CONSENSO INFORMATO E DISPOSIZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO

di Franca Iuliano

 

L’alleanza terapeutica

“Quando medico e paziente non si pongono simmetricamente rispetto ai due lati di una stessa vicenda, ma accettano di stare, sia pure asimmetricamente, dalla stessa parte, riconoscendo la peculiarità dei rispettivi ruoli, inizia la loro alleanza. Cercano insieme soluzioni, tracciano insieme possibili alter- native e condividono timori e speranze. Non c’è nulla di paternalistico in tutto ciò, è solo una concreta forma di alleanza terapeutica, che rifugge dalla confusione dei ruoli e mette in gioco tanti possibili livelli di collaborazione e di interazione” [1],[2].

Paradigma di riferimento dell’alleanza terapeutica è la relazione solidaristica che lega il medico al paziente, nella quale il primo si prende cura del secondo, realizzando la sua missione il paziente partecipa liberamente al processo di cura che lo interessa.

Essa si fonda su un dialogo, finalizzato al perseguimento di uno scopo comune, nel quale il medico, depositario della scienza, apporta alla relazione la sua professionalità, la sua esperienza e trasferisce le necessarie informazioni; il paziente esprime i suoi bisogni e la sua esigenza di cura [3].

La L. 22 dicembre 2017, n. 219, che segna il definitivo superamento del paternalismo medico, si incentra, ormai, sulla piena consapevolezza, da parte del paziente, di un ruolo attivo, e non più subalterno, nelle decisioni che riguardano la sua vita e la sua salute.

Al co. 2 dell’art. 1, chiarisce, infatti, che “è promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico […]”, alla quale partecipano gli esercenti della professione sanitaria che compongono l’équipe sanitaria.

La “fiducia” esalta, quindi, la componente antropocentrica dell’alleanza terapeutica e la volontà del paziente, il quale, attraverso il confronto con il medico, può scegliere il percorso di cura più adatto alle sue scelte di vita. La “fiducia” è di sfondo al nucleo della cura; ritorna, nel seguito della norma, dove si prevede che, ove il paziente lo desideri, sono coinvolti “i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo”; così declinando la legge, al plurale, i protagonisti della relazione di cura.

 

Le fonti: valori a confronto

Le riflessioni del giurista risentono della convinzione che ci si muove “in una materia in cui di certezze assolute, valide cioè per tutti i cittadini, non ve ne è l’ombra” [4] e che vi è “il rischio, sempre incombente, di fornire una lettura preconcetta, che pretenda di suffragare, attraverso dati giuridici, personali convinzioni ideologiche che sono, per loro stessa natura, metagiuridiche” [5].

L’ordinamento riconosce, tuttavia, una tendenza a positivizzare le istanze valoriali sottese ai beni della vita, della salute, dell’autodeterminazione; ed il giurista, che dovrà sforzarsi di essere un tecnico per non abbandonarsi a soluzioni emotive, si muoverà tra valori a rilievo costituzionale, con sensibilità allo spirito del tempo.

L’art. 1 L. 219, infatti, intervenendo a conclusione di un dibattito, giuridico ed etico, che negli anni si è alimentato intorno ai beni vita e salute, chiarisce subito che la materia verrà regolata nel rispetto dei principi di cui agli artt. 2, 13, 32 della Costituzione nonché degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La legge “tutela”, quindi, enunciandolo al richiamato art. 1, il “diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’auto-determinazione della persona”, così equiordinando valori a rilievo costituzionale ed eurounitario ed optando per un diritto dei principi.

Emerge, pertanto, una dimensione soggettiva ed individualista dei diritti umani, in cui all’ordinamento è richiesta la protezione del diritto ad affermare il proprio desiderio. Il diritto alla dignità e all’autodeterminazione garantisce la libertà dell’individuo di curarsi o meno, di scegliere le proprie cure, di decidere in anticipo il trattamento che dovrà essergli somministrato in caso di perdita di coscienza, fino al punto di decidere della sua morte.

La fisionomia di tutta la legge è quella di raccogliere in carico principi già da tempo presenti nella deontologia ed in alcune esperienze avanzate, ma spesso controfattuale rispetto alla cultura medica dominante. In questo contesto, il giurista ha dovuto trovare spesso un punto di equilibrio tra i valori della vita, della salute, della libertà di autodeterminazione con la concretezza di chi deve occuparsi di un caso specifico, in un quadro di assoluta genericità ed astrattezza [6]. Hanno, sinora, mediato i singoli giudici chiamati spesso a decidere casi complessi in condizioni di assoluta solitudine e vaghezza del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, laddove – pur riconoscendo il vivo dibattito dottrinale in materia – si sono arrestati di fronte alla pretesa primarietà del diritto alla vita rispetto ad altre situazioni giuridiche soggettive riconosciute dalla Costituzione, quali i diritti fondamentali di libertà, il diritto alla dignità, lo stesso diritto alla salute[7]. Hanno anche mediato i medici, i quali, se dai tempi di Ippocrate, già nel IV secolo a. C., sono chiamati a tutelare la vita e la salute ed a curare tutti e sempre, hanno poi dovuto tener conto del diritto del paziente di rifiutare le cure.

La legge 219 recepisce, quindi, una mutata elaborazione (ed un’inevitabile evoluzione) del diritto alla salute che – se in una prima fase era questione di ordine pubblico, successivamente, con l’entrata in vigore della Costituzione, veniva qualificato come un diritto sociale[8] – è stato ricondotto a “diritto soggettivo assoluto e primario volto a garantire l’integrità psico-fisica delle persone bisognose di cura” e riconosciuto nella sua assolutezza il “nucleo essenziale” del bene salute[9]; fino ad approdare ad una concezione in cui il suo esercizio non può prescindere dalla dimensione psichica del titolare e dalle sue personali aspettative di vita[10]. Ne discende la libertà del soggetto di scegliere un trattamento medico, o di rifiutarlo, quale massima espressione di un potere volitivo legittimato dall’art. 32 Cost. (norma con portata immediatamente precettiva e non solo programmatica) e dall’art. 13 Cost., che esprime il diritto alla libertà personale e, quindi, la facoltà di rifiutare atti di invasione sul proprio corpo. Insieme all’art. 2 Cost., che ne sancisce l’inviolabilità, dette norme sono richiamate dalla legge 219, come principi fondanti la materia[11],[12].

 

Il consenso informato

L’obbligo di informazione viene ricondotto ai principi contenuti negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione [13]. La sua violazione porterebbe all’incisione del diritto all’autodeterminazione del paziente nonché di quello a non essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la sua volontà.

L’approdo normativo, confluito nell’art. 1 della legge 219 del 2017 sul “consenso informato”, è frutto di un importante dibattito giuridico ed etico e di un’evoluzione giurisprudenziale in materia.

La concezione più risalente vedeva il medico come dominus assoluto della strategia terapeutica [14]. Con l’entrata in vigore della Costituzione, il consenso era considerato causa di giustificazione all’atto medico potenzialmente lesivo dell’integrità psicofisica dell’individuo; impostazione successivamente superata con la considerazione che l’atto di cura non potesse essere visto come un’aggressione alla salute, né rinuncia all’esercizio di un suo diritto proprio. Di qui, una nuova impostazione del rapporto medico paziente che vede il paziente al centro dell’atto terapeutico, ed al quale solo spetta decidere se e come curarsi, all’esito della diagnosi e di una corretta informazione [15]; fino a giungere alla centralità dell’autodeterminazione del malato come ruolo di “fondamento giuridico primario dei poteri – doveri del medico” [16],[17].

Se per la prima volta, quindi, la L. 219 detta una disciplina compiuta del consenso informato, la giurisprudenza già ne aveva delineato i caratteri distintivi. In particolare, era stato evidenziato che l’assenso all’atto terapeutico doveva essere preceduto da un’adeguata informazione del paziente in merito alla modalità di esecuzione dell’intervento ed alle sue conseguenze; esso doveva essere manifestato in forma espressa, in ipotesi di dissenso alle cure e, soprattutto, doveva essere: libero e personale, consapevole e informato, preventivo e specifico, revocabile, nonché attuale e chiaramente manifestato [18]. L’attualità indica che il consenso non può essere dato ora per allora, ma che esso autorizzi il trattamento sanitario, e sussista, anche nel momento in cui questo viene intrapreso ed eseguito. Le maggiori problematiche applicative si sono, infatti, manifestate in presenza di atti di dissenso alle cure resi in un tempo antecedente a quello in cui si è poi verificata l’emergenza sanitaria ed in cui, quindi, il paziente non era più capace di manifestare la propria autodeterminazione. Così che al medico veniva di fatto di volta in volta riservata la decisione di somministrare o meno le cure anche in situazioni di dissenso (solo iniziale) al trattamento, esponendosi al rischio di imputazione di responsabilità civile, penale e deontologica. Si pensi al caso in cui un parto, avviato con decorso ordinario, sviluppi delle complicazioni che mettono il medico di fronte alla scelta se eseguire o meno determinati trattamenti, in un momento in cui la donna non è più nel pieno delle proprie facoltà, in quanto coinvolta dall’emergenza sanitaria [19].

La L. 219, all’art. 1, co. 2, colloca il consenso informato alla “base” della “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico”; esso sintetizza l’ “autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico”, in qualche modo riducendo l’asimmetria tra i protagonisti dell’alleanza terapeutica. Espressione di un diritto di libertà, il consenso informato deve essere considerato un negozio giuridico ed, in quanto tale, per essere validamente manifestato, deve presentarsi immune da qualsiasi vizio della volontà (errore, violenza, dolo) [20]. Un consenso disinformato (ora, impossibile) sarebbe un ossimoro [21]. Il successivo co. 3 sancisce, innanzi tutto, il diritto di ogni persona “di conoscere” le proprie condizioni di salute e di “essere informata”, in merito alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici ed ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari proposti dal medico, nonché in merito agli effetti del rifiuto dei suddetti trattamenti.

