di Diego D’Amico

Sommario:

  1. Premessa: l’importanza dei beni culturali e la difficoltà di pervenire ad una definizione univoca; 2. La legislazione interna sui beni culturali: dal periodo monarchico al Codice dei beni culturali e del paesaggio; 3. La tutela e la circolazione dei beni culturali nell’Unione europea; 4. Gli effetti positivi e negativi della globalizzazione sui beni culturali; 5. Esigenze a confronto: conservazione, protezione e valorizzazione dei beni culturali; 6. Il diritto amministrativo quale possibile soluzione agli effetti nefasti della globalizzazione. La tensione tra interessi pubblici e privati; 7. La glocalizzazione dei beni culturali.

La globalizzazione quindi è buona soltanto

se è anche glocale. Se non misconosce

le origini, le appartenenze e l’autenticità dei

beni culturali.

 

  1. Monorchio, Prefazione a D. Siclari, Il valore dei beni culturali nell’epoca glocale. Ovvero per una globalizzazione che non sommerga le culture locali, Reggio Calabria, Laruffa Editore, 2013, p. 15.

 

 

  1. Premessa: l’importanza dei beni culturali e la difficolta di pervenire ad una definizione univoca.

Nel corso degli ultimi decenni i beni culturali sono divenuti protagonisti della scena giuridica, economica e politica mondiale.

Tale fenomeno potrebbe spiegarsi analizzando le molteplici declinazioni del rapporto sussistente tra il fenomeno della globalizzazione tout court e l’evoluzione del diritto dei beni culturali, nonché nella crescita della “domanda” di cultura, avvenuta in maniera esponenziale, e pressoché uniforme, soprattutto nel ‘vecchio continente’[1].

Sino a qualche lustro addietro, infatti, le visite ai musei e ai principali siti archeologici venivano effettuate da una ristretta cerchia di fruitori; oggigiorno, invece, la situazione è profondamente mutata. Ciò è confermato dai dati relativi alle visite effettuate nei più grandi e famosi musei del mondo, così come vi è stato un notevole aumento delle persone che affermano di provare interesse per i beni culturali[2].

Il Louvre, ad esempio, contava quasi cinque milioni di visitatori nel 2000; tuttavia, dopo quasi vent’anni i visitatori sono quasi raddoppiati, nonostante la lieve inclinazione determinata dal terrorismo, comportando, oltre alla massimizzazione dei proventi derivanti dall’acquisto dei biglietti da visita, anche numerosi investimenti nel settore.

Detta circostanza rimarca la complessità della materia, con particolare riferimento al bilanciamento degli interessi sottesi ai beni culturali e, inoltre, alle difficoltà di pervenire ad una definizione univoca, in quanto essi hanno carattere “liminale”, poiché per poterli definire è indispensabile ricorrere ad altre discipline[3].

Da un punto di vista squisitamente tecnico, i beni culturali – secondo l’accezione più comune – costituiscono “testimonianze di cultura e civiltà che superano i confini di una specifica identità nazionale”[4]; si tratta, nello specifico, di tracce di epoche e tradizioni talvolta molto risalenti e sicuramente irripetibili.

La caratteristica peculiare del patrimonio culturale, dunque, è rappresentata dalla sua capacità di superare i confini delle singole nazioni, di essere scevro da caratterizzazioni locali e particolari, ponendosi, pertanto, quale valore inestimabile per l’umanità intera.

L’esigenza di predisporre una disciplina specifica e articolata sui beni culturali non è, però, una novità di questo secolo; infatti, già nell’epoca romana si posero una serie di attività volte a dare dignitas e decoro agli edifici di culto e civili più importanti dell’urbe.

Nel Medioevo, infatti, alcuni Papi, quali Sisto IV e Leone X, o Signori, come, ad esempio, Lorenzo de ‘Medici’, avvertirono la necessità di adottare norme finalizzate alla tutela delle opere d’arte e delle “cose rare” esistenti già in quell’epoca[5].

Nonostante ciò, è solo nel corso del XVIII secolo che la sensibilità e la relativa disciplina si arricchirono di maggiori elementi pregnanti e interessanti.

Non sorprende, pertanto, che l’espressione “bene culturale” sia stata utilizzata per la prima volta nella Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato del 1954, al solo fine di arginare quella pericolosa prassi – che si era diffusa durante la seconda guerra mondiale – consistente nel distruggere, deturpare o impossessarsi delle opere d’arte presenti nel territorio nemico[6].

In tale sede, unitamente alla Convenzione citata fu adottato un Protocollo, aggiornato poi nel 1999, con il quale veniva vietato “il compimento di qualsiasi atto di ostilità diretto contro monumenti storici, opere d’arte o luoghi di culto, che costituiscano patrimonio culturale o spirituale dei popoli, nonché l’uso di tali oggetti come base di azioni militari, come anche il coinvolgimento di essi nel corso di azioni di rappresaglia”[7].

Premesso ciò, al fine di procedere nella presente disamina, risulta necessario qualche breve cenno sulla legislazione italiana in materia di beni culturali e paesaggistici, passando poi in rassegna la scarna disciplina europea di riferimento; infine, saranno esaminati, senza pretese di esaustività, alcuni degli effetti che la globalizzazione ha prodotto e sta producendo ancora sui beni de quibus.

Si auspica, pertanto, di fornire qualche informazione utile a comprendere la funzione che svolge il diritto amministrativo nel difficile ruolo di equilibrio tra le numerose esigenze, spesso di vario genere, che riguardano il patrimonio culturale e artistico, concludendo, poi, con il sostegno di una gestione dei beni culturali a livello locale, soluzione questa che, ad avviso della recente dottrina[8], sembrerebbe assicurare una valorizzazione più che ottimale per tali beni.

 

  1. La legislazione interna sui beni culturali: dal periodo monarchico al Codice dei beni culturali e del paesaggio.

La nostra Penisola, definita illo tempore “Bel paese”, è senza ombra di dubbio lo Stato che più di ogni altro può vantare – al suo interno – il maggior numero di siti culturali; la sua tradizione millenaria, oggetto di domini stranieri per molti secoli, ha fatto sì che si formasse un crogiolo unico ed eterogeneo di civiltà e tradizioni.

L’Italia, infatti, si colloca come un unicum culturale nel panorama globale e per tale ragione è doveroso riprendere le celebri parole di Goethe, che al termine del suo viaggio in Italia, stupefatto dal constatare l’enorme presenza di beni culturali, ha affermato che se in altre nazioni bisogna spostarsi per cercare i beni di interesse artistico, nel caso dell’Italia se ne rimane “sazi” a causa dalla loro frequenza e quantità[9].

La consapevolezza di possedere un tesoro di tale portata, tuttavia, ha prodotto – quale conseguenza negativa – una certa superficialità, incompetenza e inefficienza nell’amministrare e valorizzare tale patrimonio e, pertanto, la normativa adottata non è riuscita ad arginare – man mano – queste distorsioni, rivelandosi spesso inefficace.

La legislazione sui beni culturali, quale branca del diritto pubblico, ha subito, inoltre, frequenti modifiche nel corso degli anni.

