., sez. V, 22 novembre 2006, n. 523/07, Cito e altro, Ced 235694 e in motivazione.
(12) Cass., sez. V, 20 febbraio 2001, Martini, Ced 219269, in Cass. pen., 2002, 3872.
(14) Così Cass V, 26 febbraio 1986, Gesnelli, cit.
(17) C. cost. n. 110/1972 cit.
(19) C. cost. 22 luglio 2005 n. 301, www.giurcost.org.
(21) PERINI, in PERINI-DAWAN, op. cit., 40.
(27) Cass., sez. V, 24 settembre 2012, Corvetta e altri, cit.
(28) Che, come si è visto, è dovuta a Cass., sez. un., 25 gennaio 1958, Mezzo, cit.
(29) V. ad esempio Cass., sez. V, 17 marzo 1987, Navacchia, Ced 176627.
(30) Cass., sez. un., 31 marzo 2016, Passarelli, cit.
(31) Cass., sez. V, 8 febbraio 2017, n. 13910, Santoro, Ced 269389
(34) In tal senso viene richiamata nel testo della sentenza C. cost. 16 maggio 1989, n. 247.
(41) Cass., sez. V, 8 febbraio 2017, n. 13910, Santoro, cit.
(42) Cass., sez. V, 8 febbraio 2017, n. 13910, Santoro, cit.
La costruzione giurisprudenziale della bancarotta prefallimentare come reato condizionale a condotta realmente pericolosa per il bene giuridico tutelato
Renato Bricchetti
Sommario
1. Bancarotta fraudolenta prefallimentare e sentenza dichiarativa di fallimento nella più recente giurisprudenza di legittimità — 2. La bancarotta fraudolenta prefallimentare come reato di pericolo concreto nella più recente giurisprudenza di legittimità — 3. Alcune considerazioni critiche — 3.1. …in tema di offensività del fatto di bancarotta — 3.2. …in tema di sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità estrinseca — 3.3. …in materia di bancarotta riparata — 4. Considerazioni conclusive.
- Bancarotta fraudolenta prefallimentare e sentenza dichiarativa di fallimento nella più recente giurisprudenza di legittimità
Nei delitti di bancarotta fraudolenta prefallimentare (artt. 216, primo e terzo comma, ai quali rinviano gli artt. 222, 223, primo comma, e 227, del r.d. 16 marzo 1942 n. 267, di seguito L.F.) la sentenza dichiarativa di fallimento costituisce una “condizione obiettiva di punibilità estrinseca”, non un elemento costitutivo (improprio) o una condizione di esistenza del reato[1].
L’affermazione è in via di consolidamento: ormai si contano diverse pronunce della Suprema Corte[2]. Il nuovo indirizzo ha relegato in soffitta una risalente sentenza delle Sezioni Unite[3] e sessanta anni di pronunce “conformi”[4]; benché si tratti di «opinione non ancora del tutto condivisa»[5] appare chiaro che questa sulla natura della sentenza dichiarativa di fallimento – se condizione obiettiva di punibilità estrinseca o elemento costitutivo dei delitti di bancarotta[6] – è questione risolta con un’inversione di linea che non ha prodotto però, rispetto al passato, conseguenze pratiche diverse[7].
È utile un breve riepilogo delle ragioni e delle conseguenze dell’inversione.
La sentenza dichiarativa di fallimento è condizione obiettiva di punibilità – si afferma (con specifico riferimento alla bancarotta fraudolenta patrimoniale, ma, naturalmente, l’affermazione riguarda in generale la bancarotta prefallimentare) nelle citate pronunce – perché è:
– estranea all’offesa tipica, cioè all’interesse dei creditori alla conservazione da parte del debitore della garanzia patrimoniale;
– estranea alla sfera di volizione dell’agente: si pone, in altre parole, al di fuori della sfera di ricaduta degli elementi costitutivi del reato nel fuoco del dolo, sull’assunto che la tradizionale qualificazione della dichiarazione di fallimento come elemento costitutivo sarebbe incompatibile con il principio costituzionale in materia di personalità della responsabilità penale.
Offesa tipica e dolo della bancarotta prefallimentare vanno ricercati nelle condotte del debitore. L’offesa deve realizzarsi e il dolo deve sussistere già con l’atto depauperativo.
L’imprenditore – afferma la S.C. – non è il dominus assoluto e incontrollato del patrimonio dell’impresa e non può, pertanto, fare dei suoi beni un utilizzo che leda o metta in pericolo l’interesse dei creditori. In particolare, nel commettere fatti di bancarotta sui beni, l’imprenditore viola il vincolo di sostanziale indisponibilità “in negativo” che su di essi è impresso dall’essere preordinati al raggiungimento del profitto e al soddisfacimento degli interessi dei creditori, prima che si giunga alla “decozione conclamata”[8].
La dichiarazione di fallimento che eventualmente sopravvenga si limita a restringere l’area del penalmente illecito; la sanzione penale è imposta, in altre parole, solo nei casi in cui alle condotte segua la dichiarazione di fallimento[9].
La bancarotta non si esaurisce, dunque, nella condotta vietata ma «comprende altresì tutte le componenti essenziali che integrano la fattispecie ivi comprese le condizioni obiettive di punibilità non facenti parte del precetto»[10]. E si consuma allorquando tutti i predetti elementi vengano realizzati e nel luogo e nel momento in cui si realizza l’ultima componente (l’art. 158, comma secondo, c.p. dimostrerebbe «che è proprio il verificarsi della condizione obiettiva di punibilità ad assumere rilievo determinante ai fini della consumazione del reato»).
La giurisprudenza trae anche le conseguenze del nuovo corso in punto di luogo e tempo della commissione del reato, competenza territoriale, prescrizione e termine di efficacia dell’amnistia o dell’indulto, ritenendoli coincidere con il momento della sentenza di fallimento[11].
- La bancarotta fraudolenta prefallimentare come reato di pericolo concreto nella più recente giurisprudenza di legittimità
Alcune coeve pronunce si sono concentrate sul tema dell’offensività del fatto di bancarotta (trattato anche dalle sentenze sopra citate), dando vita ad affermazioni non meno importanti, specificamente riferite alla bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare.
Disinteressandosi dell’anzidetto revirement, hanno affermato in particolare che la bancarotta fraudolenta patrimoniale è reato di pericolo concreto in cui la condotta di depauperamento, incidendo negativamente sulla consistenza del patrimonio, deve risultare idonea a creare un pericolo per il soddisfacimento delle ragioni creditorie[12].
La valutazione della sussistenza del concreto pericolo «deve poggiare su criteri ex ante» in relazione alle caratteristiche complessive della condotta e della situazione finanziaria della società.
Il pericolo deve permanere fino all’epoca che precede l’apertura della procedura fallimentare.
Ai fini della configurazione della componente oggettiva (e anche di quella soggettiva) della fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale, ha valore fortemente indiziante l’avere agito nella “zona di rischio penale”, che è quella che in dottrina viene comunemente individuata come prossimità dello stato di insolvenza[13]; in altre parole, l’apprezzamento di uno stato di crisi, normalmente conosciuto dall’agente imprenditore, è destinato a orientare la “lettura” di ogni sua iniziativa di distacco dei beni nel senso dell’idoneità a creare un pericolo per l’interesse dei creditori sociali.
Quanto detto non esclude, tuttavia – si precisa – che il reato possa rimanere integrato da comportamenti anche antecedenti a tale fase di crisi della vita della azienda, a condizione però che questi presentino caratteristiche obiettive (si pensi all’operazione fittizia, alla distruzione o alla dissipazione) che, di regola, non richiedono particolari e ulteriori accertamenti per provare l’esposizione a pericolo del patrimonio e che risultino e permangano congruenti rispetto all’evento giuridico (esposizione a pericolo degli interessi della massa) che poi si addebita all’agente[14].
- Alcune considerazioni critiche
Provo a ricomporre le tessere del mosaico con una avvertenza preliminare.
Le considerazioni che seguono scontano la consapevolezza di doversi confrontare con una disciplina giuridica (il diritto penale fallimentare) che cento anni fa storica autorevole voce[15] considerava presentare: «una serie di singolarità tali, da rendere questo capitolo della scienza del diritto penale tra i più difficili ed oscuri» e con un tema – le condizioni obiettive di punibilità – che ha fatto dire ad altro insigne studioso: «Su nessun argomento della nostra disciplina regna, probabilmente, altrettanta confusione»[16].