Il consenso informato è trattato in termini generali ed astratti; esso è, quindi, riferito ad ogni trattamento sanitario, sia che si tratti di indagine diagnostica sia che riguardi un intervento terapeutico. Sotto un primo punto di vista, la norma sembra investire i casi di esistenza di patologie ed appare meno ipotizzabile in situazioni di diagnosi preventive.

Sotto altro profilo, si coglie l’estremo rigore del dovere informativo del medico, laddove è prescritto che la persona deve essere resa edotta “in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile” (co. 3). Una prima lettura della norma sembrerebbe, quindi, trascurare del tutto le cautele sinora chieste al medico in termini di appropriatezza del linguaggio e gradualità delle notizie da somministrare al paziente; elementi di rilievo soprattutto ove la comunicazione sia rivolta ad un malato terminale. Ed infatti, l’art. 33 del Codice di Deontologia medica rubricato “informazione e comunicazione con la persona assistita”, dopo aver sancito la completezza dell’informazione sulla prevenzione, sul percorso diagnostico e sulla diagnosi prevede che “Il medico adegua la comunicazione alla capacità di comprensione della persona assistita o del suo rappresentante legale, corrispondendo a ogni richiesta di chiarimento, tenendo conto della sensibilità e reattività emotiva dei medesimi, in particolare in caso di prognosi gravi o infauste, senza escludere elementi di speranza”. Se indiscutibile è stato, quindi, l’apporto umano fino ad oggi richiesto al medico, il richiamato art. 1, al co. 3, della legge in esame sembra, piuttosto, focalizzare l’attenzione sulla pienezza del diritto all’informazione e sul corrispondente obbligo del sanitario. Ciò nondimeno, al co. 10 dell’art. 1, la legge stabilisce che la formazione dei medici e degli esercenti la professione sanitaria comprende (o meglio, deve comprendere) l’acquisizione di una conoscenza specifica in materia di relazione e comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e cure palliative, con l’evidente (ed auspicabile) scopo di dotare il curante di “sufficienti doti di psicologia tali da consentirgli di comprendere la personalità del paziente e la sua situazione ambientale” [22].

Ad oggi, tuttavia, i piani di studi delle facoltà di Medicina non includono esami specifici volti alla formazione richiesta dalla legge; è auspicabile un adeguamento allo spirito, prim’ancora che al dettato, della legge, perché siano create le professionalità adeguate ad interfacciarsi con valori a rilievo costituzionale.

Nonostante la legge abbia dettato uno statuto completo del consenso, infatti, non si può ridurre la relazione di cura ad una dimensione meramente negoziale, perché il paziente affida al medico decisioni che riguardano un bene (vita) indisponibile nonché la (intrasferibile) dignità con cui intende vivere. La teoria del consenso ha fatto emergere, sempre con maggiore incisività, la tendenza al dissenso informato, fino a giungere alla sua codificazione.

La legge si occupa delle ipotesi in cui un paziente, mantenuto in vita da mezzi meccanici ed incapace, quindi, di una vita autonoma, dichiari di voler interrompere il sostegno artificiale, nella certezza che lo spegnimento della macchina lo conduca al decesso. Apparentemente, la norma di cui all’art. 1, co. 5, sembrerebbe risolvere ogni dubbio e finalmente dirimere le questioni che negli anni si sono agitate all’attenzione etica e mediatica e che hanno condotto alla L. 219.

La volontà di sospensione dei trattamenti sanitari (considerati, ai fini della legge in esame, “la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici”) deve essere rispettata dal medico, il quale deve prospettare al paziente “le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove[re] ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica” (sempre co. 5). A ben vedere, quindi, la legge non sembra, invece, occuparsi (almeno espressamente), dell’ipotesi in cui al medico sia chiesto di somministrare, nel caso di rifiuto delle cure, una sedazione profonda che accompagni il paziente alla morte [23].

Né una tale legittimazione può discendere dalle parole “ogni azione di sostegno” (art. 1, co. 5) ovvero dalla (somministrazione della) “terapia del dolore” e dalle “cure palliative” di cui al successivo art. 2, co. 1 [24]. L’ambito normativo lascia, tuttavia, aperti spazi di discussione e di interpretazione, attesa la natura elastica delle norme esaminate; così rispandendosi l’area in cui al sanitario prima, al giurista poi, è rimessa la scelta di bilanciare i diversi valori a confronto.

Nella relazione di cura, se il paziente può dissentire rispetto alla proposta curativa, il medico può disattendere le richieste del malato.

Può verificarsi, infatti, un caso estremo, quello in cui il malato non chieda al medico la tutela del diritto alla vita, ma di intervenire per provocargli la morte, con il ricorso all’eutanasia, così ponendo il medico di fronte alla scelta di rinunciare alla sua professionalità ed ai principi cui è informata la sua attività, primo fra tutti il fine terapeutico dell’attività sanitaria.

Al riguardo, la legge all’art. 1, al co. 6, disciplina il rifiuto al trattamento sanitario e l’interruzione delle cure, nel senso specifico di legittimare l’astensione del medico anche in relazione agli atti che consentono al paziente di rifiutare trattamenti in corso. Ed a seguire: “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”. Detta previsione fa riferimento a trattamenti sproporzionati o non scientificamente attendibili che il medico non ha l’obbligo di attuare, così – questa volta le legge lo chiarisce, a scanso di equivoci – andando esente da qualsivoglia responsabilità. La norma non sembra prevedere espressamente l’obiezione di coscienza. Nel momento in cui il medico attua una richiesta di interruzione di cura, consacra la libertà del paziente di respingere un’invasione del proprio corpo, che lo stesso ritiene inappropriata, non autorizzandola. Un’obiezione al rifiuto di cure si tradurrebbe, quindi, in un trattamento coatto abusivo. Al successivo comma 9, è specificato che ogni azienda sanitaria, pubblica o privata, ed anche cattolica, debba organizzarsi per garantire l’attuazione dei principi della legge.

Una maggiore flessibilità della norma è ravvisabile nel successivo co. 7, il quale prevede che, nelle situazioni di emergenza o di urgenza, il medico ed i componenti dell’équipe sanitaria assicurino le cure necessarie nel rispetto della volontà del paziente “ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla”, previsione che sembra rimettere al medico, in determinate situazioni emergenziali, la decisione finale se e come intervenire [25].

La legge, inoltre, sembra consegnare una dimensione evolutiva del consenso, che non può essere considerato un “fatto compiuto” ma come “un processo dinamico che richiede aggiustamenti continui, adattamenti da condividere, tenendo presente anche le norme deontologiche e la responsabilità civile” [26], così che esso si svolge nella pianificazione condivisa delle cure e nelle disposizioni anticipa- te di trattamento (DAT), di cui infra.

Il rilievo del consenso informato in ostetricia e ginecologia è legato alla varietà di situazioni che possono presentarsi in concreto e che pongono il paziente in condizioni di dover decidere, ad esempio, se ricorrere al parto naturale o cesareo, se interrompere o meno la gravidanza, se ricorrere a tecniche di procreazione medicalmente assistita. Numerosi sono stati i casi di imputazione di responsabilità, anche per difetto di consenso informato, al ginecologo che, al momento del travaglio, ha optato per il parto per via vaginale pur essendovi indicazioni contrarie [27], mentre è tuttora controversa la questione relativa ai limiti dell’informazione somministrata [28]. È indubbio, invece, che la portata informativa dell’obbligo debba estendersi fino ad un giudizio di adeguatezza o meno della struttura sanitaria [29],[30]. Una specifica disciplina del consenso informato è stata dettata, in materia di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA), dal D.M. 265 del 28.12.2016, regolamento attuativo della L. 40 19.2.2004 e conforme ai plurimi interventi della Corte Costituzionale [31].

Il decreto detta, innanzi tutto, all’art. 1, un nucleo minimo della componente informativa che riguarda anche le alternative alla PMA (adozione o affidamento), esamina i problemi bioetici conseguenti all’applicazione delle tecniche, le varie pratiche attuabili, gli effetti psicologici per i richiedenti, i rischi per la madre e per il nascituro, ecc. [32]. Ed inoltre, contiene specifiche indicazioni relative alla donazione di gameti ed alle tecniche sugli embrioni.

La minuziosità della descrizione del processo informativo, unitamente alla previsione che lo stesso vada espresso “congiuntamente al medico responsabile della struttura autorizzata” (che può essere soggetto diverso dal medico che effettua il colloquio), sembrano disvelare una dimensione contrattualistica del consenso, da esprimersi nelle forme previste dal regolamento, per iscritto e mediante il ricorso ad un modulo negoziale allegato al decreto.

Ulteriore forma di consenso, e di espressione di autodeterminazione, prevista dal regolamento è quella al trattamento dei dati personali, che avviene nelle forme dettate dal Codice in materia di protezione dei dati personali di cui al D.Lgs. 30.6.2003 n. 196, il quale osserva un particolare rigore quando si occupa del trattamento di dati sanitari per finalità di cura e assistenza medica. Il recente regolamento UE n. 679/2016 sulla protezione dei dati personali, entrato in vigore in Italia solo il 25 maggio 2018, a distanza di due anni dall’adozione, all’art. 9, punto 2, lett. h) qualifica di per sé lecito il trattamento se “necessario per finalità di medicina preventiva o di medicina del lavoro, valutazione della capacità lavorativa del dipendente, diagnosi, assistenza o terapia sanitaria o sociale ovvero gestione dei sistemi e servizi sanitari o sociali sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri o conformemente al contratto con un professionista della sanità, fatte salve le condizioni e le garanzie di cui al paragrafo 3” [33].

Considerato il carattere necessario dell’informativa sul trattamento dei dati personali in materia di PMA, le strutture sanitarie dovranno farsi carico di adeguare la compliance alle disposizioni regolamentari; attività di non poco momento, ove si consideri che il Codice in materia di protezione dei dati personali di cui al D.Lgs. 196/2003 è stato solo parzialmente abrogato dal regolamento UE, direttamente applicabile, e che il DM 265/2016 attua l’art. 13 del D.Lgs. 1962003, ad oggi abrogato.

