Cass. civ. Sez. Unite Sent., 08-02-2019, n. 3885

di Francesco Lillo

La controversia instaurata da un Comune nei confronti del comodatario per ottenere la restituzione di un immobile concesso in comodato dopo essere stato acquisito al patrimonio comunale ai sensi dell’art. 7, comma 3, della l. n. 47 del 1985 è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, non rientrando tra quelle attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo ex art. 7, comma 1d.lgs. n. 104 del 2010, né tra quelle oggetto di giurisdizione esclusiva in materia urbanistica di cui all’art. 133, comma 1, lett. f), del medesimo decreto legislativo, atteso che l’accordo negoziale intervenuto tra le parti trova fondamento nell’attività “iure privatorum” posta in essere dall’ente in forza della sua posizione di proprietario, senza alcun collegamento con l’interesse pubblico a suo tempo tutelato mediante l’esercizio del potere autoritativo di acquisizione.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHIRO’ Stefano – Primo Presidente f.f. –

Dott. DI IASI Camilla – Presidente di Sez. –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25903-2016 proposto da:

C.F., elettivamente domiciliato in ROMA, LARGO MESSICO 7, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO TEDESCHINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato DANIELE GRANARA;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI BERGEGGI;

– intimato –

avverso la sentenza n. 327/2016 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 05/04/2016.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/07/2018 dal Consigliere RAFFAELE FRASCA;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’avvocato Giuseppe Ruta per delega dell’avvocato Daniele Granara.

Svolgimento del processo

  1. C.F. ha proposto ricorso per cassazione contro il Comune di Bergeggi avverso la sentenza del 5 aprile 2016, con la quale la Corte d’Appello di Genova ha rigettato il suo appello contro la sentenza del Tribunale di Savona del novembre del 2014, la quale aveva accolto la domanda – introdotta dal Comune nel giugno del 2013 con ricorso ai sensi dell’art. 447-bis cod. proc. civ.– intesa ad ottenere la declaratoria di cessazione del comodato di immobili siti in (OMISSIS), concessi al ricorrente in godimento il 9 maggio del 1991, nonchè la condanna al rilascio degli stessi e la corresponsione di un’indennità di occupazione senza titolo.
  2. A sostegno di quella domanda il Comune deduceva di essere proprietario dei beni comodati per averli acquisiti ai sensi della L. n. 47 del 1985,art. 7, comma 3, in conseguenza del mancato adempimento di un ordine di demolizione del 24 dicembre 1987, che era stato debitamente trascritto. Sosteneva che la stipulazione del comodato era stata fatta per venire incontro alle esigenze abitative della controparte.

Nella costituzione del ricorrente, che eccepiva il difetto di giurisdizione dell’a.g.o. e la sussistenza della giurisdizione dell’a.g.a., la nullità del ricorso per indeterminatezza dell’oggetto della domanda, nonchè l’infondatezza nel merito della domanda e in via subordinata chiedeva la limitazione del chiesto rilascio al solo magazzino insistente sul compendio immobiliare e la riduzione della chiesta indennità, il Tribunale dichiarava cessato il comodato alla data dell’8 maggio 2011 e condannava il convenuto al rilascio ed al pagamento di Euro 290,40 mensili dalla domanda al rilascio.

  1. La corte territoriale ha disatteso i motivi di appello del ricorrente, con i quali egli aveva reiterato l’eccezione di difetto di giurisdizione, proposto un’eccezione di nullità dell’atto di acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio comunale, ribadito l’eccezione di nullità della domanda, dedotto la erroneità della sentenza del primo giudice per avere omesso di rilevare la nullità del titolo di proprietà del Comune e, quindi, del contratto di comodato, nonchè l’ulteriore nullità di quest’ultimo ai sensi dell’art. 1325 c.c., n. 3 e art. 1418 c.c..
  2. Al ricorso per cassazione – che propone quatto motivo, il primo dei quali attinente alla giurisdizione ha giustificato l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite – non v’è stata resistenza dell’intimato.
  3. Il ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

 

  1. Con il primo motivo di ricorso si deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 7, 37 e 133 c.p.a. in relazione alla violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1″.

