Città e cittadinanza tra letteratura e diritto.

Brevi note sul significato di appartenenza oggi. di Roberta Travia

SOMMARIO

Premessa; 1. Noi e gli “altri”; 2. La relatività del concetto di cittadinanza; 3. L’efficienza della spersonalizzazione dei corpi; 4. Lo svuotamento del concetto di comunità; Conclusioni.

Premessa

Il tema della cittadinanza, come affermazione di appartenenza a un determinato contesto geografico e socio – culturale, può considerarsi innato alla definizione stessa di essere umano.

In tal senso, l’espressione “cives ergo sum” riassume perfettamente una specifica della condizione dell’uomo che, naturalmente votato alla dimensione della socialità, costruisce e definisce sé stesso proprio nel rapporto con il gruppo1.

Ma cosa si intende per cittadino? E prima ancora, su cosa si fonda il sentimento di appartenenza a un dato territorio o a una comunità?

La risposta a questo quesito è tutt’altro che banale e si riflette, con tutte le sue contraddizioni, anche sul compito del giurista, che dovrebbe essere l’interprete e il mediatore fondamentale fra i mutamenti sociali e l’ordinamento giuridico. Spetta al giurista, infatti, trovare la difficile sintesi tra le c.d. “nuove esigenze” di una società in continuo divenire e il diritto, all’interno di un dibattito che spesso non è più solo giuridico, ma anche etico2.

1 La Costituzione italiana, già nella declinazione dei c.d. 12 articoli fondamentali, dimostra questa attenzione specifica. Così, l’art.2, nel riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, precisa che gli stessi debbano trovare tutela anche nelle formazioni sociali in cui l’uomo svolge la propria personalità, affermando la stretta correlazione che esiste fra tutela dei diritti del singolo e esplicazione di essi nel contesto di appartenenza. Tale contesto può essere la famiglia, prima formazione sociale per eccellenza, ma anche un’associazione [l’art. 18 Cost., afferma espressamente la libertà di associazione, poi ribadita specificamente in campo politico (art. 49), sindacale (art.39) e religioso (art.19)], una città, lo Stato.

2 Basti pensare al dibattito sorto negli ultimi anni in materia di biodiritto.

Ecco allora che, per poter effettivamente comprendere il rapporto tra città e cittadinanza, occorre indagare sul significato profondo di quel sentimento di appartenenza di cui si è appena detto.

Sul finire del 2018 la Fandango Editore ha pubblicato il romanzo Carnaio, di Giulio Cavalli3. Si tratta di un racconto che può definirsi fantapolitico, (solo) apparentemente incentrato sul fenomeno migratorio che interessa le nostre coste.

La storia raccontata da Cavalli, consente di svolgere un’indagine a tutto tondo sul tema della cittadinanza e sul complesso rapporto esistente fra diritto, inteso come norma cogente, e sentimento di appartenenza.

È davvero sufficiente una norma per stabilire chi è cittadino e chi non lo è? Fino a che punto l’ordinamento giuridico può incidere sul comune sentire ed, eventualmente, modificarlo?

E, ancora, la legittimità che deriva da una legge è sempre conforme a giustizia?

Carnaio affronta tutti questi temi attraverso una narrazione corale, da cui emergono tutte le contraddizioni di questo nostro tempo con riguardo ai concetti di comunità, integrazione e accoglienza.

1.      Noi e gli “altri”

La storia prende avvio quando un pescatore, Giovanni Ventimiglia, rinviene vicino alla costa dell’immaginario paese di DF un morto in mare. Si tratta di un uomo giovane, nero e, subito, si ipotizza che si tratti di una vittima dei c.d. barconi, portata dalla corrente vicino alla riva.

Dice il pescatore riferendo l’accaduto al commissario: “Questo non è un cadavere del nostro mondo, signor commissario”. E ancora, parlandone con la moglie, per spiegarle “che aveva i segni   di chi arriva da lontano” dice: “Non somiglia a noi. Un’altra razza. Nero, non nerissimo. Però africano forse. Di quei posti lì”.