 

La pianificazione condivisa delle cure

Nella medesima contestualità relazionale, ma in una dimensione programmatica del consenso, si colloca, invece, la pianificazione delle cure (art. 5). Essa esprime un momento dinamico della relazione di cura che lega il medico al paziente e rappresenta l’occasione di maggiore confronto e condivisione della scelta terapeutica.

L’ambito di intervento è quello dell’ “evolversi delle conseguenze di una patologia cronica ed invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta” (co. 1) e la disposizione (anche per il riferimento alle annotazioni in cartella clinica, oltre che per la presenza dell’équipe medica) sembra far riferimento ad un’attività da svolgersi all’interno dell’ospedale.

L’incipit della norma, tuttavia, rinviando alla relazione tra paziente e medico di cui all’art. 1, co. 2, conferisce portata generale all’istituto, ammettendolo anche al di fuori di un ricovero ospedaliero. Può accedere alla pianificazione condivisa il paziente cui sia stata diagnosticata una certa patologia o che abbia familiarità con la malattia.

E la norma prevede l’obbligo, per i sanitari, di attenersi al piano di cure programmato, ove il paziente si trovi successivamente in una condizione di incapacità, nonché la possibilità che lo stesso venga aggiornato in ragione dell’evolversi della malattia. La norma infine, al co. 5, rinvia alla disciplina (integrativa) delle DAT per gli aspetti ivi non disciplinati.

 

Il fiduciario

Se la fiducia fa da sfondo alla relazione di cura, la figura del fiduciario ricorr e nelle diverse forme di espressione del consenso: il consenso o rifiuto del trattamento (art. 1); la pianificazione condivisa delle cure (art. 5); le disposizioni anticipate di trattamento (art. 4).

“Una persona di fiducia del paziente” entra, innanzi tutto, nella relazione di cura di cui al comma 1 dell’art. 1; può essere incaricata di ricevere le informazioni ed esprimere il consenso in vece del paziente ovvero il dissenso alle cure.

L’ordinamento sanitario già prevede, all’art. 33 del Codice di deontologia medica, la possibilità, per il paziente, di “delegare ad altro soggetto l’informazione”. La L. 219, spingendosi oltre, all’art. 1 facoltizza il paziente ad incaricare, con indicazione annotata in cartella clinica, una “persona di sua fiducia” di deliberare sulle proposte terapeutiche e di dare (o non dare) il consenso “in sua vece”. Trattasi, quindi, di un mandatario con potere di rappresentanza.

In questa fase, il diritto del paziente ad ignorare il suo stato di salute si svolge in un contesto statico, in una fase in cui allo stesso non sia chiesto di assumere decisioni terapeutiche (o perché non ancora necessarie o perché lo stesso sia in fase terminale e non intenda essere edotto sul suo stato di salute). Ove invece il paziente, in una situazione dinamica, pur avendo la capacità di decidere, delegasse a terzi il potere di ricevere informazioni e di decidere in sua vece, rinunzierebbe, di fatto, alla propria libertà di autodeterminazione.

La previsione induce a riflettere sulla circostanza che un soggetto capace e cosciente possa delegare a terzi l’esercizio di un diritto da sempre considerato come personalissimo e che il delegatario possa esercitare il potere conferitogli in un tempo in cui il delegante sia ancora in grado di assumere decisioni consapevoli circa i trattamenti sanitari a cui sottoporsi.

In un contesto più dinamico di cura, il comma 1 dell’art. 4 prevede che ogni persona, in vista di una futura incapacità di autodeterminarsi, può nominare un fiduciario che “faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie”. Immaginando che l’istituto della rappresentanza possa essere inteso genericamente come legittimazione ad agire per conto altrui [34], in quanto il rappresentante esprime una volontà propria veicolando un interesse del rappresentato (a differenza del nuncius, il quale si limita a manifestare una dichiarazione di volontà già formata), può presentarsi il problema di dover interpretare la delega conferita al fiduciario quando la situazione venutasi a creare non dovesse risultare perfettamente sovrapponibile con le direttive impartite dal disponente. Si immagini il caso in cui il disponente cada in uno stato vegetativo dopo aver dichiarato di rifiutare l’alimentazione artificiale ed al paziente, in una situazione di emergenza, venga prospettata la possibilità di effettuare un intervento salvavita. In tale evenienza, il fiduciario dovrà farsi carico di distinguere la sua volontà da quella del paziente, nell’interesse del quale dovrà ricordarsi di decidere ed i medici dovranno tenere presente che altro è lo stato d’animo in cui è stato preventivamente disposto il rifiuto di uno stato vegetativo, altro è quello in cui si troverebbe a decidere il paziente caduto in uno stato di incoscienza rispetto ai possibili o probabili esiti positivi di un intervento salvavita.

Ancora più difficile per il giurista calare nell’ambito dei diritti personalissimi ed indisponibili un istituto che il codice colloca nel libro delle obbligazioni in quanto attinente ai rapporti patrimoniali. Notoriamente, alcuni negozi personalissimi come il matrimonio, i negozi familiari, il testamento e la sua revoca non possono essere conclusi mediante rappresentanza [35]; difficile, quindi, sarebbe indagare sull’ampiezza di una delega conferita al fiduciario, al fine di accertare l’effettivo potere dello stesso di decidere, nell’interesse del disponente, in merito a determinate cure.

In tali casi, un’indicazione interpretativa potrebbe piuttosto giungere dai principi costituzionali richiamati all’art. 1, i quali dovranno sempre orientare la lettura e l’applicazione della legge.

Nulla esclude che il fiduciario di cui al co. 1 possa ricevere anche le determinazioni da far rispettare per il caso di sopravenuta incapacità.

Nella pianificazione condivisa delle cure, la figura del fiduciario rinvia a quella delle DAT (“esprime” […] “i propri intendimenti per il futuro, compresa l’eventuale indicazione di un fiduciario”). Non è prevista, invece, l’ipotesi in cui, nell’ambito del programma di cura, il paziente intenda affidare al fiduciario l’incarico di rappresentarlo in ipotesi di sopravvenuta incapacità [36].

 

Disposizioni anticipate di trattamento

Espressione di massima libertà di autodeterminazione, le “disposizioni anticipate di trattamento” (DAT), nell’ambito della relazione di cura, rappresentano il momento più delicato dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente, perché il paziente vi affida la propria volontà per il tempo (e nella eventualità) in cui non sarà capace di decidere.

Il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) ha affermato che “Le dichiarazioni anticipate di trattamento tendono a favorire una socializzazione dei momenti più drammatici dell’esistenza e ad evitare che l’eventuale incapacità del malato possa indurre i medici a considerarlo, magari inconsapevolmente e contro le loro migliori intenzioni, non più come una persona, con la quale concordare il programma terapeutico ottimale, ma soltanto come un corpo, da sottoporre ad anonimo trattamento” [37].

Il Codice di Deontologia medica già conosce l’istituto delle “dichiarazioni” anticipate di trattamento e, all’art. 38, prevede che il medico tenga conto di quelle “espresse in forma scritta” e “verifica la loro congruenza logica e clinica con la condizione in atto” e che, in relazione alle condizioni cliniche, “procede comunque tempestivamente alle cure ritenute indispensabili e indifferibili”. È come se il Codice riconoscesse una primazia del diritto alla vita, lasciando in secondo piano la volontà del malato e connotando di carattere etico la responsabilità del medico; pur tentando un (difficile) bilanciamento tra il diritto essenziale alla vita e quello alla libertà.

“Il CNB ritiene che le dichiarazioni anticipate siano legittime, […], solo quando […] non contengano disposizioni aventi finalità eutanasiche, che contraddicono il diritto positivo, le regole di pratica medica, la deontologia. Comunque il medico non può essere costretto a fare nulla che vada contro la sua scienza e la sua coscienza” [38].

Il dibattito sul testamento biologico ha lungamente interessato l’opinione pubblica e, nell’iter di formazione della legge, il principio di autodeterminazione ha finito col rappresentare il principale para- metro di riferimento nell’ambito della relazione di cura.

Prima di giungere all’attuale denominazione, venivano utilizzati indistintamente i termini “testamento biologico”, “direttiva anticipata di trattamento” e “dichiarazione anticipata di trattamento”.

L’art. 4 L. 219/2017 detta una prima completa codificazione delle dichiarazioni di volontà in materia sanitaria [39].

Rispetto alla formulazione precedente, sicuramente l’attuale “disposizione” sottolinea il carattere obbligante della dichiarazione per il medico, il quale può discostarsene solo d’accordo con il fiduciario nelle ipotesi in cui le stesse si presentino palesemente incongrue o non più attuali rispetto alla condizione clinica del paziente ovvero non abbiano tenuto conto dell’evoluzione delle terapie mediche non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di assicurare concrete possibilità di “miglioramento delle condizioni di vita” (concetto giuridico indeterminato che apre spazi di discrezionalità al medico, primo destinatario della norma; successivamente al giudice, chiamato a decidere sulle sue specifiche applicazioni concrete).

Il legislatore sembra, quindi, essersi alla fine orientato verso una non assoluta vincolatività delle DAT per il medico, prevedendo che, in ipotesi di disaccordo con il fiduciario, la decisione sia rimessa al giudice tutelare che deciderà su ricorso del fiduciario ovvero della struttura sanitaria o del medico, così recuperando il sanitario un ruolo attivo – e non di mero esecutore – nell’ambito della relazione di cura. Ora, senza dubbio la legge ha chiarito molte questioni per anni poste al centro del dibattito etico e giuridico ed ha restituito centralità all’autodeterminazione del paziente espressa nelle diverse forme del consenso (consenso o dissenso informato, pianificazione delle cure, DAT). In futuro, tuttavia, si potranno porre molti problemi interpretativi, soprattutto relativi alla stesura delle DAT: se debbano essere generiche o analitiche; quale sia il ruolo del medico nella loro formulazione; se debbano o meno dare atto delle informazioni dallo stesso ricevute.