Procedendo con ordine, il primo testo organico di riferimento fu varato nel 1904 (R.D. n. 431/1904), dopo una quantità di tentativi andati deserti (sui quali si erano impegnati, fra gli altri, i ministri Francesco De Sanctis, Pasquale Villari, Michele Coppino, Ruggero Bonghi). Successivamente sono state adottate la legge Rava-Rosadi del 1909 e le leggi Bottai del 1939 (nn.1089 e 1497), rispettivamente sulle “cose d’arte” e sulle “bellezze naturali”, costituite – per lo più – in forza d’elenchi ben determinati tesi a circoscrivere in questi termini l’azione di tutela piuttosto che la fruibilità collettiva.

Agli albori della Repubblica, invece, il legislatore inserì tra i principi fondamentali della Carta costituzionale anche la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico.

L’art. 9 della Costituzione, infatti, testualmente recita: la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione.

Si evince, dunque, che l’espressione bene culturale non era presente nei lavori licenziati dalla Costituente, in quanto tale locuzione, così come quella di ambiente, non erano presenti nella semantica giuridica[10].

Il loro ingresso nella Costituzione, poi, è stato determinato dalla riforma del 2001, che ne ha fatto uso per sciogliere il nodo sulle competenze tra Stato e Regioni[11].

L’articolo 117 della Carta fondamentale, infatti, ha devoluto alla legislazione statale la tutela – in via esclusiva – dei beni culturali unitamente alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema; alla legislazione regionale, invece, è stata attribuita la potestà concorrente sulla valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali.

Per quanto concerne la competenza esclusiva dello Stato nella tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, occorre precisare che tale competenza deve essere intesa non come materia bensì come valore trasversale, e sebbene spetti allo Stato rendere uniforme la disciplina sull’intero territorio nazionale, la competenza regionale, inerente la cura degli interessi locali, non resta del tutto esclusa (Corte cost., decisione n. 407 del 2002).

Con riferimento al contesto internazionale, invece, nel secondo dopoguerra si è registrata una cospicua diffusione di accordi, tra cui, in particolare, la citata Convenzione sui beni culturali e ambientali del 1954, che ancora oggi resta la fonte più importante sul punto. La Convenzione dell’Aja, una volta entrata in vigore, ha prodotto i suoi effetti anche in Italia, seppur con notevole ritardo; infatti, solo nel 1974, ben venti anni dopo l’adozione del Protocollo in seno alla Convenzione, è stato istituito il Ministero per i beni culturali e ambientali, confluito dal 1998 nel Ministero per i Beni e le attività culturali, oggi Ministero di Beni e delle Attività Culturali e del Turismo – MIBACT, la cui funzione precipua è quella di tutelare i beni di proprietà dello Stato affinché questi non divengano oggetto di interessi illeciti o subiscano danni e deterioramenti irreparabili[12].

Successivamente, vi è stata l’adozione del Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 112, che all’art. 148 conteneva una definizione di bene culturale riecheggiante quella definita dalla Commissione Franceschini, e, inoltre, in virtù della delega contenuta all’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352, il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, adottato con Decreto Legislativo 29 ottobre 1999, n. 490[13].

Tali decreti, a seguito dell’evoluzione normativa internazionale sui beni culturali, sono stati poi abrogati nel 2004 con l’entrata in vigore dell’attuale Codice dei beni culturali e del paesaggio, Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, che – in attuazione della delega contenuta all’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137 – ha reintrodotto il sistema degli elenchi.

Nel dettaglio, l’art. 2 del Codice considera beni culturali “le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico”, insieme alle “altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”.

Vi è, dunque, un doppio rinvio: da un lato agli elenchi contenuti negli artt. 10 e 11 del Codice (elenchi fin troppo dettagliati); dall’altro, invece, il rinvio a ogni singola legge (statale o regionale) che esplicitamente o in modo implicito designi talune res come beni culturali.

Nell’attuale contesto normativo, il bene culturale esibisce un duplice attributo: in primo luogo, la pubblicità, ossia la vocazione pubblica del bene, rivolto in ogni caso a soddisfare un interesse proprio della generalità dei consociati. In questo senso, non ha rilievo – se non per l’intensità del vincolo – la circostanza che esso ricada in mani pubbliche o appartenga a un privato proprietario; infatti, anche i beni privati soggiacciono a misure di tutela, in quanto devono poter essere fruiti senza eccessivi ostacoli per la collettività, tanto che la proprietà privata sui beni culturali determina una sorta di ‘disgrazia giuridica’, a causa della compressione che ne consegue sulla loro libera disponibilità[14].

Il secondo attributo, poi, risiede nella materialità del bene, nel suo legame necessario con le cose. Echeggia qui un’eredità della Commissione Franceschini, peraltro abbandonata dalle leggi varate durante gli anni 90’ del secolo scorso, poi rispolverata attraverso il Codice del 2004 sulla scia di alcune pronunzie del Supremo Consesso amministrativo.

Da ciò ne discende la distinzione fra beni e attività culturali: i primi incorporati in una res, i secondi svincolati da ogni corpo fisico che ne trattenga l’essenza, com’è il caso delle tradizioni orali, del teatro, della musica.

Venendo all’attuale definizione di “bene culturale”, oggi presente nel nostro ordinamento, traspare l’evoluzione della definizione partorita dalla Commissione Franceschini[15], in base alla quale “sono beni culturali le cose immobili e mobili che […] rappresentano un interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”.

Tale Commissione, oltre a varare l’ingresso dei beni culturali in un documento ufficiale, ha forgiato una definizione scevra da mere enumerazioni sino ad allora utilizzate, in quanto essa non tanto si preoccupò dell’incompletezza, quanto ebbe presente l’obsolescenza di ogni criterio fondato sulle enumerazioni anche con valore esemplificativo[16].

Detta caratteristica, indubbiamente, ha avuto il merito di sancire il superamento della concezione immobile e perenne dell’arte, della scienza e della cultura in genere nel nostro ordinamento, inserendovi, al contempo, anche il concetto della “storicità” della cultura e dei beni culturali unitamente all’unico criterio di tutela basato sulla mera esteticità elitaria, allargandone così la platea dei destinatari[17].

Preso atto della definizione attuale di bene culturale, necessita, a tal punto, evidenziare che l’ordinamento giuridico italiano è improntato sulla tutela e sulla valorizzazione, i cui tratti distintivi sono stati delineati dalla Corte costituzionale (decisione n. 9 del 2004), in base alla quale la prima è diretta principalmente a impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale, ed è significativo che la prima attività in cui si sostanzia la tutela è quella del riconoscere il bene culturale come tale; la seconda, invece, è diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale, sicché anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest’ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione ed ai modi di questa.

In riferimento alla citata interpretazione da parte del Giudice delle leggi, la tutela e la valorizzazione dei beni culturali risultano essere inscindibili: l’una è funzionale all’altra e viceversa.

In ordine alla tutela, il Codice dei beni culturali e del paesaggio dedica più di 90 articoli alla trattazione. L’obbiettivo è quello di proteggere il patrimonio storico e artistico, per preservarlo alle generazioni future con modalità differenziate a seconda che il bene culturale sia in mani pubbliche o private. Nel primo caso la qualità di bene culturale si presume finché non intervenga la ‘verifica’ ministeriale; nel secondo, viceversa, occorre una ‘dichiarazione’ da parte del soprintendente al proprietario, circa l’interesse culturale di questo o di quel bene[18].

