a cura di Massimo Coppolino
Sommario:1. Premessa; 2. L’ambigua nozione di “profitto del reato” funzionale alla confisca; 3. Confisca diretta e fungibilità del bene: la prova della lecita provenienza del denaro; 4. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
La confisca si sostanzia nell’espropriazione ad opera dello Stato delle cose, mobili o immobili, afferenti al reato, nel senso che servirono o furono destinate a commetterlo o perché ne sono il prodotto, il prezzo o il profitto ovvero perché la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione di esse costituisce reato.
La confisca è annoverata nel codice tra le misure di sicurezza. Dal dato sistematico è perciò possibile inferire che la confisca è una misura di sicurezza patrimoniale.
Cionondimeno, il suo inquadramento tra le misure di sicurezza ha suscitato molteplici perplessità in dottrina. Ed invero, secondo parte del formante dottrinale tratterebbesi non già di una misura di sicurezza, quanto piuttosto di una pena accessoria ovvero di una sanzione sui generis, un istituto ibrido tra le pene e le misure di sicurezza.
Secondo autorevole dottrina, invece, non vi sarebbero ragioni per ritenere che la confisca non appartenga al genus delle misure di sicurezza, in quanto il dato sistematico ben si concilierebbe con la ratio giustificatrice dell’istituto. In specie, la confisca ha quale precipuo scopo quello di prevenire la commissione di futuri reati, «mediante l’espropriazione a favore dello Stato di cose che, provenendo da illeciti penali o comunque collegate alla loro esecuzione, mantengono viva l’idea e l’attrattiva del reato». Cionondimeno, a fronte del «polimorfismo» dell’istituto, la confisca può assumere vesti diverse in ragione dello scopo che mira a perseguire. Basti pensare, a titolo esemplificativo, alla confisca disposta nell’ambito delle misure di prevenzione di cui al D. Lgs. 159/2011 (c.d. codice antimafia). Ma, come puntualmente rilevato da autorevole dottrina, se le altre misure hanno quale presupposto applicativo la pericolosità del soggetto, la confisca, ex art. 240 c.p., ha quale presupposto la pericolosità della cosa, nel senso che la disponibilità di cose che costituiscono strumenti per commettere un reato o provenienti da esso può rappresentare un rafforzamento dell’idea e dell’inclinazione a commettere nuovi reati.
Ed invero, il presupposto della pericolosità della cosa, nell’ipotesi di confisca c.d. facoltativa, ex art. 240 co. 1 c.p., implica che, in sede giurisdizionale, il giudice ne accerti la sussistenza in riferimento al soggetto che possiede la cosa. Qualora, invece, si versi nella diversa ipotesi della confisca c.d. obbligatoria, ex art. 240 co. 2 c.p., la pericolosità della cosa si dà per presunta ope legis.
Peraltro, l’istituto della confisca ha carattere perpetuo. Ciò si evince precipuamente dal dato normativo ex art. 236 c.p., non essendo ivi contenuto alcun richiamo all’art. 207 c.p., che segnatamente disciplina l’ipotesi di revoca delle misure di sicurezza. Ciò si spiega, altresì, alla luce del fatto che – atteso che la pericolosità sociale può venir meno, legittimando in tal guisa la revoca della misura di sicurezza applicata – la pericolosità della cosa permane fin quando resta nella disponibilità del soggetto. Tale assunto, peraltro, coincide coerentemente con la ratio cui soggiace l’istituto della confisca.
In specie, quanto all’ipotesi di confisca facoltativa, nel caso di condanna, il giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono (i.e., concretamente utilizzate dall’agente) o furono destinate a commettere il reato (i.e., le cose che erano state predisposte ab origine per la commissione dell’illecito, ma che, a posteriori, non sono state utilizzate), e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto.
Ne discende che la disposizione di cui all’art. 240 co. 1 c.p. pone in capo al giudice un potere discrezionale volto ad accertare la correlazione tra il reo e le cose attinenti alla commissione del reato poiché rappresenterebbero un incentivo alla reiterazione di nuovi reati.