Con parere n. 1991/2018 del 31.7.2018, il Consiglio di Stato, a seguito della formulazione di specifici quesiti del Ministero della salute, in particolare circa la possibilità di imporre, ai fini della conservazione elettronica, la standardizzazione delle DAT, ha chiarito che, in via generale, vada mantenuta la possibilità che l’interessato scelga di limitarle ad una determinata malattia, di estenderle a tutte le future malattie, di nominare un fiduciario o di non nominarlo. Ha così escluso la previsione di una vera e propria standardizzazione delle DAT. Ed inoltre, l’organo consultivo ha chiarito che le stesse debbano dare atto delle informazioni ricevute dall’interessate; e ciò perché vi sia certezza in ordine alla “adeguatezza” delle informazioni mediche acquisite e riguardanti le conseguenze delle scelte effettuate.

È chiaro che la presenza del medico, che preventivamente informi il disponente, conferisce garanzia di maggiore consapevolezza nell’assunzione delle determinazioni, ove si consideri che per il paziente anticipare le decisioni che riguardano il possibile evolvere della sua malattia significa porsi non al di sopra, ma al di fuori del processo naturale della stessa; e significa, soprattutto, ignorare i progressi della scienza. Il medico, poi, ove coinvolto, potrà tener conto della persona che si rivolge a lui, della sua personalità, della capacità di comprendere la legge. Il grado di dettaglio osservato modulerà la condotta del medico, se discostarsene o meno, tanto più ove al momento della loro esecuzione si presentino concrete possibilità di miglioramento non prevedibili al tempo della formulazione (art. 4, co. 5).

Resta il dato che, ad oggi, l’offerta formativa universitaria non prevede esami volti a dotare i futuri medici delle necessarie competenze per gestire questo tipo di comunicazione.

Altrettanto evidente è che una materia a così forte connotazione etica mal si presta ad essere analiticamente definita ed i giudici saranno, quindi, chiamati, di volta in volta, ad adattare la genericità della norma al caso concreto nel rispetto dei principi dell’ordinamento interno e del diritto eurounitario, soprattutto di quelli richiamati all’art. 1 co. 1 della legge; nonché, ove occorra, interpretando la legge e le norme elastiche tenendo conto dell’evoluzione che i diritti in esame hanno conosciuto.

 

Gli incapaci legali

L’art. 3 esamina le cure dei minori, degli incapaci, degli interdetti giudiziali, degli inabilitati e di coloro che sono sottoposti ad amministrazione di sostegno. Nello specifico, per detti soggetti, il consenso ai trattamenti sanitari è espresso o rifiutato dall’esercente la responsabilità genitoriale (co. 2), dal tutore (co. 3). L’inabilitato può esprimere direttamente il proprio consenso o rifiuto, o può esprimerlo, in sua vece, l’amministratore di sostegno (co. 4). Nell’esercizio del potere di sostituzione, per tutti questi soggetti, la legge afferma il diritto alla “valorizzazione” delle “capacità di comprensione e di decisione […] nel rispetto dei diritti di cui all’art. 1, co. 1” (co. 1).

La portata della norma non è del tutto innovativa, ove si osservi che essa si è limitata a recepire la prassi, già largamente in uso da parte dei medici, di acquisire il consenso del rappresentante legale. Colpisce, invece, l’attribuzione all’inabilitato della capacità di esprimere il proprio atto di assenso o di dissenso alle cure; salvo il caso in cui sia stato nominato un amministratore di sostegno, il quale decida “anche […] ovvero solo”, nell’interesse del primo.

La legge apprezza le condizioni del minore e dell’incapace, la volontà e la dignità dei quali devono essere rispettate, assurgendo la “valorizzazione delle proprie capacità di decisione e di comprensione” ad un vero e proprio diritto soggettivo.

Le fattispecie che la norma analizza descrivono relazioni di cura di particolare complessità ed il sanitario, nell’interazione con i rappresentanti legali dovrà, innanzi tutto, farsi guidare dalla centralità dei diritti (anche di libertà) dell’incapace e del minore. È auspicabile che l’esigenza di “formazione iniziale e continua” dei medici e del personale sanitario “in materia di relazione e di comunicazione con il paziente” (art. 1, co. 10) trovi ampia applicazione proprio in questo tipo di relazione di cura, involgendo essa soggetti che si trovano in evidente condizione di debolezza e di asimmetria.

Il co. 5 si occupa della risoluzione dei conflitti tra le volontà dei protagonisti della relazione di cura. Ove questi riguardino la volontà del rappresentante legale della persona interdetta o inabilitata oppure quella dell’amministratore di sostegno ed il medico, il quale ritenga le cure necessarie ed appropriate, e non siano state emanate DAT, la decisione è rimessa al giudice tutelare, il quale si pronuncia se adito dai rappresentanti legali, dal medico ovvero dalla struttura sanitaria, in persona del legale rappresentante.

Con ordinanza del 24.3.2018, il Tribunale di Pavia ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 4 e 5 nella parte in cui stabiliscono che l’amministratore di sostegno la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento, possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato, ritenendo che le suddette disposizioni violino gli articoli 2, 3, 13, 32 della Costituzione.

Le DAT di cui all’art. 4, ma la norma sul punto non è di pronta intuizione, prevalgono ove rese dall’interdetto giudiziale in condizioni di capacità. L’inciso, infatti, non è riferibile ai minori, i quali ai sensi del co. 1, non possono assumerle. Sempre al giudice, adito dai soggetti sopra indicati, è rimessa la decisione sul conflitto tra il rappresentante legale del minore ed il medico, che si trovi in disaccordo con i primi circa la necessità e l’appropriatezza di cure.

Il tema dei minori si è posto in modo significativo negli ultimi anni perché si è andata affermando una tendenza a renderli partecipi attivamente alla formazione delle decisioni che li riguardano ed è andata crescendo, nella coscienza sociale, l’esigenza di dare ingresso all’interesse del minore ad essere “ascoltato” [40].

Diverse possono essere le situazioni che pongono il medico di fronte a difficili decisioni. Si pensi al rifiuto di cure al neonato opposto da una mamma per motivi religiosi; oppure ai casi di rapporto conflittuale tra i genitori che debbano accordarsi in merito alle cure da somministrare al figlio minore. Ancora, alla minorenne che partorisca e che necessiti di cure salvavita.

Alla risoluzione dei casi estremi soccorrono le clausole generali ed i concetti giuridici indeterminati contenuti nell’art. 3, ferme le regole chiare in esso espresse.

La norma, infatti, valorizza la “capacità di comprensione e di decisione”, sempre nel rispetto dei diritti di cui all’art. 1, comma 1, così consentendo di distinguere le diverse fasce di età in cui viene riconosciuto un crescente livello di autonomia e di autodeterminazione. È chiaro che i minorenni “piccoli” sono maggiormente vulnerabili e bisognosi di protezione e che i diritti di libertà assumono maggiore rilevanza se espressi dagli adolescenti o dai quasi maggiorenni. Man mano che il minore cresce, il rappresentante muta il proprio ruolo, affiancando il minore “grande” perché emerga la sua volontà di cura o di rifiuto. L’art. 3 al comma 2, infatti, impone di tener conto della volontà dei minori “in relazione alla sua età e al suo grado di maturità”, allo scopo di tutelare sia la salute psicofisica nel rispetto della sua dignità. Riemerge l’equilibrio tra valori costituzionali e, nel conflitto tra le volontà dei protagonisti della relazione di cura, non si può trascurare che la potestà è un ufficio che dev’essere esercitato nell’interesse del minore. Una decisione irragionevolmente contraria ad una cura utile per il minore potrà far rispandere il potere pubblico attraverso l’intervento terzo del giudice tutelare che decide su ricorso dei soggetti sopra indicati.

 

La forma

Di particolare rigore si presenta la previsione dei requisiti formali che il consenso deve rispettare, nelle sue diverse manifestazioni.

Il consenso informato deve essere, innanzi tutto, acquisito in forma scritta, ovvero mediante videoregistrazione oppure, in ipotesi di persone con disabilità, mediante diversi dispositivi che consentano la comunicazione. Esso è annotato in cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. Del pari, devono essere annotati in cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico il rifiuto o la rinuncia alle informazioni e l’indicazione di un incaricato in vece del paziente.

Diverso, e più solenne, requisito formale devono rivestire le DAT, data la sacralità del volere che racchiudono ed il contenuto vincolante che esse assumono per il medico. Esse devono essere redatte per atto pubblico o scrittura privata autenticata. L’ordinamento chiama, quindi, il notaio a raccogliere una volontà espressa ora per allora e che verrà attuata quando il disponente non sarà più in grado di intendere e di volere. Il notaio, quindi, assicura la libertà e provenienza della disposizione senza che possa in alcun modo intervenire – nemmeno avendone le capacità tecniche – nella manifestazione della suddetta volontà.

Dovrà, inoltre, verificare che il disponente abbia previamente acquisito le adeguate informazioni mediche di cui al co. 1 dell’art. 4, anche mediante idonee allegazioni sanitarie. Solo così potrà assicurare che il principio di autodeterminazione venga espresso attraverso una piena consapevolezza da parte dell’autore [41].

Il notaio, inoltre, pur non avendo conoscenze specialistiche, non potrà ricevere DAT di contenuto illecito, posto che lo stesso medico dovrà sottrarsi dall’attuare DAT contrarie “a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali”.

Tra le varie forme di espressione delle DAT, quella notarile crea un rilevante affidamento sul tempo, sulla consapevolezza del volere e sulla libertà del disponente.