La valorizzazione, invece, nacque con l’istituzione del Ministero per i Beni culturali e ambientali, quando, oltre alle funzioni di tutela del nostro patrimonio storico e artistico, fu conferito anche tale compito promozionale, che ha consentito, così, di superare gli steccati della “statualità” ai beni culturali[19].

Tale funzione ricomprende tutto il complesso di attività promozionali e funzionali a estendere la platea dei destinatari dei beni mobili e immobili che formano il nostro patrimonio culturale, con l’esigenza, dunque, di allargarne la conoscenza e la fruizione tesa a “promuovere lo sviluppo della cultura”, così come afferma il Codice dei beni culturali e del paesaggio riprendendo il dettato dell’art. 9 della Costituzione.

Che Stato e Regioni effettivamente vi riescano, è tutt’altra questione.

Risulta evidente che ci sia ancora molta strada da percorrere affinché il diritto alla cultura divenga effettivo; la direzione di marcia, comunque, è stata indicata nel Codice all’art. 6 – inerente la valorizzazione – sulla predisposizione di un quadro di regole giuridiche nonché attraverso l’esercizio di funzioni amministrative.

Tali attività, tuttavia, non si annidano all’interno del solo pubblico potere in quanto possono concorrervi anche i privati, purché sia salvaguardata l’integrità del bene culturale[20].

A tal proposito, infatti, il Codice pone la valorizzazione in un ruolo chiaramente subordinato rispetto alla tutela, nel senso che essa va comunque realizzata in forme compatibili con la conservazione del bene culturale.

In questo senso, tutela e valorizzazione incrociano il concetto di ‘gestione’ dei beni culturali, a cui il Codice del 2004 ha riservato un limitato spazio normativo nell’ambito della valorizzazione dei beni culturali[21].

In ordine alla gestione dei beni culturali, occorre distinguere tra gestione in forma diretta ovvero indiretta: la prima per mezzo di strutture organizzative interne alle amministrazioni, la seconda attraverso concessione a terzi delle attività di valorizzazione[22].

Va da sé che la scelta fra queste due modalità dipende dalle risorse tecniche e finanziarie di cui dispongono le singole amministrazioni, sicché la gestione indiretta si giustifica soltanto nel momento in cui essa consente una più efficace valorizzazione dei beni.

L’ipotesi poc’anzi paventata è rappresentata dalla sponsorizzazione, nata con la legge 2 agosto 1982, n. 512, in base alla quale è stato consentito di dedurre dalle tasse ogni erogazione liberale in denaro versata allo Stato, oppure ad altre istituzioni pubbliche e private, per l’acquisto, la manutenzione, la protezione o il restauro dei beni d’interesse storico-artistico, successivamente completata dalla legge 27 dicembre 1997, n. 449[23].

Naturalmente ogni sovvenzione per la cultura deve essere condotta con le dovute cautele perché reca con sé il pericolo di distorcerne la specifica funzione e di ridurre il bene culturale a veicolo di valori consumistici che ne costituirebbero l’antitesi, ossia la radicale negazione.

Da qui un insieme di vincoli e controlli stabiliti dal legislatore, sicché qualsiasi iniziativa va preventivamente autorizzata dal Ministero competente, le erogazioni in favore di associazioni legalmente riconosciute, di istituzioni e fondazioni devono rispettare tempi e scopi concordati e, in ultimo, l’inosservanza di questo doppio vincolo comporta l’incasso del contributo da parte dello Stato.

Su tale sfondo normativo, il Codice del 2004 definisce lo spazio della sponsorizzazione dei beni culturali in ogni contributo, anche in beni o servizi, da parte dei privati, sia nel campo della tutela che della valorizzazione del patrimonio culturale; ne definisce altresì lo scopo, consistente nella promozione del nome, marchio, immagine, attività o prodotto dello sponsor, purché in forme compatibili con il carattere storico-artistico del bene, con il suo aspetto e con il suo decoro, e, infine, detta i contenuti minimi del contratto di sponsorizzazione, nonché i poteri dello sponsor circa ogni verifica sul buon esito dell’operazione[24].

Trincerata da questi paletti normativi, la sponsorizzazione rappresenta senza dubbio un utile supporto per i nostri beni culturali.

Tuttavia, detto istituto non può essere affidato totalmente all’apporto dei privati, alle loro scelte culturali: in tale ipotesi, infatti, verrebbero premiate soltanto le iniziative più ‘visibili’, quelle meglio note al grande pubblico o che comunque assicurerebbero un maggiore ritorno d’immagine per i finanziatori; in tale circostanza, si allargherebbe la forbice tra istituzioni e manifestazioni culturali rinomate rispetto a quelle marginali, magari solo perché situate nelle periferie minori e remote. Con l’ulteriore conseguenza di mortificare lo stesso principio pluralista, riducendo ulteriormente l’offerta culturale. Da ciò si spiega il rifiuto – implicito ma netto, fra le maglie della Costituzione del 1947 – verso ogni ipotesi di sponsorship totale, come quella praticata per il tramite delle non-profit organizations note all’esperienza nord-americana.

All’esito della ricostruzione effettuata, preme rilevare che, al di là della dicotomia tutela/valorizzazione, valorizzazione diretta e indiretta (sponsorizzazione), le Regioni dovrebbero ben ampliare i loro poteri di intervento nella tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, in quella della valorizzazione e promozione dei beni culturali nonché in quella della promozione e organizzazione delle attività culturali, dando vita a forme di regionalismo differenziato, secondo quanto previsto all’art. 116, comma 3, della Costituzione.

Questo ruolo per le Regioni potrebbe risultare essenziale, in quanto il bene culturale è quasi sempre radicato in un determinato territorio, in un particolare ambiente sociale, del quale testimonia la cultura e, pertanto, la sua conservazione per le generazioni future rappresenta un dovere da parte della collettività[25].

 

  1. La tutela e la circolazione dei beni culturali nell’Unione europea.

Appurata la complessità della regolazione dei beni culturali nel contesto interno, preme, a tal punto, volgere l’attenzione anche nel contesto sovranazionale, in quanto tali beni rientrano ormai nell’ambito di applicazione del WTO e, di conseguenza, qualsiasi trasgressione o elusione ingiustificata della normativa di riferimento determina l’applicazione di tutta una serie di sanzioni[26].

Proprio l’Italia, circa cinquant’anni fa, è stata destinataria di un provvedimento irrogato dalla Corte di Giustizia Europea (Sentenza 10 dicembre 1968) che ha sanzionato a livello pecuniario il nostro Paese, in quanto tassava l’esportazione di beni culturali, contravvenendo così alla prescrizione, contenuta oggi nell’art. 36 TFUE (già art. 30 TCE), relativa alla libera circolazione delle merci[27].

La Corte europea, nel provvedimento citato, ha sottolineato che, seppure gli Stati membri possano – nei limiti stabiliti dal Trattato sull’Unione – proibire l’esportazione di beni culturali, essi non debbono, al contempo, introdurre alcun tipo di tassazione[28].

Orbene, seppur non sia ancora oggi presente una normativa organica sui beni culturali a livello comunitario, in virtù della forte caratterizzazione nazionale che presenta tale settore, i riferimenti al patrimonio culturale risultano essere molteplici, sia nei Trattati che nelle fonti di diritto derivato.