Sono, quindi, riflessioni critiche che presuppongono un apprezzamento per gli sforzi che la giurisprudenza compie quotidianamente, nella progressiva tensione dinamica delle decisioni, alla ricerca di una “quadratura del cerchio” difficile da realizzare, forse una mission impossible se si pretende di applicare le categorie tradizionali del diritto penale.
Le riepilogate affermazioni sembrano peraltro contraddirsi, o comunque reciprocamente ignorarsi; parte di esse sembra, inoltre, discostarsi dalla lettera e dallo spirito delle disposizioni penali fallimentari.
3.1 – …in tema di offensività del fatto di bancarotta
Si afferma – come si è detto – che la bancarotta fraudolenta patrimoniale (prefallimentare) ha natura di reato di pericolo, nel senso che le condotte del debitore, incidendo negativamente sulla consistenza del patrimonio, devono risultare concretamente idonee a creare un pericolo per il soddisfacimento delle ragioni dei creditori, in altre parole esporre a concreto pericolo la garanzia di soddisfacimento delle loro ragioni.
Ebbene, quest’affermazione e quelle ad essa correlate (indicate al § 2) non sono, a mio avviso, pienamente condivisibili, ma soprattutto – come dirò nel successivo paragrafo – si decolorano alla luce della nuova costruzione proposta.
L’art. 216, primo comma, n. 1 e l’art. 223, primo comma, L.F. prevedono che le condotte integranti questo reato sono la distrazione, l’occultamento, la dissimulazione, la distruzione e la dissipazione dei beni dell’impresa, individuale o collettiva, nonché l’esposizione o il riconoscimento di passività inesistenti, queste ultime soltanto se realizzate “allo scopo di recare pregiudizio ai creditori”.
La S.C. sostiene trattarsi di un reato di pericolo concreto e specifica che le condotte anzidette sono penalmente rilevanti soltanto se generano un concreto pericolo di offesa al bene giuridico tutelato. Non solo, si rievoca anche – come si è visto – la necessità che si collochino nella “zona di rischio penale” o comunque in una situazione di crisi dell’impresa.
È nota la partizione tra reati di pericolo astratto e reati di pericolo concreto.
Il reato di pericolo astratto è quello nel quale è lo stesso legislatore a presumere, di regola sulla base di leggi di esperienza o di scienza, che determinate condotte sono, nella generalità dei casi, fonte di pericolo per il bene giuridico tutelato. Il giudice non è tenuto ad accertare la concreta sussistenza del pericolo, ma deve limitarsi ad accertare se sia stata posta in essere quella condotta che il legislatore ha ritenuto pericolosa in via generale ed astratta.
Il reato di pericolo concreto è, invece, quello in cui il giudice deve accertare se il bene giuridico è stato concretamente posto in pericolo. E deve farlo secondo lo schema della cd. prognosi postuma, riportandosi, cioè, idealmente al momento della condotta della cui pericolosità si tratta e chiedendosi se, in base alle circostanze esistenti in quel momento, vi era la probabilità, alla luce delle leggi di esperienza o di scienza, del verificarsi di una lesione.
La partizione esige una precisazione: talune condotte (che sembrano dar vita a “pericolo astratto”) sono descritte dal legislatore con termini così pregnanti da consentire, già sul piano letterale, la selezione come fatti penalmente rilevanti di soli comportamenti realmente offensivi.
E quest’ultima è, a mio avviso, la considerazione da cui muovere per una lettura delle norme incriminatrici della bancarotta prefallimentare.
La definizione (ormai consolidata nell’interpretazione della dottrina e della giurisprudenza di legittimità) delle condotte in termini di distrazione[17], occultamento[18], dissimulazione[19], distruzione[20] e dissipazione[21] dei beni consente di per sé la selezione come fatti penalmente rilevanti dei soli comportamenti realmente offensivi degli interessi patrimoniali dei creditori; in qualsiasi momento commessi[22], quindi, anche se realizzati quando ancora l’impresa non si trovava in un contesto di insolvenza, di prossima insolvenza o di crisi.
Le disposizioni in esame non consentono di circoscrivere la bancarotta richiedendo che le condotte siano realizzate in una situazione economica particolarmente critica.
Le condotte in questione, tra l’altro, spesso non si limitano a esporre a pericolo il bene giuridico, cioè a determinare la probabilità di una lesione, ma cagionano una effettiva lesione patrimoniale (in particolare le condotte di distrazione, distruzione e dissipazione)[23], come è confermato dal fatto che l’art. 219 L.F. prevede una circostanza aggravante se la condotta (il fatto di bancarotta) ha causato un danno patrimoniale di gravità rilevante e una circostanza attenuante se ha determinato un danno di speciale tenuità.
In sostanza nella bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare (per distrazione, occultamento, dissimulazione, distruzione e dissipazione dei beni) le condotte sono descritte dal legislatore in termini tali da consentire, già sul piano letterale, la selezione come fatti penalmente rilevanti di soli comportamenti realmente offensivi; sarà la, talora complessa, attività di accertamento del giudice a selezionare le condotte rilevanti, tenendo anche conto che le condotte dispositive del patrimonio sociale incidono su un bene disponibile (in quanto dell’imprenditore) o indisponibile nell’interesse dei soci (infedeltà patrimoniale), e a valutare l’esistenza del dolo alla luce del suo oggetto, cioè l’intrinseca pericolosità della condotta.
Questa lettura è confermata dal rilievo che solo con riguardo alle condotte di esposizione o riconoscimento di passività inesistenti il legislatore ha ritenuto di precisare che la condotta integra il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale soltanto se commessa al fine di arrecare pregiudizio ai creditori.
Ha considerato, dunque, la condotta “neutra” rispetto al bene giuridico tutelato e optato per la categoria del reato a dolo specifico (reato di pericolo con dolo di danno) in cui la locuzione “al fine” indica sia che la volontà dell’agente deve essere indirizzata a conseguire un certo risultato offensivo (nella specie, il “pregiudizio ai creditori”), sia l’oggettiva idoneità della condotta a cagionare detto risultato.
Anche in tal caso, dunque, il fatto di bancarotta (esposizione o riconoscimento di passività inesistenti) è completo non appena si verifica l’esposizione a pericolo dell’interesse tutelato; e il pericolo va accertato in concreto, nel senso che l’attitudine della condotta a provocare il risultato offensivo perseguito dall’agente (il pregiudizio ai creditori) deve essere valutata con prognosi da formularsi secondo le leggi dell’esperienza o della scienza e basata su tutte le circostanze presenti al momento dell’azione[24].
In conclusione, con riguardo alla bancarotta per esposizione o riconoscimento di passività inesistenti (a differenza di quanto si è detto per la bancarotta per distrazione, occultamento, dissimulazione, distruzione e dissipazione) è il dolo specifico a selezionare, nel genus delle condotte, quelle rispondenti al tipo, vale a dire le condotte che si presentano in concreto come obiettivamente idonee a condurre al risultato lesivo del bene protetto.
Se si osserva il reato di bancarotta fraudolenta documentale, posto a tutela dell’interesse alla trasparenza del patrimonio residuo e del movimento degli affari del debitore, indispensabile per individuare i beni suscettibili di realizzo e per ricostituire l’attivo mediante la selezione degli atti inefficaci o revocabili[25], si nota che il legislatore utilizza, per le stesse ragioni di cui si è detto con riguardo alla bancarotta fraudolenta patrimoniale, la stessa “tecnica” di affiancare un reato di pericolo con dolo generico ad un reato a dolo specificomma
L’art. 216, primo comma, n. 2 L.F. distingue, infatti, le condotte di sottrazione, distruzione o falsificazione dei libri o delle altre scritture contabili dalla tenuta degli stessi «in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari», ma richiede il dolo specifico dello «scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori» soltanto per le prime.
Per la bancarotta preferenziale, poi, le condotte, palesemente lecite o comunque “neutre”, dell’esecuzione di pagamenti o della simulazione di titoli di prelazione integrano il reato soltanto se realizzate allo «scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi».