Fin dalle prime pagine emerge la contrapposizione fra noi (il Paese) e gli altri (i morti) – “quelli”, vengono definiti nel romanzo. Poco importa cosa s’intenda per “altri”, chi siano, da dove vengano. Sono estranei, provenienti da un “lontano” che non si sente neanche la necessità di definire. Giovanni centra subito la questione: non ci somiglia, dice. Ed è amareggiato, perché a causa di quel morto ha perso una giornata di pesca, non è potuto arrivare in tempo al mercato dove la moglie lo aspettava dietro al loro banco.

Il sentimento di appartenenza a una certa comunità, infatti, ricomprende in sé anche il suo contrario: quello dell’esclusione dei cosiddetti “altri”, ovvero di coloro che sono percepiti come estranei a un certo contesto.

3 Cavalli,G., Carnaio, Fandango Libri, Collana Fandango, Roma, 2018. Il romanzo ha vinto il premio Campiello – Selezione Giuria dei letterati 2019

Si tratta di un tema molto sentito che l’Italia si trova oggi a dover affrontare e risolvere sia sul piano politico che su quello giuridico e normativo. Anzi, proprio in relazione a questo concetto di “comunità”, si registra una stretta connessione fra visione politica e diritto, cosicché ogni possibile approccio legislativo non può prescindere da una precisa visione ideologica della società.

Ad esempio, si è tornato a parlare recentemente di ius soli 4 con riferimento ai minori figli di genitori stranieri che siano nati in Italia. Come è noto, l’attuale legge in materia è la n. 91 del 19925, che stabilisce come criterio prioritario di attribuzione della cittadinanza quello dello ius sanguinis: sono cittadini italiani i figli nati da almeno un genitore italiano, a prescindere dal luogo di nascita. Il criterio dello ius soli, invece, trova ancora applicazione solo in alcuni casi particolari6, rimanendo così su un piano di eccezione rispetto alla regola generale del c.d. diritto “per sangue”7.

D’altra parte, l’esclusione, intesa come discriminazione del “diverso” è una tendenza umana presente fin dall’antichità. Si trattava, tuttavia, di una forma di esclusione fondata non già su una ritenuta supremazia biologica (in tal senso non può parlarsi di razzismo in senso stretto) ma piuttosto sulla ritenuta superiorità linguistica, religiosa e, in genere, culturale8.

I Greci e i Romani legavano il concetto giuridico di cittadinanza (fondamento dello status di uomo libero) a quello di civiltà. La cittadinanza (intesa quindi come privilegio di appartenere a un popolo evoluto) era concessa solo a coloro che abbracciano la cultura e i valori greco – romani e che

4 Il dibattito ha preso origine dal c.d. “caso Rami”, l’adolescente egiziano che lo scorso marzo 2019 ha salvato i suoi compagni dall’incendio dello scuolabus, a Milano. In quella occasione, lo stesso Premier Giuseppe Conte si disse favorevole alla concessione della cittadinanza italiana ad honorem al ragazzo.

5 L. 5 febbraio 1992, n.91, Nuove norme sulla cittadinanza, pubblicata in G.U. Serie Generale n.38 del 15.2.1992.

6 Si tratta ad esempio dei casi di minore figlio di apolidi o ignoti; del minore che, in ragione delle norme del paese di provenienza, non possa acquisire la cittadinanza dei genitori (art. 1 L.91/92); del minore straniero adottato (art. 3, L. n.91/92).

7 Attualmente, dunque, i minori figli di genitori stranieri, seppure nati in Italia, non acquisiscono automaticamente la cittadinanza, ma possono farne apposita richiesta entro un anno dal compimento della maggiore età, sempre che abbiano risieduto nel nostro Paese ininterrottamente fin dalla nascita (art.4, c.2 L.91/92 cit.).

Nella XVII legislatura era stata anche presentata una proposta di legge per la modifica della L.n.91/92 che, tuttavia, dopo aver ricevuto l’approvazione della Camera nell’ottobre 2015, non è riuscita a concludere l’iter in Senato, prima dello scioglimento delle camere. La proposta è stata ripresentata nell’ottobre 2018, riproponendo sostanzialmente gli stessi interventi della precedente, volti a semplificare e agevolare l’acquisto della cittadinanza italiana da parte dei minori stranieri presenti sul territorio.