Il legislatore europeo, infatti, non potendo collidere con la sovranità nazionale degli Stati membri, è intervenuto promuovendo lo sviluppo della cultura e la tutela dei beni culturali stimolando spesso la legislazione interna.

L’articolo 167 del TFUE contiene oggi una norma a carattere generale e programmatica, poiché, mancando di quella diretta applicabilità che caratterizza altre norme dei trattati, è tesa ad attuare il principio di sussidiarietà che in questo caso non mira allo sviluppo di una cultura europea, ma intende, piuttosto, promuovere lo sviluppo “delle culture” degli Stati membri.

Negli anni 90’, tuttavia, si sono registrati degli importanti progressi in conseguenza dell’adozione del Regolamento 3911/92/CE, successivamente abrogato dal Regolamento 116/2009/UE, relativo all’esportazione dei beni culturali, e della Direttiva 7/93/CE, avente ad oggetto la restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro.

Dunque, anche se nessuno degli atti de quibus contiene una definizione di “bene culturale”, essi sono comunque corredati da una serie di allegati in cui vengono elencate le categorie di beni che rientrano nell’ambito di applicazione della normativa proprio al fine di dotare siffatte norme di una certa incisività[29].

Inoltre, nella prospettiva di una Costituzione europea, verso cui sembravano muoversi le scelte delle istituzioni europee e dei Paesi membri, si dovrebbe riflettere sul fatto che la tutela dei beni culturali dovrebbe rappresentare una condicio sine qua non per lo sviluppo culturale del nuovo ‘Stato’; in difetto, non potrebbe dirsi compiuto in toto tale percorso.

Allo stato attuale, tuttavia, dalla breve analisi della normativa europea di riferimento fin qui svolta si evince l’impossibilità di addivenire ad una legislazione europea sui beni culturali a causa del legame intrinseco tra detti beni e gli Stati di provenienza.

 

  1. Gli effetti positivi e negativi della globalizzazione sui beni culturali.

Tralasciando quanto sinora esposto sui beni culturali – a livello interno e sovranazionale – preme rilevare che tali beni, così come quasi tutti i settori del diritto pubblico, sono stati coinvolti nella globalizzazione, ossia in quel vortice economico che ha provocato e provoca il superamento dei confini nazionali, l’aumento delle relazioni e degli scambi, comportando a sua volta l’uniformazione delle tradizioni, dei commerci e delle culture. Se tale fenomeno produce più effetti positivi o negativi è una domanda la cui risposta è pressoché impossibile da trovare ancora oggi. Infatti, vi sono tanti sostenitori della globalizzazione nella stessa misura di coloro che vi si oppongono[30].

Ad ogni modo, è lapalissiano che la globalizzazione non ha risparmiato nessun settore, accentuandone pregi e difetti.

Nell’ultimo decennio, infatti, si è focalizzata l’attenzione da parte di giuristi, sociologi ed economisti sugli effetti principali della globalizzazione sui beni culturali. Essi possono essere così riassunti:

  • la previsione di una serie di regole a carattere universale, adottate dai musei e dalle fondazioni culturali sotto forma di autoregolamentazione.

Si tratta di una importante conquista se si pensa al fatto che queste prime raccolte potrebbero costituire la base di una futura normativa internazionale avente ad oggetto i beni culturali.

  • La predisposizione di norme che limitano i commerci di beni culturali, nonché arginano attraverso articolate procedure di controllo e localizzazione i traffici illeciti di opere d’arte.
  • L’adozione di un sistema di protezione mondiale dei beni culturali ai cui vertici devono porsi enti indipendenti, al fine di evitare che prevalgano gli interessi dei paesi più potenti da un punto di vista economico[31].

Il primo effetto, dunque, rappresenta una conseguenza del diritto internazionale, costituito prevalentemente da norme di soft law e da linee guida di politica del diritto, in cui le Convenzioni e i Protocolli aventi ad oggetto i beni culturali sono considerati fonte di ispirazione per provvedimenti aventi carattere di binding law.

Le altre conseguenze, invece, sono ascrivibili alla necessità di creare organismi e normative ad hoc che a livello internazionale possano realizzare una rete di cooperazione e scambio di informazioni attraverso i quali porre freno ai commerci illeciti e agli interessi delle lobbies.

Inoltre, sintomatico degli effetti sempre più incisivi della globalizzazione sui beni culturali si rivela l’elevato numero di siti qualificati come “patrimonio dell’umanità”; se poco meno di vent’anni fa si contavano 478 siti, oggi se ne rilevano ben 1073, di cui 832 sono beni culturali, 206 rappresentano beni naturali e 35 misti, presenti in 167 Nazioni del mondo[32].

A riguardo, uno degli scopi che si propone l’Unesco, organo specializzato delle Nazioni Unite, istituito nel 1950, è accrescere in futuro il numero dei siti naturali, attualmente in bassa percentuale rispetto alle altre tipologie citate.

L’intervento dell’Unesco assume, poi, la veste di bilanciamento geopolitico, in quanto, recependo quale organo sovranazionale le esigenze provenienti dai Paesi in via di sviluppo, esso sposta la prospettiva euroamericana, sinora esclusivamente coinvolta, per far propria una prospettiva, per l’appunto, globale.

Inoltre, a riprova dell’evoluzione e del maggiore rilievo attribuito ai vari aspetti della materia, nella Convenzione Unesco del 2003 si è definito sia il concetto di patrimonio culturale, che quello di “patrimonio culturale immateriale”[33]. Con la prima espressione si fa riferimento “ai monumenti: opere architettoniche, plastiche o pittoriche monumentali, elementi o strutture di carattere archeologico, iscrizioni, grotte e gruppi di elementi di valore universale eccezionale dall’aspetto storico, artistico o scientifico; gli agglomerati: gruppi di costruzioni isolate o riunite che, per la loro architettura, unità o integrazione nel paesaggio hanno valore universale eccezionale dall’aspetto storico, artistico o scientifico; i siti: opere dell’uomo o opere coniugate dell’uomo e della natura, come anche le zone, comprese i siti archeologici, di valore universale eccezionale dall’aspetto storico ed estetico, etnologico o antropologico” (art. 1); per “patrimonio culturale immateriale”, invece, si intendono “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”, i quali si manifestano “nelle tradizioni, nelle arti, nelle consuetudini, nelle prassi, nell’artigianato” (art. 2), così come ad esempio risulta essere la Dieta Mediterranea.

Per di più, con l’avvento della globalizzazione si è articolato ulteriormente il procedimento di iscrizione di un sito all’elenco dei beni protetti, mediante la previsione di “Linee guida operative per l’attuazione della Convenzione del patrimonio mondiale culturale e naturale”, realizzate sia dal Comitato intergovernativo per la protezione del patrimonio culturale e naturale (il c.d. World Heritage Committee), organismo dell’Unesco, sia dal “Comitato internazionale dei monumenti e dei siti”, organizzazione di tipo non governativa[34].

Le attività poste in essere da queste organizzazioni, pertanto, spaziano dalla valutazione sull’universalità del bene al monitoraggio della conservazione dei siti, in quanto solo un sistema dettagliatamente articolato può assicurare il raggiungimento degli obiettivi.

Appare evidente, dunque, che la globalizzazione ha interessato profondamente tutti i settori del mercato, provocando anche risultati nefasti, quale ad esempio l’aumento dei traffici illegali, tra cui quello di opere d’arte.

