Fabrizio Di Marzio
Sommario:
I. ORDINE PUBBLICO NELLA DISCIPLINA DEL CONTRATTO E DEL MERCATO.
I.1. Ordine pubblico e discipline di settore. La ‘nuova fase’ del diritto contrattuale.
I.2. Crisi di razionalità della clausola ‘ordine pubblico’.
I.3. Ricostruzione delle configurazioni attuali dell’ordine pubblico.
i) Ordine pubblico dei contratti civili.
ii) Ordine pubblico del mercato concorrenziale.
iii) Ordine pubblico e limiti all’espansione del mercato.
II. ABUSO DELLA LIBERTÀ NEGOZIALE E ILLICEITÀ NELLA CONTRATTAZIONE DISEGUALE SUL MERCATO.
II.1. Illiceità nei contratti del mercato.
II.2. Illiceità delle clausole abusive nei contratti del consumatore.
i) Sanzione delle clausole abusive: inefficacia vs. nullità. Offesa all’ordine pubblico del mercato e nullità/illiceità delle clausole abusive.
ii) Illiceità per deroga abusiva al diritto dispositivo.
iii) Il contesto abusivo. Assenza di trattativa.
iv) (Segue) Carattere abusivo della deroga al diritto dispositivo.
v) (Segue) Qualità soggettiva delle parti.
vi) Predisposizione abusiva del regolamento e incidenza sulla razionalità del mercato. La buona fede quale standard valutativo dell’abuso. –
II.3. Giudizio di illiceità e contratti asimmetrici tra imprese.
i) Nullità/illiceità testuale per abuso nella determinazione dei termini di pagamento nelle transazioni commerciali.
ii) Nullità/illiceità testuale per abuso di dipendenza economica.
iii) Nullità/illiceità virtuale per abuso di posizione dominante.
II.4. Rilievi conclusivi. I diversi contesti di abuso nella legislazione nuova e l’illiceità nel contratto.
III. NULLITÀ/ILLICEITÀ ‘DI PROTEZIONE’. SPUNTI RICOSTRUTTIVI.
III.1. Esigenza di razionalizzazione delle previsioni di nullità (da illiceità) con funzione protettiva. Il ruolo ricoperto, in una possibile ricostruzione, dall’ordine pubblico.
III.2. Nullità protettiva nei contratti del consumatore.
i) Significato della codificazione dei diritti del consumatore.
ii) Tutela del consumatore e nullità di protezione. L’innovazione costituita dall’art. 36 c. consumo. iii) Insufficienze di disciplina e incertezze sul regime della nullità. Il problema della integrazione delle disposizioni incomplete.
iv) Nullità di protezione nella disciplina delle clausole abusive.
v) Sulla generale applicabilità dell’art. 36 c. consumo. Superamento delle critiche fondate sull’art. 143, comma 1, c. consumo.
vi) Impostazione del problema. Regole sulla nullità delle clausole abusive e loro applicabilità alla nullità per violazione di norme imperative.
vii) Svolgimento della tesi. Oggetto delle disposizioni dell’art. 36 c. consumo: deroga abusiva al diritto dispositivo e violazione di norme imperative.
viii) (Segue) Fondamento della tutela dalle clausole abusive e dalla violazione di norme imperative. La ragione accomunante dell’ordine pubblico del mercato.
ix) (Segue) Conferma delle conclusioni raggiunte. Nullità di protezione nei contratti del consumatore tra codice del consumo, leggi speciali e codice civile.
III.3. Nullità di protezione nella contrattazione diseguale tra imprese. Problematicità di una ricostruzione razionale.
III.4. Nullità virtuali di protezione. Nullità virtuale e scopo di protezione.
- ORDINE PUBBLICO NELLA DISCIPLINA DEL CONTRATTO E DEL MERCATO
I.1. Ordine pubblico e discipline di settore. La ‘nuova fase’ del diritto contrattuale. – L’indagine fin qui svolta ha consentito di porre in luce il ruolo centrale assunto dall’ordine pubblico nel giudizio di illiceità del contratto. Sono state pure rammentate le perplessità storicamente accumulatesi sulla clausola generale, che ne hanno determinato l’insuccesso in sede applicativa. Si impone pertanto uno sforzo ricostruttivo, che miri a definire gli aspetti rilevanti della clausola generale nel contesto attuale. Poiché la complessiva dimensione nella quale questo contesto emerge con maggiore evidenza è il ‘mercato’, l’ordine pubblico può essere colto nelle sue peculiari espressioni se considerato nella prospettiva del mercato: come ordine del contratto quale ‘relazione di mercato’ (ordine dello scambio patrimoniale) e come ordine del contratto quale relazione economica volta a espandere i confini storicamente dati al mercato (ordine dello scambio patrimonializzabile): è l’indagine condotta in questa sezione.
Nelle sezioni seguenti, l’ordine pubblico è invece indagato esclusivamente dietro il filtro delle sue manifestazioni positive: con attenzione alle leggi di ordine pubblico sulla contrattazione asimmetrica. Potrebbe dunque sorgere il dubbio che anche questo studio, pur condotto nella convinzione della natura di clausola generale dell’ordine pubblico, si restringa in effetti all’analisi delle leggi di ordine pubblico: ponendosi sulla scia di una tradizione inaugurata dal lavoro di Ferrara ma ormai superata.
Bisogna tuttavia riconoscere che attualmente il problema essenziale non è dato dall’applicazione della clausola generale a questioni sfornite di regolamentazione positiva, ma è suscitato proprio dall’interventismo legislativo realizzato nelle forme disorganiche e criticabili che anche in questo lavoro sono state ricordate.
Solo prestando attenzione al fenomeno legislativo si può del resto comprendere la natura della evoluzione ordinamentale in corso. In apertura del secolo scorso un giurista sensibile come Cimbali intitolò la sua opera alla «nuova fase del diritto civile», dichiarando la necessità di immergere quel diritto «nei rapporti economici e sociali». Era propugnata una svolta negli studi, finalizzata al superamento della inadeguatezza del diritto alla trasformazione sociale. L’inadeguatezza era data dalla stabilità della legge e dalla identificazione del ‘diritto civile’ con il ‘codice civile’; dunque, dall’ossequio esegetico dei giuristi[1]. La questione del metodo è oggi posta dalla legge stessa: come la società la politica e l’economia, anch’essa presa nel vortice della trasformazione. In questa ulteriore e persistente nuova fase, contraddistinta dal frenetico avvicendarsi delle tutele positive, un importante compito è la razionalizzazione della legge per opera ricostruttiva del giurista.
