Di Vincenzo Santoro
Premesse. La giurisprudenza della Corte di cassazione si è più volte soffermata sulla questione se il reato di maltrattamenti in famiglia possa o no concorrere con il reato di violenza sessuale, in riferimento a vicende in cui un soggetto avesse, con abitualità e sistematicità, costretto il coniuge a subire atti sessuali. Analoga questione si è posta anche con riferimento alle situazioni di stabile convivenza, sulla scia del risalente orientamento giurisprudenziale che equipara, ai fini della applicazione della norma incriminatrice dei maltrattamenti in famiglia, la convivenza di fatto e la famiglia istituzionale ed estende la specifica tutela penale apprestata dalla norma contenuta nell’articolo 572 c.p. ad ogni consorzio di persone tra le quali, per le strette relazioni e le consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo (da ultimo, cassazione, sentenza n. 20647 del 2008). Ed è appena il caso di evidenziare come il recente intervento normativo (articolo 4 legge n. 172 del 2012) si sia limitato a prendere atto di tale diritto vivente, senza alcuna innovazione sostanziale, ed abbia espressamente inserito il convivente tra i soggetti del reato.
La questione dei rapporti tra i due reati presenta altresì una specifica rilevanza di carattere procedurale, con riguardo alle ipotesi, certo non infrequenti, in cui il reato di violenza sessuale sia procedibile a querela. In tali evenienze, infatti, il riconoscimento del concorso tra i due reati viene a modificare il regime di procedibilità del predetto reato, il quale diviene procedibile di ufficio in ragione della connessione con i maltrattamenti in famiglia ed in conformità a quanto previsto dall’articolo 609 septies, comma 4, n. 4, del codice penale.
Gli orientamenti della corte di cassazione. Secondo un primo orientamento (Sez. 3, Sentenza n. 35849 del 24/06/2004 Ud. (dep. 03/09/2004 ) Rv. 229621) non è ammissibile il concorso tra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di violenza sessuale e deve ravvisarsi, con le peculiari conseguenze in punto di procedibilità, unicamente quest’ultimo reato. Siffatta soluzione, scaturisce dal criterio stabilito nell’articolo 15 cod. penale, che esclude il concorso di reati nella ipotesi in cui il medesimo fatto integri più fattispecie criminose e queste siano in rapporto di specialità Nel caso in esame, si rileva, non v’è dubbio che il delitto di violenza sessuale continuata sia speciale rispetto al generico delitto di maltrattamenti. Ad opinare diversamente si violerebbe il principio del ne bis in idem sostanziale, che impedisce di applicare diverse sanzioni penali per lo stesso fatto materiale e che è alla base del pacifico orientamento secondo cui colui che compie atti sessuali mediante violenza o minaccia è condannato solo per il delitto di cui all’art. 609 bis, e non anche per il delitto di cui all’art. 610 o per quello di cui all’art. 612 cod. pen..
L’orientamento in esame si sofferma altresì sulla obiezione che per tale tramite, escludendo il concorso, si svilisca la portata del reato di maltrattamenti in famiglia, che ha carattere “abituale” ed è contrassegnato da un dolo unitario e programmatico che vale a distinguerlo dai reati che ne sono elementi costitutivi. L’obiezione viene superata con il rilievo che la pluralità degli episodi di violenza sessuale configura un reato continuato, che è del pari caratterizzato da un dolo unitario e programmatico.
Su tali premesse si conclude che non vi è dubbio che il delitto di violenza sessuale sia speciale rispetto a quello di maltrattamenti in famiglia, con la conseguenza che, essendo integrato solo il primo reato, non sussiste alcuna connessione con reati perseguibili di ufficio e quindi non trova applicazione la disciplina prevista dall’articolo 609 septies, n. 4, per la quale la violenza sessuale cessa di essere procedibile a querela e diventa procedibile di ufficio.
E’ il caso di rilevare sin da ora come tale orientamento non sia del tutto persuasivo, a prescindere dal suo porsi come spia del più generale contrasto che sussiste sui criteri che debbono presiedere alla soluzione del problema del concorso apparente di norme e sulla specifica rilevanza della diversità di obiettività giuridica dei reati. Ciò che non persuade è proprio il passaggio sulla continuazione del reato, che viene elevato a fondamentale argomento per ravvisare il dolo programmatico nella serie di violenza sessuali e ritenere che esso assorba quel medesimo contrassegno soggettivo che definisce il reato di maltrattamenti in famiglia. Non può infatti sfuggire la fondamentale differenza che intercorre tra le due ipotesi in raffronto: nella violenza sessuale continuata il dolo programmatico ed unitario serve a attenuare la complessiva lesività del fatto di reato; nel maltrattamento in famiglia il medesimo dolo, inverato nella pluralità che lo compongono, concorre a conferire al reato un significato criminoso che è più intenso di quello che connota i singoli reati che ne fungono da mattoni costitutivi. Il reato che ne deriva, in altri termini, è qualcosa di più grave della somma della specifica gravità dei fatti di reato che svolgono la funzione di suoi tasselli costitutivi. Sicchè sembra del tutto incongruo affermare che il vincolo della continuazione, che attenua il disvalore complessivo, prende il posto ed assorbe quel dolo unitario dei maltrattamenti che, al contrario, aumenta il disvalore complessivo della pluralità di fatti commessi.
Secondo un diverso orientamento (per tutti, Sez. 3, Sentenza n. 984 del 2004; Sez. 3^, sentenza n. 22850 del 16.5.2007 RV 236888;) la tesi sopra esposta non può essere condivisa per la determinante ragione che essa non considera la diversità dei beni giuridici protetti dalle due norme incriminatrici ed è in contrasto con l’orientamento secondo il quale è coessenziale all’applicazione del principio di specialità l’appartenenza dei beni giuridici alla medesima categoria.
I due reati in raffronto, infatti, tutelano beni giuridici diversi: il delitto di cui all’articolo 572 tutela l’integrità psicofisica del soggetto passivo e la personalità dell’individuo, mentre quello di violenza sessuale tutela la persona nella sua libertà di determinazione in materia sessuale.