La disposizione è posta a tutela del bene giuridico dell’interesse al trattamento paritetico dei creditori “in caso di insolvenza” (par condicio creditorum), il che giustifica l’affermazione che il disvalore penale, legato al carattere virtualmente preferenziale della condotta, si manifesta soltanto in un contesto di insolvenza o di prossimità ad essa perché solo allora «può esigersi dall’imprenditore un obbligo di astensione dal pagamento, rimproverandolo per non avere atteso l’intervento regolatorio della procedura fallimentare ed avere alterato l’ordine di soddisfazione delle ragioni creditorie»[26].
3.2 – …in tema di sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità estrinseca
Possiamo ora tornare al problema centrale che è la natura della sentenza dichiarativa di fallimento.
Afferma la più recente giurisprudenza trattarsi – come si è detto – di condizione obiettiva di punibilità estrinseca, distaccandosi dunque dall’orientamento tradizionale secondo il quale «la dichiarazione di fallimento, pur costituendo un elemento imprescindibile per la punibilità dei reati di bancarotta, si differenzia concettualmente dalle condizioni obiettive di punibilità vere e proprie perché […] queste presuppongono un reato già strutturalmente perfetto […], sotto l’aspetto oggettivo e soggettivo»[27].
Nondimeno nelle citate pronunce si legge che il momento consumativo coincide con il verificarsi della condizione obiettiva di punibilità, mentre – se si volesse seguire il ragionamento posto a base del precedente indirizzo, ispirato dalla tripartizione del reato (che esclude la punibilità dalle sue componenti) – il reato dovrebbe consumarsi con la realizzazione del fatto tipico e diventare punibile nel momento in cui è dichiarato il fallimento.
Le sentenze espressione del nuovo indirizzo giurisprudenziale affermano, invece, che dum condicio pendet il reato (condizionale) non esiste.
Viene così rivitalizzata l’idea che il reato è un fatto punibile per sua essenza, ragion per cui non può dirsi reato quel fatto cui non consegue la pena se non quando la condizione si avvera.
Verificarsi della condizione e momento consumativo coincidono – si precisa – perché non può ritenersi consumato un reato prima che il fatto assuma rilevanza penale e il fatto assume rilevanza penale solo all’avveramento della condizione.
Lo dimostrerebbe – si è detto – l’art. 158, secondo comma, c.p. che stabilisce, nel primo periodo, che «quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata».
Ora, se si conoscono le incertezze in ordine all’appartenenza delle condizioni di punibilità al reato (e non è, a mio avviso, necessario prendere posizione sul tema scivolosissimo della natura della punibilità), è tuttavia certo che l’art. 158 c.p. non dice, né presuppone quello che gli si è voluto far dire o presupporre. Se fosse stata così lineare la coincidenza tra momento consumativo del reato e momento del verificarsi della condizione non ci sarebbe stato bisogno alcuno di prevedere specificamente che la prescrizione del reato condizionale decorre dal verificarsi della condizione, dato che già il primo comma dell’art. 158 c.p. si apre con una disposizione che non lascia adito a dubbi: «Il termine della prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione»[28].
In ogni caso: visto che, secondo le pronunce più volte citate, la sentenza dichiarativa di fallimento è una condizione obiettiva di punibilità e il reato si consuma con la dichiarazione di fallimento, sembra inevitabile dedurne che, secondo la giurisprudenza in esame, la punibilità è una componente del reato, fatto umano, antigiuridico, colpevole e punibile[29].
In altre parole, la punibilità, costituita dall’insieme delle condizioni, ulteriori ed esterne rispetto al fatto antigiuridico e colpevole, che possono fondare (condizioni obiettive di punibilità) o escludere (cause di non punibilità) l’opportunità di punirlo[30] è l’ultimo elemento della struttura del reato.
La S.C. ripete più volte trattarsi di condizione “estrinseca”, implicitamente accreditando l’idea che sia “esterna” non al reato ma rispetto al fatto antigiuridico colpevole[31].
Andiamo oltre perché comunque questo schema consente di dare rilievo all’intrinseca pericolosità dell’antefatto, di per sé irrilevante penalmente, e selezionato sulla base della sentenza di fallimento.
Dunque, il fatto di bancarotta non è reato fino a quando non sopravviene la sentenza dichiarativa di fallimento.
La giurisprudenza in esame lo afferma esplicitamente: la rilevanza penale della condotta è posticipata al momento della sentenza dichiarativa di fallimento, fermo restando – aggiungerei – che i fatti di potenziale bancarotta impropria potrebbero integrare fattispecie diverse come l’appropriazione indebita o come quelle previste da talune disposizioni penali societarie quali, ad es., l’indebita restituzione di conferimenti, l’illegale distribuzione di utili[32], ecc.
Se, dunque, reato non c’è, tutto quanto si è detto nel precedente paragrafo sul fatto che ci si trovi in presenza di un reato di pericolo concreto perde significato.
La bancarotta fraudolenta prefallimentare è, infatti, costruita dalla giurisprudenza in esame come reato condizionale, a condotta realmente pericolosa. Condotta il cui disvalore individua ed esaurisce il contenuto offensivo del fatto ma non ha rilevanza penale e, in particolare, non segna il momento consumativo del reato.
È la sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità che lo completa e ne segna il momento consumativo.
La consumazione non si ha, dunque, quando si realizza la condotta offensiva ed anzi – si afferma – l’offesa deve permanere fino al momento della sentenza dichiarativa di fallimento.
In quel momento cessa. Ma cessa – è arduo disconoscerlo – perché il pericolo per le ragioni dei creditori si trasforma in lesione effettiva; la condotta, fino a lì penalmente irrilevante o rilevante a diverso titolo, diventa fatto di bancarotta prefallimentare.
Non sembra pertinente, quindi, l’affermazione secondo cui «la dichiarazione di fallimento non aggrava in alcun modo l’offesa che i creditori soffrono per effetto delle condotte dell’imprenditore; anzi, se mai, garantisce una più efficace protezione delle ragioni dei creditori stessi»[33].
È proprio nel momento della sentenza dichiarativa di fallimento, invece, che, di regola, il pericolo che caratterizza la condotta si trasforma in effettiva lesione per i creditori (in particolare per quelli chirografari) perché l’avvenuta sottrazione di beni diminuisce il patrimonio che rappresenta la garanzia del soddisfacimento delle obbligazioni sicché con la liquidazione saranno pagati in “moneta fallimentare”[34].
La sentenza dichiarativa di fallimento, dunque, risulta estranea alla dimensione intrinsecamente offensiva del fatto in senso stretto, ma connota, attraverso la persistenza dell’offesa che si trasforma in danno per i creditori, la gravità della fattispecie delittuosa[35] (o, nella bancarotta impropria prefallimentare, la maggiore gravità della fattispecie delittuosa rispetto agli eventuali diversi reati integrati dalle condotte (in particolare – come si è detto – appropriazione indebita e reati societari).
C’è però una verità che tutto il resto assorbe e che dimostra che il nuovo indirizzo è assai meno rivoluzionario di quel che appare.
Se nel 1958 la presa di posizione delle Sezioni unite fu determinata dall’esigenza di dare “solidità” ai criteri del tempo e soprattutto del luogo di consumazione delle bancarotte prefallimentari (si riteneva invero che, qualificando la sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità estrinseca, il locus commissi delicti, ai fini dell’individuazione della competenza per territorio, sarebbe stato individuato in quello – o, peggio, in quelli – della realizzazione della condotta o della pluralità di condotte, non necessariamente coincidente con la sede del Tribunale competente), oggi le cose non sono cambiate dato che la motivazione delle recenti pronunce che qualificano la sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità estrinseca è comunque palesemente diretta a garantire la medesima “solidità” a tempo e luogo di consumazione del reato.
Così come non è cambiata la lettura, adeguata al nuovo codice di procedura penale, dell’art. 238, secondo comma, L.F. che continua a consentire, in determinati casi, di iniziare le indagini preliminari quando il reato non è ancora integrato in tutte le sue componenti[36].
Viene da pensare che sia stata lungimirante la Corte costituzionale, nel non lontano 2005[37], nell’affermare: «Quanto alla possibile divaricazione temporale tra momento di realizzazione della condotta materiale dei reati di bancarotta e momento consumativo di tali reati, si tratta di situazione consequenziale alla scelta discrezionale del legislatore di configurare la sentenza di fallimento (o di accertamento dello stato di insolvenza di impresa) o come elemento costitutivo del reato (secondo la prevalente giurisprudenza), o come condizione obiettiva del reato, ovvero come condizione per la produzione dell’evento costituito dalla lesione o messa in pericolo dell’interesse tutelato dalla norma penale (secondo diverse impostazioni della dottrina)». La Corte costituzionale mostrava pertanto una distaccata indifferenza rispetto alla catalogazione della sentenza dichiarativa di fallimento nei reati di bancarotta. E questa indifferenza la Corte di cassazione ha, in alcune recenti decisioni[38], ritenute controcorrente rispetto al nuovo filone[39], trasformato in sostanziale ininfluenza della qualificazione.