In alternativa, esse possono essere manifestate per scrittura consegnata di persona dal disponente presso l’ufficio del proprio comune di residenza, il quale provvede all’annotazione in apposito registro, ove istituito, ovvero presso le strutture sanitarie, qualora ricorrano i presupposti di cui al co. 7 dell’art. 4 [42]. Nei casi in cui il paziente versi in condizioni fisiche impedenti, le DAT possono essere raccolte mediante videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare. Gli atti di modifica, rinnovazione o revoca delle DAT devono essere espressi con medesimi requisiti formali. La legge, inoltre, consente che, laddove ragioni di urgenza o emergenza impedissero dette formalità, ne è consentita la revoca mediante dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, alla presenza di due testimoni. Con norma transitoria è, inoltre, stabilito che la disciplina di cui alla legge si applica anche a documenti contenenti disposizioni depositati presso il Comune di residenza o presso un notaio prima della data di entrata in vigore della legge medesima. Nonostante il legislatore si sia sforzato di disciplinare, con un buon grado di dettaglio, i requisiti formali delle DAT, non mancheranno problemi legati alla confluenza delle informazioni e delle disposizioni diversamente raccolte nonché all’accesso alle stesse (notaio, ufficio comunale, regione) e dovuti all’assenza di un archivio nazionale, d’altronde in coerenza con la clausola di invarianza finanziaria della legge, contenuta all’art. 7.

Allo stato, in assenza di un archivio informatico centralizzato in cui far confluire i dati e le informazioni, si ipotizzano problemi legati all’accesso. Non è chiaro se il notaio debba comunicare le determinazioni raccolte o se, invece, il medico, nell’emergenza sanitaria, debba chiederle agli uffici preposti alla ricezione ed alla conservazione.

Sempre nel parere n. 1991/2018, il Consiglio di Stato ha osservato che la normativa in materia di DAT deve essere coordinata con le disposizioni in materia di diritto alla riservatezza, anche questo diritto fondamentale della persona umana. Evidenziando, poi, la necessità che su tali profili si esprima il Garante per la protezione dei dati personali, ha precisato che alle DAT: (i) può accedere il medico che ha in cura il paziente quando sussista una incapacità dello stesso di autodeterminarsi; (ii) deve potervi accedere il fiduciario fino a quando sia in carica (ove non revocato), anche perché destinatario di una copia delle DAT ai sensi dell’art. 4, comma 2.

L’istituzione di una banca dati nazionale, prevista con la legge di bilancio 2018, ai co. 418 e ss. dell’art. 1, dovrebbe assicurarne un più agevole accesso [43].

Nel richiamato parere, il consiglio di Stato ha chiarito che una lettura costituzionalmente orientata della norma debba prevedere che l’accesso alla banca dati debba essere consentita anche a tutti coloro che non sono iscritti al SSN, dal momento che la tutela del diritto non consente di subordinarne il riconoscimento alla suddetta iscrizione.

Ed inoltre, il consiglio di stato si è espresso in merito ai dubbi interpretativi che il Ministero ha sollevato sulla parziale mancanza di coordinamento tra l’art. 4, co. 7 della legge 219/2017 e l’art. 1, co. 418, della legge n. 205/2017, in particolare sulla questione se la banca dati nazionale debba intendersi solo quale strumento finalizzato ad annotare l’avvenuta espressione delle DAT ovvero contenerne copia delle disposizioni. L’organo (in questa sede) consultivo ha chiarito che se pure la legge di bilancio ha utilizzato il termine “registrazione”, esso vada inteso in senso atecnico. Infatti, dopo aver precisato che la tutela della salute rientra nella potestà legislativa concorrente ex art. 117, co. 3 Cost. ha affermato che le DAT possono essere inquadrate, per alcuni versi, nella materia dell’”ordinamento civile” di competenza esclusiva dello Stato e, per altri versi, nella materia dei “livelli essenziali delle prestazioni”; conseguendone la necessità che il registro previsto dalla legge di bilancio non possa limitarsi alla mera registrazione di ciò che è stato raccolto dai registri regionali o dai registri comunali e, quindi, a mere annotazioni o registrazioni; al contrario il registro nazionale, attuando i principi costituzionali sottesi alla normativa in esame, deve essere finalizzato anche a raccogliere le DAT, così consentendo che le stesse siano conoscibili a livello nazionale.

 

La responsabilità

Il difetto (o la carenza) di informazione, nell’ambito della relazione di cura genera una specifica ipotesi di responsabilità sanitaria [44].

Negli ultimi anni, dall’inosservanza degli obblighi di acquisizione di un valido consenso la giurisprudenza ha fatto discendere la responsabilità del medico in ipotesi di insuccesso dell’intervento (anche in caso di assenza di nesso di causalità tra condotta omissiva e danno), fondandola sulla violazione degli obblighi di buona fede, ai sensi dell’art. 1337 c.c., discendendo detto obbligo – prima della codificazione del consenso informato – innanzi tutto, dall’art. 32, co. 2 Cost., in forza del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, nonché dall’art. 13 che sancisce l’inviolabilità della libertà personale e, quindi, della libertà di decidere della propria salute [45]. Al riguardo, la giurisprudenza ha dapprima ritenuto imputabile al sanitario, e quindi alla struttura, la responsabilità anche in assenza di una colpa specifica nell’esecuzione della prestazione, per non aver consentito al paziente di rifiutare l’intervento non riuscito [46].

Successivamente, è stato ritenuto che, in presenza di intervento correttamente eseguito ma non preceduto da un’adeguata informazione, il sanitario potesse essere chiamato a rispondere solo previa prova, da parte del paziente, che lo stesso avrebbe rifiutato le cure, difettando, diversamente, il collegamento causale tra la mancata informazione e il danno alla salute [47]; ed in ipotesi di parto, il diritto al risarcimento del danno è stato esteso anche al concepito, una volta nato [48].

Diverso l’inquadramento della natura della responsabilità da inadempimento degli obblighi di informazione gravanti sul medico nei confronti del paziente, a seconda che si ritenga che il diritto all’informazione rilevi nella fase del contratto già perfezionato o su quello delle trattative.

La tesi minoritaria opta per la natura extracontrattuale, sub specie di responsabilità precontrattuale, riconducendo l’obbligo di informazione al comportamento secondo buona fede a cui le parti sono tenute nello svolgimento delle trattative ai sensi dell’art. 1337 c.c. [49].

L’orientamento attualmente prevalente opta per la natura contrattuale della responsabilità ai sensi dell’art. 1218 c.c., fondata sul contratto di spedalità, sul contatto sociale, oppure sul contratto d’opera professionale (a seconda che il medico operi nell’ambito della struttura ospedaliera ovvero come un libero professionista) [50],[51]. È stato, inoltre, affermato che la violazione degli obblighi informativi genera una vera e propria responsabilità contrattuale, inserendosi il consenso nell’ambito di un contratto già concluso avente ad oggetto l’intera prestazione sanitaria. Impostazione in linea con l’idea che nella relazione di cura si inseriscono il momento, preliminare, della diagnosi in cui viene esaminata la sintomatologia del paziente ed eseguiti e valutati gli accertamenti, nonché quello terapeutico o di intervento chirurgico che deve seguire necessariamente al primo [52].

Il consenso informato andrebbe a collocarsi, nel livello intermedio, proprio tra la prima e la seconda fase. L’art. 1 L. 219, infatti, ne scandisce la struttura, parlando prima, al co. 3, del diritto all’informazione; poi esamina la prestazione del consenso ed il rifiuto.

Se, quindi, sotto questo punto di vista, il consenso informato non viene più visto come gesto singolo, ma “si coglie la sua dimensione di processo” senza svincolare l’assenso o il dissenso dal contesto della relazione di alleanza e se non “sfugge la dimensione di continuum che hanno le nostre decisioni e che richiedono di essere liberamente confermate lungo tutto il processo attuativo che permette di raggiungere l’obiettivo che ci si è proposti” [53],[54], poco senso avrebbe ricondurre l’obbligo di informazione e l’acquisizione dell’atto del consenso a prestazioni separate dall’atto di cura e ritenerle fonti di diverse obbligazioni, essendo le stesse, piuttosto, parti integranti la complessa prestazione professionale. Dette obbligazioni andrebbero anch’esse adempiute con un grado di diligenza (qualificata) pari a quello osservato nell’esecuzione del trattamento sanitario, come previsto dall’art. 1176, co. 2 c.c.

 

Pubblicato in Diritto e Difesa in Ostetricia e Ginecologia

a cura di D. Arduini e A. Oliva – CIC Edizioni Internazionali.

 

[1] Binetti P. Il Consenso informato Relazione di cura tra umanizzazione della medicina e nuove tecnologie. Roma. 2010;69.

[2] In merito alla permanente asimmetria fra medico e paziente, si veda Conci A. Consenso informato: prospetti- ve etiche, in www.jus.unitn.it, 8, il quale afferma che “L’alleanza, non dobbiamo dimenticarlo, non è necessariamente simmetrica: anzi, la tradizione occidentale non è estranea alla concezione biblica dell’alleanza, che era strutturalmente asimmetrica. Questa asimmetria non va sottovalutata o, peggio, ignorata, fingendo che lo sfondo dei diritti sia automaticamente una soluzione al problema. Nei fatti i due attori della relazione si trovano in condizioni profondamente diverse. Da una parte troviamo un maggiore esercizio del potere e dall’altra una maggiore fragilità”.

[3] Per Vimercati B. il consenso informato è lo “strumento di una autentica alleanza in quanto rappresenta nella relazione quell’elemento in grado di rendere efficace la competenza tecnica del professionista; analogamente si dica per l’elemento volontaristico, il quale, pur rimanendo incardinato in un soggetto debole, viene nutrito e attivato dal dovere della controparte di fornire tutti gli elementi utili allo scopo”, in Consenso informato e incapacità. Gli strumenti di attuazione del diritto costituzionale all’autodeterminazione terapeutica. Milano, 2014;26.

[4] Gazzoni F. Sancho Panza in cassazione (come si riscrive la norma sull’eutanasia, in spregio al principio della divisione dei poteri). Dir. Fam. 2008;I:107.