Se, infatti, si registra un ingente accrescimento delle visite e dei viaggi a scopo culturale, tuttavia si sono moltiplicate anche le transazioni commerciali illecite, aventi ad oggetto beni culturali, tant’è che negli Stati Uniti il traffico di opere d’arte è al terzo posto dopo il traffico di stupefacenti e di armi. Tale dato preoccupa ancor più se si pensa che attualmente la normativa a riguardo appare carente e allo stesso modo sembrano inidonei gli strumenti predisposti in ambito internazionale per limitare questa tipologia di transazioni.

Le medesime considerazioni valgono anche per le dispute e le durevoli controversie relative alla restituzione di opere d’arte rubate e successivamente collocate in posti diversi da quelli di origine; occorrerebbe, infatti, che si procedesse all’adozione di una Convenzione attraverso la quale disciplinare la risoluzione di tali contrasti.

Gli effetti della globalizzazione, infine, non si ravvisano solo sui beni culturali, intesi come res materiali, ma coinvolgono anche le strutture circostanti, quali ad esempio i musei che li ospitano.

Un esempio su tutti è quello rappresentato dalla “Fondazione Guggenheim”, una rete di musei aperti in tutto il mondo e che proprio per questa caratteristica si è meritato l’appellativo di “primo esperimento di museo globale”[35].

 

  1. Esigenze a confronto: conservazione, protezione e valorizzazione dei beni culturali.

L’importanza dei beni culturali, nel contesto nazionale, sovranazionale e globale, implica, parimenti, che siano approntati meccanismi adeguati per la loro conservazione e protezione, nonché che ne sia garantito l’accesso al pubblico.

L’obiettivo che il legislatore si pone è, dunque, quello di realizzare un difficile bilanciamento tra una serie di esigenze, meritevoli tutte allo stesso modo, e le procedure poste in essere per salvaguardare tali beni.

Ed è così che il diritto funge da custode dei beni culturali, disciplinati in ciascun settore del diritto, da quello amministrativo sino a quello penale.

Ciò che purtroppo sfugge al legislatore, soprattutto in quest’epoca in cui si è passati dalla forma stato alla forma mercato, è che, ad esempio, i musei non possano che adoperare una logica economica alla loro base; difatti, i musei più importanti detengono maggiori poteri, provocando un certo scetticismo per quanto concerne il carattere ‘globale’ del “Codice Icom” e dei “Principi Bizot”, così come anche sulla loro scarsa democraticità di base[36].

L’obiettivo che prevale in tale logica è attirare sempre più visitatori, a discapito in alcuni casi della qualità dei servizi offerti e soprattutto della fruibilità dei beni[37].

Se, poi, si analizza la tensione che si percepisce tra le due precipue funzioni del diritto amministrativo riguardo ai beni culturali, tutela e valorizzazione, si comprende come sia estremamente complesso salvaguardare, da una parte, il deterioramento fisico e il valore culturale dei beni, e, dall’altra parte, garantire la fruibilità e la pubblicizzazione degli stessi beni.

Al fine di ovviare ai paradossi propri della globalizzazione, sono state individuate delle possibili soluzioni tali da poter ponderare gli interventi necessari a garantire che nessuna esigenza sia posta in secondo piano.

Tra le ipotesi più ricorrenti vi sono, da una parte, un maggiore ricorso ai principi del diritto amministrativo; dall’altra parte, la necessità di affidare i beni culturali alla gestione di privati, che disponendo di ingenti capitali possono intervenire non solo nelle attività di restauro e sponsorizzazione, ma anche nella conservazione di tali beni[38].

  1. Il diritto amministrativo quale possibile soluzione agli effetti nefasti della globalizzazione. La tensione tra interessi pubblici e privati.

L’estrema varietà degli interessi che riguardano i beni culturali non può che riversarsi nella risalente dicotomia tra interessi pubblici e privati. Infatti, seppure la disciplina dei beni culturali sia estremamente eterogenea e multilaterale, convergono e confliggono allo stesso tempo molteplici e – talvolta – opposti interessi. Perciò, quello dei beni culturali può essere considerato, a tutti gli effetti, un settore di confine, dal momento che, sebbene esso sia per lo più privato (i musei nazionali sono in estrema minoranza rispetto a quelli pubblici), è innegabile che esso presenti una serie di aspetti (la personalità giuridica e lo scopo) propri dell’ambito tradizionalmente ritenuto pubblico.

Non bisogna, infatti, trascurare che le nuove tipologie di rapporti tra soggetti pubblici e privati, nel nostro Paese, come a livello globale, pongono nuove questioni, finendo per assottigliare ulteriormente la linea di confine.

A fronte di ciò, il settore dei beni culturali assume la funzione di “vero e proprio sistema sociale”, in cui art players e art supporters agiscono a livello nazionale e internazionale[39].

La veridicità di questo assunto si può ricavare, sic et simpliciter, ponendo attenzione all’attività dell’Unesco e dell’International Council of Museums-Icom, organizzazione non governativa avente sede a Parigi, che ha prodotto nuove procedure, regole e documenti[40].

Tra questi, assume un rilievo peculiare il “Codice etico di Icom” in quanto richiede l’adempimento di una serie di doveri. Infatti, i Paesi che hanno deciso di adottare il codice si sono impegnati a rispettare una serie di standard minimi in materia di gestione e management dei musei[41].

Cionondimeno, al Codice va riconosciuto un ulteriore merito, ossia il suo contenuto funge da stimolo non solo per i Paesi che lo hanno già adottato, ma anche per quelli che formalmente non vi hanno aderito. Ad esempio, l’Italia, sulla scia dell’adesione al Codice, ha previsto già nel decreto ministeriale del 10 maggio 2001 delle norme destinate ai musei e al loro personale, indubbiamente ispirate ai principi cardine dell’opera di auto-regolamentazione elaborata dall’Icom.

Dunque, i codici etici, gli accordi e le “best practices” appaiono le soluzioni più adeguate per rispondere alle crescenti esigenze che si percepiscono in virtù dell’aumento della domanda di cultura.

Nondimeno, è doveroso precisare che ancora non si è pervenuti ad un regime giuridico internazionale dei beni culturali, poiché sebbene si rilevino indubbiamente dei progressi di un certo spessore, parimenti permangono una serie di discrasie tra le singole discipline nazionali. Difatti, si assiste tuttora a quello che è stato definito da attenta dottrina “uno scontro di civiltà”[42].

Infatti, se già non è possibile ricavare una nozione di bene culturale universalmente riconosciuta, diventa ancora più arduo pensare che la tutela dei beni culturali possa assumere la stessa portata in paesi molto diversi tra loro, anche in virtù delle differenze di approccio al fenomeno della globalizzazione. Si pongono, di conseguenza, tutta una serie di questioni riguardo al moltiplicarsi di procedimenti e norme, al sempre più frequente ricorso a forme di partenariato pubblico-privato e al peso che debbano avere gli Stati in ambito sovranazionale.

Ad ogni buon conto, da più parti si ritiene che un notevole miglioramento per la disciplina dei beni culturali seguirebbe all’adozione dei principi di trasparenza, partecipazione, motivazione, tipici del diritto amministrativo. Se, infatti, ancora oggi appare scarso il loro richiamo, in futuro se ne auspica un utilizzo frequente al fine di favorire l’attività di fruizione e circolazione dei beni stessi[43].

