Conferenza di servizi e valutazione d’impatto ambientale
(Commento alla pronuncia n. 9 del 25 Gennaio 2019 della Corte Costituzionale).
di Angela Fragomeni
La sentenza della Corte costituzionale in commento ruota attorno alla ricerca di equilibrio tra le esigenze di celerità e semplificazione dei procedimenti amministrativi (perseguite tramite l’istituto della conferenza di servizi) e la necessità di preservare l’autonomia regionale che, già dalla legge costituzionale del 18 ottobre 2001 n. 3, si è resa sempre più pregnante ed è cristallizzata negli articoli 117 e 118 della Costituzione.
Prima di entrare nel vivo dell’esame della pronuncia in parola, mediante la quale la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 2, comma 1, lettera b), e 10, comma 1, lettera d), numero 9, della legge della Regione Lombardia 12 dicembre 2017, n. 36 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento regionale ai decreti legislativi n. 126/2016, n. 127/2016, n. 222/2016 e n. 104/2017, relative alla disciplina della conferenza dei servizi, ai regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti e a ulteriori misure di razionalizzazione), occorre considerare attentamente le problematiche sottese.
La stessa Corte Costituzionale in una pronuncia di qualche tempo fa, a proposito della disciplina di cui agli artt. 14 e ss. della legge 241 del 1990, affermava che l’istituto, lungi dal determinare uno standard strutturale o qualitativo di prestazioni determinate, (…) assolve al ben diverso fine di regolare l’attività` amministrativa, in settori vastissimi ed indeterminati, molti dei quali di competenza regionale (quali il governo del territorio, la tutela della salute, l’ordinamento degli uffici regionali, l’artigianato, il turismo, il commercio), in modo da soddisfare l’esigenza, diffusa nell’intero territorio nazionale, di uno svolgimento della stessa il più possibile semplice e celere[1]. Preso atto dell’innegabile incidenza della disciplina in materie di competenza regionale, l’esigenza di semplificazione ed accelerazione dei procedimenti amministrativi diviene l’elemento di unitarietà che consente allo Stato di regolare la procedura, in sintonia col principio di sussidiarietà.
A proposito, la conferenza di servizi, può essere definita come il luogo istituzionale per il coordinamento delle pubbliche amministrazioni[2], nonché per la valutazione contestuale e sincronica degli interessi pubblici coinvolti nell’azione amministrativa. Si tratta di un istituto di semplificazione (a maggior ragione a seguito dei più recenti interventi legislativi[3]) proprio in quanto in un’unica sede si riuniscono i rappresentanti delle amministrazioni interessate, onde pervenire ad una determinazione motivata e valutativa delle specifiche risultanze istruttorie. Tramite l’esame contestuale degli interessi coinvolti nel procedimento (o nei procedimenti connessi) ed affidati alla cura di soggetti differenti, l’istituto realizza una sorta di contrazione dei tempi procedurali, sostituendo un’unica valutazione sincronica, alla pluralità di decisioni successive e sequenziali, tipiche dell’ordinario procedimento amministrativo.
Soprattutto, si determina una più semplice e rapida definizione dei possibili contrasti tra amministrazioni: nell’esame congiunto, ogni ente è tenuto a confrontarsi con le esigenze espresse dalle altre amministrazioni, maturando una maggiore consapevolezza di tutti gli aspetti sottesi all’esercizio del potere amministrativo. In tal modo, diviene più semplice l’individuazione degli interessi pubblici prevalenti e più accettabile il proporzionale sacrificio degli interessi secondari contrastanti. Sin dal 1993, la Corte Costituzionale ha ricondotto l’istituto in esame al principio costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione[4], in quanto diretta esplicazione dei canoni di efficienza ed economicità[5].
