Cenni sulla motivazione del provvedimento amministrativo, in particolare sulla c.d. motivazione numerica*

di Francesco Manganaro
Ordinario di Diritto amministrativo
Università Mediterranea Reggio Calabria

Sommario: 1. Le origini del dibattito sulla motivazione dei provvedimenti amministrativi; 2. La crescente esigenza di motivazione;  3. L’obbligo di motivazione introdotto dalla legge sul procedimento ed il suo declino; 4. La c.d. motivazione sintetica con voto numerico; 5. L’orientamento della Corte costituzionale e dell’Adunanza plenaria; 6. Un’auspicabile inversione di tendenza a tutela della legalità

  1. Le origini del dibattito sulla motivazione dei provvedimenti amministrativi

La tutela delle situazioni giuridiche soggettive è la cifra fondamentale di tutta l’imponente costruzione giuridica del Maestro che onoriamo: è in questa prospettiva che si possono svolgere alcune brevi considerazioni sulla rilevanza della motivazione del provvedimento amministrativo, prendendo spunto da un lavoro di Franco Gaetano Scoca sull’insufficienza del voto numerico come criterio di valutazione delle prove concorsuali.

L’obbligo della motivazione si fa risalire, nel nostro ordinamento, all’art. 3 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo, che imponeva alle amministrazioni di decidere su interessi che non riguardassero diritti civili e politici con “decreti motivati”, previo parere “egualmente motivato” dei consigli amministrativi, ma ben presto il superamento della legge abolitiva del contenzioso porterà a trascurare tale obbligo.  

E’ la dottrina degli Anni Trenta del Novecento che, in mancanza di una specifica norma, costruisce l’obbligo di motivazione rifacendosi a principi generali dell’ordinamento, secondo varie declinazioni, tutte comunque controverse e confutabili. A chi affermava che la motivazione è un elemento della volontà dell’amministrazione espressa nel provvedimento si obiettò che così non la si poteva distinguere dai motivi; a chi sosteneva che la motivazione, in quanto esplicazione dei moventi soggettivi, poteva anche essere successivamente espressa si contestò che così facendo si negava che la motivazione fosse elemento necessario del provvedimento; infine, a chi autorevolmente legava tale obbligo alla esecutorietà del provvedimento si contrappose l’idea, nel tempo maturata, che non tutti i provvedimenti, ma solo quelli esplicitamente previsti dalla legge, sono esecutori.

Prende corpo in quegli anni il noto dibattito tra Mortati e Giannini sulla natura e lo scopo della motivazione, a partire dalle diverse concezioni relative alla discrezionalità. Secondo Mortati, la motivazione consiste nella “conoscenza del procedimento mentale che ha preceduto l’azione esteriore”, in una visione di tutela del destinatario del provvedimento, che può tutelarsi davanti ad un giudice conoscendo le ragioni addotte dall’amministrazione per limitare le sue situazioni giuridiche soggettive. La motivazione esprime l’iter logico seguito dal decidente, senza essere manifestazione di motivi soggettivi che rimangono presupposti estranei alla decisione. In quest’ottica, secondo Mortati, il potere discrezionale non è attribuito con una norma in bianco che l’amministrazione integra con propri giudizi di valore, ma è una sfera di autonomia che l’amministrazione applica attenendosi alle massime di esperienza che hanno natura precettiva. Il potere discrezionale, inteso come attività intellettiva, lungi dall’essere una libertà di scelta di tipo politico, si esplica nel sillogismo tra la norma e le regole di comune esperienza, definendo cosi l’interesse pubblico da tutelare in concreto. Nella motivazione, perciò l’amministrazione è tenuta a spiegare l’iter logico seguito, indicando le massime di esperienza a cui si è attenuta, cosicché la motivazione è sempre elemento essenziale del provvedimento. Tale processo logico è oggettivamente valutabile e ciò consente anche di “misurare” la sufficienza della motivazione, questione che Mortati propone per primo. Per questo, la motivazione, pur se espressa in maniera insufficiente, può essere integrata perché fondata su parametri di natura oggettiva. 

