Brevi note sull’ ergastolo ostativo: il grande equivoco.
Come è noto, la Grande camera della Corte europea dei diritti umani l’8 ottobre scorso ha respinto il ricorso presentato dall’Italia contro la sentenza del 13 giugno 2019 sez. I n.77633 Causa Viola contro Italia nella quale era stato stabilito che la condanna al carcere a vita c.d.” ostativo” – senza poter accedere a permessi e benefici – viola l’articolo 3 della Convenzione Europea sui Diritti umani (diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti).
Questo, il punto centrale e conclusivo, della motivazione:” l ‘ergastolo ostativo limita eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità di un riesame della sua pena. Pertanto, tale pena perpetua non può essere definita riducibile ai fini dell’articolo 3 della Convenzione”.
Tale esito non può dirsi sorprendente: in una sua precedente decisione (sentenza Hutchinson c. Regno Unito n. 57592/08, § 42, 17 gennaio 2017) la Corte Edu aveva affermato che: “per essere compatibile con l’articolo 3, tale pena deve essere riducibile de jure e de facto, ossia deve offrire una prospettiva di scarcerazione e una possibilità di riesame. Tale riesame deve basarsi, in particolare, su una valutazione dell’esistenza di motivi penali legittimi che giustifichino il mantenimento del detenuto in carcere. Gli imperativi di punizione, deterrenza, protezione pubblica e reinserimento sono tra questi motivi.”.
Pochi giorni dopo, il 23 ottobre, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 26 luglio 1975)nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata: ciò sempre che, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo.
Si ricorda, in proposito che la collaborazione con la giustizia, in funzione di requisito per l’ammissione al lavoro all’esterno, ai permessi premio e alle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI della legge sull’ordinamento penitenziario, è stata inserita dall’art. 15 del decreto-legge n. 306 del 1992 nel primo periodo del comma 1 dell’art. 4-bis, in precedenza introdotto nel medesimo ordinamento penitenziario dall’art. 1 del decreto-legge n. 152 del 1991.
Non è dato –ovviamente – conoscere quale sarà la traiettoria motivazionale che riterrà di seguire il Giudice costituzionale (allo stato è noto unicamente quanto anticipato mediante un comunicato stampa della Consulta): si può ragionevolmente presumere che essa si incentrerà sul precetto di cui all’art. 27 della Costituzione (“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) e cercherà di stabilire una linea di continuità con precedenti decisioni della Corte costituzionale medesima (Corte Cost. n. 306 del 1993 Corte Cost. sent. n. 273 del 2001), pur non negando –ma, anzi, riaffermando- la compatibilità della pena dell’ergastolo (art. 22 cp) con la Carta costituzionale.
E’ il caso di rammentare, conclusivamente,sul punto, che proprio nella sentenza n. 273 del 2001 il Giudice delle leggi stabilì che” In questa prospettiva, in relazione all’esecuzione delle pene detentive per i delitti indicati dal comma 1, primo periodo, dell’art. 4-bis, la collaborazione con la giustizia – già rilevante nell’ordinamento sul terreno del diritto penale sostanziale (v., ad esempio, art. 630, quinto comma, cod. pen.; art. 74, comma 7, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309; art. 8 del decreto-legge n. 152 del 1991, convertito, con modificazioni, nella legge n. 203 del 1991) – assume, non irragionevolmente, la diversa valenza di criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata, che a sua volta è condizione necessaria, sia pure non sufficiente, per valutare il venir meno della pericolosità sociale ed i risultati del percorso di rieducazione e di recupero del condannato, a cui la legge subordina, ricorrendo a varie formulazioni sostanzialmente analoghe, l’ammissione alle misure alternative alla detenzione e agli altri benefici previsti dall’ordinamento penitenziario.”
Allo stato, però sembra opportuno non sottrarsi dall’esternare un convincimento: l’approdo della Corte Edu, ove valutato nella sua integralità, non sembra né intrinsecamente coerente, né –ed è quel che più rileva- compatibile con il precetto di cui all’art. 27 comma III della Costituzione italiana(“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”).