3.3 – … in materia di bancarotta riparata
Si afferma – come si è detto – che l’offesa insita nella condotta deve persistere fino alla sentenza dichiarativa di fallimento (perché l’agente sia meritevole di pena).
L’affermazione serve a giustificare una figura di creazione giurisprudenziale: la riparazione della bancarotta[40].
La bancarotta può essere “riparata”, con attività antitetiche rispetto alla condotta penalmente illecita che restaurino post factum l’offesa tipica (e ciò vale per patrimoniale, documentale e preferenziale)[41], fino a che non sia intervenuta la sentenza dichiarativa di fallimento.
Non è, a ben vedere, la bancarotta ad essere riparata ma è riparato il pericolo o il danno derivante dalla condotta (purché si tenga presente che dalla condotta potrebbe essere conseguito uno squilibrio patrimoniale o finanziario non sanabile con la mera restituzione del tantundem), in modo tale che, al momento della sentenza dichiarativa di fallimento, quel fatto non integrerà bancarotta.
La costruzione è fondata sulla sopravvenienza di un «comportamento di segno opposto ritenuto idoneo a reintegrare la funzione di garanzia patrimoniale prima che intervenga il dissesto, destinato a sfociare nel fallimento»[42].
Certo, se si fosse seguito il ragionamento posto a base del precedente indirizzo (implicitamente fondato sulla ripartizione del reato), se si fosse in altre parole ritenuto che il reato si consuma con la realizzazione del fatto tipico e diventa punibile con la sentenza dichiarativa di fallimento, la riparazione della bancarotta avrebbe agito quale causa sopravvenuta di non punibilità (una causa che esclude la punibilità anticipando quella che la fonda). E il problema sarebbe stato ben più consistente, atteso che detta causa di non punibilità non avrebbe avuto il benché minimo aggancio normativo, neppure per il profilo dell’analogia, che peraltro si sarebbe scontrata con la natura eccezionale delle disposizioni che contemplano le cause di non punibilità dei reati[43].
- Considerazioni conclusive
L’inversione di rotta era inevitabile. Era ormai opinione comune, o comunque molto diffusa, che non si potesse continuare a proporre una struttura della bancarotta prefallimentare che si riteneva in contrasto con l’art. 27 Cost.
Sono però affiorati alcuni nodi interpretativi ma districarli sembra inutile e forse impossibile.
Non resta che conviverci, sperando che non vadano ad incidere sull’interesse che il sistema penale fallimentare (che attende dal 2005 un adeguamento al riformato diritto delle procedure concorsuali) continui a funzionare, e continuare a lavorare su questa “condizione obiettiva” e sugli altri punti nevralgici del sistema alla ricerca di una costruzione meno sofferente.
Abbandoniamo in particolare l’idea (il concetto non vale – come sopra si è accennato – per la bancarotta preferenziale) che il fatto di bancarotta debba collocarsi in una “zona di rischio” o come altro la si voglia chiamare; il risultato è quello di impoverire, attraverso un’interpretazione arbitraria, la risposta penale.
La condotta che pone realmente in pericolo la consistenza della garanzia dei creditori può essere commessa in qualunque momento della vita dell’impresa e i suoi effetti pregiudizievoli vanno rimossi prima della sentenza dichiarativa di fallimento con eliminazione degli eventuali danni provocati; altrimenti quella condotta è un fatto di bancarotta se l’imprenditore è dichiarato fallito.
Non mi sembra più il caso, inoltre, una volta accettata l’idea che la bancarotta prefallimentare sia un reato condizionale che si realizza al momento della sentenza dichiarativa di fallimento, di dissertare di reato di pericolo, astratto o concreto, o di reato di danno; si tratta solo di limitarsi ad essere rigorosi nell’accertamento della reale pericolosità della condotta per i beni giuridici tutelati e di valutare l’esistenza del dolo alla luce del suo oggetto, l’intrinseca pericolosità della condotta.
Sentenza dichiarativa di fallimento come momento di consumazione della bancarotta prefallimentare e Tribunale che l’ha emessa come giudice competente per territorio continueranno ad essere gli unici aspetti “intoccabili” in nome del funzionamento del sistema, anche se per molti studiosi della materia si tratta di “bocconi amari” da deglutire.
SUCCESSIVA
Sez. 5, Sentenza n. 40477 del 18/5/2018, RV273800
Presidente: Vessichelli
Reati di bancarotta – Momento consumativo – Individuazione – Conseguenze in tema di applicazione o di revoca dell’indulto – Ragioni.
In tema di indulto, per determinarne il tempo di applicazione o di revoca, deve farsi riferimento alla data della sentenza dichiarativa di fallimento. (In motivazione, la Corte ha precisato che la consumazione dei reati di bancarotta coincide con la pronuncia della sentenza di fallimento, ancorché la condotta, commissiva od omissiva, si sia esaurita anteriormente, in quanto detta sentenza ha natura di elemento costitutivo del reato).
Dalla motivazione
Quanto alla qualificazione della sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo del reato, piuttosto che come condizione obiettiva di punibilità, va detto, per quanto di rilievo in questa sede, che il Collegio aderisce all’orientamento secondo cui, in tema di bancarotta, la dichiarazione di fallimento è un elemento costitutivo del reato e non una condizione oggettiva di punibilità; pertanto, il reato si perfeziona in tutti i suoi elementi costitutivi solo nel caso in cui il soggetto, che abbia commesso anche in precedenza attività di sottrazione dei beni aziendali, sia dichiarato fallito (Sez. 5, 9/12/2014, dep. 23/4/2015, Caprara ed altri, RV 263244; Sez. 5, n. 48739 del 14/10/2014, Grillo Luigi, RV 261299; Sez. 5, n. 26548 del 19/3/2014, Nauner, RV 260477; Sez. 1, sentenza n. 1825 del 6/11/2006, Iacobucci, RV 235793; Sez. 1, n. 4859 del 27/10/1994, dep. 17/1/1995, Ferrari, RV 200019).
Come noto, un diverso, più recente, orientamento giurisprudenziale ha affermato, invece, che la dichiarazione di fallimento, ponendosi come evento 10 estraneo all’offesa tipica e alla sfera di volizione dell’agente, costituisce condizione obiettiva di punibilità, che circoscrive l’area di illiceità penale alle sole ipotesi nelle quali alle condotte del debitore – di per sé offensive degli interessi dei creditori in quanto espongono a pericolo la garanzia di soddisfacimento delle loro ragioni – segue la dichiarazione di fallimento (Sez. 5, n. 53184 del 12/10/2017, Fontana, RV 271590; Sez. 5, n. 4400 del 6/10/2017, dep. 30/1/2018, Cragnotti ed altri, RV 272256; Sez. 5, n. 13910 del 08/2/2017, Santoro, RV 269388). Nell’economia del presente ricorso non è di immediata rilevanza l’ulteriore approfondimento della problematica, se non in riferimento al profilo dell’indulto, in tal sede rilevante.
A tale proposito va ricordato che proprio la sentenza Santoro, citata, ha osservato: “Quanto poi ai profili dell’amnistia e dell’indulto (art. 79, comma terzo, Cost., che si sovrappone agli artt. 151, comma terzo e 174, comma terzo, c.p.), l’unitaria considerazione degli istituti e il fatto che, come puntualmente rilevato in dottrina, anche l’amnistia, che pure costituisce causa di estinzione del reato, ha riguardo non all’aspetto offensivo di quest’ultimo, ma alla sua punibilità, giustificano la conclusione in base alla quale assume valore determinante il momento del verificarsi della condizione obiettiva di punibilità (e anche questa conclusione è coerente con i risultati raggiunti dalla giurisprudenza di questa Corte: v. Sez. 5, n. 7814 del 22/3/1999, Di Maio, RV 213867).”