Il dibattito si anima quando negli stessi anni Giannini, prendendo spunto da un differente punto di vista sulla natura della discrezionalità, formula una diversa tesi sulla motivazione, dandone una configurazione “sostanziale”, secondo cui non è tanto importante ciò che l’amministrazione dice di aver fatto, ricostruendo nella motivazione l’iter logico perseguito, ma ciò che ha effettivamente fatto, cosicché una motivazione insufficiente può essere apposta ad un atto perfettamente legittimo e viceversa. Ne consegue una dequotazione della motivazione, considerata come uno tra i tanti  possibili elementi di giustificazione del provvedimento, ma non l’unico su cui valutare la legittimità di esso. Invero, nel contesto storico in cui si pone questa tesi, ove non vi era una regola normativa sulla motivazione, la dequotazione – differentemente da quanto si potrebbe pensare – risponde ad un’istanza di garanzia, poiché conta ciò che l’amministrazione ha fatto, non avendo alcun obbligo normativo di  spiegare nell’atto il suo comportamento.

  1. La crescente esigenza di motivazione

Da questo dibattito prende avvio una complessa controversia, mai definitivamente sopita, circa il valore formale o sostanziale della motivazione, che caratterizzerà il successivo confronto dottrinale in un contesto sociale ed istituzionale poi profondamente modificato, in cui la pluralità e la conflittualità degli interessi considerati pubblici negli Stati pluriclasse rende il provvedimento amministrativo uno strumento in cui si concentra il conflitto di interessi non più risolto a livello normativo. Declina l’idea di un’applicazione oggettiva del potere discrezionale al caso concreto attraverso un giudizio logico di tipo sillogistico, cosicché diventa incerta anche la modalità di manifestazione delle ragioni della scelta compiuta nel provvedimento. Il passaggio da un’amministrazione unitaria e gerarchica ad una stratificazione dei livelli di governo nonché le nuove esigenze di democrazia partecipativa innestano ulteriori elementi di complessità nelle scelte amministrative, che viepiù oscurano il concetto di una motivazione intesa come semplice spiegazione dell’iter procedimentale sia per la presenza di un decisore pubblico sempre più pluristrutturato sia perché l’ampliamento degli strumenti partecipativi rende già edotto il destinatario del provvedimento dei fatti e degli atti della fase istruttoria. 

Ancora prima della legge generale sul procedimento amministrativo, in sintonia con gli orientamenti dottrinali, la giurisprudenza inizia a configurare un ambito sempre più ampio di fattispecie in cui la motivazione appare necessaria soprattutto per gli atti limitativi della sfera giuridica del destinatario, a volte ammettendo la sussistenza di un obbligo generale. Si ripropone, in sede giudiziaria, il dibattito tra una visione formale ed una sostanziale della motivazione, tra l’ipotesi di dover spiegare tutte le asserzioni in cui la motivazione è logicamente scomponibile e la contrapposta affermazione secondo cui la legittimità dell’atto è accertabile attraverso fattori diversi dalla motivazione.

Alla fine degli Anni Ottanta, in questo contesto molto contraddittorio, viene enunciata una fondamentale diversa opinione, che prende spunto dai più recenti apporti delle scienze cognitive. Se la razionalità della scienza si rinviene nelle reciproche confutazioni tra più ipotesi ritenute valide e non più in una conoscenza oggettiva fondata sull’induzione, la motivazione non è più in grado di rappresentare l’iter logico seguito dal decisore pubblico. Ciò non impedisce, anzi richiede, che i processi di valutazione possano essere sottoposti a riscontri di tipo obiettivo. Cosicché la motivazione diventa l’esposizione di elementi giustificativi della scelta compiuta, che consentono di valutare  il modo in cui il potere è stato trasformato in un interesse pubblico concreto. In questo modo anche i giudizi soggettivi (ad esempio, la natura culturale di un bene) possono essere oggetto di valutazione, poiché il decisore deve enunciare nel provvedimento il parametro oggettivo a cui si è attenuto. La motivazione fornisce così gli elementi giustificativi della decisione a quei soggetti che possono valutarne la legittimità, siano essi i giudici o i cittadini, titolari del potere negli ordinamenti democratici. La motivazione, secondo questa tesi, sarebbe perciò un discorso giustificativo della decisione assunta, necessario per valutare se ed in che modo il potere sia stato utilizzato per realizzare l’interesse pubblico concreto nel singolo caso concreto.