8 Uno dei primi documenti che sembra legittimare la discriminazione tra gli uomini è una stele risalente all’antico Egitto del XIX secolo a.C., su cui è scritto: “Frontiera Sud. Questo confine è stato posto nell’anno VIII del Regno di Sesostris III, Re dell’Alto e Basso Egitto, che vive da sempre e per l’eternità. L’attraversamento di questa frontiera via terra o via fiume, in barca o con mandrie, è proibito a qualsiasi nero, con la sola eccezione di coloro che desiderano oltrepassarla per vendere o acquistare in qualche magazzino”. – Renzo Paternoster, “Le farneticanti basi scientifiche del razzismo”, articolo in internet del 1 dicembre 2015 – http://www.storiain.net/storia/le-farneticanti-basi-scientifiche- del-razzismo/

erano, pertanto, accettati come membri idonei della collettività. La selezione, dunque, avveniva su base politica, sociale e giuridica, ma non biologica9.

Con il termine “barbaro” i Greci e i Romani definivano un soggetto appartenente a un popolo diverso, dunque uno straniero. La definizione aveva comunque una connotazione negativa in quanto parola onomatopeica derivante dalla ripetizione della sillaba bar – bar (balbettante), volta a riprodurre quelli che agli ellenofoni sembravano dei versi privi di senso compiuto. Anche in tal caso, però, la superiorità dei popoli greco e romano era affermata sul piano prettamente culturale.

Paradossalmente, sarà l’Illuminismo a introdurre il concetto di razzismo biologico.

E, in effetti, prima dell’avvento delle teorie illuministe, la società europea si basava sulla visione cristiana di una umanità discendente da un unico ceppo originariamente creato da Dio (c.d. monogenismo)10. Come già detto, esistevano differenze di “civiltà”, sia per religione che per cultura, ma la ritenuta superiorità degli europei era affermata sulla base di una maggiore civilizzazione, o anche della superiorità di fede. Non erano ancora state ipotizzate le teorie della c.d. inferiorità “congenita”.

Sarà la scoperta di popoli non citati nella Bibbia a indurre una crisi teologica che metterà in discussione l’intera storia dell’umanità: alcuni dei “nuovi” popoli, infatti, non appartenevano alle stirpi discendenti dai figli di Noè e ciò portò addirittura a teorizzarne un’origine diversa (c.d. poligenismo)11.

Il romanzo di Cavalli, per voce di Giovanni, prende avvio proprio dal tema dell’estraneità. Il morto rinvenuto nei pressi della costa è avvertito subito come un elemento di disturbo, qualcosa che in qualche modo incide sullo status quo; non solo quello del pescatore che ha perso la giornata di

9 Vero è che in Grecia il filosofo Aristotele (384 a.C. – 322 a.C.) avallava la schiavitù sul presupposto di una “naturale” attitudine a essere schiavo: “Comandare ed essere comandato non solo sono tra le cose necessarie, ma anzi tra le giovevoli, e certi esseri, subito dalla nascita, sono distinti, parte a essere comandati, parte a comandare”. – Aristotele, La Politica, Collana Classici del Pensiero A/1, Firenze, Le Monnier, 1980, I, 4-5.

Tuttavia, tale peculiare “qualità” era determinata dal caso e non era ineliminabile: poteva, dunque, accadere che lo schiavo, affrancato dal padrone, potesse diventare un libero cittadino.

10 Uno dei primi scienziati che studiò il concetto di razza fu Robert Boyle (1627-1691), un filosofo e chimico esponente del naturalismo, il quale sosteneva il c.d. monogenismo, ovvero che tutte le razze provenissero da Adamo ed Eva.

11 Il c.d. poligenismo è considerato uno dei fondamenti del pensiero razzista in quanto si fonda sulla affermazione dell’origine diversa delle varie famiglie, o razze, umane.

Accanto al poligenismo, un altro concetto fondante il pensiero razzista fu “il mito potente della catena dell’essere”, cioè l’idea che esistesse un “anello mancante” che univa l’uomo agli animali in un’interrotta catena della vita, senza soluzione di continuità. La conseguenza di tale approccio, che negava ogni differenza qualitativa tra uomo e animale, fu la convinzione che l’animale posto più in alto (cioè la scimmia) fosse collegato con l’uomo posto più in basso (cioè il negro), il famoso “anello mancante.”

lavoro, ma quello dell’intera comunità di DF, raccontata attraverso i suoi esponenti simbolo: il commissario di polizia, il giornalista, il prete, il sindaco.