Di conseguenza non può affermarsi che il delitto di violenza sessuale sia speciale rispetto a quello di maltrattamenti in famiglia; né può sostenersi che il delitto di violenza sessuale, quando concorre a formare la condotta unitaria del fatto di maltrattamenti, resti assorbito da quest’ultimo reato, ostandovi il diverso disvalore che lo caratterizza e la maggiore sanzione per esso prevista ed essendo altresì possibile che il delitto di maltrattamenti sia integrato mediante la commissione di atti sessuali che, per le più varie ragioni, non rientrano nel delitto previsto dall’articolo 609 bis c.p..
Sulla base di tali argomentazioni si conclude nel senso che debbono ravvisarsi i due reati, in concorso tra loro, nelle ipotesi in cui la reiterazione di atti di violenza sessuale abbia assunto altresì i connotati tipici del delitto di maltrattamenti, da rinvenire in atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, che costituiscano fonte di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita.
Infine occorre prendere atto di un terzo orientamento, secondo il quale il reato di violenza sessuale e quello di maltrattamenti in famiglia possono concorrere tra loro solo allorquando la condotta violenta, ispirata da prevalenti motivazioni di carattere sessuale, non si esaurisca nel mero uso della violenza necessaria a vincere la resistenza della vittima per abusarne sessualmente, ma s’inserisca in un contesto di sopraffazioni, ingiurie, minacce e violenze di vario genere nei confronti di quest’ultima, tipiche della condotta di maltrattamenti” (sez. 3, 15.4.2008 n. 26165, Riva, RV 240542; Sez. 3, Sentenza n. 46375 del 12/11/2008 Ud. (dep. 17/12/2008 ) Rv. 241798).
La sentenza per ultimo citata (Sez. 3, Sentenza n. 46375 del 2008) offre una esauriente enunciazione degli argomenti che supportano la sussistenza del concorso di reati e nel contempo ne chiarisce le precise condizioni di applicabilità.
Si afferma, infatti, che il reato di violenza sessuale e quello di maltrattamenti in famiglia possono concorrere tra loro, a meno che “non vi sia una piena coincidenza tra le due condotte, nel senso che il delitto di maltrattamenti sia consistito nella mera reiterazione degli atti di violenza sessuale.”
Il che ha il senso di dire che “il delitto di violenza sessuale concorre con quello di maltrattamenti in famiglia quando la condotta violenta, ispirata da prevalenti motivazioni di carattere sessuale, non si esaurisca nel mero uso della violenza necessaria a vincere la resistenza della vittima per abusarne sessualmente, ma s’inserisca in un contesto di sopraffazioni, ingiurie, minacce e violenze di vario genere nei confronti di quest’ultima, tipiche della condotta di maltrattamenti”.
Cenni sul maltrattamento in famiglia. Per meglio districarci nel variegato quadro giurisprudenziale sopra descritto conviene soffermarsi brevemente sugli estremi costitutivi del delitto previsto dalla norma dell’articolo 572 c.p., allo scopo di verificare quale sia la condotta che ne integra l’elemento oggettivo e quale sia la peculiare disciplina da applicare per la ipotesi in cui la complessiva condotta di maltrattamenti si attui per il tramite di fatti che siano, di per sé ed autonomamente considerati, integrativi di altre fattispecie di reato.
La dottrina (per tutti, Coppi, Maltrattamenti in famiglia, Enciclopedia del diritto, vol. XXV, p. 223 e ss.) ha posto in rilievo: che la struttura del delitto di maltrattamenti può essere integrata sia da atti costituenti reato e lesivi della integrità fisica e psichica della vittima sia attraverso atti in sé non dotati di autonoma rilevanza penale; che il verbo “maltratta” designa tanto le sofferenze di natura fisica che quelle di natura spirituale; che la condotta costitutiva del reato si esprime tra persone legate da un rapporto particolare, i cui tratti salienti sono da individuare o nella particolare fiducia che qualifica il rapporto o nella autorità che circonda la posizione di uno dei membri; che il reato si consuma solo a seguito della ripetizione di un certo numero di “cattivi trattamenti” e che non è sufficiente ad integrare il delitto il compimento di un solo atto; che la ripetizione nel tempo degli atti di “cattivo trattamento” esprime un ulteriore e diverso disvalore, che è distinto dalla somma dei significati lesivi propri di ogni singolo episodio e che per tale ragione non trova corrispondenza nella disapprovazione che è propria dei singoli episodi e nel conseguente cumulo delle relative sanzioni; che con la espressione “maltratta” il legislatore ha inteso sinteticamente designare tutti quei contegni che, per la reiterata aggressione alla sfera fisica e psichica, producano l’avvilimento della personalità della vittima, stravolgendo il senso della comunione di vita in cui questa risulta inserita e trasformandola in un regime di vita in cui la offesa della altrui personalità sia diventata abitudine costante, cosciente e volontaria; che il dolo del reato di maltrattamenti si realizza nel momento in cui l’autore dei singoli atti di cattivo trattamento si renda conto che i fatti del passato e gli ulteriori patimenti che si infliggono con gli ulteriori atti formano una sequenza di soprusi e vessazioni e vanno ad incidere sulla personalità della vittima, pregiudicandone il corretto ed integrale svolgimento nel contesto del particolare rapporto; che il bene protetto dalla norma incriminatrice è l’intera personalità della vittima, che si dispiega nel contesto di rapporti particolari, quali appunto quelli che nascono e si formano nel contesto della famiglia o nuclei di stabile convivenza, o che fanno capo all’altrui autorità o che sono, come nel caso di minori, caratterizzati dalla estrema debolezza del soggetto passivo;
In conformità a tali indirizzi della dottrina la giurisprudenza è costante nel ritenere che il delitto di maltrattamenti in famiglia configura un’ipotesi di reato necessariamente abituale costituito da una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali, proprio per effetto della reiterazione nel tempo, acquistano un significato lesivo diverso ed autonomo rispetto a quello che connota i singoli atti. Sicchè il predetto reato si riscontra ogni qual volta si sottopongano i membri della famiglia (o degli ulteriori consorzi umani presi in esame dalla norma) ad una serie di continui e sistematici atti di vessazione, che producano sofferenze, privazioni ed umiliazione e costituiscano fonte di un disagio perdurante ed incompatibile con le normali condizioni della vita in comune.