Spetta al giurista di razionalizzare il grezzo materiale normativo: per conseguire, in primo luogo, la piena comprensione di questi interventi disorganici; e guadagnare, in secondo luogo, il completamento razionale delle discipline, quasi sempre vistosamente lacunose. Così da prospettare, infine, l’armonica integrazione di tali prodotti legislativi nella trama accogliente dell’ordinamento.
Strumenti di elezione – offerti dallo stesso diritto positivo – sono le clausole generali e i principi: per quanto qui preme, la clausola dell’ordine pubblico.
In sintesi, ciò che adesso viene ricercato e studiato della clausola generale non è tanto la portata normativa, quanto soprattutto la forza esplicativa e quindi razionalizzante: nella convinzione che questa forza sia oggi necessaria a combattere l’imperfezione e la casualità con cui si manifesta la legge.
Un ulteriore risultato conseguibile attraverso lo studio delle manifestazioni dell’ordine pubblico nelle leggi sopravvenute è di chiarire profili significativi della clausola generale nel momento storico attuale. Come ricordato, l’ordine pubblico non può desumersi semplicemente dalle norme imperative, non essendo tali norme tutte di ordine pubblico. Nondimeno, i contenuti dell’ordine pubblico sono riversati anche in leggi, appunto di ordine pubblico. Pertanto, dall’analisi delle leggi è possibile argomentare ulteriormente sui contenuti dell’ordine pubblico.
Allo stesso risultato conduce lo studio del diritto dispositivo quando la deroga allo stesso possa definirsi contraria a principi di ordine pubblico. Infatti, proprio la deroga abusiva al diritto dispositivo costituisce, nelle discipline di settore, esercizio della libertà contrattuale sanzionato con la nullità (spesso testuale) da disvalore.
I.2. Crisi di razionalità della clausola ‘ordine pubblico’.- La varietà dei profili della clausola dell’ordine pubblico risulta evidente allargando lo sguardo alle specificazioni dell’ordine pubblico stratificatesi nel corso del secolo passato. Alla iniziale e ottocentesca unitarietà della formula si avvicendò la scissione tra ordine pubblico in generale e ordine pubblico della relazione economica. Affacciandosi all’attenzione l’ordine pubblico economico, si stagliò più nettamente al suo fianco l’ordine pubblico politico. Ma nemmeno l’ordine pubblico economico ha mai costituito settore unitario, essendo a sua volta articolato in ordine di protezione e ordine di direzione. In seguito, altre figure si sono aggiunte a quelle note: ordine pubblico costituzionale, ordine pubblico tecnologico e via elencando.
In compenso, i problemi attualmente sul campo, per i quali si richiama l’ordine pubblico in tutte le varie configurazioni[2], paiono ridursi a uno solo: che a seguito della constatata irrazionalità ordinamentale, dovuta all’innovazione legislativa tanto imponente quanto asistematica, «l’ordine del mercato degeneri in disordine del mercato»[3].
Proprio su questa fondamentale questione la clausola generale solleva riserve e perplessità. Infatti, l’ordine pubblico è anche costituito dalle discipline sopravvenute, e risente della crisi di razionalità che le investe.
Delle perplessità suscitate dalla clausola generale ha risentito la dottrina del contratto illecito, carente di una elaborazione compiuta perché inevitabilmente destinata a incentrarsi proprio sull’ordine pubblico, quale nucleo essenziale del giudizio di illiceità[4].
Eloquente testimonianza delle insufficienze della teoria è data dalla marginalizzazione subita negli studi che si accumulano sul c.d. nuovo diritto dei contratti[5]. Tuttavia, l’elaborazione di questo diritto non può realizzarsi con successo trascurando il problema della illiceità, e accantonando l’ipotesi che lo studio della illiceità possa invece contribuire alla sua razionalizzazione.
Il problema dell’ordine pubblico deve pertanto essere riconsiderato.
I.3. Ricostruzione delle configurazioni attuali dell’ordine pubblico. – Nella dottrina recente risulta acquisito un legame inscindibile, già evidenziato dall’analisi weberiana, tra contratto e mercato: tra regola del contratto e regola del mercato[6]. Tuttavia, a tale consapevolezza diffusa non è ancora seguita una coerente opera ricostruttiva della categoria contrattuale[7].
Un proficuo punto di partenza è dato dall’implicazione che se l’ordine del contratto è un importante aspetto del più ampio ordine del mercato, allora il limite del contratto è anche limite del mercato. Il diritto imperativo (di ordine pubblico) e l’ordine pubblico costituiscono l’ordine del contratto e insieme l’ordine del mercato; segnano il limite invalicabile dall’autonomia privata e dal contratto, e insieme il limite invalicabile dall’iniziativa economica e dal mercato[8].
Sotto l’angolo visuale dei rapporti tra ordine del contratto e ordine del mercato, sembrano potersi apprezzare due modalità dell’ordine pubblico, discriminate con riguardo alla diversa funzione che la clausola generale svolge rispetto alle condotte negoziali: l’ordine pubblico del mercato, utile a selezionare la liceità dello scambio di mercato; l’ordine pubblico oltre il mercato, utile a selezionare la liceità dello scambio condotto in ambiti che non sono ricompresi nella accezione ricevuta di ‘mercato’.
Accanto a queste, persiste la tradizionale figura dell’ordine pubblico dei contratti civili, stipulati tra privati per scopi esclusivi di vita quotidiana estranei all’esercizio di una impresa. In omaggio alla tradizione, l’esposizione può avviarsi da quest’ultima figura.
- i) Ordine pubblico dei contratti civili. – Scrive un autorevole osservatore: «Quale differenza divide i minuti scambî della quotidianità, come la vendita a un amico di vecchie dispense universitarie o dei frutti raccolti nel giardino, o gli scambî di un ‘centro commerciale’? Perché subito avvertiamo, e poi ragioniamo, che i secondi, e non la prima, appartengono al mercato?» [9]. In effetti, tra la prima classe di contratti e la seconda si pone una differenza fondamentale, giacché nella seconda uno dei protagonisti della vicenda negoziale è l’impresa. Nella prima classe il contratto di definisce ‘civile’; nella seconda, il contratto si definisce ‘d’impresa’[10].