Il potere attribuito al giudice riflette, pertanto, una funzione specialpreventiva cui l’istituto è volto.
Dal dato letterale della norma de qua si evince, altresì, che il Legislatore abbia voluto circoscrivere l’ambito applicativo esclusivamente ai reati dolosi, in quanto le formule utilizzate dallo stesso Legislatore («servirono» e «furono destinate») sono espressione di una intenzione finalistica che è soggettivamente riconducibile all’agente.
Quanto al concetto di “prodotto del reato” sembrano non esservi dubbi sul fatto che con tale inciso si faccia riferimento alle cose materiali che costituiscono il risultato dell’attività criminosa posta in essere dal reo.
Ambigua e terreno fertile di dibattiti dottrinali e, soprattutto, giurisprudenziali è, invece, la nozione di “profitto del reato”.
2. L’ambigua nozione di “profitto del reato” funzionale alla confisca
Secondo una definizione generalmente condivisa, il “profitto del reato” si sostanzia nella utilità economica conseguita con la commissione del reato.
Sul punto, la Corte di Cassazione, anche a Sezioni Unite, ha fissato nel corso del tempo una serie di principi cardine, in virtù dei quali perché il profitto possa rilevare in sede di sequestro – atto prodromico alla confisca – e di confisca, deve essere corroborato dal requisito della pertinenzialità, nel senso che deve rappresentare il risultato in via immediata e diretta del reato che lo presuppone. In altre parole, tra la res ed il reato deve sussistere, anzitutto, un nesso di pertinenzialità. In tal guisa, il criterio della pertinenzialità, come appena prospettato, rappresenterebbe parametro dirimente ai fini della individuazione di cosa può essere, o meno, confiscabile. Cionondimeno, la stessa giurisprudenza di legittimità ha precisato che, pur volendo ammettere la confiscabilità dell’utilità che sia mediata, è comunque fisiologicamente necessario individuare il profitto originario e, conseguentemente, accertare l’iter attraverso cui è avvenuta la sua trasformazione. Inoltre, il profitto ed il mutamento patrimoniale di cui ha beneficiato il reo devono essere imprescindibilmente connessi da un nesso eziologico. Ne deriva che un qualsivoglia vantaggio futuro, immateriale ovvero non ancora materializzatosi in termini squisitamente economico-patrimoniali, non può costituire un “profitto”.
Alla stregua di quanto appena detto, giova rilevare che, secondo un arresto giurisprudenziale meno risalente delle Sezioni Unite del Supremo Consesso, la nozione di profitto funzionale alla confisca deve essere inteso in senso molto più ampio. Ne discende che il concetto di profitto involge «non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attività criminosa la trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è quindi di ostacolo al sequestro preventivo, il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Il concetto di profitto o provento di reato dovrebbe intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa». In tal guisa, ne deriverebbe, come ha osservato certa dottrina, una ingiustificata applicazione della confisca diretta mediante una patologica estensione del concetto legislativo di profitto, il cui profilo nozionistico investe pacificamente anche i beni che abbiano subito una trasformazione. Pur tuttavia non può disattendersi il dato tale per cui deve sussistere un nesso di pertinenzialità tra la res e il reato posto in essere dall’agente.
Conformemente a quanto statuito nel suddetto arresto giurisprudenziale, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno ribadito in un’altra pronuncia che «il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa».
Secondo altro ed opposto orientamento giurisprudenziale, invece, il profitto costituisce esclusivamente il vantaggio immediato e diretto eziologicamente derivante dal reato.
L’esatta individuazione della nozione di “profitto” non assume meri risvolti teorici, ma è indubbiamente di impreteribile giovamento per disvelare la vera natura della confisca, sia essa diretta o per equivalente.
Ed invero, se si ritenesse che la confisca miri ad ablare più di quanto il reo abbia concretamente conseguito in termini economico patrimoniali dalla commissione del reato, l’istituto assurgerebbe ad una funzione puramente punitiva ed assumerebbe perciò natura di pena.
In senso opposto, qualora oggetto della confisca siano beni di valore pari a quanto conseguito in modo illecito nei suddetti termini dall’agente, tenuto conto dei costi sostenuti dall’agente per commettere il reato, ne discenderebbe che l’istituto assumerebbe natura ripristinatoria.