L’importante è che lei, signor Ventimiglia, non abbia nessun dubbio e nessun sospetto che l’ammazzamento possa essere avvenuto qui da noi, nel nostro territorio, intendo, qui dove qualcuno potrebbe dirci di non aver visto o di non sapere o di non esserci accorti”, dice il commissario.

Il ritrovamento del secondo morto porta il definitivo scompiglio. La signorina Lilly Carboni ci inciampa una sera, mentre passeggia sulla spiaggia con il suo cane. “Un trauma come quello, diceva Lilly, era un presagio, la tappa naturale di uno scivolo verso l’abisso che a DF era cominciato ormai da anni (…), una parabola discendente che era iniziata quando il sindaco Ruffini (…) aveva deciso di tollerare troppo maleducato turismo (…), troppo via vai irregolare che inevitabilmente aveva rotto la consuetudine necessaria perché una città rimanga misurata e borghese.”

Da questo momento in poi, “il fatto del morto”, non più isolato, diventa un pericolo che attenta alla serenità del Paese. “Quel martedì Cattori chiese al guardaroba una giacca scintillante (…) perché a Telenews si sarebbe fatta la storia, una puntata che avrebbe partorito anche il lancio di qualche agenzia di stampa nazionale (…) per questo mistero di una donna sola che è stata aggredita da un morto.” Le “istituzioni”, invocate come   entità lontana e indefinita, sono chiamate a dare risposte, ree di aver minimizzato l’accaduto, di non essere in grado di garantire la sicurezza di DF: “ci auguriamo che la politica, le istituzioni, le forze dell’ordine, tutti coloro che hanno responsabilità insomma, diano presto le risposte che i cittadini di DF si aspettano (…) perché i nostri figli possano sentirsi sicuri e protetti come converrebbe a una città che si dice civile e perché (…) lo dico da padre (…) noi abbiamo diritto di non avere paura.”

Una paura, dunque, paradossalmente ingenerata da due corpi inermi che, tuttavia, sono in grado di scuotere l’intera collettività e diventano occasione politica per contestare chi dovrebbe evitare qualsiasi turbamento esterno: “Pentitevi di questo vostro minimizzare, se non addirittura ammutolire, questo   flagello. (…) Pentitevi dell’oscurità in cui continuate a mantenere la città di DF e tutti i suoi cittadini!” tuona Don Mariangelo dal pulpito durante la messa della domenica.

Quando i cadaveri cominciano ad arrivare dal mare a ondate, la cittadina, senza interrogarsi sull’origine di questo fenomeno mostruoso, si chiude.

Cavalli descrive molto bene il momento della prima ondata: “Il quadro generale si ebbe quando i primi elicotteri si alzarono per sorvolare la zona (…): DF era ricoperta di cadaveri (…) un’onda di carne, senza corpi, a forma di massa, non tutta contenuta nella forma intellegibile di esseri umani, che sommerge la città per un’altezza di almeno cinquanta centimetri nella zona bassa e poi come uno strato più sottile nelle zone collinari, morti per terra che coprono interamente i

giardini, le strade, impigliati sui moretti e gli alberi e tra le ruote delle auto parcheggiate e a riempire fino all’orlo le fontane, corpi che impedivano di rientrare in casa coprendo gli usci fino alle maniglie e che occludevano le uscite delle abitazioni e dei ristoranti e degli uffici, corpi come fango che avevano sfondatole siepi e le recinzioni di ordinati giardini e le vetrine dei negozi e i gazebo dei bar sul lungomare.”

Si tratta di una vera e propria invasione, impossibile da contenere o ignorare.

Subito, vengono sollecitati da parte del sindaco interventi immediati ed efficaci da parte di Roma, dello Stato, dunque, colpevole di voler imporre procedure e indagini, di preferire i morti ai vivi.