  1. 3. L’obbligo di motivazione introdotto dalla legge sul procedimento ed il suo declino

L’affermazione definitiva dell’obbligo di motivazione si rinviene nella legge sul procedimento. 

La norma va letta con attenzione, visti i palesi tentativi di ridurne la portata. La chiara disposizione introdotta dall’art. 3 della l. 241/90, anche alla luce dei lavori preparatori, non dovrebbe lasciare alcun dubbio. L’estensione dell’obbligo attiene ad “ogni” provvedimento amministrativo, senza distinzione tra atti discrezionali e vincolati, nonché agli atti che per la loro complessità ed ampiezza di destinatari (provvedimenti “concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale”) avrebbero potuto essere ritenuti esenti da tale obbligo. L’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche della decisione deve essere coerente con le “risultanze dell’istruttoria”, consentendo in tal modo una verifica della ragionevolezza della decisione stessa. L’esenzione dall’obbligo riguarda solo gli atti normativi ed a contenuto generale, per i quali peraltro (come, per esempio, nel caso degli strumenti urbanistici) esistono altri rimedi partecipativi che obbligano l’amministrazione a motivare la decisione finale.

Non è certo un caso che in un testo come la legge sul procedimento (nella sua configurazione originaria), connotato dall’esigenza di regolare più il farsi dell’atto che la sua forma, l’unica disposizione che attiene agli elementi del provvedimento sia proprio l’obbligo di motivazione, individuato dal legislatore (e prima ancora dalla commissione Nigro) come strumento di legittimazione di un potere astrattamente attribuito dalla legge che si fa provvedimento amministrativo, cioè interesse pubblico concreto.

Tale originaria forza della motivazione è viepiù consolidata nella successiva modifica della legge sul procedimento del 2005, che con l’art. 10 bis introduce l’obbligo di motivare, nel provvedimento finale, il mancato accoglimento delle osservazioni formulate dall’istante a seguito della comunicazione dell’amministrazione dei motivi ostativi all’accoglimento della sua richiesta.

Il legislatore avrebbe così attribuito alla motivazione “una denotazione formale di carattere sostanzialmente linguistico, che va colta nel suo complesso come discorso a contenuto argomentativo”, uno “strumento formale di rappresentazione di garanzie sostanziali”.

Tuttavia la consacrazione della motivazione come elemento caratterizzante del provvedimento, realizzata con la legge sul procedimento costituisce, per eterogenesi dei fini, l’inizio del suo declino. Se la motivazione, come elemento necessario dell’atto, ha natura sostanziale ne consegue che elementi giustificativi della sua legittimità potrebbero dedursi aliunde e finanche dopo l’emanazione del provvedimento, giustificando così anche una motivazione successiva. In questa ottica la motivazione diventa un orpello formale del provvedimento, la cui mancanza o insufficienza potrebbe condurre all’annullamento di un provvedimento sostanzialmente “giusto”, cioè conforme all’interesse pubblico sostanziale. 

Massima espressione di tale opinione è l’ipotesi di vizi non invalidanti introdotta dall’art. 21 octies della riformata legge sul procedimento, in cui la mancanza o insufficienza di motivazione finisce per non incidere sulla legittimità del provvedimento. Per giustificare tale affermazione si prende spunto da quella dottrina che aveva distinto tra irregolarità ed invalidità, dimenticando però che proprio quella dottrina richiedeva sempre una giustificazione oggettivamente valutabile circa l’uso del potere.

L’erosione dell’obbligo di motivazione continua sotto altri diversi profili.