Nella materialità di tale reato rientrano senza dubbio le percosse, le minacce, le ingiurie, le quali, per il protrarsi nel tempo e per il legame che le avvince, siano tali da costituire una odiosa e sistematica vessazione nei confronti di un membro della famiglia. Vi rientrano altresì le condotte di privazioni, scherno, disprezzo, asservimento ed umiliazione della vittima, le quali, ancorchè prive di autonoma rilevanza penale, producano ugualmente, proprio per la loro sistematica reiterazione, l’effetto di rendere dolorosa ed umiliante la convivenza.
Rapporti tra i maltrattamenti in famiglia ed i reati che ne costituiscono l’elemento oggettivo.
Tirando le fila di quanto si è osservato sopra, e limitandoci all’essenziale, possono fissarsi i seguenti punti fermi: il reato di maltrattamenti in famiglia consiste in una serie di atti offensivi della personalità psico-fisica della vittima; i singoli atti possono essere penalmente irrilevanti oppure costituire reati di per se stessi; la reiterazione di tali atti configura un fatto che è provvisto di un autonomo e specifico significato criminoso, che non coincide con quello che connota i reati che ne siano elementi costitutivi e che non trova adeguata corrispondenza sanzionatoria nella somma delle sanzioni previste per tali reati.
A questo punto occorre porsi un duplice ordine di interrogativi.
In primo luogo occorre chiedersi se e quali reati possano integrare l’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia. Sappiamo che la voce verbale “maltratta” designa tutti gli atti che producono sofferenze fisiche e psichiche alla vittima e siamo certo consapevoli del gran numero di reati che si prestano a realizzare tale risultato, agevolmente configurabili in un crescendo di offese e la cui base di partenza si ravvisa nei tipici reati di ingiuria, percosse e minacce. Si tratta, però, solo di una base di partenza, perché è indubbio che i medesimi beni trovino una radicale offesa anche in ulteriori reati, che sono in rapporto di progressività rispetto ai primi e che sovente tutelano una pluralità di beni: si pensi, a solo titolo esemplificativo e limitandoci a quelli che possono essere oggettivamente reiterati nel tempo, ai reati di lesioni, violenza privata, sequestro di persona, violenza sessuale, rapina, estorsione.
Allora la questione che occorre risolvere è se il concetto di “maltrattamenti” abbia una vocazione onnivora ed abbracci ogni e qualsiasi fatto comunque idoneo a ledere la integrità psico-fisica del soggetto passivo, a prescindere dalla sua autonoma rilevanza penale e dalla sanzione per esso prevista. Oppure se tale concetto, e quindi la condotta del reato di maltrattamenti in famiglia, designi e abbracci, oltre ai fatti in sé privi di rilevanza penale, soltanto quei reati posti ad esclusiva tutela della integrità psico-fisica nella sua configurazione basilare e che si riassumono nella triade ingiuria, minaccia e percosse. Aderendo a quest’ultima prospettiva il reato di maltrattamenti avrebbe il senso di sottrarre tali reati all’alveo che gli è proprio, fatto di sanzione e condizioni di procedibilità, e collocarli come parti costitutive di un più grave reato, che reprime le offese al fondamentale bene della personalità e che per tale ragione va accertato e represso a prescindere da ogni considerazione di opportunità o di riguardo alla volontà della vittima.
Il secondo interrogativo che si pone è legato al primo e consiste nel verificare quale sia il rapporto tra il reato di maltrattamenti ed i singoli reati che ne compongono la ossatura.
La risposta è certo agevole con riguardo ai casi in cui i reati-componenti siano meno gravi del maltrattamento e possano essere considerati, anche in virtù di indizi normativi e sistematici disseminati nel sistema del diritto penale (vedi articolo 581, comma 2, c.p.), in esso puntualmente assorbiti. Meno facile è risolvere i casi opposti, in cui il reato in ipotesi componente è più grave del reato che lo contiene, coma accade proprio nella ipotesi di sistematiche violenze sessuali perpetrate nel contesto dei consorzi umani contemplati dalla norma di cui all’articolo 572 c.p..
Proviamo a procedere con ordine. Si afferma che i maltrattamenti di solito si esprimono attraverso fatti qualificabili come ingiurie, percosse e minacce, che appaiono i più tipici elementi costitutivi della condotta del reato previsto dall’articolo 572 codice penale.
Su tali premesse, non si ha difficoltà nell’escludere il concorso tra i predetti reati e quello di maltrattamenti, sostenendosi che in tal caso si ravvisa un rapporto di assorbimento (o continenza implicita o sussidiarietà tacita) e sottolineandosi che in tali casi il disvalore espresso dal singolo episodio si consuma e si dissolve nel più vasto significato criminoso della fattispecie concreta di maltrattamenti. Ciò trova conferma proprio nella sanzione prevista per tale ultimo reato, che è senza dubbio più severa di quella prevista per i reati di ingiuria, minaccia e percosse. Infine, ad ulteriore conforto, si fa riferimento alla norma contenuta nel capoverso dell’articolo 581 c.p., ove è espresso il principio che il reato di percosse non trova applicazione quando la violenza sia elemento costitutivo o circostanza aggravante del reato in concreto realizzato. Dove è evidente come si muova dal presupposto che il verbo “maltratta” abbia, in una delle sue possibile varianti, una fisiologica componente di violenza.
La giurisprudenza è allineata con la dottrina sopra indicata ed è costante ed unanime nel ritenere che non v’è concorso tra il delitto di maltrattamenti è quelli d’ingiuria, percosse e minacce in cui si concretino i singoli atti di maltrattamento, trattandosi di condotte che costituiscono la necessaria materialità del delitto di maltrattamenti ed offendono tutte lo stesso bene giuridico tutelato da quest’ultimo reato, ossia l’integrità psico-fisica e la personalità del soggetto passivo.