Ecco allora che quello che era un sentimento di paura, la destabilizzazione di un equilibrio, diventa chiara e netta contrapposizione. I corpi, seppur inermi, minano la sicurezza di DF, la sua stessa identità. Al fugace sentimento di pietà, subentra subito quello dell’odio.

2.  La relatività del concetto di cittadinanza

Il passaggio dall’indignazione per l’inefficienza dello Stato a una politica del mero fare è brevissimo. Ritenendo di non ricevere le giuste indicazioni dal Governo, DF si dichiara indipendente e, pertanto, libera di poter affrontare come meglio ritiene l’invasione di corpi che continuano ad arrivare dal mare: “ (…) noi non possiamo e non vogliamo aspettare, noi facciamo e, se voi volete starci vicini, vi deve andare bene, non dico che debba piacere per forza ma la democrazia non è forse la possibilità di fare a DF ciò che vogliono gli abitanti di DF?” chiede il sindaco Ruffini al ministro inviato da Roma.

Il focus si sposta dunque sul conflitto Stato – Paese. L’idea dell’appartenenza si restringe ulteriormente: non sono più i confini nazionali ad essere in pericolo, ma i confini della piccola comunità cittadina.

Si tratta dei uno dei temi centrali del romanzo, che consente ulteriori osservazioni sul concetto di “cittadinanza”.

La questione del tema dell’essere “cittadino” è certamente trasversale a molteplici discipline, quali il diritto – certamente – ma anche la storia, la filosofia e la politica nel senso più alto del termine.

In letteratura, sono indimenticati e indimenticabili, ad esempio, i romanzi di Leonardo Sciascia, il quale ha dedicato grande parte della sua opera allo studio vero e proprio della cultura siciliana e, per quanto qui di interesse, al complesso rapporto Stato – Mafia post seconda guerra mondiale12.

12 Ci si riferisce ai romanzi: Il giorno della civetta, Adelphi, Collana Gli Adelphi, 2002, 10 ed.; A ciascuno il suo, Adelphi, Collana Gli Adelphi, 2000, Milano, 9 ed.; Una storia semplice, Adelphi, Collana Piccola biblioteca Adelphi, 1990, Milano, 24 ed.; Il Contesto, Adelphi, Collana Gli Adelphi, 2006, Milano, 2 ed.

Se in Sciascia il legame tra città e cittadinanza è narrato – nella sua dimensione più negativa

– attraverso la denuncia politica, altri autori hanno scelto la strada della lingua che è senza dubbio uno degli aspetti più caratterizzanti di un dato contesto geografico.

Soffermandosi sull’Italia, il dialetto diventa per lo scrittore uno strumento preferenziale per esprimere la società di riferimento e con essa i suoi protagonisti.

L’esempio più recente è l’opera di Andrea Camilleri che, con la sua serie di gialli dedicata al commissario Montalbano, ha sperimentato l’uso del dialetto come mezzo espressivo capace, di per sé, di raccontare un’intera collettività. Il dialetto consente al lettore di capire intuitivamente, senza necessità di spiegazione da parte dell’autore, la mentalità di una cittadina di provincia – anche in questo caso siamo in Sicilia – in cui “vecchio” e “nuovo” ancora convivono, inseguendo una sintesi sempre in bilico e di difficile realizzazione, fra tradizione e modernità. Proprio in questa perpetua contraddizione evidente, anzi, il dialetto riesce a trasmettere il messaggio, in una delle migliori interpretazioni della regola letteraria dello show, don’t tell13.

Si torna così alla riflessione iniziale. Essere cittadino significa appartenere. Ma che cosa ci identifica come membri di una comunità?

Su questo tema, a partire dagli anni Novanta si è sviluppata una letteratura legata alla realtà migratoria, dapprima incentrata sulla collaborazione fra autori stranieri e italiani, poi sempre più linguisticamente autonoma.

Si è parlato, al riguardo, di “letteratura italiana della migrazione”, per definire i lavori di quegli autori che scrivono in una lingua (nazionale) diversa da quella della fonte della propria provenienza, praticando anche “l’autotraduzione” in entrambe le direzioni14.

Nella produzione più recente, frutto delle c.d. seconde generazioni, il tema del conflitto identitario – fra origine migrante e sentimento di appartenenza al Paese in cui si è nati – è centrale e si lega a quello della cittadinanza.