Con specifico riferimento alla conferenza di servizi su progetti sottoposti a valutazione d’impatto ambientale, inoltre, la disciplina generale risiede nell’articolo 14, comma 4, della legge 241 del 1990, novellato[6]. La disciplina prevede infatti che via sia un coordinamento tra il procedimento finalizzato al rilascio del provvedimento autorizzatorio, comunque denominato per l’esercizio di una attività o la realizzazione di un impianto e quello relativo al giudizio di compatibilità ambientale che deve esprimersi sul relativo progetto. La nuova formulazione dell’articolato normativo prevede l’integrazione dei procedimenti mediante l’indizione, da parte dell’amministrazione competente al rilascio della VIA, di un’unica conferenza di servizi dal carattere decisorio. In tal caso, il giudizio di compatibilità ambientale, espresso a seguito dei lavori della conferenza, andrà a sostituire tutti gli atti di assenso (non soltanto quelli ambientali, propedeutici per la realizzazione e l’esercizio dell’opera e dell’impianto). Sul piano procedurale, il quarto comma stabilisce che detta conferenza, convocata con modalità sincrona ai sensi dell’art. 14 ter, sia indetta non oltre dieci giorni dall’esito della verifica documentale, di cui all’art. 23, comma 4, del d. lgs n. 152 del 2006 e che i relativi lavori si concludano nel termine di conclusione del procedimento VIA, di cui all’art. 26, comma 1 del medesimo decreto legislativo. La conferenza si conclude, in base all’art. 14 ter, comma 6 bis, mediante l’adozione di una determinazione motivata[7]. Si configura quindi una certa tensione tra accelerazione procedimentale e qualità degli interessi da tutelare tramite i procedimenti di VIA, essendo infatti quelli ambientali tra gli interessi per definizione sensibili ed antagonisti al libero mercato[8].
Il nuovo modello di conferenza di servizi, relativamente alla valutazione d’impatto ambientale, sembra rispondere ad una logica di self-restraint per quel che concerne l’adozione delle misure di coordinamento con la disciplina ambientale. Tale scelta del legislatore sembra dovuta, in parte alla consapevolezza della delicatezza della materia, anche in ragione dei suoi numerosi intrecci con la disciplina regionale; in parte, alla necessità di verificare in concreto la compatibilità delle disposizioni speciali col nuovo modello generale. E’ vero, inoltre, che il ricorso ampio della conferenza di servizi in settori come il governo del territorio e le attività produttive, ha posto l’attenzione sull’interesse ambientale (tutelato in modo specifico e significativo) in ragione della potenziale conflittualità con questi stessi interessi[9].
Infine, in ordine alla compatibilità del silenzio assenso con la conferenza decisoria nella giurisprudenza costituzionale e comunitaria, l’illegittimità dei casi di silenzio-assenso è stata fatta discendere dalla violazione dei principi che presiedono ai rapporti tra fonti statali e fonti regionali[10]; oppure alla violazione della normativa europea che richiedeva un provvedimento espresso[11]. Non mancano, altresì, nella giurisprudenza costituzionale, pronunce nelle quali il silenzio-assenso trova esplicito avallo come espressione di un principio fondamentale di discipline di settore[12]. Sembra quindi necessario ritenere che la qualificazione in termini di assenso del silenzio serbato da un’amministrazione preposta alla cura di un interesse sensibile, non abbia il significato di una tacita valutazione di non contrarietà (alla luce del suddetto interesse, rispetto alla determinazione conclusiva prospettata dall’amministrazione procedente), bensì il solo effetto di non precludere all’amministrazione procedente l’assunzione della determinazione conclusiva. L’amministrazione procedente non sembra possa ritenersi esentata dall’inserire all’interno della complessiva valutazione finale la rappresentazione e la ponderazione di tale interesse. Si tratta di una rappresentazione in base agli elementi che emergono nel corso della conferenza, sulla base di un livello di conoscenze in ipotesi non all’altezza di quello che l’amministrazione, rimasta silente, avrebbe assicurato. Si tratterà di una valutazione, sul piano costituzionale, non in linea col principio di leale collaborazione dell’amministrazione interessata o conforme al principio di buon andamento dell’amministrazione. In base a quest’ultimo, infatti, diventa molto difficile tollerare situazioni in un certo qual modo paralizzanti.