[5] Morace Pinelli A. Libertà di curarsi e rilevanza delle decisioni di fine vita. Quaderni della “rivista del notariato”. Le decisioni di fine vita, a cura di Mirzia B. 2011;33.

[6] In un intervento a Radio radicale nel febbraio 2011, l’ex presidente della Corte Costituzionale ed ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, così riflettendo sul testamento biologico e sulle questioni relative al fine vita, chiariva: “Ė necessario mediare tra questi valori, perché – come osserva Schmitt, a proposito della tirannia dei valori – ogni valore tende ad espandersi, comprimendo gli altri che si pongono in contrasto potenziale ed effettivo con esso” in www. http://blog.centrodietica.it.

[7] Si pensi al noto caso Welby deciso dal Tribunale di Roma con ordinanza del 16 dicembre 2006 la quale, pur riconoscendo al paziente il diritto di scegliere la terapia cui sottoporsi e di rifiutarla, non ne ha ammesso la tutela ed il suo esercizio in concreto in quanto, a parere del Tribunale, rimessa ai medici. Specifica il provvedimento: “in assenza della previsione normativa degli elementi concreti, di natura fattuale e scientifica, di una determinazione giuridica di ciò che va considerato accanimento terapeutico, va esclusa la sussistenza di una forma tipica di tutela dell’azione da far valere nel giudizio di merito, e di conseguenza, ciò comporta l’inammissibilità dell’azione cautelare, attesa la sua finalità strumentale anticipatoria degli effetti del futuro giudizio di merito”. Azzalini M. in Il rifiuto di cure. Riflessioni a margine del caso Welby. Nuova giur. civ. comm. 2007; II:313, evidenzia la menomazione del principio di uguaglianza per quei pazienti che si trovino in condizioni tali da non poter esercitare il diritto al rifiuto in quanto costretti da macchinari impeditivi, rispetto a coloro che, seppure condannati ad un male incurabile, possono lasciare la struttura sanitaria previa firma delle necessarie liberatorie, in quanto autonomi.

[8] Ferrara R. Salute (diritto alla), in Digesto pubbl. XIII, Torino. 1997;513 ss.

[9] Cass. SS.UU. 1.8.2006, n. 17461, in La responsabilità civile. 2007;299 ss., con nota di Greco A. Il “nocciolo duro” del diritto alla salute. p. 304 ss; Quaranta A. Sanità e salute nella giurisprudenza costituzionale, in Monitor – Elementi di analisi e osservazione del sistema salute. Trimestrale dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. XI n. 29/2012, 10 ss.

[10] Vale la pena ricordare le belle parole di Papa Francesco in occasione del meeting regionale europeo della World Medical Association del 16.11.2017: “La medicina ha infatti sviluppato una sempre maggiore capacità terapeutica, che ha permesso di sconfiggere molte malattie, di migliorare la salute e prolungare il tempo della vita. Essa ha dunque svolto un ruolo molto positivo. D’altra parte, oggi è anche possibile protrarre la vita in condizioni che in passato non si potevano neanche immaginare. Gli interventi sul corpo umano diventano sempre più efficaci, ma non sempre sono risolutivi: possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute. Occorre quindi un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona”. www. w2.vatican.va.

[11] In materia di “autodeterminazione terapeutica” elementi utili sono stati in passato offerti dagli artt. 1 e 33, comma 1, dalla legge 23 dicembre 1978, n. 833; dall’art. 5 comma 1 della Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina adottata a Oviedo il 4 aprile 1977; dagli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea adottata a Nizza il 7 dicembre 2000; dall’art. 35, comma 1 e 4, del Codice di deontologia medica del 2006.

[12] L’autodeterminazione “nasce come diritto di libertà; mentre la salute, […] non è un diritto di libertà, così come la disciplina che la riguarda non può essere considerata alla stregua dei diritti di libertà. […] L’obbligazione dello Stato circa la salute non può avvenire in contrasto con la libertà del singolo, se non mediante un provvedimento legislativo. In questo senso la tutela della salute trova un limite in tale libertà, la quale a sua volta può essere limitata mediante un provvedimento generale e astratto”, Castronovo C. Eclissi del diritto civile. Milano, 2015;97 ss.

[13] Riferimenti normativi al consenso informato sono ravvisabili nella L. 26 giugno 1967, n. 458 e nella L. n. 483 del 16 dicembre 1999 in materia di trapianto del rene; nella L. 180 del 13 maggio 1978 in tema di TSO; nella L. del 22 maggio 1978, n. 194, sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza; nella L. 135 del 5 giugno 1990, sulla prevenzione e la lotta contro l’AIDS; nel d. Lgs. n. 230 del 17 marzo 1995, in materia di sperimentazione clinica; nella convenzione di Oviedo recepita dalla L. n. 145 del 28 marzo 2001, ancorché l’iter normativo interno per la piena efficacia nell’ordinamento non si ancora concluso; nella legge sulla procreazione medicalmente assistita, del 19.2.2004 n. 40; nel Codice di Deontologia medica del 2006 ed in quello del 2017; nel Piano sanitario nazionale del 2006-2008.

[14] Cassazione del Regno SS.UU. 22.12.1925, n. 3475, in Giur. It. 1926, I, 1, 537.

[15] Cass. civ. Sez. III, 25.11.1994, n. 10014 in Foro it. 1995;I:2913 con nota di Scoditti E. Chirurgia estetica e responsabilità contrattuale.

[16] Mantovani F. Biodiritto e problematiche di fine vita. Criminalia. 2006;59. Per una rassegna dell’evoluzione giurisprudenziale in materia, cfr. Rossetti M. Responsabilità medica ed obbligo di informare. Quadro di sintesi della giurisprudenza in www.cortedicassazione.it, 30.3.2011.

[17] Con sentenza del 21.1.2009, n. 2437, le SS. UU. penali riconoscono che “con l’entrata in vigore della Costituzione, pertanto, e con l’affermazione del principio personalista ivi enunciato, la quaestio relativa alla portata dell’art. 5 c.c. non andrebbe più impostata in termini di potere di disporre, ma di libertà di disporre del proprio corpo, stante il valore unitario e inscindibile della persona come tale; e, quindi, in termini di libertà di decidere e di autodeterminarsi in ordine ai comportamenti che in vario modo coinvolgono ed interessano il proprio corpo”.

[18] Cass. pen. Sez. V, 25.9.2015, n. 38914 in www.neldiritto.it; Cass. pen. Sez. V, 17.9.2008, n. 45801, in Guida dir., 2, 2009, 83.

[19] Con l’ordinanza del G.I.P. di Tivoli dell’11.2.2017, è stato affrontato il problema della rilevanza penale dell’atto medico (trasfusione ad un testimone di Geova) attuato contro il dissenso – ripetutamente manifestato – del paziente (espresso attraverso un rappresentante, nella specie un amministratore di sostegno), al fine salvare la vita allo stesso. Investito della richiesta, il giudice per le indagini preliminari ha emesso ordinanza di archiviazione per il delitto di cui all’art 323 c.p. (abuso d’ufficio), ordinando l’iscrizione del medico responsabile delle trasfusioni per i reati di violenza privata (art. 610 c.p.) e mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice (art. 388, comma 2 c.p.). È stato ritenuto che: “l’art. 54 c.p. nel caso in specie non era invoca- bile: il sanitario a cui venga opposto un esplicito, libero e valido dissenso non deve e non può procedere al trattamento medico rifiutato: non deve, perché l’obbligo professionale e deontologico viene meno con quel rifiuto; non può farlo, neanche invocando l’art. 54 c.p., perché trattasi di norma ordinaria, di rango inferiore all’art. 32 comma 2 Cost. In altri termini, l’art. 32 comma 2 Cost. rende inapplicabile l’art. 54 c.p. a tutte le ipotesi – come quelle in esame – in cui il pericolo in caso di omesso trattamento sanitario ritenuto salvifico è conosciuto ed espressamente accettato da chi lo subisce. Solo in tal modo è possibile dare una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 54 c.p.”. L’ordinanza richiama la sentenza della Cass. civ. Sez. V, del 24.9.2015, n. 38914 per cui: “l’operatore trova un limite invalicabile al suo operare nella volontà del paziente, manifestata in forma inequivocabilmente negativa concretizzante un rifiuto al trattamento terapeutico pro- spettatogli, ancorché l’omissione dell’intervento possa cagionare pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte. Sicché, in tale ipotesi, qualora il medico effettui ugualmente il trattamento rifiutato, potrà profilarsi a suo carico il relativo reato di violenza privata”.

[20] Il consenso informato esprime “un atto negoziale unilaterale pur espresso nei confronti di chi ha fornito l’informazione, a sua volta generata su un terreno di espertezza […] la categoria del consenso plana su un diritto civile con una portata aumentata, non limitandosi più a neutralizzare o limitare l’antigiuridicità, bensì esercitandosi come potere di controllo circa il sé di un’attività devoluta a un potere altrui che però è di mera discrezionalità tecnica” così Castronovo C. Il negozio giuridico dal patrimonio alla persona in Europa e Diritto Privato. 2009;87 ss. In particolare, l’autore, chiarendo che il negozio sopravvive come categoria generale, rende conto, altresì, di come “Inaspettatamente ma sempre più esso conquista territori in quell’area delle situazioni soggettive personali tradizionalmente pensate come aliene dall’ambito assegnato all’autonomia privata” (cit. p. 100).

[21] Ferrando G. Chirurgia estetica, “consenso informato” del paziente e responsabilità del medico. Nuova giur.

civ. comm. 1995;I:941.

[22] Parere del Comitato Nazionale di Bioetica del 20.6.1992, Informazione e consenso all’atto medico, in www. governo.it. Il Comitato Nazionale di Bioetica è organo consultivo della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

[23] Al riguardo, giova ricordare che il CNB nella relazione Sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte del 29.1.2016, ha precisato che: “anche il paziente, che rifiuta un trattamento o più trattamenti sanitari o rifiuta di fare uso di tecniche strumentali di sostegno delle funzioni vitali, inserendosi in un processo di fine vita, ha diritto di beneficiare della terapia del dolore e, in caso di sofferenze refrattarie, della sedazione profonda e continua”.