Vi si censura la motivazione con cui la sentenza impugnata ha disatteso il motivo di appello con cui si ribadiva l’eccezione di difetto di giurisdizione dell’a.g.o. e di sussistenza della giurisdizione dell’a.g.a..

La censura è rivolta all’affermazione – fatta dalla sentenza impugnata dopo l’evocazione di giurisprudenza di queste Sezioni Unite relativa all’adozione come criterio discretivo fra dette giurisdizioni della valutazione dell’oggetto della domanda alla stregua del petitum sostanziale, “individuato in base agli elementi oggettivi che caratterizzano la sostanza del rapporto giuridico posto a fondamento della pretesa fatta valere” – che “nella fattispecie a fondamento della domanda restitutoria fatta valere dal Comune nel presente giudizio è stato posto un contratto di comodato sottoscritto dalle parti ovverosia un contratto di natura privatistica che, non solo non presenta alcuna attinenza alla materia urbanistica e all’assetto del territorio, ma neppure costituisce manifestazione di esercizio di pubblici poteri”. Affermazione cui la corte ligure ha fatto seguire quella che “il contrato di comodato, in atti prodotto, deve ritenersi manifestazione di poteri negoziali da parte del Comune, che ha agito “iure privatorum” e dal quale, quindi, sorgono per entrambe le parti tipiche posizioni di diritto soggettivo”.

1.1. Con una prima censura si sostiene che sussisterebbe sulla controversia la giurisdizione del giudice amministrativo, “poichè oggetto della controversia è l’esercizio dei poteri pubblicistici da parte del Comune di Bergeggi, attraverso cui l’Ente ha illegittimamente acquisito al proprio patrimonio l’immobile di proprietà del Signor C.” e ciò avendo il Comune, con delibera giuntale n. 89 del 6 aprile 1991, deliberato di acquisire al patrimonio comunale l’immobile e di non procedere alla demolizione dei manufatti esistenti su di esso “previa dichiarazione dell’esistenza del prevalente interesse pubblico alla (loro) conservazione”. Tanto renderebbe evidente “che il comportamento assunto dall’Ente sia palesemente riconducibile all’esercizio di una potestà di imperio e, quindi, alla manifestazione di un pubblico potere”, il che determinerebbe la sussistenza della giurisdizione amministrativa alla stregua dell’art. 7, comma 1, del cod. proc. amm., là dove prevede che “Sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni.”. Si sarebbe in presenza addirittura di una ipotesi di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f) del cod. proc. amm., che riguarda “le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e edilizia, concernente tutti gli aspetti dell’uso del territorio, e ferme restando le giurisdizioni del Tribunale superiore delle acque pubbliche e del Commissario liquidatore per gli usi civici, nonchè del giudice ordinario per le controversie riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa”.

Tanto sarebbe stato obliterato dalla corte territoriale “affermando che oggetto della causa è il contratto di comodato”, perchè essa avrebbe trascurato la “rilevante circostanza per cui tale contratto è conseguenza dell’esercizio di un potere pubblicistico, e, come tale rientra nella giurisdizione del Giudice Amministrativa”. Diversamente da quanto sostenuto dalla sentenza impugnata il contrato di comodato sarebbe soltanto “la causa petendi del giudizio”, mentre “l’oggetto immediato e diretto della controversia” sarebbe “il provvedimento amministrativo che ha disposto l’acquisizione dei beni al patrimonio comunale”. Rispetto a siffatta prospettazione sarebbe conferente, al contrario di quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, il richiamo del principio di diritto affermato da Cass., sez. Un. n. 417 del 2007, secondo cui: “E’ devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la controversia con la quale il proprietario dell’area sulla quale sia stato realizzato un immobile in assenza di concessione edilizia chieda la restituzione dell’area acquisita al patrimonio comunale ai sensi della L. n. 10 del 1977, art. 15, previo accertamento del suo diritto di proprietà, e la declaratoria di nullità dell’ordinanza di acquisizione (nella specie, per essere il proprietario medesimo estraneo all’abuso, commesso dal coniuge convivente dello stesso), atteso che l’oggetto immediato e diretto della controversia è la predetta ordinanza, della cui legittimità si discute.”.