La Corte Costituzionale, nella pronuncia in esame, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale degli artt. 2, comma 1, lettera b), e 10, comma 1, lettera d), numero 9, della legge della Regione Lombardia 12 dicembre 2017, n. 36 , sostiene che entrambe le norme, delineando un modello di procedimento parzialmente difforme da quello previsto dalle leggi statali, eccedono le competenze regionali invadendo la competenza legislativa esclusiva dello Stato nelle materie di cui all’art. 117, secondo comma, lettere m) e s) della Carta Fondamentale. Introdurrebbero, infatti, nel procedimento di valutazione dell’impatto ambientale una fase integrativa dell’efficacia della determinazione motivata di conclusione della conferenza di servizi, che non troverebbe alcuna rispondenza nella disciplina statale in materia ambientale. In particolare, nel caso in cui il provvedimento di competenza dell’organo di indirizzo politico non sia acquisito prima della convocazione della conferenza di servizi, le norme regionali precluderebbero la formazione del silenzio assenso in sede di conferenza e impedirebbero alla determinazione conclusiva di sostituirsi a tutti gli atti di assenso non acquisiti e di produrre immediati effetti giuridici. Pertanto, il modello di procedimento previsto nelle disposizioni regionali censurate, incidendo sui procedimenti di valutazione di impatto ambientale, si tradurrebbe in un’invasione della sfera di competenza legislativa statale in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.). Ed inoltre, si renderebbe più gravoso il procedimento di valutazione d’impatto ambientale a detrimento delle esigenze di semplificazione ed accelerazione procedimentale.
In particolare, sarebbero violate le disposizioni statali in tema di silenzio assenso in sede di conferenza di servizi[13], in considerazione del fatto che l’omessa adozione del provvedimento di competenza dell’organo di indirizzo politico non equivale ad assenso ai fini della conclusione del procedimento. Ciò sconfinerebbe nella disparità di trattamento, sul piano procedimentale, tra gli organi di indirizzo politico, cui sarebbe assicurata una disciplina di favore e tutti gli altri organi, o le altre amministrazioni che partecipano alla conferenza. Sarebbe, inoltre, violato l’art. 27-bis comma 7 del d. lgs n. 152 del 2006, perché la determinazione conclusiva prevista dalle disposizioni regionali non sostituirebbe il provvedimento di competenza dell’organo di indirizzo politico, occorrendo attendere la formalizzazione di questo affinchè la decisione finale possa produrre effetti giuridici. Sarebbero violate anche le norme statali che attribuiscono immediata efficacia alla determinazione conclusiva della conferenza di servizi[14]( ad eccezione dell’ approvazione sulla base delle posizioni prevalenti). In definitiva, il modello procedimentale statale, fondato sul silenzio assenso, sulla natura sostitutiva della determinazione conclusiva della conferenza di servizi e sulla sua immediata efficacia (derogabile solo nell’ipotesi prevista dall’art. 14-quater), sarebbe profondamente alterato dalla normativa regionale impugnata. La Consulta si è espressa confermando che i singoli profili della disciplina della conferenza di servizi devono essere riconducibili alla competenza legislativa statale in materia di determinazione dei livelli essenziali di tutela[15], coerentemente col dettato normativo dell’art. 29, comma 2-quarter, della legge n. 241 del 1990. In conclusione, per il giudice delle leggi, la norma regionale impugnata non assicura livelli ulteriori di tutela. Tutt’altro. Sacrifica, infatti, le finalità di semplificazione alla cui protezione è orientata la disciplina statale. Essa configura inoltre un modello di conferenza di servizi del tutto squilibrato e contraddittorio: squilibrato, in quanto assegna una netta prevalenza alla valutazione degli organi di indirizzo politico (senza precisare inoltre che cosa avvenga in caso di coinvolgimento di più organi politici); contraddittorio, perché, sebbene la decisione da assumere in conferenza presupponga o implichi un provvedimento di questi organi, la loro valutazione è separata da quella degli altri soggetti interessati. Sicché, sembra si possa ragionevolmente escludere che il modello così prefigurato costituisca sviluppo coerente e armonioso del quadro definito dalle norme statali interposte.