[24] La legge n. 38 del 15.3.2010 definisce cure palliative “l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”; e terapia del dolore “l’insieme di interventi diagnostici e terapeutici volti a individuare e applicare alle forme morbose croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche, strumentali, psicologiche e riabilitative, tra loro variamente integrate, allo scopo di elaborare idonei percorsi diagnostico-terapeutici per la soppressione e il controllo del dolore”. Trattasi, a ben vedere, di strumenti di contrasto al dolore, mentre la fattispecie esaminata si occupa dei casi in cui il malato chieda la sospensione delle cure.

[25] Tra i primi commenti si segnala la voce di Carusi D. La legge “sul biotestamento”: una luce e molte ombre. Il Corriere Giuridico, 3/2018;293 e ss. Per l’autore, l’ispirazione generale della legge induce a ritenere che, anche nell’emergenza, per il medico siano vincolanti le disposizioni preventivamente espresse in vista della futura incapacità.

[26] Binetti P., cit., p. 215.

[27] Corte dei Conti, Sez. Giur. Campania, 15.6.2000, n. 777 in Riv. It. Me. Leg., 2000;1316 ss; ex multis Corte dei Conti, Sez. Giur. Piemonte, 10.6.1999, n. 1058, ibidem.

[28] Ė stato recentemente ritenuto che “il ginecologo di fiducia della gestante che riscontri, tramite esame specialistico, un’alterazione cromosomica o altre anomalie del feto, non può limitarsi a comunicare tale dato alla propria paziente, indirizzandola al laboratorio di analisi per ulteriori approfondimenti, atteso che gli obblighi di informazione a suo carico devono estendersi a tutti gli elementi idonei a consentire a quest’ultima una scelta informata e consapevole, sia nel senso della interruzione della gravidanza, che della sua prosecuzione, non sottacendo, in tal caso, l’illustrazione delle problematicità da affrontare; a propria volta, il laboratorio di analisi ed il genetista non possono limitarsi alla verifica della esistenza della anomalia, reindirizzando la paziente al ginecologo di fiducia ma, a specifica richiesta della gestante, devono soddisfare le sue richieste di informazione anche in relazione alle più probabili conseguenze delle anomalie riscontrate”. Cass. civ., Sez. III, 28.02.2017, n. 5004.

[29] Con sentenza del 21.7.2003, n. 11316, la Corte di Cassazione civ. Sez. III, ha confermato l’indirizzo giurisprudenziale che estende la responsabilità del sanitario ben oltre l’esecuzione del trattamento richiesto

dalle condizioni patologiche del paziente e gli impone di prestare ogni ulteriore cura, compreso il dovere di informare l’assistito, e prendere ogni provvedimento opportuno per evitare che le eventuali carenze tecniche e organizzative della struttura sanitaria, pubblica o privata, possano gravare ulteriormente sul suo stato di salute. Il caso riguardava un’ipotesi di ipossia anossica intervenuta al momento della nascita ed il neonato era colpito da microencefalite e tetraparesi spastica comportanti un grado di invalidità del 100%, nonché un gravissimo deficit intellettivo. La sentenza è annotata da Pasquinelli C. in Nuova giur. civ. comm. 2004;I:265, Responsabilità medica: la Cassazione torna ad interrogarsi sui temi della colpa e della causalità omissiva. L’autore dubita dell’esistenza di un’autonoma responsabilità del sanitario soprattutto nell’ipotesi in cui la violazione dell’obbligo informativo relativo all’adeguatezza della struttura non venga assorbita da altre fattispecie di colpa: “saremmo perciò di fronte ad una mera responsabilità di chiusura, prevista al solo scopo di assicurare al malato la più ampia tutela risarcitoria ogniqualvolta non possa percorrersi la strada dell’imperizia dell’operatore medico”.

[30] La Suprema Corte ha ritenuto che “sussiste la responsabilità professionale per la condotta omissiva e negligente del ginecologo di fiducia che consiglia il ricovero in una casa di cura non attrezzata per una situazione di emergenza e non interviene per dare ai medici che operano in condizioni di urgenza le necessarie informa- zioni sulle cure, i farmaci assunti, la necessità di evitare interventi ablatori su un soggetto giovane ed integro e dunque in grado, se adeguatamente curato di procreare”. Cass. civ. Sez. III, 19-02-2013, n. 4029. Sempre in tema di responsabilità del ginecologo per aver indirizzato la gestante presso una struttura (privata) carente di un centro di rianimazione neonatale, si legga Cass. civ., Sez. III, 1°.02.2011, n. 2334.

[31] La Corte costituzionale, con sentenza del 1° aprile 2009, n. 151, depositata in cancelleria l’8 maggio 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, Serie speciale, n. 109 del 13 maggio 2009, cha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 2, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, limitatamente alle parole “ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre” e l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 3, della medesima legge n. 40/2004 “nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come stabilisce tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna”. Con sentenza del 9 aprile 2014, n. 162, depositata il 10 giugno 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana del 18 giugno 2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui stabilisce per la coppia di cui all’articolo 5, comma 1, della medesima legge, il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo; nonché dell’articolo 9, commi 1 e 3, limitatamente alle parole “in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3”, e dell’articolo 12, comma 1, della medesima legge, che stabilisce le sanzioni amministrative pecuniarie per la violazione del predetto divieto.

[32] Per un’analisi del testo, cfr. Ricci A. La disciplina del consenso informato all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. D.M. 28 dicembre 2016, n. 265: novità e vecchi problemi. Nuove Leggi Civ. Comm. 2018;1:40.

[33] Il paragrafo 3 del Regolamento fa salvo il caso in cui i dati siano trattati “da o sotto la responsabilità di un professionista soggetto al segreto professionale conformemente al diritto dell’Unione o degli Stati membri o alle norme stabilite dagli organismi nazionali competenti o da altra persona anch’essa soggetta all’obbligo di segretezza conformemente al diritto dell’Unione o degli Stati membri o alle norme stabilite dagli organismi nazionali competenti”. La funzionalizzazione del trattamento è un criterio chiave del Regolamento; al riguardo, il 52° considerando fa salva la deroga al divieto di trattare categorie particolari di dati “per finalità inerenti alla salute, compresa la sanità pubblica e la gestione dei servizi di assistenza sanitaria, soprattutto al fine di assicurare la qualità e l’economicità delle procedure per soddisfare le richieste di prestazioni e servizi nell’ambito del regime di assicurazione sanitaria, o a fini di archiviazione nel pubblico interesse o di ricerca scientifica o storica o a fini statistici. La deroga dovrebbe anche consentire di trattare tali dati personali se necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto, che sia in sede giudiziale, amministrativa o stragiudiziale”. Ed il 53° considerando prevede che “Le categorie particolari di dati personali che meritano una maggiore protezione dovrebbero essere trattate soltanto per finalità connesse alla salute, ove necessario per conseguire tali finalità a beneficio delle persone e dell’intera società, in particolare nel contesto della gestione dei servizi e sistemi di assistenza sanitaria o sociale, compreso il trattamento di tali dati da parte della dirigenza e delle autorità sanitarie nazionali centrali a fini di controllo della qualità, informazione sulla gestione e supervisione nazionale e locale generale del sistema di assistenza sanitaria o sociale, nonché per garantire la continuità dell’assistenza sanitaria o sociale e dell’assistenza sanitaria transfrontaliera o per finalità di sicurezza sanitaria, controllo e allerta o a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici in base al diritto dell’Unione o nazionale che deve perseguire un obiettivo di interesse pubblico, nonché per studi svolti nel pubblico interesse nell’ambito della sanità pubblica”.

[34] Bianca CM. Il contratto. 2000;72 e ss.

[35] Bianca CM., cit., p. 76. Per il matrimonio è eccezionalmente prevista una celebrazione per procura (111, cod. civ.), ma la migliore dottrina afferma che il procuratore ha, in realtà, la posizione di nuncius.

[36] Zatti P. Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT. Nuova giur. civ. comm. 2018;2:247.

[37] Cfr. documento del 18.12.2003.

[38] Documento del CNB, del 18.12.2003 pag. 19.

[39] Una prima fonte legislativa era contenuta nella legge del 20.5.2016 n. 76 (c.d. Legge Cirinnà) ove si prevedeva, nell’ambito della convivenza di fatto, la possibilità per il convivente di fatto di “designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati […] in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute” mediante dichiarazione in forma scritta e autografa oppure effettuata alla presenza di un testimone.

[40] Importanti i riconoscimenti contenuti nella convenzione di New York del novembre 1989 ratificata con legge del 27.5.1991 n. 176; nella convenzione europea di Strasburgo del 25.1.1996; nella Convenzione di Oviedo del 4.4.1997; nella Carta di Nizza del 18.12.2000.

[41] Romano C. Legge in materia di disposizioni anticipate di trattamento: l’ultrattività del volere e il ruolo del notaio. Notariato. 2018;1:15.

[42] Il comma 7 dell’art. 4 della legge 219 prevede che: “Le regioni che adottano modalità telematiche di gestione della cartella clinica o il fascicolo sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale possono, con proprio atto, regolamentare la raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati, lasciando comunque al firmatario la libertà di scegliere se darne copia o indicare dove esse siano reperibili”.

[43]  L’art. 1 comma 418 della legge del 27.12.2017, n. 205 (legge di bilancio 2018) prevede che: “Ė istituita presso il Ministero della salute una banca dati destinata alla registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) attraverso le quali ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, può esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Per l’attuazione del presente comma è autorizzata la spesa di 2 milioni di euro per l’anno 2018”.