1.2. Con una seconda censura il difetto di giurisdizione è sostenuto adducendo che la pretesa comunale avrebbe ad oggetto il rilascio di immobili che sarebbero “beni pubblici, avuti in concessione”, onde la giurisdizione amministrativa esclusiva sussisterebbe ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. b), cod. proc. amm., là dove fa riferimento alle “controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici, ad eccezione delle controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi e quelle attribuite ai tribunali delle acque pubbliche e al Tribunale superiore delle acque pubbliche”. Nel caso di specie sarebbe evidente che il petitum del giudizio non è il contratto di comodato, “ma la legittimità dell’esercizio dei poteri pubblicistici da parte del Comune di Bergeggi avente ad oggetto non un contratto di natura privatistica, ma la richiesta di immediato rilascio degli immobili quali beni pubblici, oggetto del medesimo contratto. Inoltre, una conferma della sussistenza della giurisdizione dell’a.g.a. si trarrebbe dalla circostanza che il C. ha “eccepito la radicale nullità degli atti presupposti e, in particolare, l’acquisizione della proprietà in capo al Comune, ossia il presupposto legittimante la stipula del contratto di comodato, la cui mancanza lo rende nullo”, questione che – al contrario di quanto ritenuto dalla sentenza impugnata – non sarebbe stato necessario dedurre con l’esercizio di un’azione riconvenzionale diretta a richiedere l’annullamento o la dichiarazione di invalidità della delibera comunale di demolizione dei beni o di acquisizione degli stesso al patrimonio comunale.

1.3. Il motivo presenta, in rimo luogo, profili di evidente inosservanza dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in quanto il ricorso non ha ottemperato all’onere di indicazione specifica dei documenti sui quali si fonda.

Queste le ragioni.

Entrambe le censure si fondano sui contenuto della deliberazione della Giunta Comunale del Comune di Bergeggi n. 89 del 6 aprile 1991 e sul contenuto del contratto di comodato di beni immobili, sottoscritto inter partes il 9 maggio 1991. Tale valore fondante dei due documenti emerge in modo evidente per il fatto che le argomentazioni svolte con le due censure suppongono l’esame di entrambi i documenti, il primo per individuare le ragioni dell’attività provvedimentale in esso espressa, il secondo per conoscere i termini dell’accordo negoziale ed eventualmente il suo collegamento con l’attività provvedimentale espressa nel primo.

Ebbene, nè nell’illustrazione del motivo in esame nè aliunde nel ricorso, parte ricorrente ha riprodotto il contenuto dei due documenti, o direttamente trascrivendoli per la parte che, a suo dire, giustificherebbe le censure, o riferendoli in modo indiretto ma sufficientemente specifico, in questo secondo caso indicando la parte dei due documenti nella quale l’indiretta specifica riproduzione contenutistica troverebbe corrispondenza. Inoltre, quanto alla delibera giuntale, in ordine alla indicazione del se e dove nel giudizio di merito sia stata prodotta, a pagina 3 del ricorso si è genericamente detto che essa sarebbe stata “prodotta in giudizio dal Comune”, ma senza precisare dove e quando, mentre si è omessa qualsivoglia indicazione del se e dove essa sia stata prodotta e dove sia esaminabile in questo giudizio di legittimità. Ne consegue che risulta inosservato l’art. 366 c.p.c., n. 6 nella lettura data dalla giurisprudenza di questa Corte a partire da Cass. (ord.) n. 22303 del 2008 e Cass., Sez. Un. n. 28547 del 2008.

Per completezza si rileva che il generico riferimento alla produzione da parte del Comune, se anche fosse espressivo della volontà di fare riferimento, ai fini dell’art. 366 c.p.c., n. 6, alla presenza nel fascicolo di parte del Comune, peraltro nemmeno individuato quanto al grado, risulterebbe del tutto generico, atteso che non si è precisata la sede all’interno del fascicolo in cui sarebbe stato presente il documento.