Si distingue tra atti discrezionali e vincolati, pur se ciò non sia previsto nella norma sulla motivazione. Si è detto, infatti, che per gli atti vincolati non ci sarebbe bisogno di manifestare nel provvedimento le ragioni giuridiche della decisione, che sarebbero già in re ipsa, obbligatoriamente conseguenti all’accertamento del fatto. E’ tuttavia evidente che è la giustificazione della scelta compiuta che qualifica i presupposti di fatto, nel senso che la motivazione non è una spiegazione dell’iter procedimentale, ma un’ esplicitazione dell’uso del potere anche nel modo in cui configura il fatto a cui applicare la norma.

Il depotenziamento della motivazione prosegue ampliando i confini della motivazione per relationem ed ammettendo la motivazione successiva.

  1. La c.d. motivazione sintetica con voto numerico

L’elusione dell’obbligo di motivazione si manifesta pienamente in maniera generalizzata in materia di concorsi e gare pubbliche, ove, per una presunta applicazione del principio del buon andamento, la giurisprudenza giustifica una motivazione attenuata, espressa anche con voto numerico.

La questione è stata a lungo oggetto di un dibattito, apparentemente concluso con le autorevoli decisioni della Corte costituzionale e dell’Adunanza plenaria, che però, pronunciandosi sul caso specifico dell’abilitazione alla professione forense, lasciano spazio a qualche ulteriore spunto di discussione, che in questa sede si vuole maggiormente approfondire, proprio prendendo spunto – come già ricordato – da una riflessione di Franco Gaetano Scoca.

E’ opportuno pertanto ripercorrere per sommi tratti la vicenda in oggetto. Sulla possibilità che il voto numerico costituisca motivazione si era sviluppato un vivace contrasto giurisprudenziale non solo tra i Tribunali amministrativi ed il Consiglio di Stato, ma anche tra le sezioni del Supremo consesso, che ha dato luogo a sentenze contraddittorie in materia di concorsi pubblici.

Una prima, ma recessiva, argomentazione addotta per attribuire al voto valore di motivazione è che il giudizio in un concorso è mero atto e non provvedimento finale, oggetto dell’obbligo di motivazione ai sensi dell’art. 3 della legge sul procedimento. A questa tesi si è opposto che la norma cita esplicitamente, tra gli atti da motivare, quelli in materia di concorsi pubblici ed inoltre che, così opinando, si potrebbero sottrarre all’obbligo di motivazione atti ad ampio contenuto discrezionale, limitando la tutela dei diritti dei candidati. 

D’altronde la tesi ora prevalente in giurisprudenza non nega affatto l’esigenza di motivare gli atti conclusivi del procedimento concorsuale, ma ammette che il voto sia sufficiente ove parametrato a criteri valutativi predeterminati. Infatti, nella difforme giurisprudenza tra chi riteneva necessaria una motivazione esplicativa del giudizio e chi invece considerava sufficiente il solo voto numerico tout court, la giurisprudenza dominante afferma che il voto sia sufficiente ma solo ove siano stati predeterminati precisi e dettagliati criteri di valutazione, cosicché al voto possa corrispondere un giudizio.  

Invero, la giurisprudenza relativa ai concorsi pubblici si è consolidata sulle numerose controversie in materia di esami di abilitazione alla professione legale, facendo sì che si deducesse un principio generale da un caso specifico.

Bisogna, perciò, ricordare che tale prova di abilitazione è oggetto di una peculiare disciplina (r.d.l. n. 1578/1933 e r.d. n. 37/1934), che prevede l’assegnazione di un voto numerico alle prove scritte. La riforma introdotta con la l. 247/2012 stabilisce, invece, che “la commissione annota le osservazioni positive o negative nei vari punti di ciascun elaborato, le quali costituiscono motivazione del voto che viene espresso con un numero pari alla somma dei voti espressi dai singoli componenti” (art. 46, c. 5), seppure l’entrata in vigore di tale disposizione veniva sospesa dal successivo art. 49 della stessa legge. Peraltro – sia detto per inciso – la questione si ripresenterà, visto che la sospensione, salvo ulteriore proroga, cesserà per la prova idoneativa del 2020.