Sotto il profilo della coerenza “intrinseca” è necessario chiedersi cosa si intenda per “rieducazione”; è, questo, un concetto autonomo e soggettivo, che attiene alla persona del condannato? Ovvero è un concetto intersoggettivo che va misurato in funzione del reinserimento sociale del medesimo?
Insomma:rieducazione è sinonimo di “risocializzazione”?
Nella sentenza Murray c. Paesi Bassi, del 26 aprile 2016 tale equazione venne espressa con chiarezza – pur non negando la Corte Edu che detta equiparazione non fosse esplicitamente rinvenibile nella Carta dei Diritti umani.
Il riferimento dovrebbe rinvenirsi nella giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca (art. 1 GG, a norma del quale «la dignità della persona umana è intangibile»). La Corte di Strasburgo (al § 69 della decisione Vinter c. Regno Unito) sintetizza così il concetto: il rispetto della dignità umana comporta che l’esecuzione di una pena detentiva perpetua debba lasciare al detenuto una «possibilità concreta e realistica» di ritrovare un giorno la sua libertà; in altri termini, significa che «lo Stato colpisce nella sua essenza la dignità umana se priva un detenuto di qualsiasi speranza di ritrovare la sua libertà».
Sembrerebbe quindi, che un essere umano, sia “sociale” o, semplicemente, non sia (sentenza della Grande Camera Vinter c. Regno Unito, del 9 luglio 2013) .
In passato, però, in diversa fattispecie, la Corte Edu, ciò ha negato: si ricorda in proposito che la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, (in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito) ha concluso che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire: e ciò, ovviamente, anche in relazione a patologie che impediscano a chi ne è afflitto la possibilità di ogni socializzazione (in quel caso si trattava di una signora, ammalata di Sla, impossibilitata ad ogni attività, sebbene lucida mentalmente).
La divaricazione sembra evidente: un essere umano irrimediabilmente ammalato ed impossibilitato a condurre una esistenza sociale, non per questo conduce…una esistenza non dignitosa,e pertanto, non può liberamente decidere di porvi fine; di converso, sarebbe però non.. dignitoso che un criminale macchiatosi di gravi delitti non abbia una “prospettiva” di cessazione dello stato detentivo.
Anche sotto il profilo del rapporto con l’art. 27 della Costituzione sembra non esservi coincidenza: “rieducazione” equivale ad emenda morale attraverso l’espiazione della pena; il detenuto può comprendere il disvalore della propria condotta anche non relazionandosi con la società esterna; tanto, in armonia con una considerazione della “persona” (art. 2 Cost.) che prescinde dall’inserimento “sociale” di quest’ultima, e non è da ciò condizionata.
Si renderà il concetto, muovendo da un caso di scuola: si ipotizzi l’evenienza di un detenuto, destinatario della pena dell’ergastolo, che venga colpito da una grave malattia perdendo l’uso degli arti e di tutti i sensi, pur mantenendo intatte le capacità intellettive; un detenuto insomma, che non possa “socializzare” nel senso di interazione con la società esterna; diremmo noi, oggi, che questo detenuto è una “non persona” e che, in quanto tale non possa essere “rieducato” attraverso l’espiazione della pena, pur se questa sua eventuale rieducazione non possa giammai, per condizioni esterne, trasmodare in una risocializzazione?
La risposta è certamente negativa.
La finalità rieducativa della pena (coscienza del disvalore arrecato, finalizzata ad una “emenda” del reo) può essere raggiunta a prescindere dalla circostanza che essa si traduca (anche) in una (aspettativa alla) risocializzazione dello stesso.