Giova precisare che la confisca facoltativa può essere disposta solo qualora sia stata pronunciata una sentenza di condanna che conclude il procedimento penale. Così dispone l’art. 240 co. 1 c.p., il cui generico riferimento ad una «condanna» ricomprende anche la sentenza di patteggiamento ex art. 445 co. 1 c.p.p. Di guisa che la confisca viene disposta in tutte le ipotesi indicate nell’art. 240 c.p., sia che si tratti di confisca facoltativa, sia che si tratti di confisca obbligatoria. Del pari, sia nel caso in cui si versi nell’ipotesi di confisca facoltativa, sia che si versi nell’ipotesi di confisca obbligatoria, la confisca non può essere disposta qualora le cose, la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione e l’alienazione delle quali costituisce reato, appartengano «a persona estranea al reato» (art. 240 co. 4 c.p.).
Sul punto, giova rilevare che con l’inciso «a persona estranea al reato» il Legislatore ha inteso riferirsi all’ipotesi in cui il proprietario della cosa sia una persona diversa dall’autore o finanche da un soggetto che è concorso nel reato.
Un aspetto intimamente collegato a quanto appena detto, riguarda il più generale ambito della responsabilità penale delle persone giuridiche, come disciplinato dal D. Lgs. n. 231/2001. In specie, la persona giuridica è penalmente responsabile ai sensi del D. Lgs. cit. qualora il reato sia stato posto in essere da una persona fisica, che agisce in qualità di organo dell’ente (c.d. immedesimazione organica), a vantaggio della persona giuridica. In siffatta ipotesi, si potrà disporre la confisca della cosa di cui è proprietaria la persona giuridica.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno chiarito, a tal riguardo, che qualora sia stato commesso un reato per cui non è prevista la responsabilità dell’ente – è questo il caso dei reati tributari – la confisca può essere disposta nei confronti della persona giuridica solo ove sia in concreto priva di autonomia e rappresenti uno schermo attraverso il quale l’amministratore agisca come effettivo titolare.
Segnatamente per ciò che riguarda la confisca obbligatoria, è sempre ordinata la confisca: a) delle cose che costituiscono il prezzo del reato; b) dei beni e degli strumenti informatici o telematici che risultino essere stati in tutto o in parte utilizzati per la commissione dei reati tassativamente indicati nell’art. 240, co. 2, n. 1-bis), c.p., nonché dei beni che ne costituiscono il profitto o il prodotto ovvero di somme di denaro, beni o altre utilità di cui il colpevole ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale profitto o prodotto, se non è possibile eseguire la confisca del profitto o del prodotto diretti; c) delle cose, la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione e l’alienazione delle quali costituisce reato, anche se non è stata pronunciata condanna.
È utile rilevare che, in relazione alla prima ipotesi, per “cose che costituiscono il prezzo del reato” si intende denaro o altra utilità economica che sono state date al fine di istigare o determinare nel soggetto la volontà di commettere il reato. Il prezzo del reato, dunque, corrisponderebbe, in questi termini, al corrispettivo per la sua esecuzione. Secondo il tenore letterale dell’art. 240, co. 2, c.p., in siffatta ipotesi, la confisca “è sempre ordinata”. Sul punto, parte della dottrina ritiene che la confisca obbligatoria conseguirebbe solo a fronte della pronuncia di una sentenza di condanna; secondo taluno, invece, la confisca obbligatoria conseguirebbe anche a seguito di una pronuncia di proscioglimento o di assoluzione.
In relazione all’ipotesi di confisca obbligatoria afferente alle cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione è prevista dalla legge come reato, in dottrina si parla di cose intrinsecamente criminose.
A tal riguardo, è necessario distinguere se si tratti di cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisca sempre reato – in tal senso si versa in ipotesi di divieto c.d. assoluto – ovvero se la fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione delle cose possa essere autorizzato in via amministrativa. Nell’ipotesi da ultimo menzionata, di divieto c.d. relativo, la confisca è disposta obbligatoriamente qualora manchi in concreto la suddetta autorizzazione ovvero se non sono state rispettate le condizioni cui era subordinato il rilascio dell’autorizzazione.