L’autore ha scelto di porre la sua lente di ingrandimento sul contesto locale, sulla piccola cittadina del Sud, traslando così la questione da un piano meramente politico – che forse sarebbe stato percepito come astratto e avrebbe perso di incisività – a uno più prettamente culturale e concreto.

Nei romanzi di Sciascia, in altri termini, è lo stesso “contesto”, crudele, claustrofobico, sempre ambivalente, a esprimere la complessità dello stretto legame tra cittadino e città. In un quadro molto realistico, in cui è difficile distinguere tra “santi” e “peccatori”, risulta chiaramente espresso quell’humus culturale corrotto, fondato proprio su un distorto senso di appartenenza. Sono le tradizioni, la mentalità, il “paese”, a unire i cittadini; una cultura diffidente, soprattutto nei confronti dello Stato – percepito lontano e assente – a creare coesione, indifferenza e relativismo morale.

13 Andrea Camilleri, recentemente scomparso, ha pubblicato fra il 1994 e il 2019 per la Sellerio Edizioni (Palermo), 27 romanzi e cinque raccolte di racconti con protagonista il Commissario Montalbano.

14 Gnisci, A., Letteratura italiana della migrazione, Lilith Ed., Collana Lingua franca, 1998; e Nuovo Planetario italiano. Geografia e antologia della letteratura della migrazione in Italia e in Europa, Città Aperta Ed., Troina, 2006.

Nella sua opera Noi italiani neri. Storie di ordinario razzismo, l’autore Pap Khouma, senegalese naturalizzato italiano, esamina proprio la condizione e il sentimento dei c.d. “nuovi italiani”, divisi fra l’essere nati e cresciuti in Italia e l’essere comunque stranieri per religione, colore di pelle e tradizioni culturali15. Scrive Khouma: “Cosa significa essere straniero? Basta essere arabo in Italia o in Francia? Non essere bianco in Europa? Non essere nero in un paese africano? Di che colore deve essere un cittadino statunitense?” e, ancora: “Cosa rendeva italiano un nativo dell’Italia? La lingua? Chiunque può impararla bene dopo qualche anno. La religione? E gli italiani doc che si convertono all’Islam non sono più italiani? (…) Come si misura l’appartenenza? Con quanto si ama quel Paese?

La letteratura della migrazione pone dunque l’accento sull’inadeguatezza dell’attuale legislazione italiana in materia di cittadinanza, ancora troppo rigidamente legata a criteri (quello dello ius sanguinis in primis) e a strutture identitarie ormai superati da una realtà multiculturale e multirazziale fluida e mutevole.

L’intuizione di Carnaio è quella di porre l’accento proprio su questa relatività del senso di appartenenza. Nel momento in cui il conflitto non è più fra italiani e stranieri (i morti venuti da chissà dove), ma si sposta all’interno dei confini nazionali, la contraddizione e la difficoltà di inquadrare entro limiti precostituiti quello che è in effetti il sentimento che ci radica a un territorio, si mostrano in maniera evidente.

DF, come detto, rifiuta il suo stesso Stato, espelle coloro che non siano originari del Paese da generazioni, in altri termini dimentica quegli stessi confini che fino a poco prima sentiva di dover difendere dall’invasione dei corpi stranieri.

È proprio grazie a questo escamotage letteraio che l’autore riesce a dimostrare la fallacità di un pensiero che fonda l’appartenenza sull’esclusione.

L’applicazione del criterio dello ius sanguinis a una realtà locale rispetto a quella nazionale colpisce, perché il lettore, improvvisamente, riesce a cogliere tutta la relatività dei concetti di “straniero” e di “cittadino”.

3.L’efficienza della spersonalizzazione dei corpi

Le conseguenze del rifiuto delle più comuni regole di convivenza civile, non tardano ad arrivare. I morti diventano irreversibilmente corpi, vengono oggettivati, fino a ridursi a massa informe da disciplinare, gestire e, infine, sfruttare.