Ne discende, quindi, secondo l’impostazione della detta pronuncia, che, operando l’indulto come causa estintiva della pena, la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua natura di provvedimento giurisdizionale – natura che non muta, sia che la si qualifichi elemento costitutivo del reato di bancarotta prefallimentare, sia che la si qualifichi condizione obiettiva di punibilità – e, come tale, costituisce il riferimento cronologico necessario al fine di valutare l’applicazione o meno dell’indulto.
L’affermazione contenuta nella sentenza Santoro, in realtà, si fonda – come emerge testualmente – sul richiamo alla sentenza Di Maio, a sua volta ascrivibile ad un orientamento della giurisprudenza di questa Corte che, ancorché in epoca non recentissima, ha affrontato il profilo inerente l’incidenza della sentenza dichiarativa di fallimento rispetto al termine di efficacia dell’amnistia o dell’indulto.
In particolare, la Sez. 5, sentenza n. 7814 del 22/3/1999, Di Maio ed altri, RV 213867, in motivazione, ha rilevato che: “Già con S.U. 25.1.58 (Castagno, Giust. pen. 1958, II, 513, nota), si è stabilito che la dichiarazione di fallimento è elemento costitutivo dei delitti di bancarotta. Da allora la giurisprudenza è costante (cfr. sez. V, 28.1.76, Galli; idem 9.6.87, Piromallo, CED, RV 176143; sez. I, 17.1.95, Ferrari, proprio in in materia di indulto; id. RV 200019 e 25.6.96, RV 205.164).
In sintesi, il tempo di commissione dei reati di cui agli artt. 216, 217, 223 e 224 L.F., giusto l’art. 238 è quello che decorre dalla pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, e questo è il tempo che va rapportato al termine di efficacia dell’amnistia o dell’indulto, se non altrimenti specificato dalla legge di previsione.
L’assunto teorico che la dichiarazione di fallimento è da considerarsi condizione obiettiva di punibilità, non sposta il problema.
Difatti, parte della dottrina ritiene che la condizione obiettiva di punibilità, seppure estranea al fatto (condotta, evento in senso proprio, elemento psicologico), è elemento costitutivo del reato, di cui la punibilità è carattere indefettibile.
Altra distingue gli elementi essenziali della norma penale da quelli costitutivi di reato, e include tra i primi le condizioni previste dall’art. 44 CP. Ma non offre un’alternativa alla regola, ancorata al dato positivo di cui all’art. 158 CP, che quando è prevista una condizione obiettiva di punibilità, il tempo di consumazione del reato si computa a far data dal suo verificarsi.”
Anche in precedenza era stato affermato che “Il momento consumativo dei reati di bancarotta si perfeziona all’atto della pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, ancorché la condotta, commissiva od omissiva, si sia esaurita anteriormente, in quanto la sentenza di fallimento rappresenta elemento costitutivo del reato di bancarotta, e non condizione oggettiva di punibilità. Ne consegue che, in materia di applicazione o di revoca dell’indulto, è alla data della sentenza dichiarativa di fallimento che occorre far riferimento, essendo del tutto ininfluente che la condotta sia cessata in epoca anteriore” (Sez. 1, sentenza n. 2392 del 11/4/1996, P.G. in proc. Magnini, RV 205164), ed ancor prima Sez. 1, sentenza n. 4859 del 27/10/1994, dep. 17/1/1995, Ferrari, RV 20019, e Sez. 5, n. 2487 del 9/12/1982, dep. 22/3/1983, Stabile, RV 158009, avevano qualificato la sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo del reato, ritenendosi ininfluente la data di sottrazione dei beni dell’impresa, ai fini della consumazione del reato, dovendosi, invece, ritenere concretizzata la fattispecie penale prevista dalla normativa fallimentare solo quando il reato è completo di tutti i suoi elementi costitutivi, essendo altrimenti irrilevante, ai fini della realizzazione della fattispecie penale, la mera sottrazione dei beni, prima dell’intervento della sentenza dichiarativa di fallimento; pertanto, a quello specifico momento deve farsi riferimento per verificare se sia applicabile un provvedimento di amnistia o indulto, tenuto conto del termine di efficacia del beneficio.
In realtà la considerazione, contenuta nella motivazione della sentenza Di Maio, citata, rinvia alle divergenti posizioni assunte dalla dottrina dell’epoca circa la qualificazione della condizione obiettiva di punibilità rispetto agli elementi essenziali del reato, dando atto – come si evince dalla motivazione della sentenza, in precedenza citata – di come parte della dottrina stessa tendesse ad assimilare la menzionata condizione all’alveo degli elementi costitutivi del reato.
In tal senso si era espressa anche giurisprudenza di legittimità ancor più risalente, che aveva ancorato il momento consumativo dei reati, la cui punibilità sia dalla legge subordinata ad una condizione, concomitante o successiva alla esecuzione del fatto – ad eccezione delle condizioni aventi natura estrinseca, quali le condizioni di procedibilità, querela, richiesta ed istanza – al verificarsi della condizione stessa (Sez. 1, ordinanza n. 888 del 11/5/1973, Tintinero, RV 124696).
La medesima pronuncia, inoltre, aveva affermato come il reato non si esaurisca unicamente nella condotta umana imposta o vietata, comprendendo, altresì, tutti gli elementi essenziali che compongono la fattispecie, ivi comprese le condizioni obiettive non facenti parte del precetto; ne consegue che il reato stesso si consuma allorquando tutti i predetti elementi vengono realizzati, nel luogo e nel momento in cui si realizza l’ultima componente.
In particolare, inoltre, quanto al ruolo svolto dalla condizione di punibilità nell’economia del reato, era stato affermato che esso risulta essere rivelatore del bene giuridico che si è voluto tutelare, la cui lesione o messa in pericolo fa scattare la punibilità della condotta tipica, portando a compimento la previsione legislativa (Sez. 1, ordinanza n. 888 del 11/5/1973, Tintinero, RV 124697, 124698).
In realtà, la nozione di condizione obiettiva di punibilità risulta del tutto sfuggente, sia perché l’art. 44 c.p. non ne fornisce una definizione, sia perché gli stessi lavori preparatori risultano assolutamente poco chiari in merito, il che ha consentito il proliferare, in dottrina, di contrastanti punti di vista, direttamente proporzionali all’elasticità del concetto, attraendo la categoria della condizione obiettiva di punibilità nell’alveo degli elementi funzionali all’integrazione del reato, come rilevato anche dalla giurisprudenza sin qui citata.
Tuttavia, l’art. 44 c,p. si riferisce chiaramente alla “punibilità del reato”, per cui appare più coerente con il dettato normativo ritenere che la condizione obiettiva di punibilità sia richiesta al fine di rendere applicabile la pena, a fronte di un reato ontologicamente sussistente e perfetto nei suoi elementi essenziali; al contrario, se si volesse ritenere la condizione di punibilità essenziale per la sussistenza del reato, la disposizione normativa avrebbe parlato di “punibilità del fatto”.
Ne discende che per detta ragione si ritiene di non condividere l’orientamento secondo cui la sentenza dichiarativa di fallimento sia una condizione obiettiva di punibilità, proprio in quanto il reato fallimentare, in assenza della sentenza dichiarativa di fallimento, non può essere considerato ontologicamente integrato in tutte le sue componenti essenziali. In tal senso, peraltro, si erano espresse anche le Sez. U, sentenza n. 2 del 1958, dep. 25/1/1958, Mezzo, RV 098004, secondo cui “La dichiarazione di fallimento, rispetto ai fatti di bancarotta che siano anteriori alla sua pronuncia, costituisce una condizione di esistenza del reato, oltre a determinare la punibilità. Pertanto, si differenzia concettualmente dalla condizione obiettiva di punibilità, perché mentre queste presuppongono un reato già perfetto oggettivamente e soggettivamente, essa inerisce, invece, così intimamente alla struttura del reato da qualificare quei fatti, i quali, come fatti di bancarotta sarebbero pena/mente irrilevanti fuori del fallimento. Segnando la dichiarazione di fallimento il momento consumativo del reato di bancarotta, e cioè il momento in cui si realizza la fattispecie penale, ne discende, che ove essa sia successiva alla data di applicazione di un decreto di amnistia, detto beneficio è inoperante per il reato di bancarotta semplice, non potendosi ritenere estinto per amnistia un reato che non esista nel momento in cui questa è intervenuta.”