Il discorso è un po’ più complesso con riguardo al reato di lesione personale. La giurisprudenza è del pari costante nel ritenere che vi sia concorso con il reato di maltrattamenti in famiglia ed ha avuto modo di precisare (Sez. 6, Sentenza n. 8892 del 04/11/2010 Ud. (dep. 07/03/2011 ) Rv. 249630) che in tali casi non si configura la circostanza aggravante del nesso teleologico (art. 61, n. 2, cod. pen.), “atteso che il riconoscimento della suddetta aggravante presuppone che le azioni costitutive dei due diversi reati siano oggettivamente distinte”.
Maltrattamenti in famiglia e lesioni personali. A ben vedere il rapporto tra maltrattamenti in famiglia e lesioni personali è uno degli snodi fondamentali nella disamina che si sta svolgendo, trattandosi di un reato che si configura in una pluralità di fattispecie di diversa gravità e che trova altresì una specifica collocazione nella stessa fattispecie del maltrattamento in famiglia, in cui si prevede l’ipotesi che dal fatto derivi una lesione personale grave (sanzione da quattro a nove anni) oppure una lesione personale gravissima (sanzione da sette a quindici anni).
La dottrina si è occupata del problema e ne ha evidenziato i peculiari profili di complessità. La questione si profila tutte le volte che il soggetto abbia posto in essere volontariamente l’atto che ha determinato le lesioni e questo atto assuma un ruolo essenziale nella serie di fatti che hanno integrato il maltrattamento in famiglia.
Vi è sostanziale concordia nel ritenere che il problema non si pone nel caso in cui le lesioni siano gravi o gravissime.
Nel caso in cui queste non siano state volute dal reo e siano legate da un rapporto di causalità al fatto di maltrattamento, troverà applicazione l’ultimo comma dell’articolo 572 c.p.. L’assunto è risalente e verosimilmente dovrà essere coordinato con le recenti acquisizioni in punto di imputazione soggettiva della circostanze aggravanti. In merito, inoltre, dovrà considerarsi che con la legge n.172 del 2012 si è inasprita la pena prevista per le ipotesi di maltrattamenti aggravati dalle lesioni gravi (reclusione da quattro a nove anni) o gravissime (da sette a quindici anni) e si è dato vita ad un quadro sanzionatorio che è decisamente più grave di quello previsto per specifiche fattispecie di lesioni gravi (reclusione da tre a sette anni) e gravissime (reclusione da sei a dodici anni).
Se, per contro, le lesioni, gravi e gravissime, sono volute dal reo e hanno costituito lo strumento attraverso cui si è realizzata la condotta di maltrattamenti, mancando una previsione sul tipo di quella del capoverso del 581 (percosse), troveranno applicazione le norme sul concorso di reati. Sembra infatti difficile ricondurre tali ipotesi alla fattispecie aggravata ed essendo del tutto inconcepibile la soluzione che le lesioni gravi e gravissime siano assorbite dal reato di maltrattamenti nella sua configurazione di base.
Più complessa è la soluzione per l’ipotesi che i maltrattamenti siano stati realizzati per il tramite di consapevoli atti di lesioni comuni, lievi o lievissime; cioè attraverso atti che abbiano prodotto eventi i quali, ove non sorretti da volontà dolosa, non entrano a comporre il contenuto della specifica circostanza aggravante prevista dal comma finale dell’articolo 572 c.p..
Parte della dottrina (Pisapia, Maltrattamenti in famiglia e verso fanciulli, in Nss. Digesto Italiano, X, 1964, pag. 80) ha osservato che tali atti costituiscono una usuale manifestazione dei tipici maltrattamenti e per tale ragione devono condividere la stessa disciplina delle percosse, ingiurie e minacce, perdendo la loro autonomia e venendo assorbite nella specifica fattispecie delittuosa che concorrono a definire.
La tesi non convince altra dottrina (Coppi), che sostiene l’ipotesi che i predetti reati di lesione personale concorrano con il reato di maltrattamenti e ne ravvisa il fondamento giustificativo nel fatto che il sistema non contiene una sicura indicazione nel senso dell’assorbimento. Si segnale, inoltre, che rispetto alle lesioni manca una disposizione analoga a quella dettata per le percosse e contenuta nella norma di cui all’articolo 581 comma 2 c.p.. L’opzione a favore del concorso di reati, si sottolinea, ha il senso di mettere in rilievo che le lesioni offendono la integrità fisica della persone in misura più grave delle semplici percosse, sicchè appare del tutto congruo ritenere che quando i predetti atti abbiano costituito lo strumento per realizzare un regime di vita vessatorio se ne delinea una duplice rilevanza penale: come reati in sé e come elementi costitutivi dell’ulteriore reato di maltrattamenti in famiglia.
La giurisprudenza concorda con la tesi del concorso, ritenendola imposta dalla diversa obiettività giuridica del reato di maltrattamenti e del reato di lesioni personali, e ribadisce che il delitto di maltrattamenti assorbe soltanto quelli di ingiuria, percosse e minacce, anche se gravi, e solo nel caso in cui tali comportamenti siano stati contestati come finalizzati al maltrattamento (da ultimo Sez. 6, Sentenza n. 13898 del 28/03/2012 Ud. (dep. 12/04/2012 ) Rv. 252585).
La condotta di maltrattamenti: spunti ricostruttivi. Come si è già premesso, la definizione del rapporto tra maltrattamenti e lesioni personali è uno degli snodi fondamentali per stabilire quali siano le puntuali condotte che il legislatore ha inteso ricomprendere nell’ambito della specifica tutela della fattispecie contemplata dall’articolo 572 c.p..
La questione è indubbiamente complessa e ruota attorno al significato del termine “maltratta”, che la norma impiega per designare la condotta costitutiva del reato e che va sviscerato in una duplice direzione: in primo luogo per stabilire se vi possano rientrare atti privi di autonoma rilevanza penale; ed in secondo luogo per stabilire se vi siano atti i quali, per la pregnante carica di lesività e per l’autonoma rilevanza penale che possiedono, fuoriescano dal concetto di maltrattamenti ed esauriscano il loro significato offensivo nel quadro della norma incriminatrice che li contempla.