Ma, a prescindere dall’attuale sospensione della norma, non è detto che il voto precluda una spiegazione di esso, anzi, per come è formulata la norma che prevede le nuove modalità di correzione degli elaborati, è palese che il legislatore voglia introdurre osservazioni delle commissioni a margine degli scritti dei candidati, che “costituiscono motivazione del voto”, esplicitamente riconoscendo che il solo voto non basta a spiegare le ragioni di una decisione. Un orientamento normativo che è coerente con numerosi altri casi di abilitazioni professionali in cui il voto numerico è ritenuto insufficiente: si pensi al concorso per uditore giudiziario o per notaio, all’abilitazione scientifica nazionale per i professori universitari, nonché ai casi di concorsi per la dirigenza scolastica, sanitaria o di enti di ricerca.

  1. L’orientamento della Corte costituzionale e dell’Adunanza plenaria 

La Corte costituzionale si è occupata più volte della questione, evitando di  pronunciarsi sul merito fino alla sentenza n. 175/2011. In questa decisione la Corte prende le mosse dal già citato dato normativo per gli esami di abilitazione all’avvocatura, secondo cui “per ciascuna prova scritta ogni componente delle commissioni d’esame dispone di dieci punti di merito”, per giungere alla conclusione che “il criterio prescelto dal legislatore per la valutazione delle prove scritte nell’esame de quo è quello del punteggio numerico”, poiché il punteggio numerico costituirebbe “la modalità di formulazione del giudizio tecnico-discrezionale finale espresso su ciascuna prova”.

Commentando questa sentenza, vengono autorevolmente evidenziate aporie logiche e giuridiche. 

Innanzitutto, la specifica norma sull’abilitazione forense, come anche le disposizioni generali sui concorsi pubblici (d.p.r. 487/94), si limita a prevedere che la commissione disponga di un certo numero di punti, ma “non esclude affatto che il punteggio numerico venga sostenuto e chiarito da una congrua motivazione”.

Il voto numerico, infatti,  non è mai spiegazione del modo di esercizio del potere amministrativo, poiché esso “è espressione del giudizio finale”, ma “non è affatto motivazione di tale giudizio; né motivazione sufficiente né insufficiente”. Anzi, considerare – come fa la Corte costituzionale – il voto numerico come formulazione di un giudizio e nello stesso tempo motivazione di esso “è totalmente da escludere sul piano logico prima che giuridico”. Il voto, ove non accompagnato da note a margine del testo che indichino le ragioni di una correzione, non spiega l’iter logico seguito dalla commissione né costituisce giustificazione della scelta effettuata, violando manifestamente il disposto dell’art. 3 della legge sul procedimento.

E’ palese l’esigenza pratica – che Scoca sottolinea con ironia – “di rendere agevole l’opera (noiosissima) della correzione” ed al tempo stesso di “scoraggiare la proposizione di ricorsi avverso i risultati negativi delle prove scritte d’esame”. Ma non può tale esigenza prevalere sul preciso obbligo indicato dalla legge sul procedimento e, più in generale, sulla necessità di dare opportuna spiegazione del giudizio, anche e soprattutto a tutela dei destinatari dei provvedimenti adottati. 

Ma ciò che appare più grave è che da una disposizione normativa che attiene ad un caso specifico la Corte desuma un principio generale di natura costituzionale, ritenendo che il voto numerico risponda ad esigenze di buon andamento dell’azione amministrativa ai sensi dell’art. 97, c. 1, Cost. Sarebbe contrario a tale principio esigere una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni che hanno condotto ad un giudizio di non idoneità, per i lunghi tempi che ciò comporterebbe, soprattutto per l’elevato numero dei partecipanti ai concorsi. Attribuito al voto numerico un’aurea costituzionale è poi facile sostenere che esso comprima anche l’obbligo di motivazione, che, nella legge sul procedimento “va coordinato con l’art. 1, comma 1, della medesima legge n. 241 del 1990, in forza del quale l’attività amministrativa è retta (tra gli altri) da criteri di economicità e di efficacia, che giustificano la scelta del modulo valutativo adottato dal legislatore”.