Del tutto chiaramente, quindi, detta pronuncia aveva attratto la sentenza dichiarativa di fallimento nell’area degli elementi costitutivi del reato di bancarotta, pur attribuendo ad essa rilievo determinante ai fini della punibilità della fattispecie, benché non in quanto elemento estraneo alla struttura del reato, ma proprio in quanto elemento qualificante i fatti; proprio in ciò, quindi, la sentenza dichiarativa di fallimento si differenzia, secondo le Sezioni Unite Mezzo, dalla condizione obiettiva di punibilità, la cui nozione si colloca a valle di un reato strutturalmente completo in tutte le sue componenti.
La medesima pronuncia, inoltre, aveva chiarito che “La condizione obiettiva di punibilità, quali che siano le incertezze in ordine alla esatta nozione della stessa, risponde alla caratteristica di non fare parte dell’insieme degli elementi necessari per la esistenza del reato, questo inteso come fatto lesivo di un interesse penalmente protetto.” (Sez. U, sentenza n. 2 del 1958, dep. 25/1/1958, RV 098005).
Come in precedenza ricordato, sul solco della citata pronuncia — quanto alla qualificazione della sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo del reato e non come condizione obiettiva di punibilità si è collocata la successiva giurisprudenza delle Sezioni semplici (Sez. 5, n. 478 del 8/5/1968, Giarraffa, RV 108678; Sez. 1, ordinanza n. 374 del 20/2/1973, Alessandrini, RV 124661; Sez. 5, n. 9567 del 16/5/1975, Trauchida, RV 130944; Sez. 5, n. 1484 del 9/11/1981, dep. 15/2/1982, Canalicchio, RV 152239; Sez. 5, n. 11237 del 12/10/1984, Caporaso, RV 167158, precisando che la precedente elencazione comprende unicamente le sentenze che hanno affrontato la qualificazione della pronuncia di fallimento in riferimento al profilo concernente l’applicazione dell’amnistia e dell’indulto), sino al più recente orientamento di segno contrario, inaugurato dalla sentenza Santoro, citata.
Le Sezioni Unite, a loro volta, non sono tornate ex professo sull’argomento, se si eccettuano i passaggi motivazionali contenuti in Sez. U, n. 19601 del 28/2/2008, Niccoli, RV 239398, ed in Sez. U, n. 24468 del 26/2/2009, Rizzoli, RV 243587, che hanno ribadito l’orientamento delle Sez. U Mezzo quanto alla natura di elemento costitutivo della bancarotta in riferimento alla sentenza dichiarativa di fallimento ed ai provvedimenti alla stessa equiparati.
Più di recente, infine, va segnalato lo snodo motivazionale contenuto nelle Sez. U n. 22474 del 31/3/2016, Passarelli, RV 266804, secondo cui “i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualsiasi momento essi siano stati commessi e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza. Non si richiede alcun nesso (causale o psichico) tra la condotta dell’autore e il dissesto dell’impresa, essendo sufficiente che l’agente abbia cagionato il depauperamento dell’impresa destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività (tra le più recenti: Sez. 5, n. 47616 del 17/7/2014, Simone, RV 261683).
La condotta, in altre parole, si perfeziona con la distrazione, mentre la punibilità della stessa è subordinata alla dichiarazione di fallimento, che, ovviamente, consistendo in una pronunzia giudiziaria, si pone come evento successivo (in caso, appunto, di bancarotta distrattiva prefallimentare) e comunque esterno alla condotta stessa.”
Detta argomentazione appare, evidentemente, orientata nel senso di qualificare la sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità, benché, tuttavia, la questione sottoposta all’esame del massimo consesso di questa Corte, nel caso in esame, non fosse, specificamente, la natura della sentenza dichiarativa di fallimento.
La presente sede processuale non rende possibile investire della questione le Sezioni Unite, attesa la sostanziale irrilevanza del profilo in esame, stante la possibilità di affrontare e risolvere per altra via, come visto, il motivo di ricorso concernente la possibilità di applicare l’indulto al caso in esame.
Ciò che preme sottolineare, in ogni caso, è come l’aspetto relativo all’applicabilità dell’amnistia e dell’indulto ai reati di bancarotta, vada tenuto distinto da quello relativo alla decorrenza del termine di prescrizione del reato, non potendo trarsi dalla disposizione di cui all’art. 158 c.p. alcun elemento significativo per poter qualificare la sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo del reato ovvero come condizione obiettiva di punibilità.
Al contrario, il fatto che per il reato consumato il termine di prescrizione decorra dal momento stesso della sua integrazione, ossia dal perfezionamento del reato in tutti i suoi elementi essenziali – e quindi, nel caso della bancarotta prefallimentare, dal momento in cui interviene la sentenza dichiarativa di fallimento – dovrebbe costituire ulteriore elemento a sostegno della tesi tradizionale in riferimento alla natura della sentenza dichiarativa di fallimento, proprio in quanto il comma successivo della medesima norma – secondo cui ” Quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata” – in realtà costituisce un argomento a favore della estraneità della condizione obiettiva di punibilità dalla struttura degli elementi essenziali del reato. In caso contrario, infatti, la norma sarebbe stata del tutto superflua, laddove la necessità di specificare che la condizione obiettiva di punibilità vada considerata al fine di individuare il termine di decorrenza della prescrizione, costituisce la dimostrazione che, in assenza di detta disposizione, la rilevanza della condizione obiettiva di punibilità sarebbe stata del tutto ininfluente in riferimento al decorso del termine di prescrizione, in quanto sarebbe stata applicata la disciplina generale di cui al comma primo dell’art. 158 c.p.
In tal senso, quindi, il Collegio ritiene che non possa condividersi la motivazione della sentenza Di Maio, citata, che traeva dall’art. 158 c.p. un argomento per ritenere che la condizione obiettiva di punibilità fosse da collocare nella categoria, lato sensu, degli elementi essenziali del reato. Il motivo di ricorso concernente la mancata applicazione dell’indulto, da parte della sentenza impugnata, va, pertanto, rigettato.
Premessi cenni sulle cause di non punibilità in senso stretto, tratti il candidato dell’incidenza sul reato-base, nell’ambito del rapporto di presupposizione tra reati, delle cause che escludono la punibilità del reato presupposto, con particolare riferimento alla calunnia, al favoreggiamento e alla ricettazione.
Schema
- Cenni sulle cause di non punibilità in senso stretto
- Rapporto di presupposizione tra reati: incidenza sul reato-base delle cause che escludono la punibilità del reato presupposto
- Incidenza sulla calunnia delle cause che escludono la punibilità del reato oggetto della falsa incolpazione
- Incidenza sul favoreggiamento delle cause che escludono la punibilità del reato commesso
- Incidenza sulla ricettazione delle cause che escludono la punibilità del reato da cui provengono il denaro o le cose ricettate
Premessi cenni sulle cause di non punibilità in senso stretto, dite della diffamazione a mezzo stampa del parlamentare, dei limiti di operatività della insindacabilità parlamentare e dell’estensibilità della stessa al direttore del periodico.
SCHEMA
- Cenni sulle cause di non punibilità in senso stretto
- Diffamazione a mezzo stampa del parlamentare
- Limiti di operatività della insindacabilità parlamentare
- Inquadramento sistematico dell’immunità
- La punibilità del direttore del periodico per il reato omissivo di evento di cui all’art. 57 c.p.
Le cd. soglie di punibilità nel diritto penale dell’economia. Inquadramento sistematico e conseguenze di ordine pratico.
La causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto in relazione alle fattispecie con soglie di punibilità.
omissis
[1] Una sintesi della dottrina sul tema della natura giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento, può vedersi in R. BRICCHETTI, Commento all’art. 216 L.F., in Leggi penali complementari, a cura di T. PADOVANI, Milano, 2007; tra gli ultimi studi in materia anteriori alle sentenze in esame v. G. COCCO, Il ruolo delle procedure concorsuali e l’evento dannoso nella bancarotta, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2014, 67; F. MUCCIARELLI, La bancarotta distrattiva è reato d’evento?, in Dir. pen. e proc., 2013, 443.