In relazione al primo punto è certo da condividere l’orientamento, vero e proprio diritto vivente, che ricomprende nella materialità dei maltrattamenti fatti in sé privi di autonoma rilevanza penale e ne individua i tratti distintivi nel loro connotato di abitualità e nel loro configurarsi come lesivi della complessiva personalità della vittima, che viene mortificata ed umiliata nel contesto di un rapporto che dovrebbe tutelarne le variegate manifestazioni e favorirne il fisiologico sviluppo e potenziamento. Sicchè vengono ad assumere rilievo tutti gli atti che rendano abitualmente dolorose e mortificanti le relazioni tra il soggetto attivo e la persona offesa ed infliggano a quest’ultima dolore, disagio e avvilimento.
Come è noto vi rientrano atti come la abituale privazione di cibo, l’abituale atteggiamento di disprezzo, la ripetizione di atti che provocano disgusto e paura; il consentire al minore di vivere in stato di abbandono in strada per chiedere l’elemosina, l’utilizzo di mezzi e metodi trascendenti qualsiasi aspetto di liceità correttiva ed estranei a ogni plausibile scopo pedagogico formativo. E vi rientrano altresì tutti quei comportamenti che siano tali da incidere sullo sviluppo psicofisico della vittima ed a prescindere dalla circostanza che siano stati percepiti come maltrattamenti dalla stessa vittima (Sez. 6, Sentenza n. 36503 del 23/09/2011 Ud. (dep. 10/10/2011 ) Rv. 250845, con riguardo ad una fattispecie in cui la madre, in concorso con il nonno del minore, aveva nel tempo e fino all’età preadolescenziale di quest’ultimo, posto in essere atteggiamenti qualificati dal giudice del merito come eccesso di accudienza e consistiti nell’impedire al minore di avere rapporti con i coetanei, nell’escluderlo dalle attività inerenti la motricità, anche quando organizzate dall’istituzione scolastica, ed infine nell’indurlo a cancellare la figura paterna, costantemente dipinta in termini negativi, fino ad impedire allo stesso minore di utilizzare il cognome del padre).
In relazione al secondo punto si delineano invece maggiori problemi, dovendosi comprendere se sussistano criteri idonei a definire il confine negativo del concetto di maltrattamenti; quel discrimine, cioè, che, similmente alla progressione criminosa che si realizza nella sequenza percosse-lesioni, consenta di stabilire ciò che è ancora maltrattamento e ciò che è qualcosa di più grave e ad esso estraneo.
La questione è delicata perché vi è il rischio di una certa confusione di lingue. Sovente, infatti, si è escluso il maltrattamento con l’argomento che il fatto concreto, per la maggiore pregnanza lesiva e la autonoma sanzione per esso apprestata, esauriva l’intero suo disvalore nell’ambito della norma incriminatrice sua propria. Ciò è accaduto con riguardo al reato di riduzione in schiavitù, rispetto al quale si è affermato ( Sez. 6, Sentenza n. 1090 del 12/12/2006 Cc. (dep. 17/01/2007 ) Rv. 235816) che, pur costituendo la condotta di riduzione in schiavitù un necessario maltrattamento, non può ammettersi il concorso con il delitto di maltrattamento per il principio di consunzione o di assorbimento.
La tesi è indubbiamente esatta, ma non offre risolutivi criteri ai fini della verifica che si sta svolgendo. Quello che, infatti, occorre comprendere è se il più grave reato in raffronto entri o meno nella serie di atti che, in ragione della reiterazione nel tempo e del connotato di abitualità, formino la materialità della fattispecie di maltrattamenti in famiglia.
In altri termini: può o no configurarsi il reato di maltrattamenti in famiglia nel caso di reiterazione di reati che offendano anche la personalità psicofisica del soggetto e che, per il complessivo significato offensivo che li connota, siano assoggettati ad un trattamento sanzionatorio più severo di quello previsto per i maltrattamenti?
Pensiamo, per farci subito un’idea, ad una serie di estorsioni che un soggetto, assetato di denaro per procurarsi la droga, commetta a danno del proprio padre; oppure alla serie di abituali violenze sessuali commesse dal marito a danno della moglie. Ed ipotizziamo, per comodità di esemplificazione, che questi atti siano gli unici a venire in rilievo e che la violenza che ne abbia fatto da volano non sia andata oltre le percosse.
Qui la questione si delinea in tutta la sua autonomia e si risolve nel secco interrogativo se tali atti, che di per sé configurano reati più gravi del maltrattamento, possano o no fungere da mattoni costituitivi anche di quest’ultimo reato.
Ed è chiaro che nel rispondere all’interrogativo sarà inevitabile il rilievo che tali fatti, proprio in ragione del loro ripetersi nel tempo e del peculiare contesto intersoggettivo in cui si collocano, appaiono assumere un ulteriore significato offensivo e, trasformando la convivenza in un inferno, ben potrebbero costituire anche il reato di maltrattamenti in famiglia.
Il rilievo, però, innesca una spirale in cui la logica del punto di partenza sconfina nella illogicità del punto di arrivo. E ciò per la determinante ragione che a svilupparlo con coerenza si arriva alla conclusione che costituisca maltrattamento in famiglia ogni e qualsiasi atto che sia idoneo a offendere la personalità della vittima nel contesto dei particolari rapporti presi in esame dall’articolo 572 del codice penale.
Sicchè sarebbe come dire che ogni e qualsiasi reato, a condizione che sia idoneo ad offendere anche la integrità psicofisica del soggetto, viene in rilievo come fatto costitutivo del maltrattamento in famiglia e viene in questa fattispecie sostanzialmente duplicato, sia pure in relazione a quelle sue componenti che configurino una offesa alla integrità psico-fisica.
In tale prospettiva non svolge un ruolo ostativo il fatto che il reato, di per sé considerato, sia ben più grave di un maltrattamento e possa atteggiarsi anche come fatto di vera e propria tortura. Ciò che conta e che esso sia anche un “maltrattamento”, certo ravvisabile in ogni atto di più intensa offensività per la ovvia e banale ragione che colui che tratta “malissimo” il prossimo di certo lo tratta anche “male”.