La definitiva spersonalizzazione dei morti viene narrata attraverso l’immagine dei corpi tutti uguali: il mare, infatti, continua a restituire una massa indistinta, corpi di uomini con misure e fattezze identiche: “Dal verbale d’ispezione cadaverica colpirono, nelle agenzie stampa e sui

15 Khouma, Pap, Noi italiani neri. Storie di ordinario razzismo, Dalai Editore, Collana I Saggi, Milano, 2010.

telegiornali, quei cadaveri tutti uguali, eccezionalmente era la parola che apriva ogni opinione e ogni editoriale (…)”.

Privati di una storia, di un’identità, di ogni dimensione di umanità, al di là da ogni possibilità di relazione o di pietà “quelli” diventano oggetto inanimato e, infine, merce.

La seconda parte del romanzo, infatti, intitolata “I vivi”, vira la prospettiva. DF, ormai dichiaratosi Stato indipendente, si riorganizza. I cadaveri vengono inglobati nel sistema economico del Paese, diventano opportunità, occasione di crescita e lavoro. Costruita una barriera di plexiglas per evitare l’invasione della terraferma, i cadaveri vengono incanalati nel ciclo produttivo della cittadina.

Il racconto cala il lettore in un progressivo ma inesorabile processo di disumanizzazione, in cui il limite etico si sposta di continuo e procede di pari passo con la ridefinizione dei confini geografici della comunità. DF dapprima rifiuta lo Stato e le sue regole, creandone di nuove, poi chiude le frontiere per impedire l’ingresso e l’uscita dal Paese. Viene allontanata la stampa, e l’informazione (che diventa propaganda) resta affidata a un unico giornalista locale; si istituisce la presunzione di legittima difesa e si reintroduce la pena di morte, per meglio tutelare la serenità dei residenti e per preservare quella che il sindaco definisce un’isola di libertà.

La perdita di ogni remora etica si accompagna dunque alla progressiva perdita dei più basilari principi democratici, come se l’incapacità di percepire gli esseri umani dietro ai corpi portati dal mare privi i cittadini di DF proprio di quella identità che pensano in tal modo di proteggere. I morti diventano manichini, i vivi marionette.

Non a caso, non ci sono protagonisti o eroi in questo romanzo, a sottolineare che sia i vivi che i morti si fanno massa indistinta.

4.   Lo svuotamento del concetto di comunità

In questo processo, la nuova città Stato si dota di nuove norme. La barbarie non deriva da una mancanza di leggi, ma è da esse legittimata e ciò anche in materia di cittadinanza. Come detto, coloro che non sono originari di DF vengono espulsi, i vicini con cui si è condivisa tutta la vita diventano estranei da allontanare: “Non è facile come sembra, ora, essere residenti a DF: ai Caracciolo la tessera non l’hanno rilasciata perché abitano da noi da più di dieci anni ma non hanno un genitore nato a DF, né da parte di Pietro Caracciolo né da parte dei Bufalino di sua moglie Lina, nemmeno uno, certo è sempre gente della zona, fin dai nonni, ma una regola bisogna comunque stabilirla per tenere l’ordine, ha detto il sindaco, anche se danneggia qualcuno caro (…)”.

Ecco che la letteratura inquadra, con il più intuitivo degli escamotage, il nodo della questione. In una costruzione in cui l’essere umano si definisce per esclusione dall’altro, tradendo la

sua dimensione sociale, l’individuazione di questo “altro” è questione contingente, classificatoria e per ciò stesso arbitraria.

Sotto altra angolazione, infine, la narrazione di Cavalli pone un ulteriore tema: la dicotomia esistente fra legge e giustizia. Non sempre, infatti, la prima è il mezzo per l’attuazione della seconda. In effetti, le norme possono considerarsi di per sé uno strumento neutro, in quanto si prestano all’attuazione di finalità che non sempre sono etiche o rispondono, appunto, a giustizia.

In Carnaio questa problematica è trattata esplicitamente. DF, come detto, non è una realtà che si limita a rifiutare le leggi statali; ne crea di proprie, legittimando la barbarie e perdendo tutta quella tradizione di civiltà giuridica che, paradossalmente, è uno dei cardini su cui si fonda il senso di appartenenza a un dato contesto sociale.

In un vorticoso isolamento centripeto e claustrofobico, la città, infine, costruirà una campana di vetro per isolarsi dal resto del mondo e che sarà invece causa della morte di tutti gli abitanti.