In entrambi i casi, tuttavia, la confisca delle cose intrinsecamente criminose deve essere disposta anche in assenza di una sentenza di condanna.
Un aspetto degno di rilievo riguarda l’ipotesi in cui il giudice debba disporre, in casi diversi da quelli contemplati dall’art. 240 co. 2 c.p., la confisca obbligatoria, ancorché non sia stata pronunciata una sentenza di condanna. In specie, particolari nodi interpretativi sorgono qualora il procedimento penale si concluda con la pronuncia di una sentenza che dichiari l’estinzione del reato a seguito di intervenuta prescrizione.
Cionondimeno, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 210, co. 1, e 236, co. 2, c.p., si desume agevolmente che non vi è alcun elemento che possa ostare all’applicazione della confisca laddove sia intervenuta la prescrizione. Ciò è quanto sostenuto peraltro da certa giurisprudenza.
Il tema ha interessato anche la giurisprudenza della Corte EDU, secondo cui se la confisca va intesa come pena, ne discende che la sua applicazione presuppone necessariamente una formale dichiarazione di responsabilità. Con maggior grado di dettaglio, la Corte EDU, muovendo dall’assunto per cui la confisca possa talora assumere in senso sostanziale le vesti di una pena, ed in quanto tale soggetta alle garanzie riservate dalla C.E.D.U. in materia penale, ha statuito che la sua applicazione alla stregua di una sentenza che proscioglie l’imputato per intervenuta prescrizione viola l’art. 7 CEDU, ravvisando nella dichiarazione di responsabilità cristallizzata dalla pronuncia del giudice un corollario del principio di legalità del reato e della pena.
Sulla linea interpretativa della Corte di Strasburgo, la Corte costituzionale si è successivamente pronunciata sulla questione chiarendo che un accertamento formale di responsabilità, ritenuto imprescindibile dalla Corte EDU nella sentenza Varvara c. Italia, può essere contenuto anche in una sentenza che dichiara l’estinzione del reato per prescrizione.
Conformemente a quanto stabilito dal Giudice delle Leggi, le Sezioni Unite del Supremo Consesso si sono adeguate al suddetto approdo giurisprudenziale chiarendo che qualora il procedimento penale si concluda con una sentenza che dichiara l’estinzione del reato per prescrizione, la confisca potrà essere disposta sempre che sia intervenuta una precedente pronuncia di condanna (in primo grado o in appello).
Ed invero, si ritiene che non vi siano elementi validi a corroborare una tesi contraria, atteso che la prescrizione è una causa di non punibilità sopravvenuta, e, in quanto tale, non esclude il reato, ma esclude, invece, la punibilità in concreto.
Tuttavia, in senso diametralmente opposto, la Quinta Sezione della Corte di Cassazione, in un recentissimo arresto, ha statuito che, a seguito della sentenza di condanna da parte del Giudice di prime cure con cui venga disposta la confisca del bene ex art. 240, co. 1, c.p., se la Corte d’Appello pronunci una sentenza di proscioglimento nei confronti dell’imputato che dichiari la prescrizione del reato, la misura ablatoria applicata ab origine deve essere revocata. In tal guisa, ha chiarito il Supremo Consesso, i principi sanciti dalle Sezioni Unite Lucci non sono segnatamente applicabili nell’ipotesi de qua.
Quanto sin qui detto, è utile per comprendere la ratio della confisca per equivalente, avente ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di cui il reo abbia disponibilità, per un valore corrispondente al prezzo, al profitto o al prodotto del reato.
In merito alla natura dell’istituto de quo, attesa la fisiologica mancanza del nesso di pertinenzialità tra reato e beni confiscati (che contraddistingue, invece, la confisca diretta), la confisca per equivalente assume la forma non già di una misura di sicurezza, quanto piuttosto di una pena. La confisca per equivalente ha pertanto natura sanzionatoria e non può perciò essere applicata retroattivamente, in ossequio al principio di irretroattività della pena (art. 25, co. 2, Cost.).