[1] Si tratta della pronuncia della Corte Costituzionale dell’11 luglio del 2012 n. 179. Il giudice delle leggi qui afferma che: La conferenza di servizi costituisce, come riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa, un modulo procedimentale-organizzativo suscettibile di produrre un’accelerazione dei tempi procedurali e, nel contempo, un esame congiunto degli interessi pubblici coinvolti. Esso, infatti, consente l’assunzione concordata di determinazioni sostitutive, a tutti gli effetti, di concerti, intese, assensi, pareri, nulla osta, richiesti da un procedimento pluristrutturale specificatamente conformato dalla legge, senza che ciò comporti alcuna modificazione o sottrazione delle competenze, posto che ciascun rappresentante, partecipante alla conferenza, imputa gli effetti giuridici degli atti che compie all’amministrazione rappresentata competente in forza della normativa di settore.
[2] Si veda Consiglio di Stato, sez. IV, 01/12/2016, n. 5044 (Conforme anche Consiglio di Stato, sez. IV, 03/11/2016, n. 4600) in cui a proposito si afferma che:La conferenza di servizi non costituisce solo un momento di semplificazione dell’azione amministrativa, come indicato dal capo IV, l. 7 agosto 1990, n. 241, ma anche e soprattutto un momento di migliore esercizio del potere discrezionale della Pubblica amministrazione, mediante una più completa ed approfondita valutazione degli interessi pubblici (e privati) coinvolti, a tal fine giovandosi dell’esame dialogico e sincronico degli stessi; in effetti la valutazione tipica dell’esercizio del potere discrezionale, e la scelta concreta ad essa conseguente, si giova proprio dell’esame approfondito e contestuale degli interessi pubblici di modo che la stessa, ove avvenga in difetto di tutti gli apporti normativamente previsti, risulta illegittima perché viziata da eccesso di potere per difetto di istruttoria, che si riverbera sulla completezza ed esaustività della motivazione.
[3] Si fa riferimento al decreto legislativo n. 127 del 2016 e s.m.i.
[4] Di cui è espressione l’art. 97 della Costituzione.
[5] Si tratta della sentenza della Corte costituzionale del 16 febbraio 1993 n. 62.
[6] Oltre alla riforma precedentemente richiamata in nota e relativa al d. lgs n. 127 del 2016, il comma in questione è stato oggetto di modifiche legislative attraverso l’art. 24, comma 1, del d.lgs del 16 giugno 2017 n. 104; in particolare si sono inserite le parole “di competenza regionale” relativamente alla valutazione d’impatto ambientale.
[7] La legge dell’11 Febbraio 2005 n. 15 ha modificato il testo legislativo di riferimento, che nella precedente formulazione faceva riferimento alla maggioranza delle posizione espresse e non alle posizioni prevalenti espresse.
[8] Tanto più a fronte dell’ampiezza della nuova nozione di impatti ambientali, prevista dall’art. 1, n. 3) della direttiva 2014/52/UE e recepita dal legislatore nazionale, all’art. 5, comma 1 del d. lgs del 16 giugno 2017 n. 104.
[9] Per approfondimenti sul punto si suggerisce la lettura del contributo Benedetti M., L’attuazione della nuova conferenza di servizi, in Giornale di diritto amministrativo, fasc. 3, 2017, p. 297.
[10] Si rimanda alle sentenze del 19 Ottobre 1992 n. 392 e del 27 Luglio 1995 n. 408. Alla stessa logica sono riconducibili pronunce più recenti, ovverosia la sentenza del 16 Marzo 2007 n. 88 e la sentenza del 4 Dicembre 2009 n. 315.
[11] In particolare, Corte di giustizia CE, 28 febbraio 1991, in causa 360/87.
[12] Si rimanda alle seguenti pronunce: in tema di strumenti urbanistici attuativi, la pronuncia della Corte Costituzionale del 17 Dicembre 1997 n. 404; in tema di titoli abilitativi per interventi edilizi, la pronuncia del 1° Ottobre 2003 n. 303; in tema di impianti di comunicazione elettronica, la sentenza del 27 Luglio 2005 n. 336.
[13] Art. 14-ter, ultimo comma, della legge n. 241 del 1990, richiamato dall’art. 27-bis, comma 7, del d.lgs. n. 152 del 2006.
[14] Art. 14-quater, comma 3, della legge n. 241 del 1990 e s.m.i.
[15] Sul punto si era espressa precedentemente la Corte Costituzionale con la sentenza del 6 Novembre 2018 n. 246.