Il consumatore che acquista nel centro commerciale effettua certamente uno scambio nella quotidianità; ma non è assimilabile a chi vende le proprie dispense universitarie a un amico. Solo nel primo, e non anche nel secondo caso, si pone un atto di consumo (e dunque di mercato). Il consumatore, infatti, è tale solo riguardo a una merce o un servizio offerti da un imprenditore: è tale solo nello scambio di mercato[11].
Pertanto, negli scambi minuti della quotidianità, realizzati per scopi non di consumo ma privati, cadono le qualifiche e i ruoli, di cui la legge si disinteressa: a contrattare sono semplicemente persone. È questo l’ambito dei contratti civili.
Come conferma la casistica giurisprudenziale, nei contratti civili l’ordine pubblico non ha subito evoluzioni, perché ferme sono restate le esigenze affidate al suo presidio. Poiché gli scambi civili non conoscono la mediazione del mercato, nemmeno restano significativamente incisi dal diritto regolatore dello stato sociale; si trovano invece in immediato e dialettico rapporto con i valori fondamentali promossi dall’ordinamento.
In questo ambito, il giudizio di illiceità si svolge in una prospettiva verticale, che rapporta il contratto a quei valori. Lo scambio non è segnato dall’asimmetria sistemica di forza contrattuale. L’illiceità è per lo più il frutto di un comune accordo riprovato dall’ordinamento[12]. Il relativo giudizio segue gli schemi concettuali elaborati dalla tradizione dogmatica e disciplinati nel codice civile.
- ii) Ordine pubblico del mercato concorrenziale. – Una puntuale e documentata ricostruzione sull’evoluzione dottrinale del concetto di ordine pubblico economico si conclude nella constatazione che la funzione assolta dalla formula appare essenzialmente descrittiva, e spoglia di utilità per tutto quanto concerna la concreta operatività del criterio nel giudizio di illiceità[13].
Il sospetto sulla inutilità della formula dell’ordine pubblico economico si spiega anche con la diffidenza manifestata da parte della dottrina verso una clausola generale ampiamente utilizzata nello scontro ideologico sviluppatosi anche nella comunità dei privatisti negli anni Sessanta e Settanta nel nostro Paese[14].
Esemplare la posizione assunta da Ferri, che scrisse: «questa nuova categoria giuridica, proprio per l’ampiezza di ipotesi, così profondamente differenti, che essa necessariamente si trova a comprendere finisce per collegare in un fenomeno, se non unico, almeno unitario, situazioni che sono invece concettualmente riconducibili se non altro ai due diversi principi cardine del pensiero liberale, che, per ciò che concerne l’attività dei privati, sono, da un lato, la libertà contrattuale, dall’altro la libertà di concorrenza», cosicché la formula non potrebbe svolgere che una funzione esclusivamente descrittiva delle diverse modalità di intervento legislativo sull’economia[15].
In un contesto storico profondamente mutato, la legislazione comunitaria sul mercato consente di sottrarre l’ordine pubblico economico al pericolo della funzione semplicemente descrittiva e riassuntiva della c.d. costituzione economica e della disciplina pubblicistica dell’economia. Consente, inoltre, di evitare l’equivoco che insorge nell’accostamento tra ordine pubblico (espressivo di valori personalistici) e intervento pubblico nell’economia (di limitazione della libertà di iniziativa economica e contrattuale al fine del perseguimento di interessi pubblicistici). Favorisce, infine, un uso maggiormente neutrale della formula. La legislazione di matrice comunitaria, infatti, si svolge in un chiaro finalismo di sistema, che trascende la scelta ordinamentale interna (peraltro sintonica) e che ripete una dimensione assiologica ampiamente condivisa[16].
Nell’ottica del mercato concorrenziale si stringono intimi rapporti tra tutela della libertà contrattuale della parte debole e tutela del mercato. La protezione della parte debole del contratto si appalesa come momento fondamentale della protezione del carattere concorrenziale del mercato[17].
Nel diritto europeo – dei contratti, per il mercato – il controllo normativo sulla libertà contrattuale è controllo normativo sulla libertà contrattuale dell’impresa rispetto al consumatore; del committente rispetto all’agente e al subfornitore; dell’impresa in posizione dominante (nel mercato o nel monopolio relazionale) rispetto alle altre imprese e ai consumatori. È perciò controllo sull’esercizio di una libertà contrattuale a tutela di un’altra libertà contrattuale: affinché quell’esercizio – economicamente, tecnicamente e culturalmente prevalente – espressivo di un oggettivo potere di mercato non trasmodi in abuso e non cagioni lesione all’altrui libertà di contratto[18].
Assistiamo così a un ritorno alle origini: ordine pubblico (oggi del mercato) a tutela dei diritti fondamentali della persona e della piena espressione delle libertà economica e contrattuale. Indubbiamente, la difesa della libertà economica «sembra appartenere al patrimonio genetico del concetto»[19]. Come è noto, la giurisprudenza francese fece ricorso all’ordine pubblico per sanzionare con la nullità le convenzioni, non espressamente vietate, che erano volte a creare coalizioni industriali tendenti a «compromettere la libertà del mercato»[20] oppure gli accordi aventi a oggetto «patti che limitavano in modo eccessivo la libertà economica individuale esaltata dalla Rivoluzione francese (clausola o patto di non concorrenza, pactum de non alienando, clausola di preferenza, patto di boicottaggio, vendita a prezzo imposto)»[21]. Nei tempi correnti, segnati dalla disuguaglianza sistemica dei soggetti coinvolti nei rapporti di mercato, l’illiceità si insinua nel contratto quale frutto della prepotenza stipulativa di una parte ai danni dell’altra. L’ordine pubblico riconquista l’originaria funzione di tutela non dell’ordinamento dal contratto, ma della parte debole nel contratto: e così anche – ed è questa la novità dei tempi in corso – dell’interesse dell’ordinamento al pieno sviluppo di un mercato razionale[22].