Tradotta in termini generale, l’argomentazione sopra esposta si risolve in quella che attribuisca al concetto di “maltrattamenti” una portata onnicomprensiva e non distingua in alcun modo il maltrattamento da atti di maggiore pregnanza offensiva. E’ un po’ come dire, si passi la non impeccabile semplificazione, che ogni lesione prodotta con violenza è di per sé una percossa e che ogni omicidio realizzato con identiche modalità violente è pur sempre anche una percossa. Allo stesso modo maltratta il prossimo colui che lo tortura, oppure colui che lo stupra in continuazione; oppure lo sottopone a reiterati atti di estorsione o lo riduce in schiavitù.
E’ agevole, però, l’obiezione che la notazione di buon senso deve fare i conti con il sistema del diritto penale e che su tali premesse le percosse sono altro dalle lesioni e queste sono altro dall’omicidio; e che la norma incriminatrice delle lesioni assorbe l’intero disvalore del fatto e del pari lo assorbe quella sull’omicidio. Sicchè le percosse cessano di esistere per la determinante ragione che il fatto commesso è più grave ed è autonomamente sanzionato; regola che, canonizzata nel comma 2 dell’articolo 581 c.p., vale e si applica in ogni caso in cui le percosse esauriscano la violenza in cui si attua la condotta costitutiva di un reato complesso (rapina, estorsione, violenza sessuale, violenza e resistenza a pubblico ufficiale).
Valgono regole diverse con riguardo al reato di maltrattamenti in famiglia? Può sostenersi che in questo ambito il termine “maltratta” includa ogni fatto che costituisca comunque un “trattar male” e senza alcun riguardo alla eventualità che quel fatto, nella realtà, sia andato ben oltre il trattar male e abbia concretato una tortura o analoghe forme di trattamento disumano? Non può sfuggire l’impatto di siffatta ricostruzione sul principio del ne bis in idem sostanziale ed il suo configurarsi in termini di deroga assoluta, secondo cadenze di difficile inquadramento sistematico e ben oltre quanto previsto dalla norma contenuta nell’articolo 301, u.c., cp, che pure delinea un quadro di eccezionale severità rispetto alle regole del reato complesso e prevede che i singoli elementi costituitivi di un reato commesso in danno del Presidente della Repubblica o di un Capo di Stato estero, ove costituiscano di per sé reato, cessino di rilevare come parti di un reato complesso e tornino a costituire reati distinti ed autonomi.
I confini della condotta di maltrattamento. È chiaro quindi, e così si ritorna al punto di partenza, che occorre intendersi sul significato di “maltrattamento” e verificare se tale termine abbia o meno un confine estremo, superato il quale il maltrattamento cessa di essere tale, diventa qualcosa di ben più grave e trova adeguata, ed esclusiva, considerazione e repressione nel quadro di più gravi fattispecie criminose.
In questa prospettiva torna utile uno sguardo alla disposizione contenuta nell’articolo 43 del codice penale militare di pace, che definisce il concetto di violenza “agli effetti della legge penale militare” e ne specifica le diverse e tipiche forme di manifestazioni.
Lo sguardo deve essere cauto e consapevole, perché si è al cospetto di una norma che non definisce il concetto di maltrattamenti nella totalità delle sue varianti applicative ma solo come forma di manifestazione di un atto di violenza. Ciò nonostante, sembra che la norma possa essere di una qualche utilità proprio per la sua capacità di distinguere, nel panorama degli atti di violenza, quelli che sono da definire “maltrattamenti”.
Il suo tenore letterale è il seguente: “agli effetti della legge penale militare, sotto la denominazione di violenza si comprendono l’omicidio, ancorchè tentato o preterintenzionale, le lesioni personali, le percosse, i maltrattamenti e qualsiasi tentativo di offendere con armi.
Basta un minimo di riflessione per rendersi conto della principale indicazione che emerge da tale norma: per essa il maltrattamento è un atto di manomissione dell’altrui integrità fisica meno intenso delle percosse e tradizionalmente comprensivo di quegli atti che, come le spinte, gli scuotimenti, pur attingendo materialmente l’altrui corpo non producano sensazione di dolore.
Quindi un concetto di maltrattamenti che è circoscritto da un duplice discrimine: da un lato si distingue da quegli atti che non investono materialmente la persona fisica (ingiurie e minacce) ed in cui per lungo tempo si sono inclusi anche quei fatti che, pur investendo fisicamente l’altrui persona, si caratterizzano per il fatto di suscitare disgusto e sensazione di schifo (c.d. ingiuria reale); dall’altro si distingue dagli atti di violenza di maggiore consistenza lesiva e che si esprimono secondo la tradizionale sequenza percosse-lesioni-omicidio.
Sempre in tale ambito, inoltre, si coglie un ulteriore indizio. Se si va a guardare le norme incriminatrici che incriminano la violenza (in particolare articoli 186 e 195 C.p.m.p.) e ne prevedono lo specifico carico sanzionatorio, non si tarderà a constatare come il medesimo trattamento sanzionatorio (reclusione militare da uno a tre anni) connota, indistintamente, i fatti di violenza consistenti in maltrattamenti, percosse lesioni personali lievi o lievissime.
Quindi sembra emergere un tratto distintivo che è per taluni aspetti analogo a quello che secondo parte della dottrina connota il reato di maltrattamenti in famiglia, ove del pari si tende a ricomprendere nel concetto di maltrattamenti le forme di violenza che non vadano oltre le lesioni lievi, tutte equiparate nel trattamento sanzionatorio.
Pur con la cautela già segnalata, sembra comunque possibile trarre da tale raffronto una utile indicazione sistematica, da impiegare nella duplice prospettiva di comprendere ciò che si esaurisce completamente nel maltrattamento e ciò che ne fuoriesce, andando a configurare un distinto reato e trovando in questo reato la sede di esclusiva ed onnicomprensiva rilevanza penale.