Altresì, è innegabile che introdurre i principi cardine del diritto amministrativo nella disciplina dei beni culturali potrebbe comportare degli effetti negativi; se, infatti, si decidesse di applicare i suddetti principi si rischierebbe allo stesso tempo di sprecare energie per un settore che ancora adesso può essere definito di “classe”.

Invero, l’aumento di coloro che sono interessati alla cultura, benché costituisca senz’altro un dato molto positivo in quanto emblema di quel processo di democratizzazione in atto dal secondo dopoguerra, non è sufficiente affinché si possano spendere energie economiche di tale portata.

Inoltre, in merito all’effettivo ruolo che i privati dovrebbero svolgere riguardo ai beni culturali pubblici si dovrebbe puntare sugli interventi di recupero e restauro dei beni in cattive condizioni in cambio di sponsorizzazioni e pubblicità, cosicché ciascuno degli attori coinvolti rimanga soddisfatto e, parimenti, il patrimonio culturale del Paese ne benefici.

Nondimeno, il settore dei beni culturali appare ancora anacronistico e inidoneo a causa probabilmente dell’eccessivo numero di norme che si sono susseguite negli ultimi anni e dalla mancanza di una loro sistemazione. Si dovrebbe, pertanto, procedere al più presto a regolamentare compiutamente e organicamente la disciplina a livello internazionale, nazionale e locale, istituendo contemporaneamente organismi di controllo, un tribunale ad hoc o arbitrato a cui devolvere le relative controversie.

Dunque, al di là delle previsioni sul futuro realizzate dagli esperti “è bene sperare che l’umanità mantenga sempre la passione per i beni culturali, sì da sopportare qualsiasi balzello imposto sul lusso di amarli”[44].

In quest’ottica, difatti, emerge all’orizzonte un’inevitabile e nuova dimensione per i beni culturali, i quali devono essere disancorati dalle normative statali e dalle organizzazioni che intendono lucrare sul loro sfruttamento, cosicché possa delinearsi un “diritto globale”, foriero di benefici e vantaggi per tutto il patrimonio culturale dell’umanità.

Affinché ciò possa verificarsi è allora necessario che sia posto un freno alla proliferazione di organizzazioni statali e privati che speculano sulla fruizione e sul commercio dei beni culturali.

 

  1. La glocalizzazione dei beni culturali.

Non potendo in alcun modo esimerci dal riconoscere la tensione dei beni culturali verso un livello di governace, disancorato dalla sola prospettiva nazionale, a beneficio di una visione globale, è tuttavia necessario – a questo punto – spostare l’attenzione sulla dimensione locale, o secondo l’autorevole definizione[45], glocale dei beni culturali.

In questa fase è inevitabile ricorrere ad una nozione di “bene culturale” che diviene l’elemento centrale di quel rapporto tra cultura locale e totalità in seno al più ampio processo di glocalizzazione.

Se è ormai ampiamente provato quale valore assumano i beni culturali in ambito globale, allo stesso modo si deve attenzionare il valore di tali beni nel contesto proprio degli enti locali[46].

Dinanzi ad un’epoca in cui il conformismo fa da padrone, diventa pressoché indispensabile approcciarsi ad un’idea di cultura, ancorata al mantenimento e al rilancio delle tradizioni dei singoli luoghi, attraverso una prospettiva di globalizzazione moderata.

Infatti, dovrebbe essere intrapreso al più presto un processo di conoscimento, riconoscimento o rivalutazione della propria identità storica al fine di informare adeguatamente i cittadini su quali elementi hanno contraddistinto nel corso nel divenire storico il proprio luogo di origine. Solo, così, potrebbe formarsi o rinsaldarsi nella coscienza di tutti quel legame indissolubile tra la Nazione / il cittadino / i beni culturali, tale da poter scongiurare la pericolosa commistione tra interessi finanziari e commercializzazione dei beni artistici.

Oggi, invece, purtroppo si assiste al processo opposto, in quanto, a causa di una variegata e numerosa tipologia di fattori, si avverte sempre più un sentimento di disconoscimento e depotenziamento del legame con la propria nazione, e, in particolare, con i luoghi nativi. Perciò, è in questo contesto, scevro da quell’attaccamento alla propria terra, che i beni culturali potrebbero assumere un’ulteriore valenza: essi potrebbero erigersi “a baluardo della provenienza e dell’evoluzione dei singoli aggregati sociali”[47].

I beni culturali diventano, in questa prospettiva, catalizzatori di quell’interesse, riconosciuto da tutti ma difeso da pochi, di promuovere le tradizioni della propria terra in un panorama nazionale e globale. Per giunta, in risposta al policentrismo inserito in Italia con la legge costituzionale del 2001, riguardo ai rapporti tra Stato ed enti locali, la cultura può essere adoperata quale mezzo per aumentare o creare un vantaggio competitivo rispetto ad altre regioni.

Se si considera, infatti, – come ampiamente evidenziato nel corso della presente trattazione – che l’Italia dispone di un invidiabile patrimonio culturale, troppo esigui appaiono i risultati in termini economici prodotti dal turismo e dalla cultura in generale[48].

L’esigenza di conservare un’opera d’arte nel proprio contesto di origine, ribadita a gran voce nell’epoca moderna in seguito alla depredazione compiuta dalle truppe di Napoleone nei territori conquistati, si manifesta con maggior vigore nei tempi più recenti in corrispondenza di quella funzione di promozione storica e sociale a cui si è poc’anzi accennato.

In ragione di ciò, la valorizzazione e la promozione dei beni culturali può essere motivo di eccellenza per gli enti locali, che tra di essi possono sviluppare politiche congiunte al fine di promuovere il turismo e la conoscenza dei propri tesori, realizzando, di conseguenza, un effetto moltiplicatore per l’economia degli enti coinvolti e, di converso, per il Paese.

In conclusione, si ritiene sommessamente che la soluzione migliore per massimizzare i benefici e per valorizzare i beni culturali sia quella di prescindere dalla sia pur necessaria e rilevante dimensione globale dei beni, per favorire la loro valorizzazione e amministrazione in ambito locale, ove proprio in virtù delle circoscritte dimensioni e del legame più stretto con i beni di appartenenza, si possono ottenere maggiori vantaggi.

 

 

 

[1] Sul fenomeno della globalizzazione, nell’ambito di una bibliografia ormai assai vasta, si rinvia a J.E. Stiglitz, La globalizzazione che funziona, Torino, Einaudi, 2006; S. Sassen, Una sociologia della globalizzazione, Torino, Einaudi, 2008; M.R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Bologna, Il Mulino, 2000; A. Martinelli, La democrazia globale. Mercati, movimenti, governi, Milano, Bocconi, 2008; J. Habermas, La costellazione postnazionale, Milano, Feltrinelli, 1999; P. Grossi, Globalizzazione, diritto, scienza giuridica, in Foro it., 2002, V, c. 151 ss.; F. Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna, Il Mulino, 2005; S. Cassese, Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Torino, Einaudi, 2009. Per una trattazione organica di tale fenomeno sui beni culturali, si rinvia a L. Casini, a cura di, La globalizzazione dei beni culturali, Bologna, Il Mulino, 2010.

[2] I dati riportati sono forniti dall’Art Newspaper e dal progetto www.museumstats.org del Walker Art Center di Minneapolis.