Al presidio della razionalità del mercato soprintende la clausola generale dell’ordine pubblico a garanzia della libertà contrattuale della parte debole. È dunque preferibile discorrere, piuttosto che di ordine pubblico economico, di ordine pubblico del mercato: dove la formula esprime l’insieme dei limiti, dichiarati o impliciti ma ricavabili dal settore ordinamentale, ai rapporti di mercato. Per dire: nella microeconomia del contratto, la tutela del mercato si manifesta attraverso la clausola generale dell’ordine pubblico, strumento di risposta al problema della libertà nella contrattazione diseguale.
L’ordine pubblico, al riparo dagli equivoci e dalle implicazioni ideologiche determinate dalla formula (perciò divenuta inservibile) dell’‘ordine pubblico economico’ e prospettato quale ‘ordine pubblico del mercato’, può ragionevolmente resistere alle critiche inizialmente mosse, rivelandosi non semplicemente descrittiva e nemmeno strumento di lotta ideologica, ma clausola generale fornita di un preciso significato normativo ripetuto dalla scelte fondamentali dell’ordinamento (la tutela dei valori riassunti nel concetto di mercato concorrenziale).
Così da offrirsi plausibilmente quale criterio utile per orientare il giudizio di illiceità nel nuovo diritto dei contratti; contribuendo alla ricostruzione, per questo aspetto, della razionalità ordinamentale.
iii) Ordine pubblico e limiti all’espansione del mercato. – Una acquisizione non rimossa è che «La misura della libertà contrattuale […] è, naturalmente, una funzione, in primo luogo, dell’estensione del mercato»[23]. Una delle questioni del dibattito filosofico, politico, etico e giuridico in essere è quella dei confini mai stabilmente acquisiti tra diritti non negoziabili e mercato[24].
Per limitare la riflessione all’oggetto di questa indagine, nella prospettiva accennata la funzione dei principi dell’ordine pubblico non si svolge all’interno del mercato, ma al suo esterno: a disegnare i confini di una società ben ordinata secondo i valori storicamente predominanti e lo stile di vita accolto con riguardo a ciò che non può costituire scambio di mercato e non può essere oggetto di contratto.
In questa funzione si rivela una faccia diversa del complesso prisma dell’ordine pubblico: non più ordine pubblico del mercato ma ordine pubblico oltre il mercato. Per dire il complesso di principi in costante evoluzione posti a salvaguardia di valori accolti nell’ordinamento e non deducibili nel contratto o, più in generale, non negoziabili nel mercato senza essere disattesi[25].
Il confine tra diritti non negoziabili e mercato (in senso ampio e lato) è tracciabile sulla scorta di una riflessione che rimane essenzialmente etica (che nell’etica rinviene la sua radice affiorante) poiché raramente la legge specifica ciò che è escluso dalle transazioni di mercato, e poiché il fenomeno dello scambio globalizzato tende a ricomprendervi tutto quanto possa: secondo una dinamica di autoriproduzione ed espansione letteralmente ‘sconfinata’[26]. Il compito di stabilire questi confini è rimesso alla comunità degli interpreti giuridici.
Una soluzione è argomentabile sulla generale constatazione – avanzata in dottrina – che determinati accordi, piuttosto che illeciti, si presentano come fatti o atti giuridicamente irrilevanti quali contratti. Prima ancora che attraverso il giudizio di illiceità, il confine potrebbe essere segnato dalla irrilevanza del contratto o dell’accordo oltre il mercato. In particolare, si sostiene che determinate convenzioni, in quanto vertenti su rapporti non patrimoniali, non integrino il concetto stesso di contratto per come stabilito nell’art. 1321 c.c.[27].
Tuttavia, la questione posta dagli scambi oltre il mercato non è se una determinata convenzione concerna o meno non un rapporto ‘patrimoniale’ (ossia acquisito come tale per comune sentire) ma – molto diversamente e prima ancora – se essa abbia a oggetto una ‘prestazione’ a cui può legittimamente corrispondere una contropartita economica. Infatti, per evidenza, il mercato non è un contesto statico ma uno scenario dinamico; dunque la ‘patrimonialità della prestazione’ (con altra espressione, la ‘scambiabilità del bene sul mercato’) non può essere correttamente pensata come caratteristica predefinita. È invece oggetto di un giudizio storicamente e geograficamente condizionato. Questo giudizio scioglie il dubbio sulla accettabilità (culturale, sociale, politica) dello scambio, e dunque sulla sua legittimità giuridica. Nel mondo del diritto, questo giudizio si conduce necessariamente secondo il parametro dell’ordine pubblico: concerne dunque la liceità del contratto[28]. Poiché il contratto oltre il mercato (oltre l’esperienza attuale del ‘mercato’) deve soggiacere al vaglio di liceità, è rilevante sotto il profilo giuridico. Per conseguenza, il contratto determinato dalla patrimonializzazione di un interesse in violazione dell’ordine pubblico non si classifica come ‘non contratto’, bensì come contratto (perciò esistente) ma illecito[29].
Su un diverso piano, questa scelta interpretativa permette di ridurre lo iato tra concetto giuridico e concetto sociologico di contratto, implementando in tal modo la razionalità dell’ordinamento e la condivisibilità sociale delle decisioni giurisprudenziali. Così, il traffico di esseri umani, l’‘affitto’ di utero e la vendita del rene sono concepibili, da un punto di vista sociologico, come contratti. Rispetto a queste convenzioni è argomentabile, sempre dal punto di vista sociologico, un vero e proprio mercato: che giuridicamente meglio si classifica (a volte non solo civilisticamente, ma anche penalisticamente) come illecito, piuttosto che come irrilevante.
Nella difficoltà del problema si avvalora, perciò, la strategia di affidare alla scelta sempre controvertibile della giurisprudenza (e, più ampiamente, della comunità degli interpreti giuridici) la stratificazione progressiva dei confini tra diritti e mercato.
Valgono egregiamente allo scopo la produzione del diritto per principi e l’introduzione e l’utilizzo delle clausole generali, e qui della clausola dell’ordine pubblico oltre il mercato: a sindacare la liceità di accordi e contratti che premono contro i confini mercantili per come riconosciuti nella sensibilità diffusa[30].