In ogni caso, la mancata costituzione della controparte in questo giudizio di legittimità, se, in ipotesi denegata, l’esegesi del riferimento di cui si è appena detto fosse possibile, evidenzierebbe che il documento non sarebbe presente in questa sede e, dunque, si determinerebbe l’improcedibilità del motivo ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4.

Si osserva ancora che non si è nemmeno fatto riferimento alla presenza del fascicolo di parte avversario nel fascicolo d’ufficio, sicchè sarebbe preclusa pure l’applicazione del principio di diritto secondo cui “In tema di giudizio per cassazione, l’onere del ricorrente, di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, così come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 7, di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, “gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda” è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 3, ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi.” (Cass., Sez. Un., n. 2726 del 2011).

1.4. Il motivo, peraltro, se si procede allo scrutinio senza esaminare i due documenti e, dunque, sulla sola base di quanto si allega nella illustrazione, risulta privo di fondamento con riguardo ad entrambe le censure.

Quanto alla prima censura, si rileva che la pretesa di ricondurre la controversia al D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 7, comma 1, sostenendo che essa concernerebbe – se ben si è compreso – un accordo negoziale riconducibile anche mediatamente all’esercizio del potere a suo tempo esercitato dall’amministrazione comunale con la deliberazione giuntale di acquisizione al patrimonio (ai sensi della L. n. 47 del 1985, art. 7, comma 3), è priva di fondamento per il sol fatto che, avendo la deliberazione de qua costituito l’esercizio del potere di acquisizione e, dunque, realizzato l’interesse pubblico tutelabile con il relativo potere, il successivo accordo negoziale non può essere ricondotto ad esso, atteso che in alcun modo e tanto meno in base al profilo normativo della regolamentazione del potere (di cui alla citata norma) il determinarsi dell’amministrazione comunale alla stipula del contratto di comodato rappresentò manifestazione pur indiretta di quel potere.

Si trattò soltanto di un accordo negoziale intervento fra il Comune e il ricorrente, del tutto al di fuori da qualsiasi collegamento con la posizione del Comune che non fosse quella di proprietaria in forza dell’avvenuta acquisizione, essa sì manifestazione di un potere.

Quanto appena osservato è più che sufficiente anche ad escludere ogni validità della prospettazione di una riconduzione della controversia alla fattispecie della giurisdizione esclusiva in materia urbanistica di cui all’art. 133, comma 1, lett. f) del cod. proc. amm..

Quanto all’evocazione del precedente di cui a Cass., Sez. Un., n. 417 del 2007 si osserva che essa appare incomprensibile, in quanto la fattispecie di cui è processo concerne l’esercizio da parte del Comune di un potere negoziale basato sul contratto di comodato e, dunque, un agire iure privatorum, là dove nella fattispecie oggetto di quel precedente veniva in gioco la pretesa del privato di ottenere la restituzione di un immobile nel presupposto che l’ordinanza costituente esercizio del potere di acquisizione fosse viziata, il che integrava una vera e propria pretesa di ottenere un effetto, quello di restituzione del bene, nel presupposto dell’illegittimo esercizio del potere amministrativo.

Del tutto priva di fondamento, sempre apprezzata per come è stata prospettata, è la seconda censura, atteso che non si spiega come e perchè il ricorso alla figura negoziale del comodato possa essere messo da parte per sostenere che il godimento concesso al ricorrente sarebbe stato espressione di una concessione di bene pubblico. Sicchè, la relativa prospettazione rimane del tutto generica.

La prospettazione del ricorrente si risolve nella mera deduzione che la stipulazione del comodato abbia, per così dire, “fatto da schermo” ad un sostanziale esercizio di un potere autoritativo comunale senza indicare come e perchè in concreto ciò sia accaduto e da che cosa sarebbe rivelato in modo da impedire la considerazione della stipulazione del negozio contrattuale come avvenuta su un piano meramente di diritto privato.