[3] Una prima definizione di bene culturale appare in M. Grisolia, La tutela delle cose d’arte, Roma, Soc. Il Foro It. Ed., 1952, p. 124 e 145, il quale ripercorse l’espressione dal rapporto reatto dal prof. Georges Berlia a conclusione della riunione di esperti convocati dall’Unesco, tenutasi a Parigi dal 17 al 21 ottobre 1949; per un resoconto di tale riunione, R.F. Lee, Compte rendu de la Réunion d’Experts, in Museum, 1950, p. 90 ss; dell’anno seguente il volume di M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose di interesse artistico o storico, Padova, Cedam, 1953.

[4] L. Casini, La globalizzazione giuridica dei beni culturali, in aedon.mulino.it, n. 3/2012.

[5] Per un maggiore approfondimento, si rinvia a A. Fittipaldi, Alcuni aspetti della legislazione sui beni culturali in Italia tra Sette e Ottocento, in AA.VV., Beni culturali a Napoli nell’Ottocento, a cura di I. Ascione, Napoli, 1997; M. Cantucci, Beni culturali e ambientali, in Nss. D. I., App. I, Torino, Utet, 1980, 772; P. Ferri, Beni culturali e ambientali nel diritto amministrativo, in D. Disc. Pubbl., II, Torino, Utet, 1987, 217; T. Alibrandi, Beni culturali, in Enc. giur., V, Roma, Ist. Enc. It., 1988.

[6] Per un approfondimento si rinvia a La tutela internazionale dei beni culturali nei conflitti armati, a cura di P. Benvenuti e R. Sapienza, Milano, Giuffrè Editore, 2007.

[7] Art. 53 protocollo citato.

[8] D. Siclari, Il valore dei beni culturali nell’epoca glocale. Ovvero per una globalizzazione che non sommerga le culture locali, Reggio Calabria, Laruffa Editore, 2013.

[9] J.W. GOETHE, Viaggio in Italia, Milano, 2012.

[10] Per un approfondimento in merito, M.S. Giannini, Uomini, leggi e beni culturali, in Futuribili, 1971, n. 30-31, pp. 33-45; F. Merusi, Articolo 9, in Commentario alla Costituzione, Principi fondamentali, a cura di G. Branca, Bologna, Zanichelli, 1975, e G. Palma, Beni di interesse pubblico e contenuto delle proprietà, Napoli, Jovene, 1971.

[11] S. Cassese, Problemi attuali dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2001, 1064.

[12] Inaugurato nel 1974 per presidiare il doppio fronte della cultura e dell’ambiente, alla fine del secolo viene ridisegnato completamente per il tramite del d. legisl. 20 ott. 1998 n. 368. Nel complesso la riforma del 1998 delinea un modello organizzativo a rete, teso a superare la tradizionale conformazione piramidale per mezzo di strutture autonome; e infatti tra le sue principali novità vi è l’attribuzione di spazi d’autonomia agli organi periferici del nuovo Ministero. Fra questi, si segnala l’introduzione dei soprintendenti regionali, chiamati a coordinare le attività delle soprintendenze collocate nella Regione, anche allo scopo di affrancarne l’operato da visioni troppo settoriali e localistiche. L’evoluzione delle politiche e degli sviluppi della scienza giuridica dall’istituzione del Ministero dei beni culturali ad oggi è ricostruita da L. Casini, I beni culturali da Spadolini agli anni Duemila, in L. Fiorentino et al., Le amministrazioni pubbliche tra conservazione e riforme. Omaggio degli allievi a Sabino Cassese, Milano, Giuffrè, 2008, 423-447.

[13] Per un approfondimento, Il testo unico sui beni culturali e ambientali, a cura di G. Caia, Milano, Giuffrè, 2000; A. Roccella, Il testo unico dei beni culturali: contesto, iter formativo, lineamenti, conferme, innovazioni, in Dir. pubbl., 2000, 555 ss., e S. Amorosino e M. Cammelli, La nuova disciplina dei beni culturali ed ambientali: commento al testo unico approvato con il Decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, Bologna, il Mulino, 2000.

 

[14] B. Zanardi, La mancata tutela del patrimonio culturale in Italia, in Riv. trim. dir. pubbl., 2011, p. 431 ss.

[15] La Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, presieduta dall’onorevole Franceschini, da cui ne prese il nome, fu istituita a con la legge 26 aprile 1964, n. 310, su proposta dell’allora Ministero della Pubblica Istruzione. Detta Commissione operò un’attenta indagine riguardo al censimento e allo stato dei beni culturali in Italia, emanando, sino al 1967, 84 Dichiarazioni, la prima delle quali contenente la nozione di “bene culturale” sopra richiamata. Le dichiarazioni contenevano una ferma e chiara denuncia relativamente al degrado, allo stato di abbandono ed alla scarsa valorizzazione del patrimonio culturale italiano. Per un approfondimento in dottrina, si rinvia a M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 3 ss., e S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in Rass. Arch. St., 1975, 116 ss.; T. Alibrandi e P.G. Ferri, I beni culturali e ambientali, Giuffrè, Milano, 1985, pag. 15 ss.; G. Rolla, Beni culturali e funzione sociale, in Le regioni, 1987, fasc. 1-2, pag. 54.

[16] M.S. Giannini, I beni culturali, cit., pag. 4.

[17] Per un maggiore approfondimento, si rinvia a N. Assini e G. Cordini, I beni culturali e paesaggistici, Padova, Cedam, 2006 e, a cura di M. Cammelli, Il codice dei beni culturali e del paesaggio: commento al d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, Bologna, il Mulino, 2007. Si segnalano inoltre A. Catalani e S. Cattaneo, I beni e le attività culturali, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da G. Santaniello, XXXIV, Padova, Cedam, 2002; Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di V. Caputi Jambrenghi e A. Angiuli, Torino, Giappichelli, 2005; M. Ainis e M. Fiorillo, I beni culturali, in Trattato di diritto amministrativo 2, a cura di S. Cassese, Milano, Giuffrè, 2003, pt. s., II, 1449 ss., e L. Casini, Beni culturali, in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. Cassese, Milano, Giuffrè, 2006, 679 ss.

[18] In argomento G. Sciullo, La verifica dell’interesse culturale (art. 12), in Aedon, 2004, n. 1, e Id., Verifica dell’interesse culturale, in Il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, a cura di M. Cammelli, cit.; G. Famiglietti e D. Carletti, Articolo 12, Verifica dell’interesse culturale, in AA.VV., Il Codice dei beni culturali e del Paesaggio, commento a cura di R. Tamiozzo, Milano, 2005, 49 ss., e L. Casini, La disciplina dei beni culturali dopo il d.lgs. n. 156/2006, in Giorn. dir. amm., 2006, 1072 ss.

[19] G. D’Auria, Il riordino del Ministero nel sistema dei beni culturali. L’organizzazione centrale, in Aedon, n. 1, 2005.

[20] Sul ruolo dei soggetti privati nella valorizzazione dei beni culturali si vedano L. Casini, Pubblico e privato nella valorizzazione dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2005, 785 ss., e La valorizzazione dei beni culturali tra pubblico e privato, a cura di P. Bilancia, Milano, Franco Angeli, 2005.