- ABUSO DELLA LIBERTÀ NEGOZIALE E ILLICEITÀ NELLA CONTRATTAZIONE DISEGUALE SUL MERCATO
II.1. Illiceità nei contratti del mercato. – La materia del nuovo diritto dei contratti è stata autorevolmente riassunta nella locuzione ‘contratti del mercato’[31]. L’espressione compendia sia le regole sui contratti tra imprese che le regole sui contratti tra professionista e consumatore. Nonostante la ribadita diversità del sostrato economico e delle discipline che coinvolgono da un lato i contratti tra imprese e dall’altro i contratti tra operatori economici e consumatori, la valutazione sintetica è giustificata dal finalismo di sistema nel quale i vari contesti disciplinari si compongono: l’ordine normativo del mercato[32].
Nella sua ampiezza, la formula ‘contratti del mercato’ riassorbe tutta la complessa fenomenologia contrattuale del presente, con eccezione dei contratti civili; non è pertanto proficuamente utilizzabile a fini classificatori ma svolge più limitatamente una funzione essenzialmente evocativa. Rivela nondimeno una chiara utilità laddove richiama l’attenzione sul fatto che, nelle relazioni negoziali in cui è variamente coinvolta l’impresa, l’ordine del contratto non può prescindere dall’ordine del mercato[33].
Il dato di fatto va tenuto presente nella indagine ricostruttiva della illiceità nel nuovo diritto dei contratti, dove assume importanza centrale. Questo diritto si mostra infatti dipendente dalle regole e dai principi che informano il mercato concorrenziale (e gli specifici contesti di cui quello si costituisce); dipendenza riaffermata anche nel tema della illiceità.
Nelle pagine seguenti, dell’ordine del contratto quale componente del più ampio ordine del mercato si esamineranno le manifestazioni effettivamente nuove e problematiche, costituite da una particolare modalità della illiceità tipica della contrattazione diseguale: la unilateralità.
Infatti, mentre anche in questo diritto sono rinvenibili fattispecie di illiceità bilaterale non disagevolmente comprensibili nell’ottica codicistica (come nei casi delle intese e delle concentrazioni anticoncorenziali) è propria di questo diritto la repressione massiccia della illiceità unilaterale, frutto della condotta negoziale abusiva perpetrata dalla parte forte ai danni della parte debole e degli interessi di sistema, la quale forma di illiceità ha conosciuto – nel diritto tradizionale – solo sporadiche emersioni (tra cui spicca la disposizione dell’art. 2126 c.c.).
II.2. Illiceità delle clausole abusive nei contratti del consumatore. – Nel nuovo diritto dei contratti, il settore di maggiore rilevanza è costituito dalle regole sui contratti del consumatore. Da un lato, la tutela del consumatore costituisce una novità radicale nel tradizionale scenario del diritto positivo; dall’altro, le norme in cui si articola questo diritto – in massima parte riorganizzate in un codice dedicato – rivestono anche un ruolo centrale nella materia del contratto.
Nelle regole sui contratti del consumatore il giudizio di illiceità, e la conseguenza della nullità – fondandosi su ragioni di ordine pubblico del mercato – rispondono a un approccio normativo sensibilmente diverso da quello tradizionale. Infatti, l’ordine pubblico del mercato non è espresso soltanto da norme imperative a limite della libertà contrattuale, ma anche dal diritto dispositivo offerto alle parti e derogabile nel contratto.
Mentre l’ordine pubblico delle norme imperative segna il limite esterno di esercizio della libertà contrattuale, invece l’ordine pubblico del diritto dispositivo ne segna il limite interno. Se infatti tale diritto è derogabile, tuttavia esso non è derogabile a piacimento: vale il limite di ordine pubblico della non abusività della deroga.
La deroga abusiva è prodotto di un comportamento illecito: costituisce esercizio illecito della libertà di contratto. Abuso e illiceità, dipendendo dalla condotta di una parte (professionista) in pregiudizio degli interessi dell’altra (consumatore) sono non del contratto ma nel contratto: l’illiceità è qualifica ‘unilaterale’. Il contratto unilateralmente illecito esprime un abuso in senso stretto della libertà contrattuale[34].
- i) Sanzione delle clausole abusive: inefficacia nullità. Offesa all’ordine pubblico del mercato e nullità/illiceità delle clausole abusive. – Una delle dispute teoriche più accese nella materia delle clausole abusive ha investito la natura della sanzione: se inefficacia (in senso stretto) oppure nullità[35]. Oggi la questione non ha più ragione di porsi, giacché l’art. 36 c. consumo, che è succeduto all’art. 1469 quinquies c.c., dispone la nullità.
Il fondamento della comminatoria di nullità è esplicitato nella rubrica dell’art. 36 c. consumo: ‘nullità di protezione’. Con l’introduzione di questa disposizione il legislatore si è dunque preso cura di sciogliere il dubbio interpretativo chiarendo anche la ragione della scelta per la nullità.
Sembra dunque confermarsi l’idea – ricorrente – che le nullità protettive non tutelino esclusivamente interessi generali e che a volte siano poste a presidio di interessi schiettamente privati (come quelli di determinate categorie di contraenti deboli).
Poiché per tradizione la nullità tutela interessi della collettività – ed esprime ragioni di ordine pubblico – laddove l’inefficacia custodisce interessi singolari e non esprime ragioni di ordine pubblico, potrebbe allora opinarsi che alla figura positiva della nullità sarebbe stata dogmaticamente preferibile la figura della inefficacia.
Tuttavia, come pure rivela l’origine storica della clausola generale, l’interesse di ordine pubblico può ben essere espresso nella protezione accordata a taluni soggetti dello scambio: il che appare chiaro considerando gli stretti legami tra tutela del consumatore e tutela del mercato concorrenziale.
Più in generale si è già osservato come, da qualche lustro, il rapporto tra interesse generale e interesse particolare si sia evoluto all’insegna della complessità: laddove è presente l’interesse generale non è esclusa (e può anzi dirsi frequente) la concorrente tutela di un interesse singolare, e viceversa.
Per quanto più interessa, poiché la nullità testuale delle clausole abusive non rimedia alla incompletezza strutturale del regolamento ma sanziona regolamenti completi e tuttavia disapprovati perché contrari all’ordine pubblico, si pone come conseguenza della illiceità delle clausole abusive.
- ii) Illiceità per deroga abusiva al diritto dispositivo. – Nell’ambito del dibattito sulla sanzione è emerso il carattere maggiormente innovativo della nullità/illiceità delle clausole abusive: essa non deriva dalla contrarietà al diritto imperativo ma dalla deroga non negoziata al diritto dispositivo che determina, contrariamente alla buona fede, un significativo squilibrio contrattuale[36].