1.5. Da ultimo, a prescindere dal rilievo che non è dato comprendere come e perchè il generico assunto della “radicale nullità degli atti presupposti e, in particolare, (del)l’acquisizione della proprietà”, ove pure dimostrato, potrebbe, pur qualora se ne inferisse la nullità del comodato, avere rilievo ai fini della individuazione della giurisdizione dell’a.g.a., piuttosto che di quella dell’a.g.o.: è sufficiente osservare che l’inesistenza del titolo giustificativo iure commodati del rilascio, che – parrebbe volersi sostenere – porrebbe in evidenza la proprietà del ricorrente, sarebbe prospettazione pur sempre correttamente deducibile davanti al giudice ordinario, in quanto l’accertamento della nullità del comodato e, dunque, della mancanza della giustificazione della pretesa di rilascio, concernerebbe una controversia pur sempre inerente a rapporto iure privatorum.

  1. Con il secondo motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione della L. 20 marzo 1865, n. 2248, artt. 4 e 5 e degli artt. 99 e 112 c.p.c.in relazione alla violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3″.

Il motivo illustra distinte censure.

La prima inerisce all’affermazione della sentenza impugnata della irrilevanza delle “prescrizioni (così è scritto nel ricorso: in realtà, la sentenza ha scritto “le precisazionil in ordine alla nullità del provvedimento di acquisizione dei beni oggetto di comodato”, in quanto “effettuate solo all’udienza del 9/5/2014” circa “l’asserita omessa notifica dell’atto di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione – e, quindi, tardivamente”.

Tale assunto sarebbe stato erroneo perchè “la nullità di un atto, essendo rilevabile anche d’ufficio, è deducibile in ogni stato e grado del giudizio”, onde a nulla rileverebbe che l’eccezione non fosse stata sollevata in comparsa di risposta, ma solo all’udienza del 9 maggio 2014 e ciò perchè “poteva – e doveva – essere dedotta dal Giudice medesimo”. Il giudice di merito, del resto, avrebbe avuto il dovere di rilevare la nullità ai sensi della L. n. 2248 del 1865, art. 4 e alla stregua del principio di cui all’art. 5 della stessa legge avrebbe dovuto disapplicare la delibera in quanto non conforme a legge.

Nel caso di specie, continua l’illustrazione “non v’è chi non veda che l’atto amministrativo in oggetto, su cui poi si è fondato il contratto di comodato sulla base del quale si chiede il rilascio dei beni (…) è illegittimo perchè emesso in assenza dei presupposti necessari”, in quanto l’acquisto gratuito di un bene al patrimonio comunale poteva avvenire solo previa notifica dell’ordine di demolizione dei beni ritenuti abusivamente costruiti, mentre non lo era stato e tanto non aveva trovato smentita nel corso del giudizio da parte del Comune, il quale non aveva offerto prova dell’esistenza del predetto ordine demolitorio e della sua avvenuta notifica al C. nè aveva prodotto il verbale di accertamento di inottemperanza all’ordine.

Nella illustrazione si fa poi riferimento ad un rilievo che la corte territoriale, dopo avere rilevato la tardività delle deduzioni di cui trattasi, ha svolto circa la nota di trascrizione dell’acquisto, deducendo che la nota di trascrizione non poteva provare la proprietà del bene.

In terzo luogo si argomenta un’ulteriore causa di nullità della deliberazione di acquisizione, in ragione della sua pretesa indeterminatezza quanto ai beni acquisiti e si sostiene che anch’essa avrebbe dovuto essere rilevata d’ufficio ed era stata rilevata.

In fine è svolta un’ulteriore censura assumendo che la corte territoriale avrebbe imputato al ricorrente di non avere proposto nè domanda di revindica nè comunque di accertamento della proprietà dei beni.

  1. Con il terzo motivo si prospetta “violazione e falsa applicazione dell’art. 1421 c.c.e degli artt. 99 e 112 c.p.c.in relazione alla violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3″.