[2] La prima è stata Cass. V, 8 febbraio 2017, n. 13910, Santoro, RV 269388, già oggetto di numerose note: F. MUCCIARELLI, Una rivoluzione riformatrice della Cassazione: la dichiarazione giudiziale d’insolvenza è condizione obiettiva di punibilità della bancarotta prefallimentare, in Soc., 2017, 897; A. ROSSI, La sentenza dichiarativa di fallimento quale condizione obiettiva di punibilità nelle bancherotte prefallimentari: “pace fatta” tra giurisprudenza e dottrina? in Giur. it., 2017, 1679; L. BETTIOL, Bancarotta e reati fallimentari, bancarotta fraudolenta patrimoniale, in Foro it., 2017, II, 366; A. CHIBELLI, Il ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento nei delitti di bancarotta pre-fallimentare: l’atteso “revirement” della cassazione, in Cass. pen., 2017, 2205; E. FASSI, Il “revirement” della Corte di cassazione: la sentenza dichiarativa di fallimento è condizione obiettiva di punibilità per il reato di bancarotta fraudolenta pre-fallimentare, in Cass. pen., 2017, 2226; N. PISANI, La sentenza dichiarativa di fallimento ha natura di condizione obiettiva di punibilità estrinseca nella bancarotta fraudolenta prefallimentare: un apparente revirement della Cassazione, in Dir. pen. e proc., 2017, 1158; M.N. MASULLO, La sentenza dichiarativa di fallimento è condizione obiettiva di punibilità: quando affermare la verità non costa nulla, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2017, 1151; E. RECCIA, Il mutato orientamento della cassazione: la dichiarazione di fallimento è una condizione obiettiva di punibilità estrinseca, in www.penalecontemporaneo,it, 24 gennaio 2018. Sono seguite Cass. V, 12 ottobre 2017, n. 53184, Fontana, RV 271590; Cass. V, 6 ottobre 2017, Cragnotti, n. 4400/18, RV 272256; Cass. V, 17 maggio 2016, n. 992/18, Bonofiglio, RV 271920.
[3] Cass. S.U., 25 gennaio 1958, n. 2, Mezzo, RV 098004, nella quale si legge che, a differenza delle condizioni obiettive di punibilità, che presuppongono un reato già strutturalmente perfetto, la sentenza dichiarativa di fallimento costituisce una condizione di esistenza del reato o, per meglio dire, un elemento al cui concorso è collegata l’esistenza del reato, relativamente ai fatti commissivi od omissivi anteriori alla sua pronuncia.
[4] Tra le quali Cass. S.U., 15 luglio 2010, n. 36551, Carelli, in motivazione: «Il reato, con riferimento alle manovre dirette a tale scopo, si perfeziona con la dichiarazione di fallimento, elemento costitutivo del reato stesso, con la conseguenza che le successive e ulteriori iniziative non esercitano alcuna influenza sull’illecito, ormai realizzato in tutti i suoi elementi strutturali, e non determinano una sorta di progressione criminosa, che ne sposta temporalmente in avanti la consumazione. Conclusivamente, la condotta dell’imputato alla quale deve darsi, ai fini che qui interessano, esclusivo rilievo è quella esauritasi anteriormente alla dichiarazione di fallimento e concretizzatasi … nella distrazione, a proprio vantaggio, di denaro della società amministrata, condotta che ha finito con l’assumere il carattere dell’illiceità penale, più esattamente quello della bancarotta patrimoniale prefallimentare, nel momento in cui, con la constatazione giudiziale dello stato d’insolvenza, si è accertata la lesione arrecata ai diritti dei creditori …»; Cass. S.U., 26 febbraio 2009, n. 24468, Rizzoli, in motivazione: «La giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte è schierata nel senso che il decreto di ammissione all’amministrazione controllata ripete, nell’ambito della corrispondente fattispecie di bancarotta, la stessa natura e gli stessi effetti della sentenza dichiarativa di fallimento ed integra, pertanto, un elemento costitutivo del reato e non già una mera condizione obiettiva di punibilità, presupponendo questa un reato già strutturalmente perfetto, sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo. È solo per effetto dell’ammissione all’amministrazione controllata che determinate condotte del ceto gestorio della società si connotano come bancarotta ed è al momento di tale configurazione che va relazionata l’applicazione di determinati istituti sostanziali e processuali, quali la prescrizione, l’indulto, la competenza per territorio (… S.U. 25/1/1958, Mezzo …). Tale orientamento giurisprudenziale, che queste Sezioni Unite condividono e non hanno ragioni per disattenderlo, trova – peraltro – riscontro anche nelle sentenze della Corte Costituzionale n. 110 del 1972, n. 190 del 1972, n. 146 del 1982. Deve quindi riassuntivamente affermarsi sul punto, evocando la concezione belinghiana del fatto tipico (tatbestand), che questo racchiude «l’insieme o la somma degli elementi che incarnano il volto di una specifica figura di reato», ivi compresi i così detti elementi normativi che, instaurando una stretta relazione giuridica con la condotta, partecipano alla descrizione della medesima fattispecie e rimangono imprescindibilmente inseriti nel suo nucleo essenziale: è il caso dell’amministrazione controllata, elemento normativo interno alla fattispecie incriminatrice in esame».
[5] In termini, la stessa relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione sulla giurisprudenza penale del 2017, in www.cortedicassazione.it.
[6] Autorevoli studiosi hanno parlato di “rivoluzione” (MUCCIARELLI, cit.) ma vi è anche chi ritiene che il revirement sia apparente (PISANI, cit.) o che la pronuncia sia «meno audace (negli effetti) di quanto possa prima facie sembrare» (MASULLO, cit.).
[7] Come d’altra parte riconosciuto dalla stessa Cass. V, 8 febbraio 2017, Santoro, cit.: «la qualificazione della dichiarazione di fallimento come condizione estrinseca di punibilità (…) non è suscettibile di determinare alcun significativo mutamento nelle regole operative sin qui seguite».
[8] Così Cass. V, 8 febbraio 2017, Santoro, cit. È concetto che accomuna molti studiosi della materia. Scriveva, ad esempio, U. GIULIANI BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, Milano, 1999, 182, inserendosi in un contesto omogeneo che coinvolgeva la migliore dottrina del tempo e la giurisprudenza di legittimità, civile e penale: «Dal momento in cui sorge l’obbligazione, il debitore non è più pienamente libero nella sfera patrimoniale perché deve avere riguardo anche delle esigenze degli aventi diritto: è contemporaneamente proprietario pleno jure dei propri beni non necessari al soddisfacimento delle ragioni dei creditori, ma anche amministratore di una parte del suo patrimonio per conto degli aventi diritto».
[9] Così ancora Cass. V, 8 febbraio 2017, Santoro, cit., la cui motivazione, con riguardo alla condizione obiettiva di punibilità, ripercorre quella di Corte cost., 16 maggio 1989, n. 247, che ritenne condizione obiettiva di punibilità la “misura rilevante” dell’alterazione dei risultati della dichiarazione nella frode fiscale di cui all’art. 4, primo comma, n. 7 del d.l. 10 luglio 1982, n. 429, conv. dalla l. 7 agosto 1982, n. 516.
[10] Concetto – come si ribadirà – dal sapore confuso (ritenere componente “essenziale” del reato la condizione obiettiva di punibilità) che Cass. V, 8 febbraio 2017, Santoro, cit., mutua da Cass. I, 11 maggio 1973, n. 888, Tintinero, RV 124698.
[11] Cass. V, 8 febbraio 2017, Santoro, cit., RV 269389.
[12] V. Cass. V, 24 marzo 2017, n. 17819, Palitta, RV 269562, annotata da R. BRICCHETTI, La bancarotta fraudolenta patrimoniale come reato di pericolo concreto, in ilpenalista.it, 8 maggio 2017; G. CHIARAVIGLIO, Superato il divario tra teoria e prassi a proposito del rapporto tra bancarotta e dichiarazione di fallimento? in Riv. dott. comm., 2017, 456; C. SANTORIELLO, Spunti per una delimitazione degli atti di gestione del patrimonio aziendale qualificabili come bancarotta fraudolenta, in Soc., 2017, 1030; U. PIOLETTI, Danno, pericolo e condotta tipica nella bancarotta, in Dir. pen. e proc., 2018, 384. È seguita, conforme, Cass. V, 14 settembre 2017, n. 50081, Zazzini, RV 271437. Del descritto pericolo come “evento giuridico del reato” parla Cass. S.U., 27 gennaio 2011, n. 21039, p.m. in proc. Loy, in motivazione.