Attraverso questa immagine di un’enorme bolla di vetro che dovrebbe proteggere e, invece, imprigiona, si compie così la definitiva disumanizzazione dell’umano.

Conclusioni

Questo breve approfondimento consente di formulare alcune osservazioni in merito alle problematiche connesse al concetto di cittadinanza e al correlato significato di appartenenza.

Se, come premesso, appartenere a una comunità significa condividerne i valori, la lingua, una cultura in genere, il percorso verso l’integrazione, se non agevole, è sempre possibile.

È compito della comunità, intesa in primis come Stato, agevolare il relativo processo, promuovendo ogni iniziativa necessaria a garantire una multiculturalità rispettosa delle reciproche differenze.

Quando invece la percezione dell’extraneus travalica la problematica delle differenze culturali e cede al pregiudizio, ogni possibile intervento del legislatore perde di efficacia, poiché la comunità di riferimento tenderà a chiudersi in quel pregiudizio, attivando un processo che, come ben descritto in Carnaio, rischia di avere come esito ultimo la perdita di tutti quei valori che si pensa, così, di preservare.

È interessante notare come la denunciata recrudescenza razzista del nostro Paese sia strettamente connessa al nostro tema. Uno degli argomenti principali di coloro che chiedono oggi la chiusura dei porti, è infatti proprio il timore di una perdita di identità, di perdere, cioè, quel senso di appartenenza a una data cultura (nella specie occidentale) che ci identifica come popolo. Gli “altri” sono troppo diversi, si afferma; per negare in radice ogni possibile tentativo di integrazione virtuosa.

Che il riconoscimento formale della cittadinanza non sia di per sé idoneo a superare la ritrosia di una comunità nei confronti del c.d. extraneus è ben testimoniato dalla letteratura16 e, indirettamente, anche dallo stesso Carnaio: il restringimento dei confini – geografici ed etici – di DF, conduce a una perdita e non ad una affermazione di identità e ciò proprio sul presupposto della relatività dello stesso concetto di appartenenza che, ove svuotato del suo significato storico, politico, giuridico ed emotivo, diventa arbitrario.

Ecco, allora, che la norma, anche ove esistente e applicata, dimostra tutta la sua inadeguatezza (perché incapace di incidere sul sentire sociale e di farsi promotrice di un’effettiva evoluzione culturale) o addirittura diventa uno strumento divisivo – potenzialmente all’infinito – come ben descritto in Carnaio.

Allora, rimanendo sul piano speculativo proposto di Khouma, è forse proprio l’amore – inteso come condivisione in senso profondo – per un Paese a slatentizzare i limiti e le ingenuità di una legislazione ancora ancorata al tradizionale concetto giuridico di cittadinanza17. In quest’ottica, diventare cittadini significa diventare membri di una comunità, condividerne i valori e le tradizioni, al di là delle classificazioni e divisioni legate ai meri confini geopolitici.

16 Nel suo personalissimo saggio Stranieri a noi stessi, Julia Kristeva narra come il riconoscimento dello status di cittadino italiano non sia sufficiente a realizzare un’integrazione completa ed effettiva: “Lo straniero lancia all’identità del gruppo una sfida, in modo particolare quando, come cittadino italiano, diventa uno straniero interno: lo straniero che si è fatto interno è insieme vicino e lontano. È un elemento del gruppo, costitutivo del gruppo come ogni altro: come ogni altro è a esso organico e allo stesso tempo gli si contrappone (…)”. – Kristeva, J., Stranieri a noi stessi, Donzelli Editore, Collana Saggi, Storia e scienze sociali, Roma, ult.ed. 2014.

17 Si richiama al riguardo la definizione di Thomas Humphrey Marshall (1893 – 1981): “la cittadinanza è lo status che viene conferito a coloro che sono membri a pieno diritto di una comunità.” – T.H.Marshall, Cittadinanza e classe sociale, UTET, Torino, 1976.

È peraltro interessante notare come per l’autore la cittadinanza rappresenti, dal punto di vista politico – sociale, un possibile “antidoto” contro le disuguaglianze fra classi sociali e non anche un mezzo di discriminazione fra popoli.