Vi si censura l’affermazione della sentenza impugnata che “non occorreva affatto alcun accertamento d’ufficio in ordine alla sussistenza e validità del titolo di proprietà in capo al comodante dei beni concessi i godimento”. La critica si risolve nell’affermazione che sarebbe “evidente che la nullità dell’atto di acquisizione gratuita dei beni al patrimonio comunale travolge anche la validità del titolo di proprietà su di esso basato” e che, dunque, l’inesistenza del titolo di proprietà e “la conseguente nullità e improduttività di effetti giuridici del contratto di comodato” avrebbero dovuto rilevarsi d’ufficio, stante il chiaro tenore dell’art. 1421 cod. civ..

Si svolge, poi, una seconda censura riguardo alla seguente affermazione della sentenza impugnata: “Ne consegue che ai fini dell’accoglimento della domanda restitutoria non occorreva affatto alcun accertamento d’ufficio in ordine alla sussistenza e validità del titolo di proprietà in capo al comodante dei beni concessi in godimento e che era onere del comodatario tempestivamente e, quindi, sin dalla comparsa di costituzione nel giudizio di primo grado ex art. 416 c.p.c., comma 3, richiamato dall’art. 447-bis c.p.c., allegare la sussistenza in capo ad esso di un titolo di godimento opponibile al comodante o la detenzione da parte di quest’ultimo del bene in base a titolo contrario a norme di diritto pubblico, onere non assolto nella fattispecie.”.

Si sostiene che, “stante la nullità dell’atto di proprietà”, era onere del Comune provare la proprietà e non invece del C. provare la sussistenza in capo a sè del titolo di godimento.

Si soggiunge, quindi, che a nulla rileverebbe l’affermazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata allegazione tempestiva della sussistenza di un titolo di godimento opponibile al Comune.

  1. Con il quarto motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 414 c.p.c.e degli artt. 1325, n. 3 e 1418 c.c.in relazione alla violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3″.

Ci si duole – riproponendo la censura finale svolta nel secondo motivo – che la sentenza impugnata abbia disatteso l’eccezione di nullità del contratto di comodato per indeterminatezza dell’oggetto, sotto il profilo che nel contratto non sarebbe stato possibile in alcun modo identificare i beni concessi in godimento e quale ne fosse l’uso consentito al ricorrente. Si aggiunge che il contratto “non indica espressamente quale parte – asseritamente pubblica, degli immobili è soggetta all’ordine di rilascio – diversamente da quanto erroneamente affermato nella gravata sentenza -, stante, peraltro, il fatto che il Signor C. è proprietario di una parte degli stessi, come dimostrato con atto di compravendita a rogito Notaio S. di Milano in data (OMISSIS), rep. n. (OMISSIS)”, nel quale figuravano individuati due mappali, l’uno inerente l’immobile destinato ad abitazione e l’altro per il terreno, “porzione che, evidentemente, non può essere oggetto della domanda di controparte”.

  1. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo sono articolati in modo inammissibile, in quanto violano l’art. 366 c.p.c., n. 6, atteso che si fondano sempre sulla deliberazione giuntale e sul contratto di comodato, documenti riguardo ai quali non risulta osservato l’onere di indicazione specifica nei termini indicati da detta norma. Onere che risulta, inoltre, non osservato dal secondo motivo riguardo a quella che, senza alcuna individuazione, si indica come nota di trascrizione prodotta da controparte e, nel quarto motivo per l’atto notarile colà evocato.