[21] Per un maggiore approfondimento, si rinvia a R. Rolli e D. Siclari, (a cura di), Management e valorizzazione del patrimonio culturale locale. Dimensione assiologica, giuridica e relazionale, Milano, Giuffrè Editore, 2012.

[22] C. Barbati, M. Cammelli e G. Sciullo, Diritto e gestione dei beni culturali, Bologna, il Mulino, 2011.

[23] Per una ricostruzione di tale istituto, anche alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, si rinvia a D. Siclari, Innovazione e continuità dei contratti di sponsorizzazione della PA nel nuovo codice appalti, in giustamm.it, n. 3/2017.

[24] Sullo specifico tema delle sponsorizzazioni si rimanda a M. Veronelli, Le sponsorizzazioni dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2005, 887 ss.; G. Piperata, Sponsorizzazione ed interventi di restauro sui beni culturali, in Aedon, 1, 2005; S. Gardini, La sponsorizzazione dei beni culturali come paradigma dinamico di valorizzazione, in Dir. ec., 2, 2016, p. 604.

[25] Si veda l’importante studio di V. Cerulli Irelli, Beni Culturali e Diritti Collettivi, in Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, Milano, Giuffrè, 1988, I, 137-176, nel quale sono sviluppati con particolare riferimento ai beni culturali i risultati raggiunti in Id., Proprietà pubblica e diritti collettivi, Padova, Cedam, 1983.

[26] Per un maggiore approfondimento, si rinvia a G. Bianco, Liasons dangereuses: the Unesco Convention on cultural diversity and WTO, in Aedon, n. 3/2011.

[27] Corte di giustizia della Comunità europea, sentenza 10 dicembre 1968 C-7/68, Commissione c. Italia. Su questa pronuncia, si rinvia a P. Pescatore, Le commerce de l’art et le Marché commun, in Revue trimestrielle de droit européen, 1985 e E. D’Alterio, Il commercio, in La globalizzazione dei beni culturali, cit., p. 90 ss.

[28] La Corte ha affermato che “la Repubblica italiana, continuando ad applicare, dopo il 1° gennaio 1962, la tassa progressiva prevista dall’articolo 37 della legge 1 giugno 1939, n. 1089, all’esportazione negli altri stati membri della comunità di oggetti che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, e venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’articolo 16 del Trattato che istituisce la Comunità economica europea”

[29] M.P. Chiti, Circolazione e tutela dei beni culturali in ambito comunitario, in Beni culturali e Comunità Europea, a cura di M.P. Chiti, Milano, Giuffrè, 1994, 140-169; D. Ferri, La costituzione culturale dell’Unione Europea, Padova, Cedam, 2008, 69.

[30] In merito si rinvia alla bibliografia citata nella nota 1.

[31] Tali aspetti sono stati analizzati da L. Casini, I beni culturali di fronte alla crisi economico-finanziaria e alla globalizzazione, cit.; M. Macchia, La tutela del patrimonio culturale mondiale: strumenti, procedure, controlli, in La globalizzazione dei beni culturali, cit., p. 57 ss.

[32] L’ultimo aggiornamento è stato effettuato nella riunione del 41° Comitato per il patrimonio dell’umanità a Cracovia tra il 2 e il 12 luglio 2017. I dati sono consultabili sul link http://whc.unesco.org/en/sessions/41com/

[33] In argomento, può leggersi Il patrimonio culturale intangibile nelle sue diverse dimensioni, a cura di T. Scovazzi, B. Ubertazzi e L. Zagato, Milano, Giuffrè, 2012.

[34] S. Battini, Amministrazioni nazionali e controversie globali, Milano, Giuffrè, 2007, p. 69 ss. e A. Albanesi, Le organizzazioni internazionali per la protezione del patrimonio culturale, in La globalizzazione dei beni culturali, cit., p. 29 ss.

[35] K. Schubert, Museo. Storia di un’idea. Dalla Rivoluzione francese a oggi, Milano, Il Saggiatore, 2004, pp. 138 ss.

[36] Sul tema, I. Chiavarelli, Il prestito e lo “scambio”, in La globalizzazione dei beni culturali, cit., p. 113 ss., e L. Casini, Valorizzazione del patrimonio culturale pubblico: il prestito e l’esportazione di beni culturali, in Aedon, n. 1-2/2012.

[37] L. Casini, La globalizzazione giuridica dei beni culturali, op. cit.

[38] In argomento si vedano S. Cassese, I beni pubblici. Circolazione e tutela, Milano, Giuffrè, 1969, p. 261 s.; G. Palma, Beni di interesse pubblico e contenuto della proprietà, Napoli, Jovene, 1971, p. 358; V. Ceruli Irelli, Proprietà pubblica e diritti collettivi, Padova, Cedam, 1983 e S. Cassese, I beni culturali: sviluppi recenti, cit., 341 ss.; M. Renna, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Torino, Giappichelli, 2004, in particolare p. 321 ss.; U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà (a cura di), Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, Bologna, Il Mulino, 2007, e A. Police (a cura di), I beni pubblici: tutela, valorizzazione e gestione, Milano, Giuffrè, 2008.

[39] Tali termini sono usati da J.H. Merryman, The American Art System and the New Cultural Policy, Stanford Public Law Working Paper, n. 1489612, October 2009; Id., Collections as a good, in Aedon, n. 1-2/2012.

[40] L’Icomos è l’organo consultivo per i siti culturali. In argomento, si legga E. Cavalieri, I.E.15 The Role of Advisory Bodies in the World Heritage Convention, in Global Administrative Law: The Casebook, ed. by S. Cassese, B. Carotti, L. Casini, E. Cavalieri, and E. MacDonald, Rome-Edinburgh-New York, IRPA-IILJ, 2012.

[41] P. Forte, Codice etico di ICOM e disciplina dei musei in Italia, in aedon.mulino.it, n. 2/2010.

[42] L. Casini, La globalizzazione giuridica dei beni culturali, op. cit.

[43] L’interesse alla diffusione dei valori trasmessi dal patrimonio storico-artistico può essere rintracciato già nel XIX secolo, secondo E. Jayme, Globalization in Art Law: Clash of Interests and International Tendencies, 38 Vanderbilt Journal of Transnational Law (2005) 927;, il quale ricorda quando Antonio Canova, nel 1815, chiese che i beni sottratti da Napoleone, una volta recuperate, fossero esposti al pubblico. E’ solo dopo la seconda Guerra mondiale, però, che questo interesse cominciò ad assumere degno rilievo. Sul tema, dello stesso autore, può leggersi E. Jayme, La protezione delle opere d’arte nazionali: tendenze attuali ed esperienze tedesche, in Rivista giuridica dell’urbanistica, 2008, p. 340 ss.

[44] L. Casini, La globalizzazione giuridica dei beni culturali, op. cit.

[45] D. Siclari, Il valore dei beni culturali nell’epoca glocale, op. cit.

[46] D. Siclari, Premessa: Prolegomeni sul ruolo del patrimonio culturale in sede di definizione delle politiche di sviluppo locale, in Management e valorizzazione del patrimonio culturale locale. Dimensione assiologica, giuridica e relazionale, op. cit.

[47] D. Siclari, Il valore dei beni culturali nell’epoca glocale. Op. cit., p. 37.

[48] D. Siclari, Valore della bellezza e crisi della cultura. Sul valore dei beni culturali nell’epoca glocale, Laruffa editore, Reggio Calabria, 2014.