Quindi una soluzione che, in linea con quanto emerge dalla circostanza aggravante prevista del comma 2 dell’articolo 572 c.p., tende a ricomprendere nella condotta di maltrattamenti, e solo in essa, quella manifestazioni di violenza che si arrestino alla soglia delle lesioni gravi (uso di violenza non produttiva di sensazioni dolorose, percosse, lesioni lievissime e lesioni lievi). Con la conseguenza che: a) saremo sempre nel campo di applicazione del solo reato di maltrattamenti in famiglia anche nel caso in cui dagli atti di vessazione derivino, quale effetto non voluto e con le prevedibili difficoltà che ciò comporta, derivino lesioni lievissime o lievi; b) non sussistono in tal caso, proprio perché il fatto esaurisce la sua intera rilevanza offensiva nel quadro del reato di maltrattamenti in famiglia, i presupposti per la applicazione concorsuale dei singoli reati di lesioni lievi e lievissime o della figura prevista dall’articolo 586 c.p. (lesioni come conseguenza non voluta di altro delitto doloso).
Maltrattamenti in famiglia e lesioni gravi e gravissime. Adesso proviamo a vedere il rovescio di tale assunto e chiediamoci se sia configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia nel caso di atti che, di per sé considerati, siano integrativi di lesioni gravi e gravissime. Ed è agevole comprendere come il quesito rimane lo stesso anche se al posto delle lesioni gravi o gravissime si collocano atti di violenza sessuale; cioè atti che costituiscono un reato più grave di quello del maltrattamento in famiglia e che sono, in coerenza a tale tratto distintivo, puniti con più severa sanzione.
L’alternativa è molto semplice: da un lato vi è l’opzione che individua nella specifica norma incriminatrice (lesione personale grave o gravissima, violenza sessuale) la sede di esclusiva rilevanza del significato lesivo del fatto, integrata dalla norma sulla continuazione e quindi da un dispositivo in cui la ripetizione nel tempo e la abitualità non svolgono alcuna funzione costituiva di una ulteriore rilevanza penale ed anzi ne attenuano, rispetto al concorso materiale, la risposta sanzionatoria; dall’altro vi è l’opzione che assegna a tali fatti anche il ruolo di mattoni costitutivi del distinto reato di maltrattamenti in famiglia, ritendendo che essi siano comunque fatti di “maltrattamento” e che per tale ragione, ove abituali e ripetitivi, debbano essere considerati produttivi di un duplice significato offensivo (la integrità fisica e la personalità della vittima).
Precisiamo ancora una volta che la questione non si pone nel caso in cui le lesioni gravi o gravissime si siano profilate come conseguenza non voluta di atti di maltrattamento, come nel caso del bimbo che, preda di un padre ossessionato da una educazione “spartana” e costretto a stare al freddo per lunghe ore e con sistematicità, si ammali di una grave forma di broncopolmonite e rischi di morire.
In questo caso la risposta è già contenuta nella norma incriminatrice, che prevede ina circostanza aggravante ad effetto speciale.
La questione si pone nel caso in cui l’atto di lesioni gravi sia sorretto da coscienza e volontà e venga realizzato dopo una serie di percosse o altri fatti di vessazione e soprusi. Ed ipotizziamo che gli atti compiuti prima della lesione grave siano privi di quel connotato di abitualità che serve ai fini della condotta di maltrattamenti e che quel connotato si raggiunga soltanto con l’ulteriore atto di lesioni gravi.
In questo scenario la questione emerge in tutta la sua rilevanza e semplicità, perché si tratta di comprendere se l’atto di lesioni gravi possa completare la serie di pregresse vessazioni e determinare che l’intera sequenza assuma rilevanza nel quadro del reato di maltrattamento in famiglia.
Ed è chiaro che lo scenario rimane immutato anche nel caso in cui le lesioni gravi siano sostituite da un atto di violenza sessuale, dovendosi anche in tal caso stabilire se quest’ultimo reato possa integrare l’anello mancante e far assumere all’intera sequenza di vessazioni, le pregresse e il novum della violenze sessuale, la connotazione di maltrattamenti in famiglia.
Sono facilmente intuibili gli inconvenienti ed i pregi delle due possibili risposte al quesito.
La risposta affermativa imprime al reato di maltrattamenti in famiglia la fisionomia di una fattispecie onnicomprensiva, in cui assume rilievo determinante ogni e qualsiasi condotta di vessazione e di cattivo trattamento, secondo una sequenza che parte dagli sgarbi quotidiani e arriva fino a fatti di indicibile gravità. In questa prospettiva la norma si configura come una singolare e virtuale ipoteca su ogni possibile reato, a condizioni che in esso si ravvisi una componente di “cattivi trattamenti”. In sostanza essa duplica la rilevanza penale dei reati così strutturati, stabilendo che il loro ciclo vitale non si esaurisce con la applicazione della specifica norma incriminatrice che li prevede e li sanziona ma si protrae anche nel reato di maltrattamenti in famiglia, del quale concorrono a formare, assieme a fatti di per sé penalmente irrilevanti, la complessa e variegata base costitutiva.
La risposta negativa comporta il paradosso di “congelare” le più gravi manifestazioni di violenza psicofisica e azzerare la loro rilevanza nel quadro del reato di maltrattamenti in famiglia, collocando tali fatti esclusivamente nell’ambito delle norme incriminatrici che li sanzionano e impedendo che di essi si possa tenere conto ai fini della integrazione del reato di maltrattamenti in famiglia.
Il paradosso, a ben vedere, perde buona parte del suo mordente non appena si esamini la ragion d’essere del reato di maltrattamenti in famiglia ed il suo peculiare contesto di realizzazione. Il precipuo ruolo di tale fattispecie incriminatrice si coglie, infatti, proprio con riguardo a quegli atti che, in sé privi di rilievo penale o dotato di un rilievo penale minimale, assumano un più intenso significato offensivo per la loro reiterazione nel tempo e per il fatto che si collocano in contesti in cui la vittima, bisognosa dell’altrui supporto e dell’altrui assistenza, ha la tendenza a minimizzare la portata dei soprusi e spera costantemente, tacendo e non ribellandosi, che nel prosieguo del tempo le cose possano migliorare. Il maltrattamento si delinea, sovrapponendosi ai singoli fatti in cui si esprime, nel momento in cui tali fatti, per la frequenza e la intensità con cui si realizzano, contraddicono la specifica finalità dei variegati consorzi umani contemplati dalla norma incriminatrice e ne alterano le fisiologiche connotazioni: da luoghi di protezione e di sviluppo della altrui personalità essi diventano luoghi di continua e silenziosa sofferenza, dove campeggiano, protetti da una spessa cortina, veri e propri aguzzini.