La sentenza della Corte costituzionale è stata definita “ideologica”, giustificabile solo in via pratica. Invero, neanche sotto questo profilo si può spiegare tale sentenza, poiché portando all’estremo l’assunto della Corte, si potrebbe affermare che tutte le selezioni pubbliche, al fine di garantire un rapido esito, potrebbero essere svolte con sistemi di accertamento automatico delle conoscenze, utilizzando, come già avviene nelle prove preselettive, algoritmi valutativi, oggi assai più evoluti che nel passato. Per assurdo sarebbe più “motivato” un test a risposta multipla che il voto numerico all’elaborato scritto, poiché nel primo caso il candidato avrebbe precisa contezza di quali siano stati i suoi errori, cosa che non avviene nel secondo caso.

La sentenza della Corte costituzionale, che, per la sua autorevolezza, avrebbe dovuto chiudere definitivamente la vicenda, lascia invece irrisolte molte questioni, tanto che anche la giurisprudenza amministrativa successiva, soprattutto dei Tribunali di primo grado, aveva riproposto dubbi sulla sufficienza del voto numerico, pur se parametrato a tipi di giudizi previamente determinati. E’ stata necessaria una sentenza dell’Adunanza plenaria n. 7/2017 per ribadire le ragioni della decisione della Corte costituzionale, a cui l’Adunanza rinvia, senza addurre altre specifiche argomentazioni per giustificare la sufficienza del voto numerico.

  1. Un’auspicabile inversione di tendenza a tutela della legalità

La dottrina, pur dopo la sentenza della Corte costituzionale, ha ancora, con convincenti argomentazioni sollevato dubbi, criticando anche quella soluzione intermedia adottata dalla giurisprudenza dominante, secondo cui il voto esprime un giudizio valutativo ove parametrato a criteri predeterminati, non solo perché questi ultimi sono spesso generici, ma anche perché, anche se più dettagliati, non spiegano al singolo candidato l’esatta portata del suo elaborato, gli errori linguistici, le argomentazioni errate o esposte in modo approssimativo. Il voto, infatti, non consente – come vuole l’art. 3 della legge sul procedimento – di valutare se la decisione assunta abbia tenuto conto delle risultanze dell’istruttoria, poiché l’analisi di elaborati linguistici, a differenza di prove a test, necessita di una motivazione discorsiva che spieghi e giustifichi come dall’esame dell’elaborato del candidato si sia giunti ad attribuire un valore numerico.  

A questo proposito, si è opportunamente rilevato che la soluzione adottata dalla giurisprudenza è una variante della motivazione implicita, in quanto collegare un numero ad un criterio predefinito lascia “inespresse sia l’indicazione dei presupposti di fatto della decisione che le modalità attraverso cui i parametri utilizzati a copertura della scelta sono stati tipizzati in concreto”.

In sostanza, accettando la tesi dominante non si fa altro che spostare il problema, senza risolverlo. Si elude palesemente l’art. 3 della legge sul procedimento, in quanto non si indicano i presupposti di fatto su cui si fonda la decisione. Ma, ciò che è più grave, si elude anche la logica, poiché accettando l’idea che un voto corrisponda ad un parametro “si sposta il problema della comprensibilità della singola decisione all’accettabilità dei criteri utilizzati per elaborare gli stessi parametri di riferimento”.

La motivazione numerica è un voto senza motivazione, contrario alla logica ed alla puntuale disposizione normativa contenuta nella legge sul procedimento, riduce il controllo giurisdizionale e, di conseguenza, la tutela dei destinatari dei provvedimenti amministrativi.

La meritoria esigenza di efficienza consente di attribuire un voto ove vi siano prove concorsuali che utilizzino sistemi a risposte predeterminate, ma tale soluzione è contraria alla logica ove vi siano elaborati scritti. Si può garantire l’efficienza attraverso prove del primo tipo, venendo così incontro alla necessità di svolgere concorsi con numerosi candidati in tempi rapidi, ma ove vi siano elaborati scritti l’efficacia non può prevalere sulla logica e sulle esigenze di legalità.