La peculiarità del caso è così grande che alcuni autori hanno argomentato la struttura e la natura imperativa delle disposizioni dell’art. 1469 quinquies, commi 1 e 3, c.c. (ora art. 36, commi 1 e 3, c. consumo) leggendole come divieti di clausole abusive nel contratto[37].
Al contrario, non può sfuggire che ciò che sarebbe in via di principio pienamente lecito, e cioè di derogare al diritto dispositivo, è in questo contesto sanzionato con la nullità/illiceità.
Infatti, l’oggetto della nullità (clausole abusive) non è nell’art. 1469 quinquies, commi 1 e 3, c.c. (adesso art. 36, commi 1 e 3, c. consumo) che si limita a disporre la inefficacia/nullità delle clausole abusive, e nemmeno in norme imperative altrove rinvenibili, ma nei patti elencati nell’art. 1469 bis c.c. (ora 33 c. consumo).
Si tratta di convenzioni ricorrenti nella prassi di settore, le quali si pongono in deroga al diritto dispositivo. In quanto tali non sono vietate ma permesse (fatti salvi l’assenza di trattativa e il significativo squilibrio contrario alla buona fede che dovesse affliggere, a causa di tali deroghe, il contratto concretamente considerato).
Dunque, l’art. 1469 quinquies, commi 1 e 3, c.c. sanziona(va) con la inefficacia/nullità non la violazione di se stesso in quanto norma imperativa, o la violazione di norme imperative altrove rinvenibili, ma deroghe al diritto dispositivo giudicate abusive.
Il nesso così spesso ricorrente tra nullità/illiceità e violazione di norme imperative in queste fattispecie non sussiste[38].
iii) Il contesto abusivo. Assenza di trattativa. – La peculiarità del caso si ridimensiona considerando che, nei contratti del consumatore, tale deroga avviene nell’ambito di uno specifico contesto abusivo della contrattazione diseguale: segnato dai caratteri della assenza di trattativa; della deroga sistematica al diritto dispositivo; della qualità soggettiva delle parti che si contrappongono nel contratto non negoziato.
Tali caratteri vanno analizzati partitamene.
L’assenza di trattativa è fenomeno ricorrente nella contrattazione seriale. Come insegna l’esperienza, nell’area dei contratti standardizzati una parte decide e predispone il testo contrattuale, l’altra si limita ad accettare o rifiutare quel testo in blocco: se lo accetta, non si accorda, ma più propriamente aderisce[39].
Al dato sociologico corrisponde un preciso trattamento giuridico. Si è osservato che mentre la disciplina generale della proposta e della accettazione «non attiene al grado di partecipazione dei contraenti alla elaborazione del regolamento contrattuale, ma fissa unicamente le condizioni formali perché tale regolamento divenga vincolante per quei soggetti», invece «La disciplina delle condizioni generali di contratto intacca questo sistema in due punti: attribuisce rilevanza al grado di partecipazione alla elaborazione del regolamento; considera il ruolo svolto dal contraente più attivo ai fini della disciplina»[40].
Le regole sulle clausole abusive nei contratti del consumatore si inseriscono in questo solco disciplinare, di cui costituiscono evoluzione a un livello di maggiore incisività.
Indubbiamente, nei contratti del consumatore la standardizzazione non è elemento di fattispecie. Rileva infatti – e più ampiamente – la predisposizione (anche di un singolo regolamento contrattuale). Non va però sottovalutato che la predisposizione del contratto isolato è dato fenomenologicamente inapprezzabile nel contesto in esame, dove lo scambio è sempre seriale. La serialità dello scambio ne assicura infatti la razionalità. A condizione, beninteso, della stabilità del regolamento uniforme. Essa è conseguibile in condizioni di efficienza attraverso l’assenza di trattativa. Quest’ultima è pertanto coerente con l’organizzazione della relazione di mercato, e anzi da quella organizzazione oggettivamente imposta.
Dunque, la previsione legale sull’assenza di trattativa si giustifica non tanto con riguardo all’oggetto di disciplina (nei contratti del consumatore il regolamento negoziato è caso teorico e di scuola: limitare la tutela ai contratti non negoziati non cagiona alcuna restrizione pratica della stessa) ma perché svolge una funzione essenziale sotto il profilo della legittimazione del regime protettivo, nelle sue conseguenze di limitazione della libertà contrattuale del professionista[41].
In effetti, il requisito dell’assenza di trattativa, benché costituisca oggetto del giudizio sulla abusività della clausola, allo stesso tempo contribuisce alla – logicamente preliminare – definizione del contesto in cui si consuma la contrattazione: alla delimitazione dello spazio relazionale in cui professionista e consumatore si incontrato quali possibili partner contrattuali.
Tale contesto è variamente connotato in termini di abusività (il quale carattere esprime la possibilità dell’abuso, che diviene poi realtà nella clausola concretamente abusiva).
La conclusione è che la predisposizione unilaterale del contratto e l’accettazione senza trattativa, pur costituendo per scelta legislativa l’oggetto del giudizio di abusività (insieme allo squilibrio tra le prestazioni e alla violazione del canone della buona fede) per altro verso (e cioè fenomenologicamente) definiscono (insieme alla qualità delle parti) un carattere indefettibile del contesto abusivo.
In altre parole, nella realtà dei fatti l’assenza di trattativa individuale (che si accompagna alla predisposizione del regolamento seriale) contribuisce a descrivere – in negativo – il contesto del regolamento uniforme predisposto dal professionista e a cui aderisce il consumatore: in sostanza, le condizioni pratiche in cui può consumarsi l’abuso della libertà contrattuale e attivarsi il regime protettivo, così giustificato in tutta la sua articolazione[42].
- iv) (Segue) Carattere abusivo della deroga al diritto dispositivo. – Sono note, per essere state profondamente indagate, le ragioni che presiedono al fenomeno della standardizzazione contrattuale: la semplificazione e la rapidità nella conclusione dei contratti; l’accelerazione dei consumi (e dunque della produzione); la razionalizzazione dell’esercizio dell’iniziativa economica e delle relazioni di impresa nel mercato[43].