E’ questa la considerazione filosofica che è sottesa al ripudio della pena di morte: quest’ultima, che può apparire, in teoria, in casi estremi, soddisfare l’esigenza retributiva della pena (malum actionis ob malum passionis) confligge con l’esigenza rieducativa: il detenuto, cessando anzitempo la sua esistenza terrena, non si emenda e non comprende il disvalore arrecato (si vedano in proposito gli atti parlamentari prodromici all’approvazione della legge 30 gennaio 1963, n. 300 con la quale lo Stato italiano ha ratificato la Convenzione europea di estradizione; ribadendo l’espressa riserva del rappresentante italiano formulata in sede di sottoscrizione nel senso che in nessun caso il nostro Stato avrebbe accordato l’estradizione per reati puniti dalla legge dello Stato richiedente con la pena di morte).
Ma non è vero il contrario: all’emenda del reo (che è un sentire soggettivo) può pervenirsi anche laddove questi non possa (più) socializzare.
E’ appena il caso di ricordare poi, restando al sistema italiano, i travagli legislativi (legge 15 marzo 2010, n. 38 legge n. 219 del 2017) e giurisprudenziali (Corte Costituzionale, 16/11/2018, n.207) in tema di c.d. eutanasia: concreta testimonianza della aspirazione alla considerazione della persona umana non condizionata dalle proprie possibilità “sociali”.
A questo punto, non resta che formulare una considerazione ed un auspicio.
La prima: l’affermazione secondo cui la decisione della Corte Edu sull’ergastolo ostativo spinga il baricentro delle tutele verso la persona umana è quantomeno parziale, se non anche contraddittoria, avuto riguardo alla esigenza rieducativa della pena.
Sarebbe più esatto affermare, semmai, che il veto all’ergastolo ostativo si incentra sulla considerazione della persona quale “essere sociale”. Ma non sembra che tale opzione sia armonica con l’attuale sistema costituzionale italiano.
Ciò se si resta ancorati all’architrave motivazionale della Corte Edu che è – è bene rammentarlo- quello espresso nel petitum del ricorrente (§53. “Dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione, il ricorrente denuncia la pena dell’ergastolo che gli è stata inflitta in quanto la stessa non è riducibile e non gli offre alcuna possibilità di beneficiare della liberazione condizionale, il che sarebbe contrario alle condizioni poste da tale disposizione. Sulla base degli articoli 3 e 8 della Convenzione, egli lamenta inoltre una incompatibilità del regime penitenziario con l’obiettivo di correzione e di reinserimento dei detenuti.”).
E’ fondamentale ribadire, infatti, che la Corte Edu non afferma, né ha mai affermato, per il vero, che l’ergastolo, in quanto “pena perpetua”, sia ex se “trattamento inumano e degradante”, ma che (§ 136, che richiama la sentenza Vinter, sopra citata, § 113)” la dignità umana, che si trova al centro stesso del sistema messo in atto dalla Convenzione, impedisce di privare una persona della sua libertà in maniera coercitiva senza operare nel contempo per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà”.
Il vero è però che, in concreto, l’autorevole opinione della Corte Edu rischia di pervenire ad una interpretatio abrogans della pena dell’ergastolo in quanto “perpetua” (art. 22 cp): infatti v’è da chiedersi quando mai (salvo non auspicabili ipotesi di fallimento del sistema restrittivo ex art. 41 bis) si potrebbe sostenere “l’attualità della partecipazione all’associazione criminale” in capo ad un soggetto, detenuto da lungo tempo, in regime di interdizione dei contatti con l’esterno; ed in forza di quali ragionamenti si potrebbe, in simile quadro, utilmente comprovare un (concreto e non apodittico) “pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata”.A questo punto, il giudizio resterebbe rimesso alla “partecipazione al percorso rieducativo” del condannato e, v’è da scommettere, ciò accadrà sempre, o quantomeno nella stragrande maggioranza dei casi.
Con quali e quante nocive conseguenze, in punto di deterrenza dissuasiva speriamo di non doverlo scoprire mai: meglio un sano equilibrismo dialettico, che un depotenziamento delle esigenze di difesa sociale della collettività da criminali senza coscienza né dignità quali certamente sono, per primi, i mafiosi.
Fabio Taormina
Presidente di Sezione del Consiglio di Stato