Giova rilevare che la finalità cui è preposta la confisca per equivalente è quella di privare in qualsiasi modo l’autore del reato dei vantaggi di cui ha beneficiato a seguito della attività da lui posta in essere. Ed inoltre, la confisca per equivalente è disposta laddove non sia possibile disporre la confisca c.d. diretta dei proventi derivanti dal reato.
3. Confisca diretta e fungibilità del bene: la prova della lecita provenienza del denaro
In tale articolato quadro di riferimento, si inserisce una questione di non poco conto rispetto alla quale si è registrato un andamento ondivago da parte della giurisprudenza.
In particolare, la problematica involge il tema afferente, ai fini del sequestro e della confisca diretta, la fungibilità del bene.
Occorre sin da subito rilevare che la confisca può essere di proprietà (che impone l’accertamento del nesso di derivazione diretta della cosa dal reato), di valore (che prescinde dall’accertamento del nesso di pertinenzialità) ovvero di denaro (che sarebbe “sempre” diretta, prescindendo, di fatto, da una parte, dall’accertamento del nesso di derivazione del denaro dal reato in ragione della natura del bene, cioè dalla sua fungibilità, e, dall’altra, anche dalla eventuale prova positiva della liceità ed estraneità del denaro che si sequestra rispetto al reato).
Tanto premesso, se si ritenesse che la fungibilità esenti sempre dalla prova che il denaro sia legato al prezzo o al profitto del reato si verificherebbe una completa sovrapposizione della confisca proprietaria con quella di valore, nel senso che quest’ultima, nel caso di confisca di denaro, non sarebbe mai configurabile. Ne discenderebbe pacificamente altresì una compromissione del portato normativo di cui all’art. 322 ter c.p., che assolverebbe in tal guisa, aderendo all’insegnamento giurisprudenziale delle Sezioni Unite Lucci, all’unica funzione di rendere obbligatoria la confisca del profitto che, al contrario, è facoltativa, ex art. 240 c.p.
La più attenta dottrina, a tal riguardo, ha tuttavia osservato come le caratteristiche intrinseche del bene sul quale il potere cautelare ed ablatorio viene esercitato – in particolare il denaro – non possono annullare, ai fini della qualificazione della confisca in termini di confisca diretta, la necessità che la “res” abbia un rapporto di derivazione/pertinenzialità con il reato, atteso che la confisca proprietaria presuppone la derivazione causale dal reato del bene confiscabile. Peraltro, il dato diviene ancor più granitico tenuto conto che non vi sarebbero dati normativi da cui ricavare l’estensione dell’ambito applicativo della confisca in esame.
Segnatamente su tale aspetto la più recente giurisprudenza ha adeguatamente rilevato che «il rapporto di pertinenza tra il bene e il reato, richiesto ai fini del sequestro in funzione della confisca diretta, è strutturalmente autonomo rispetto a quello relativo alle caratteristiche intrinseche del bene, alla sua fungibilità: la verifica del nesso di derivazione non attiene alla natura del bene, alla sua fungibilità o meno, ma esprime in realtà un giudizio di relazione tra la cosa e il reato e nessuna norma sembra consentire di poterne prescindere» e che «la difficoltà operativa del sequestro e della confisca del denaro in ragione della sua fungibilità si evidenzia già quando si tratta di illeciti produttivi di utili che “ab externo” entrano nel patrimonio del reo, accrescendolo (es. un indebito rimborso da parte dell’Erario, il prezzo di una corruzione, o il profitto di una concussione), atteso che, una volta entrato, il denaro illecito si confonde con quello lecito, rendendo così arduo individuare il profitto direttamente collegato al reato».
Il punctum dolens è rinvenibile, pertanto, nella perimetrazione della confiscabilità del denaro in rapporto al diritto di difendersi da parte dell’indagato – dimostrando la liceità del titolo del bene oggetto del provvedimento ablatorio – e nella esigenza, nel rispetto degli artt. 25 e 27 Cost. e artt. 6 e 7 CEDU, di non sovvertire in natura punitiva la confisca diretta, svilendone in tal modo natura giuridica, funzione, statuto.