[44] In una recente pronuncia è stato sostenuto che “in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, l’acquisizione di un completo ed esauriente consenso informato del paziente, da parte del sanitario, costituisce prestazione altra e diversa rispetto a quella avente ad oggetto l’intervento terapeutico, dal cui inadempimento può derivare, secondo l’id quod plerumque accidit, un danno costituito dalle sofferenze conseguenti alla cancellazione o contrazione della libertà di disporre, psichicamente e fisicamente, di se stesso e del proprio corpo, patite dal primo in ragione della sottoposizione (come nella specie) a terapie farmacologiche ed interventi medico – chirurgici collegati a rischi dei quali non sia stata data completa informazione. Tale danno, che può formare oggetto, come nella specie, di prova offerta dal paziente anche attraverso presunzioni e massime di comune esperienza, lascia impregiudicata tanto la possibilità di contestazione della controparte quanto quella del paziente di allegare e provare fatti a sé ancor più favorevoli di cui intenda giovarsi a fini risarcitori”. Cass. civ. Sez. III, 23.03.2018, n. 7248. Ex multis Cass. civ. Sez. III, 05.07.2017, n. 16503.

[45] Anche il giudice amministrativo ha ritenuto che: “il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione

e fondamento del trattamento sanitario; senza il consenso informato l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente. La pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi (artt. 2, 13, 32 Cost.)”. Ancora, “nella legislazione ordinaria, il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale (artt. 2, 13, 32 Cost.)”. Cons. Stato, Sez. III, 21.06.2017, n. 3058.

[46] Tra le meno recenti, si segnalano Cass. civ. Sez. III, 24.9.1997 n. 9347; Cass. civ. Sez. III, 14.3.2006 n. 5444. Per una completa rassegna della giurisprudenza rilevante in materia, Rossetti M. Quaderni del massimario, “responsabilità sanitaria e tutela della salute”, in www.cortedicassazione.it; www.ca.milano.giustizia.it, www. quotidianosanita.it.

[47] La Corte di legittimità ha recentemente esaminato un caso di responsabilità medica invocata (anche) nei confronti di un ginecologo che, intervenuto per effettuare un taglio cesareo, ed avendo riscontrato una condizione di isteromalacia (presenza di tessuto miometrale alterato nella struttura e nella solidità) aveva adottato iniziative terapeutiche profilattiche quali la sterilizzazione chirurgica tubarica bilaterale, procedendo alla legatura delle tube ad evitare la compromissione della salute della donna in ipotesi di un’ulteriore gravidanza. La paziente ha lamentato il difetto di consenso informato (prestato non in forma scritta) e la violazione del diritto all’autodeterminazione. La Corte ha ritenuto che: “in materia di consenso informato, il giudice deve interrogarsi se il corretto adempimento, da parte del medico, dei suoi doveri informativi avrebbe prodotto l’effetto della non esecuzione dell’intervento chirurgico – dal quale, senza colpa di alcuno, lo stato patologico è poi derivato – ovvero avrebbe consentito al paziente la necessaria preparazione e la necessaria predisposizione ad affrontare il periodo post-operatorio nella piena e necessaria consapevolezza del suo dipanarsi nel tempo. Infatti, se il paziente avesse comunque e consapevolmente acconsentito all’intervento, dichiarandosi disposto a subirlo quali che ne fossero gli esiti e le conseguenze, anche all’esito di un’incompleta informazione nei termini poc’anzi indicati, sarebbe insussistente il nesso di causalità materiale tra la condotta del medico e la lesione della salute, proprio perché il paziente avrebbe, in ogni caso, consapevolmente subito quella incolpevole lesione, all’esito di un intervento eseguito secondo le leges artis da parte del sanitario.” Cass. civ. Sez. III, 31.01.2018, n. 2369. Ed ancora, recentemente, la Corte di legittimità ha ritenuto che “Informare il paziente non è dunque un atto formale, né un rituale inutile. Esso serve a mettere il paziente in condizione di scegliere a ragion veduta. Ne consegue che se il paziente sappia perfettamente quale sia l’intervento cui ha da essere sottoposto; quali ne siano le conseguenze, quali i rischi, quali le alternative (ad esempio, perché vi si è già sottoposto; perché è stato già informato da terzi; perché ha una competenza specifica su questa materia), l’eventuale inadempimento, da parte del medico, dell’obbligo di informarlo è giuridicamente irrilevante, per l’inconcepibilità d’un valido nesso di causa tra esso e le conseguenze dannose del vulnus alla libertà di autodeterminazione. Non informare il paziente, infatti, è una condotta colposa che in tanto può produrre un danno giuridicamente rilevante, in quanto impedisca al paziente di autodeterminarsi in modo libero e consapevole. Ma se il paziente sia già, per qualsivoglia causa, perfettamente consapevole delle conseguenze delle proprie scelte, mai potrà pretendere alcun risarcimento dal medico che non lo informi: non perché la condotta di quest’ultimo sia scriminata, ma perché qualsiasi conseguenza svantaggiosa dovrebbe ricondursi causalmente alle scelte consapevoli del paziente, piuttosto che al deficit informativo del medico. Così come ‒ ad esempio ‒ il compratore non può dolersi dei vizi della cosa sottaciuti dal venditore, se egli ne era comunque a conoscenza (art. 1491 c.c.); così come il committente non può dolersi delle difformità dell’opera, se l’ha accettata pur conoscendole (art. 1667 c.c.), allo stesso modo il paziente non può dolersi di non essere stato informato, se era già in possesso di tutte le informazioni che lamenta di non avere ricevuto dal sanitario”. Cass. civ., Sez. III, 27.3.2018, n. 7516.

[48] Cass. civ. Sez. III, 9.2.2010, n. 2847; Cass. civ. Sez. III, 11.5.2009 n. 10741. Ed inoltre: “In tema di attività medico-chirurgica, la manifestazione del consenso informato alla prestazione sanitaria costituisce esercizio di un diritto soggettivo del paziente all’autodeterminazione, cui corrisponde, da parte del medico, l’obbligo di fornire informazioni dettagliate sull’intervento da eseguire, con la conseguenza che, in caso di contestazione del paziente, grava sul medico l’onere di provare il corretto adempimento dell’obbligo informativo preventivo, mentre, nel caso in cui tale prova non venga fornita, è necessario distinguere, ai fini della valutazione della fondatezza della domanda risarcitoria proposta dal paziente, l’ipotesi in cui il danno alla salute costituisca esito non attendibile della prestazione tecnica, se correttamente eseguita, da quella in cui, invece, il peggioramento della salute corrisponda a un esito infausto prevedibile “ex ante” nonostante la corretta esecuzione della prestazione tecnico-sanitaria che si rendeva comunque necessaria, nel qual caso, ai fini dell’accerta- mento del danno, graverà sul paziente l’onere della prova, anche tramite presunzioni, che il danno alla salute è dipeso dal fatto che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento”. Cass. civ. Sez. III, 13.10.2017, n. 24074.

[49] App. Milano, 20.6.2008, in Foro pad., 2010, I, 94; Cass. civ. sez. III, 15.1.1997, n. 364 in Resp. Civ. e prev. 1997;374. Cass. civ. Sez. III, 25.11.1994, n. 10014 in Nuova giur. civ. comm. 1995;I:937.

[50] Così Callipari N. Il consenso informato nel contratto di assistenza sanitaria. Milano, 2012;127.

[51] In una importante decisione in tema di consenso informato, la n. 2847 del 2010, la Corte di Cassazione ha confermato che “la responsabilità professionale del medico – ove pure egli si limiti alla diagnosi ed all’illustra- zione al paziente delle conseguenze della terapia o dell’intervento che ritenga di dover compiere, allo scopo di ottenerne il necessario consenso informato – ha natura contrattuale e non precontrattuale […]” (Cass. civ., sez. III, 9.2.2010, n. 2847, in Foro it., 2010, I, 2113, con nota di Simone; in Nuova giur. civ. comm. 2010;I:783; in Dir. fam. e pers. 2010, 1182; in Riv. it. med. leg. 2010, 774; in Danno e resp., 2010, 685; in Resp. civ. e prev. 2010, 1013; in Corr. giur. 2010, 1201; in Giur. it. 2011, 816). In dottrina è stato autorevolmente sostenuto che “La questione riguarda cioè lo stabilire se la lesione della libertà personale integri di per sé una responsabilità precontrattuale in quanto violazione del dovere di chiarezza imposto alle parti dalla buona fede ovvero come conseguenza della violazione di un obbligo di protezione da osservarsi sin dall’inizio delle trattative a riguardo di ogni situazione soggettiva della controparte messa a repentaglio dalla trattativa stessa. […] Come sembra più ragionevole, l’obbligo di informazione non si reputi generato dalla buona fede precontrattuale bensì da quella contrattuale, alla stregua dell’idea che il rapporto contrattuale è già iniziato sin dal momento in cui il paziente si è affidato alle mani del medico o alla struttura sanitaria”, Castronovo C. Profili della responsabilità medica, in Studi in onore di P. Rescigno, V, Responsabilità civile e tutela dei diritti. Milano, 1998;126 ss. Ed ancora, in termini di responsabilità da violazione degli obblighi di protezione si esprime Sfor- za R. in Obblighi di protezione e consenso informato nella responsabilità medica. Giur. Merito. 2008;3367.

[52] Marchio A. Principio di autodeterminazione, consenso informato e decisioni di fine vita. Quaderni della “rivista del notariato”. Le decisioni di fine vita a cura di Mirzia B. 2011;205 e ss.

[53] È stato autorevolmente sostenuto che il consenso è solo “l’acme di un itinerario”, che giuridicamente può assumere il connotato di una procedura, mentre dal punto di vista fattuale è un cammino, “un succedersi di fasi che vanno previste, coordinate e attuate con attenzione”. Zatti P. Il diritto a scegliere la propria salute (in margine al caso S. Raffaele). Nuova giur. civ. comm. 2000;II:12.

[54] Binetti P., cit., p. 109 e ss.