5.1. Peraltro, i motivi in questione presentano pure ulteriori ragioni di inammissibilità.

5.1.1. In ordine al secondo motivo si deve rilevare che la questione della pretesa “nullità” del provvedimento di acquisizione, indipendentemente dal problema della sua rituale introduzione nel giudizio di merito, risulta comunque irrilevante ai fini del decisum della sentenza impugnata, perchè essa, dopo aver ritenuto che la relativa problematica era stata tardivamente introdotta (rilievo che di per sè sarebbe corretto in quanto riferito all’allegazione delle circostanze fattuali fondanti la nullità, in quanto non direttamente emergenti dalla delibera giuntale, atteso che il potere di rilevazione officiosa della nullità di un atto in punto di estensione temporale pur sempre dipende dalla ritualità delle circostanza di fatto che in ipotesi sono evidenziatrici della nullità), ha soggiunto quanto segue: “Invero, non solo, come rilevato dal primo giudice, non è stata proposta rituale e tempestiva domanda riconvenzionale diretta all’accertamento di detta illegittimità, ma occorre considerare che “chiunque abbia la disponibilità di fatto di una cosa, in base a titolo non contrario a norme di ordine pubblico, può validamente concederla in – comodato ed è, in conseguenza, legittimato a richiederne la restituzione, allorchè il rapporto venga a cessare. Pertanto, il comodante che agisce per la restituzione della cosa nei confronti del comodatario non deve provare il diritto di proprietà, avendo soltanto l’onere di dimostrarne la consegna e il rifiuto di restituzione, mentre spetta al convenuto dimostrare di possedere un titolo diverso per il suo godimento”: Cass. 19/06/2014, n. 13975 (vedi in senso conforme Cass. 05/09/2013, n. 20371)”.

A tale affermazione la corte ligure ha fatto seguire quella ulteriore – evocata dal ricorrente nel terzo motivo e sopra già riprodotta – nel senso che: “Ne consegue che ai fini dell’accoglimento della domanda restitutoria non occorreva affatto alcun accertamento d’ufficio in ordine alla sussistenza e validità del titolo di proprietà in capo al comodante dei beni concessi in godimento e che era onere del comodatario tempestivamente e, quindi, sin dalla comparsa di costituzione nel giudizio di primo grado ex art. 416 c.p.c., comma 3, richiamato dall’art. 447-bis c.p.c., allegare la sussistenza in capo ad esso di un titolo di godimento opponibile al comodante o la detenzione da parte di quest’ultimo del bene in base a titolo contrario a norme di diritto pubblico, onere non assolto nella fattispecie.”.

5.1.2. Ebbene, è palese che i giudici genovesi hanno rilevato in buona sostanza che l’esistenza della proprietà in capo al Comune non era necessaria per la stipula del contratto di comodato e tale affermazione, che rendeva irrilevante il problema della pretesa mancanza di acquisizione della proprietà con la deliberazione di acquisizione per la sua pretesa nullità, non è stata fatta oggetto di impugnazione, onde, essendosi consolidata a sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2, rende del tutto irrilevanti le pregresse considerazioni sulla ritualità della prospettazione della nullità in quanto determinativa della mancata acquisizione della proprietà. Da qui l’inammissibilità della prima censura del secondo motivo e così della terza quanto alla indeterminatezza della individuazione dei beni acquisiti.

A tanto merita comunque aggiungere che, quando pure la deliberazione giuntale fosse stata “nulla” come sostiene il ricorrente e, dunque, quando pure fosse sussistito al momento del contratto di comodato, il potere di impugnazione della stessa nella sede amministrativa (come parrebbe avuto riguardo alle date della delibera e del contratto di comodato), detta stipulazione avrebbe segnato la consumazione del diritto di impugnativa, in quanto incompatibile con la situazione di detenzione qualificata che il ricorrente acquisiva rispetto al Comune, atteso che l’accettazione negoziale della sua nuova veste implicava rinuncia tacita ad ogni impugnazione, ove ancora possibile, della deliberazione giuntale.

Sicchè, i giudici di merito avrebbero dovuto a ben vedere considerare l’irrilevanza della prospettazione della nullità della deliberazione, in quanto il ricorrente non poteva più farla valere.

E ciò in disparte il tempo trascorso comunque dalla stessa e la consumazione comunque del diritto di impugnativa. Il quale, concernendo un atto amministrativo, non era certo apprezzabile come deduttivo della nullità di rilievo negoziale ai fini della imprescrittibilità.

5.1.3. Quanto alla seconda censura del secondo motivo, quella relativa alla nota di trascrizione, la lettura della sentenza impugnata evidenzia che il ricorrente ha attribuito alla stessa un’affermazione che non ha fatto, atteso che essa ha così motivato: “peraltro si osserva che nella nota di trascrizione dell’atto di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione prodotto contestualmente al ricorso introduttivo del giudizio e in esso espressamente richiamata si indica la data di notifica dell’atto di accertamento e C., nel costituirsi in giudizio davanti al tribunale, non ha affatto allegato di non aver ricevuto tale notifica”.