Pur tuttavia, il dato che precipuamente assume una valenza dirimente attiene, al di là della categorizzazione codicistica, alla possibilità che una confisca, che non sia qualificata “di valore” dal legislatore, assuma in concreto carattere punitivo, cioè, si connoti per quei caratteri che secondo la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sopra menzionata, devono indurre a considerarla come “pena”, da cui ne discenderebbe l’applicazione del principio di legalità, afferente al diritto nazionale e convenzionale, e del giusto ed equo processo, ex artt. 25, 27 e 111 Cost. e artt. 6 e 7 CEDU.
In ultima istanza, giova comprendere se un sequestro qualificato come funzionale alla confisca diretta – in quanto misura di sicurezza e, dunque, formalmente strumentale ad assolvere ad una funzione preventiva – continui ad avere natura di misura di sicurezza anche quando della misura di sicurezza non abbia una componente essenziale, quella, cioè, relativa all’accertamento del nesso di derivazione della cosa dal reato.
Altrimenti, finirebbe per assumere di fatto, sul piano sostanziale, natura punitiva, mutando pertanto natura giuridica, con tutto ciò che ne consegue in termini di principi, di disciplina, di garanzie, di compatibilità con il quadro costituzionale e convenzionale.
4. Considerazioni conclusive
Sebbene la problematica sia costante oggetto di controversie, anche in seno alla giurisprudenza di legittimità, si ritengono opportune talune considerazioni in merito, che involgono la natura giuridica della confisca.
Come già si è avuto modo di precisare, la confisca rientra, alla stregua della collocazione codicistica, nell’alveo delle misure di sicurezza. Con maggior grado di dettaglio, la confisca è una misura di sicurezza patrimoniale, la cui finalità è quella di prevenire la commissione di nuovi reati, mediante l’espropriazione a favore dello Stato di cose che, provenendo da illeciti penali o comunque collegate alla loro esecuzione, mantengono viva l’idea e l’attrattiva del reato.
Ne discende che, con particolare riguardo alla confisca del prezzo o del profitto derivante da reato, a fronte della prova che dimostra la derivazione lecita del denaro non si ravvisa alcuna ragione, né in termini normativi né in termini logico-giuridici, che possa giustificare la confisca di tali somme di denaro, senza che venga compromessa natura, funzione e struttura dell’istituto ex art. 240 c.p. Ciò in quanto, se non si attribuisse alcuna valenza alla prova del titolo lecito del denaro posseduto dal soggetto, che pur tuttavia ha commesso un reato che implica l’applicazione della confisca, l’istituto assumerebbe le vesti di una pena accessoria, poiché assurgerebbe non già ad una funzione specialpreventiva, come sopra precisato, bensì ad una funzione punitiva, certamente estranea all’istituto de quo.
Invero, se si accedesse a una tale tesi interpretativa si sottoporrebbe a sequestro una somma che, in quanto derivante da un titolo lecito, non rappresenta di certo un incentivo a commettere nuovi reati. A fortiori, le Sezioni Unite Lucci hanno stabilito con incontestabile chiarezza che la confisca, e dunque il sequestro preventivo di somme di denaro, ha sempre natura “diretta”. Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite il profitto del reato è solo il vantaggio di immediata e diretta derivazione causale del reato; la confisca per equivalente, rappresentando una alternativa alla confisca diretta ed operando solo quando non può trovare applicazione la ordinaria misura di sicurezza patrimoniale, presuppone che il prezzo o il profitto del reato abbia una consistenza naturalistica e/o giuridica tale da permettere l’ablazione, nel senso che, una volta entrato nel patrimonio dell’autore del reato, continui a mantenere una sua identificabilità; ove il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa, non soltanto si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, ma perde – per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo . qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica; non avrebbe ragion d’essere – né sul piano economico, né su quello giuridico – la necessità di accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita: ciò che rileva è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo; soltanto, quindi, nella ipotesi in cui sia impossibile la confisca diretta di denaro sorge la eventualità di far luogo ad una confisca per equivalente degli altri beni di cui disponga l’imputato per un valore corrispondente a quello del prezzo o profitto del reato; la confisca del denaro costituente prezzo o profitto del reato pur in assenza di elementi che dimostrino che proprio quella somma è stata versata su quel conto corrente non determina una sostanziale coincidenza della confisca diretta con quella di valore, dal momento che è la prova della percezione illegittima della somma che conta, e non la sua materiale destinazione: con la conseguenza che, agli effetti della confisca, è l’esistenza del numerarlo comunque accresciuto di consistenza a rappresentare l’oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza la eventuale movimentazione di un determinato conto bancario.