Un fondamentale studio sulle condizioni generali di contratto avvertì, in tempi lontani, sul potenziale abusivo della pratica della standardizzazione, e su come la realtà dell’abuso sia rivelata dalla deroga al diritto dispositivo che non risponda a quelle esigenze ma vada oltre, avvantaggiando eccessivamente e ingiustamente (rispetto agli equilibri stabiliti nelle regole dispositive derogate) il predisponente sull’aderente[44].
Sull’influenza di quell’insegnamento, il legislatore italiano coniò gli artt. 1341, 1342 e 1370 c.c., con ciò conquistando il primato nell’affrontare il tema della tutela dell’aderente[45]. Le clausole vessatorie elencate nell’art. 1341, comma 2, c.c. derogano a norme dispositive che fissano in modo ragionevole l’equilibrio dei poteri giuridici sul contratto, per cui si impone un onere formale specifico per la loro validità[46].
Il deficit della tutela dipese dalla imperfetta comprensione del fenomeno disciplinato. Il problema, infatti, era ed è non tanto di assicurare la consapevolezza dell’aderente (che nei fatti, pur consapevole, soggiace all’imposizione) quanto di vagliare la liceità (e per qualcuno anche la meritevolezza[47]) della deroga prima di affermarne la tutelabilità.
Il criterio per saggiare la liceità delle clausole standardizzate, per verificarne l’abusività, è stato storicamente rinvenuto – a opera della dottrina tedesca – nel diritto dispositivo derogato, il quale è adoperato come base di valutazione (Wertungsgrundlage) in quel giudizio[48].
Va infatti considerato che la libertà contrattuale del predisponente, in quanto tale, non è illimitata: altrimenti sarebbe arbitrio.
In generale, un limite esterno di esercizio della libertà è segnato dalla pratica abusiva: la libertà è esclusa dall’abuso, che integra arbitrio.
Nel contesto in esame, l’utilizzo di condizioni generali di contratto in deroga agli equilibri di interessi fissati nel diritto dispositivo non deve contraddire al canone della buona fede e deve rispondere alla esigenza della razionalizzazione produttiva e distributiva; altrimenti, la deroga si manifesta come abuso della libertà contrattuale.
Questa linea di pensiero, condivisa e sviluppata dalla giurisprudenza[49], ha ispirato prima le regole della legge speciale (cfr. § 9 AGB-Gesetz) e poi il BGB, essendo state inserite quelle regole nel corpo del codice (e il § 9 AGB-Gesetz nel § 307, I e II, BGB). In particolare, il § 307, II, 1, BGB fissa la deroga al diritto dispositivo come indice sintomatico della abusività della clausola. La norma dispositiva opera come parametro per il giudice[50].
Certamente, il diritto dispositivo non veicola in se stesso ragioni di ordine pubblico; tuttavia (quando non assolve a una funzione meramente suppletiva) risponde alle scelte del legislatore sui criteri di opportunità, efficienza e giustizia nella distribuzione dei rischi e dei poteri nei contratti. La deroga abusiva alle regole dispositive – realizzata cioè non per razionalizzare l’attività contrattuale d’impresa ma per vessare il partner contrattuale – esprime una lesione della libertà contrattuale. Per questa ragione, contrasta con l’ordine pubblico[51].
- v) (Segue) Qualità soggettiva delle parti. – Nel settore contrattuale oggetto di queste note, il contesto abusivo che integra la ragione della disciplina degli artt. 1341, 1342 e 1370 c.c. è ulteriormente caratterizzato dal ruolo svolto dall’aderente. Siamo infatti nell’area dei contratti tra professionista e consumatore: una parte conclude il contratto per l’esercizio della sua impresa, l’altra per soddisfare bisogni esistenziali.
La «persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta» (art. 3, lett. a) c. consumo) posta a paragone del «professionista: la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, ovvero un suo intermediario» (art. 3, lett. c) c. consumo) si caratterizza per due note: una positiva (deve trattarsi di una persona fisica) l’altra negativa (non deve agire professionalmente). Considerate separatamente, queste caratteristiche focalizzano altrettanti elementi di debolezza contrattuale; considerate insieme, disegnano la figura di contraente debole per antonomasia.
È ragionevole sostenere che la persona fisica che accede al contratto per scopi non professionali, non potendo essere animata da scopi propri di organizzazioni (per quanto non imprenditoriali) sia spinta da bisogni (anche indotti e artificiali, tuttavia pur sempre) esclusivamente esistenziali.
Questa scelta interpretativa è ormai consolidata in giurisprudenza[52]. In dottrina è invece in corso un acceso dibattito. La minore o maggiore estensione della nozione è argomentata sulla scorta della opzione di fondo in merito alla ragione della tutela del consumatore. Dagli uni essa è rinvenuta è nella tutela della parte debole nei contratti asimmetrici (in tal modo perseguita attraverso la rimozione delle asimmetrie informative che caratterizzano la relazione di mercato, svolta anche tra imprese); dagli altri è ravvisata nella strutturazione dei mercati finali (in tal modo perseguita attraverso la disciplina dell’atto di consumo in senso stretto)[53].
Benché non emergano ragioni decisive per la prevalenza dell’una o dell’altra tesi, la nozione ristretta di consumatore è maggiormente compatibile con il contesto abusivo in cui avviene il contratto quale fatto storico. La radicale diversità sociale, economica, tecnica, culturale dei soggetti del contratto può essere affermata a priori: circa quel contratto, il consumatore si avvantaggerà della tutela per il semplice fatto di essere in quella evenienza consumatore.
Poiché nei contratti tra professionista e consumatore l’asimmetria di potere può assumersi connaturata alla qualità delle parti, in tal modo è senz’altro acquisita dal legislatore.
- vi) Predisposizione abusiva del regolamento e incidenza sulla razionalità del mercato. La buona fede quale standard valutativo dell’abuso. – Da quanto esposto discende che nel contesto dei contratti del consumatore la deroga (non negoziata) al diritto dispositivo che si mostra irragionevole rischiara un abuso della libertà contrattuale in lesione dell’altrui libertà di contratto[54].