Dunque, la sentenza non ha detto che la nota era idonea a provare la proprietà del Comune.

5.1.4. Parimenti priva di corrispondenza con la motivazione è la quarta censura del primo motivo, posto che a pagina 7, la corte genovese si è limitata solo alla constatazione della mancata proposizione nel costituirsi in giudizio in primo grado di una domanda diretta all’annullamento o alla pronuncia di invalidità della delibera, ma non ha affatto detto, come ipotizza la censura, che occorresse una riconvenzionale.

5.2. Anche il terzo motivo risulta inammissibile in quanto discute una questione che non tiene conto della ratio decidendi circa l’irrilevanza della pretesa mancanza di titolo proprietario in capo al Comune per effetto della pretesa “nullità” della delibera giuntale.

5.3. In fine, il quarto, oltre a supporre che la proprietà sia rimasta in capo al ricorrente evidentemente per la nullità della deliberazione di acquisizione (il che è escluso dalla sorte dei motivi precedenti), non considera l’ampia motivazione della corte territoriale, che si è così espressa: “Neppure può ritenersi, come dedotto nel quinto motivo di appello, che il contratto di comodato fosse nulla per indeterminatezza dell’oggetto. Premesso come il giudice di primo grado abbia motivato in ordine all’eccezione di nullità del contratto proposta in primo grado avendo affermando che nel contratto i beni concessi in godimento risultano individuati sia nella descrizione che nella planimetria e che C., nel presentare istanza di proroga del contratto, aveva riportato i beni oggetto di contratto cosi da dimostrare la piena consapevolezza dell’oggetto del contratto stesso – con la conseguenza che non può affatto ritenersi che la pronuncia gravata sia sul punto carente di motivazione, si osserva che le affermazioni del primo giudice sono da condividere. In particolare nel contratto, non solo si richiama la planimetria allegata in cui vengono indicati e rappresentati i mappali (OMISSIS) nel Comune di (OMISSIS), ma si descrivono i beni oggetto di comodato, descrizione che viene riportata nell’istanza di proroga del contratto da parte di C..”.

5.3.1. Tale motivazione andava criticata specificamente, mentre l’assunto della indeterminatezza dell’oggetto non è assistito da argomentazioni che, per un verso si correlino a detta motivazione, e, per altro verso ottemperino all’onere di specificità che esige il motivo di ricorso per cassazione.

Si veda per l’uno e l’altro profilo Cass., Sez. Un. n. 7074 del 2017, che così ha statuito:

  1. a) “Il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto, per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4″;
  2. b) “Il requisito di specificità e completezza del motivo di ricorso per cassazione è diretta espressione dei principi sulle nullità degli atti processuali e segnatamente di quello secondo cui un atto processuale è nullo, ancorchè la legge non lo preveda, allorquando manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo ( 156 c.p.c., comma 2). Tali principi, applicati ad un atto di esercizio dell’impugnazione a motivi tipizzati come il ricorso per cassazione e posti in relazione con la particolare struttura del giudizio di cassazione, nel quale la trattazione si esaurisce nella udienza di discussione e non è prevista alcuna attività di allegazione ulteriore (essendo le memorie, di cui all’art. 378 cod. proc. civ., finalizzate solo all’argomentazione sui motivi fatti valere e sulle difese della parte resistente), comportano che il motivo di ricorso per cassazione, ancorchè la legge non esiga espressamente la sua specificità (come invece per l’atto di appello), debba necessariamente essere specifico, cioè articolarsi nella enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee ad evidenziarlo.”)”).
  3. Conclusivamente il ricorso, previa declaratoria della giurisdizione del giudice ordinario, dev’essere rigettato.

Non è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di cassazione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13.

P.Q.M.

La Corte dichiara la giurisdizione del giudice ordinario e rigetta il ricorso. Nulla per le spese del giudizio di cassazione. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 3 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2019