E’ quindi evidente il perché della metamorfosi subita dai singoli fatti di cattivo trattamento. Questi, proprio per la abitualità che li connota, cessano di essere singoli reati di ingiuria, minacce e percosse e diventano, nella loro globalità, fatti di offesa alla personalità della vittima, la quale è calpestata e denigrata proprio nel luogo in cui avrebbe dovuto essere protetta e valorizzata.
Del pari evidente è la peculiare direzione che assume la indicata metamorfosi. I piccoli brandelli di vessazioni ed abuso, siano o no di per sé penalmente rilevanti, assumono una diversa fisionomia ed acquistano una peculiare significatività offensiva, andando a ledere un bene (la personalità della vittima) che è la sintesi progressiva dei beni offesi dalle singole condotte.
Ciò ha il senso di dire che la condotta di maltrattamenti in famiglia non comprende ogni e qualsiasi fatto comunque offensivo della personalità morale e della integrità fisica, ma soltanto quelle offese che confluiscono e si disintegrano nella più ampia offesa alla personalità della vittima.
In primo luogo vi rientrano quelle condotte le quali, ancorchè prive di autonomo rilievo penale, configurano “cattivi trattamenti” ed incidono negativamente sull’altrui personalità (scenate ed urla continue, abnormi manifestazioni di gelosia, diniego dell’altrui sfera di riservatezza, contegni platealmente scostumati ed irriguardosi, metodi educativi ossessivi e del tutto incuranti delle altrui inclinazioni o degli altrui limiti).
In secondo luogo vi rientrano i reati di ingiuria, diffamazione, minaccia e percosse, che costituiscono le pietre angolari dei cattivi trattamenti e la concreta modalità di espressione del reato previsto dall’articolo 572 del codice penale.
Rimane il punto interrogativo delle lesioni lievi e lievissime, per risolvere il quale occorre considerare che il reato di maltrattamento in famiglia è aggravato se da esso siano derivate lesioni gravi o gravissime (articolo 572, comma 3, c.p.).
Quale è il senso di tale disposizione? E, soprattutto, quale è il senso del silenzio della norma in ordine alla eventualità che dal fatto di maltrattamento siano derivate lesioni lievi o lievissime?
Secondo un primo approccio tale silenzio non ha alcun valore esegetico e l’ipotesi sopra descritta dovrebbe trovare la propria collocazione nella norma di cui all’articolo 586 c.p. (lesioni come conseguenza non voluta di altro delitto). Siffatta ricostruzione si completa con il rilievo che le lesioni non sono un requisito necessario della condotta di maltrattamenti e che esse, ove volontarie, andranno ad integrare un autonomo reato in concorso col primo.
La tesi non sembra del tutto convincente. Non si comprende, infatti, per quale ragione il legislatore non abbia ampliato la portata dell’aggravante speciale e ricompreso in essa anche la ipotesi che dal maltrattamento siano derivate lesioni lievi o lievissime, così evitando di dover integrarne la disciplina con il ricorso all’articolo 586 c.p., certo di dubbia configurabilità tutte le volte che il reato base sia un reato di percosse.
E’ quindi plausibile l’ipotesi che il legislatore, sulla scorta della disciplina predisposta per il reato di lesioni personali e del peculiare elemento soggettivo che lo connota, abbia ricompreso nella condotta di maltrattamenti anche il fatto di lesioni volontarie lievi e lievissime, considerandolo una delle tipiche manifestazioni del reato di maltrattamenti in famiglia e ritenendo che il disvalore che le contrassegna fosse sufficientemente assorbito in quello che è proprio del reato di maltrattamenti, allo stesso modo di quanto accade per le condotte di percosse, minacce ed ingiuria.
Su tali premesse ben si spiega la ragione per la quale la fattispecie descrittiva del reato di maltrattamenti in famiglia non contempla in alcun modo l’ipotesi che dal reato base siano derivate, quali conseguenze non volute, lesioni lievi o lievissime. A sanzionare tale eventualità, infatti, basta la sanzione prevista per il reato base, che può essere integrato anche da condotte di lesioni dolose lievi o lievissime.
Conclusioni. Tirando le fila di quanto sin qui osservato e correlando il tutto ai contrasti giurisprudenziali circa i rapporti tra maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale, può dirsi che l’indirizzo che sembra più persuasivo è quello che esclude recisamente la possibilità che le violenze sessuali possano integrare il reato di maltrattamenti in famiglia e concorrere con esso. Il reato di violenza sessuale trova la sua esclusiva considerazione e sanzione nella specifica norma incriminatrice e la sua condotta tipica non concorre a delineare l’elemento oggettivo del reato di maltrattamento in famiglia.
Ovviamente i due reati concorrono se le violenze sessuali si inseriscono in una contesto di atti che, considerati di per sé e nei loro connotati di abitualità, costituiscono una condotta di maltrattamenti. Ed in questo caso, in cui il reato di violenza sessuale si colloca su uno scenario che di per sé configura una condotta di maltrattamenti, è indubbio che troverà applicazione la norma sulla connessione dei reati e la conseguente procedibilità di ufficio del reato di violenza sessuale.
Ciò che però va chiarito è che non può ravvisarsi un reato di maltrattamenti in famiglia nel caso in cui gli unici fatti di vessazione e sopruso consistano in ripetuti episodi di violenza sessuale. In tali casi troverà applicazione solo la norma contenuta nell’articolo 609 bis del codice penale, che assorbe l’intero significato offensivo dei fatti posti in essere e non lascia residuare alcuna margine di ulteriore rilevanza penale.