Sul punto, occorre rilevare che, sulla scia interpretativa delle Sezioni Unite Lucci, la più recente giurisprudenza di legittimità ha statuito che «ove il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato; e ciò, implicitamente, proprio perché la natura fungibile del bene, che, come sottolineato dalle Sezioni Unite Lucci, si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, ed è tale da perdere – per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo – qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica, rende superfluo accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita». In ragione di ciò, la Corte di Cassazione ha rilevato che «ove si abbia invece la prova che tali somme non possano proprio in alcun modo derivare dal reato […] non sono sottoponibili a sequestro, difettando in esse la caratteristica di profitto, pur sempre necessaria per potere procedere, in base alle definizioni e ai principi di carattere generale, ad un sequestro […] in via diretta». Nella specie ne conseguiva la confisca dei beni giacenti sul conto corrente a fronte della mancanza di prove idonee a dimostrarne la lecita provenienza.
D’altronde, pur accedendo alla tesi giurisprudenziale delle Sezioni Unite Gubert, secondo cui il denaro, quale parametro di valutazione unificante rispetto a cose di diverso valore, sarebbe sempre sequestrabile in via diretta, alla stregua della asserita derivazione lecita delle somme di denaro, verrebbe inevitabilmente viziata la precipua funzione cui assurge la confisca diretta. Ne deriverebbe, altrimenti, un ingiustificato pregiudizio in capo al reo. Peraltro, atteso che la trasformazione che il denaro, profitto del reato, ha subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non osterebbe al sequestro preventivo, il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito, anche quale conseguenza indiretta o mediata dell’attività criminosa dell’indagato, non v’è ragione per ritenere che debba comunque essere disposta la confisca delle somme di denaro di cui è stata dimostrata la legittima provenienza.
In tal guisa, infatti, l’istituto verrebbe defraudato della sua precipua funzione.
La questione indubbiamente amplia ed aggiunge altresì al quadro di riferimento un elemento di assoluta novità di impreteribile rilievo.
Si ritiene, dunque, secondo una lettura costituzionalmente orientata, che la confisca diretta soggiaccia ad una presunzione iuris tantum, sicché solo a fronte del mancato raggiungimento della piena prova della liceità del titolo delle somme di denaro potrebbe giustificarsi l’applicazione della confisca sul bene, compatibilmente con la ratio dell’istituto.
È inopinabile, d’altronde, che il presupposto applicativo della confisca sia la pericolosità della cosa, nel senso della disponibilità di uno strumento che incentivi il reo a commettere nuovi reati. Ciò in quanto la confisca assolve ad una funzione specialpreventiva.
Non si vede, allora, come la cosa lecita possa costituire una esortazione per il reo a commettere nuovi illeciti penali. In tal guisa, verrebbero piuttosto compromessi i principi costituzionali, oltre che sovranazionali, su cui si fonda il nostro ordinamento giuridico.
Giova precisare, peraltro, che, stante la perpetuità della confisca, il reo verrebbe privato in modo permanente di un bene legittimamente posseduto, venendo così meno l’essenza della misura, che assumerebbe in tal guisa una sanzione sui generis.
In ultima analisi, non può, perciò, disattendersi il dato per cui la funzione della confisca si sostanzi in quella più incisiva della prevenzione speciale, anche a fronte della collocazione codicistica e delle diverse pronunce della giurisprudenza di legittimità che ne hanno assegnato uno spiccato finalismo cautelare.