[13] P. NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 1955, 29, collocava l’inizio della «zona di rischio penale» nel sorgere dell’insolvenza, ritenendo che la repressione penale interessi «quegli atti che, per loro natura e per direzione soggettiva, tendono a creare una situazione di squilibrio tale tra attivo e passivo che, in rapporto alla capacità dell’impresa e alle normali vicende commerciali, si può ritenere insuperabile».
[14] Cass. V, 24 marzo 2017, Palitta, cit., in motivazione. V. altresì Cass. V, 23 giugno 2017, n. 38396, Sgaramella, RV 270763, secondo cui sia l’accertamento dell’elemento oggettivo della concreta pericolosità della condotta, sia l’accertamento del dolo devono valorizzare la ricerca di “indici di fraudolenza”.
[15] A. ROCCO, Il fallimento. Teoria generale ed origine storica, Napoli, 1917, 114.
[16] G. DELITALA, Il “fatto” nella teoria generale del reato, Padova, 1930, 75.
[17] Distrazione è il distacco di un bene dal patrimonio con destinazione a scopo diverso da quello doveroso e, comunque, ingiustificabile per gli interessi dei creditori dell’impresa (in particolare, senza adeguata contropartita).
[18] Occultamento è il nascondimento materiale di un bene consistente nel trasferirlo da un luogo conosciuto o conoscibile in un luogo ignoto e non individuabile con gli ordinari criteri di ricerca, in modo da ostacolarne la reperibilità e, quindi, l’apprensione da parte degli organi della procedura concorsuale.
[19] Dissimulazione è il nascondimento effettuato con mezzi giuridici di un bene in modo da ostacolarne la reperibilità e, quindi, l’apprensione da parte degli organi della procedura concorsuale.
[20] Distruzione è l’annullamento fisico del bene, che rileva non in sé ma in quanto comporti l’annullamento del suo valore economicomma
[21] Dissipazione è la dispersione, lo sperpero di beni privi di qualsivoglia elemento di razionalità valutabile nell’ottica delle esigenze dell’impresa ed estranei a ragionevoli esigenze di vita dell’imprenditore.
[22] Come non a caso affermato da Cass. S.U., 31 marzo 2016, n. 22474, Passarelli, RV 266804.
[23] F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, II, I reati fallimentari, Milano, 1998, 53, parlava di fatti accomunati dal connotato della diminuzione, fittizia od effettiva, del patrimonio del debitore (in particolare, i fatti di distruzione e di dissipazione costituiscono ipotesi di effettiva diminuzione patrimoniale perché con essi i beni escono definitivamente dal patrimonio e dalla disponibilità del debitore: i fatti di distrazione, occultamento, dissimulazione configurano, invece, ipotesi di diminuzione patrimoniale fittizia in quanto, in seguito ad essi, malgrado l’apparenza dai medesimi creata, i beni continuano a far parte del patrimonio del debitore, con conseguente possibilità, mediante l’esercizio delle opportune iniziative, di recuperarli alla massa attiva); PEDRAZZI, cit., parlava di atti inducenti o aggravanti un disequilibrio tra attivo e passivo, con il concreto rischio che le ragioni dei creditori vengano soddisfatte, attraverso l’esecuzione concorsuale, in misura inferiore a quello assicurato dalle originarie risorse.
[24] Il reato a dolo specifico, d’altra parte, è strutturalmente analogo al delitto tentato, ma è – come si è soliti dire – “a consumazione anticipata”.
[25] C. PEDRAZZI in C. PEDRAZZI – F. SGUBBI, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, in Commentario Scialoja-Branca, La legge fallimentare a cura di F. Galgano: artt. 216-227, Bologna-Roma, 1995, 93.
[26] Così MASULLO, cit.
[27] Cass. S.U., 25 gennaio 1958, Mezzo, cit.
[28] D. SPURI, Alcune osservazioni sulla natura giuridica delle condizioni di punibilità, in Cass. pen., 2013, 1172, afferma che «la disciplina del secondo comma, primo periodo, dell’art. 158 c.p. verrebbe in tal modo sottoposta ad interpretatio abrogans, posto che sarebbe sufficiente già il riferimento, contenuto nel primo comma della suddetta disposizione, alla “consumazione” del reato». Nello stesso senso MASULLO, cit.
[29] Conclusione affacciata anche da F. MUCCIARELLI, Sentenza dichiarativa di fallimento e bancarotta: davvero incolmabile il divario fra teoria e prassi?, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., n. 4/2015, 390.
[30] Così G. MARINUCCI – E. DOLCINI – G.L. GATTA, Manuale di diritto penale. Parte generale, VII ed., Milano, 2018.
[31] Di condizione obiettiva di punibilità “intrinseca” parla, invece, F. D’ALESSANDRO, Le disposizioni penali della legge fallimentare, in AA.VV., Commentario alla legge fallimentare. Disposizioni penali e saggi conclusivi, Milano, 2010, richiamandosi a P. NUVOLONE, cit.
[32] V. tra le ultime Cass. V, 15 febbraio 2018, n. 25651, Pessotto, con nota di C. SANTORIELLO, Bancarotta fraudolenta e appropriazione indebita: la cassazione prende atto delle indicazioni della corte costituzionale, in ilpenalista.it, 31 luglio 2018; F. MUCCIARELLI, Bancarotta distrattiva, appropriazione indebita e ne bis in idem: una decisione della corte di cassazione innovativa e coerente con i principi costituzionali e convenzionali, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., n. 6/2018, 269; Cass. V, 14 novembre 2016, n. 14522/17, Signori, in un caso di illegale distribuzione di utili.
[33] Così Cass. V, 8 febbraio 2017, Santoro, cit.
[34] Così anche PISANI, cit.; CHIARAVIGLIO, cit.
[35] COCCO, cit., è categorico nell’affermare: «In effetti, il riconoscimento che la apertura di una procedura concorsuale segna il momento in cui si verificano gli effetti dannosi delle condotte bancarottiere, indispensabili per la sussistenza dell’illecito, pone la pietra tombale sulla asserzione della natura solo pericolosa delle condotte bancarottiere, le quali sono in realtà descritte dalla previsione incriminatrice come dannose con riferimento agli effetti sussistenti al momento della apertura della procedura concorsuale. Certo, le condotte bancarottiere quando vengono poste in essere sono, e non possono che essere, esclusivamente pericolose, ma non perché non provochino un effetto dannoso sul patrimonio dell’impresa, che debbono necessariamente provocare – nient’altro vuol dire distrarre, distruggere, etc. –, bensì perché la loro rilevanza penale dipende dagli effetti dannosi sui diritti dei creditori che si verificano esclusivamente con l’insolvenza dell’impresa e l’apertura delle procedure concorsuali».
[36] «238. (Esercizio dell’azione penale per reati in materia di fallimento). – Per i reati previsti negli articoli 216, 217, 223 e 224 l’azione penale è esercitata dopo la comunicazione della sentenza dichiarativa di fallimento di cui all’art. 17.
È iniziata anche prima nel caso previsto dall’articolo 7 e in ogni altro in cui concorrano gravi motivi e già esista o sia contemporaneamente presentata domanda per ottenere la dichiarazione suddetta».
La disposizione va interpretata alla luce del nuovo codice di procedura penale che ha collocato l’esercizio dell’azione penale al termine della fase delle indagini preliminari. Tenendo conto dei principi ricavabili dagli artt. 326 e 405 c.p.p. l’espressione «l’azione penale è esercitata o iniziata» potrebbe essere sostituita dalla locuzione «le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale sono svolte».
[37] Corte cost., 22 luglio 2005, n. 301.
[38] Cass. V, 24 marzo 2017, Palitta, cit.; Cass. V, 11 maggio 2017, n. 45288, Gianesini, in motivazione; Cass. V, 23 giugno 2017, Sgaramella, cit. in motivazione.
[39] RECCIA, cit.
[40] Da ultimo in argomento, P. CHARAVIGLIO, Danno e pericolo nella bancarotta cd. “riparata”, nota a Cass. V, 22 ottobre 2014, n. 6408/15, in www.penalecontemporaneo.it, 29 maggio 2015.
[41] Cfr., tra le altre, tutte riguardanti casi di bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare Cass. V, 24 novembre 2017, n. 57759, Liparoti, RV 271922; Cass. V, 20 ottobre 2015, n. 4790/16, B.G., RV 266025.
[42] Così MASULLO, cit.
[43] Cfr., sul punto, MARINUCCI – DOLCINI – GATTA, cit.