La deroga irragionevole al diritto dispositivo condotta nel contratto contraddice alla razionalità oggettiva del mercato. Quella deroga si può comprendere solo dal punto di vista del predisponente, che mira a massimizzare i vantaggi che può conseguire per la sua prevalenza sull’altra parte. Non si comprende, invece, dal punto di vista dell’aderente, sul quale vengono scaricati tutti o quasi tutti i rischi del contratto e al quale vengono sottratti tutti o quasi tutti i poteri di gestione del contratto. Nemmeno si comprende dal punto di vista del mercato, nel quale si forma una relazione squilibrata senza nessun vantaggio collettivo e anzi in pregiudizio del valore della concorrenza (il predisponente si avvantaggia rispetto a tutti gli altri imprenditori che non abusano della propria forza contrattuale per il solo fatto che egli ne abusa).
L’irrazionalità dell’azione sul mercato è determinata dall’esistenza di una condotta abusiva apparentemente espressiva di una libertà (di contratto) ma in realtà lesiva della stessa libertà che affermerebbe: e perciò lesiva dell’ordine del contratto (che su quella libertà si fonda: cfr. artt. 1321 s. c.c.) e dell’ordine del mercato concorrenziale (che quella libertà presuppone).
Il criterio discriminante dell’abuso della libertà contrattuale deve individuarsi nella buone fede (richiamata nell’art. 33, comma 1, c. consumo, nella definizione di clausola abusiva). Infatti, il criterio della buona fede, innervato nella prassi sociale e raccolto dall’ordinamento nella forma di clausola generale, ripete per altro verso la natura di standard valutativo delle condotte[55]. Attraverso questo e altri criteri generali e indeterminati (come il bilanciamento degli interessi in conflitto) si pongono le condizioni di funzionamento del mercato quale sede della conflittualità economica[56]. Per mezzo del criterio della buona fede può dirimersi il conflitto tra contrapposte pretese tutte astrattamente tutelabili, e tutte riassumibili nell’esercizio della libertà contrattuale[57].
Per questa dinamica, il giudizio di nullità si sposta dal piano astratto al piano concreto: dove l’astratta attribuzione è svolta irragionevolmente (in sopraffazione e abuso) con pregiudizio della razionalità oggettiva del mercato[58].
Il parametro della buona fede consente pertanto di cogliere il carattere abusivo della condotta negoziale, e di evidenziarne il contrasto con l’ordine pubblico del mercato. In tal modo, permette la repressione della clausola abusiva, che si appalesa illecita e nulla, restituendo voce alle ragioni della controparte, di cui viene artificialmente ripristinato il potere contrattuale (la nullità ha infatti carattere protettivo[59]) e alle ragioni del mercato, di cui viene recuperata la razionalità.
II.3. Giudizio di illiceità e contratti asimmetrici tra imprese. – I nessi tra tutela della libertà contrattuale (e del contratto quale suo prodotto) e tutela del mercato (quale spazio relazionale integrato anche dalla realtà contrattuale), e dunque tra ordine pubblico del contratto e ordine pubblico del mercato, sono rinvenibili anche nelle leggi recenti sui contratti tra imprese.
In particolare, anche nelle leggi sui contratti asimmetrici tra imprese è sanzionato l’esercizio abusivo della libertà contrattuale; e dunque lo squilibrio contrattuale dovuto ad abuso (e spesso dovuto alla deroga irragionevole al diritto dispositivo). Inoltre, anche in queste leggi è disposta la nullità delle clausole abusive (in cui si concreta l’abuso contrattuale). Infine, anche in queste leggi il controllo della libertà contrattuale avviene all’interno di contesti abusivi legalmente predefiniti.
Rispetto a quanto accade nei contratti del consumatore, nelle relazioni contrattuali tra imprese il rapporto tra ordine pubblico del contratto e del mercato si intensifica e si riassesta verso la sponda aperta del mercato. Fino a ieri la scena era dominata dalle regole sul divieto di abuso di posizione dominante e di dipendenza economica; oggi, si evidenziano anche le norme sui ritardi di pagamento nei contratti commerciali.
Da queste ultime conviene avviare l’esposizione.
- i) Nullità/illiceità testuale per abuso nella determinazione dei termini di pagamento nelle transazioni commerciali. – Il considerando n. 19 premesso alla direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle ‘transazioni’ commerciali dichiara: «la presente direttiva dovrebbe proibire l’abuso della libertà contrattuale in danno del creditore. Nel caso in cui un accordo abbia principalmente l’obbiettivo di procurare al debitore liquidità aggiuntiva a spese del creditore, o nel caso in cui l’appaltatore principale imponga ai propri fornitori o subappaltatori termini di pagamento ingiustificati rispetto ai termini di pagamento ad esso concessi, si può ritenere che questi elementi configurino un siffatto abuso».
L’art. 7 del d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, di attuazione della direttiva, dispone la nullità dell’accordo (ma deve intendersi clausola contrattuale) sulla data del pagamento o sulle conseguenze del ritardato pagamento se, in considerazione della corretta prassi commerciale, della natura della merce o dei servizi dedotti in contratto, delle condizioni dei contraenti e dei rapporti commerciali in corso tra gli stessi, e di ogni altra circostanza rilevante, risulti gravemente iniquo in danno del creditore (comma 1). Esemplifica fattispecie di ‘grave iniquità’ riscrivendo, nel comma 2, il testo del considerando n. 19 (sostituendo il riferimento all’abuso con quello alla grave iniquità). Per disporre, infine, che il giudice dichiara anche d’ufficio la nullità della clausola e, valutati l’interesse del creditore, la corretta prassi commerciale e le altre circostanze già elencate nel comma iniziale, applica i termini legali ovvero riconduce l’accordo a equità (comma 3).
Il legislatore stabilisce una regolamentazione sia sulla decorrenza che sul saggio degli interessi (cfr. artt. 4 e 5) ma precisa che le parti «nell’esercizio della loro libertà contrattuale» (art. 4, comma 4) possono derogarvi. Si tratta perciò di diritto dispositivo, come avvertono le clausole di riserva che introducono la disciplina legale[60].
Tuttavia, la deroga a quella disciplina che manifesti un abuso della libertà contrattuale (secondo le parole del legislatore comunitario) o una grave iniquità dell’accordo (secondo le parole del legislatore interno) determina nullità: rilevabile di ufficio nell’interesse della parte debole del contratto, e dunque di natura protettiva[61].
Il riferimento all’abuso della libertà contrattuale – conservato nella relazione illustrativa[62] – ha suscitato, negli interpreti, il collegamento immediato con il concetto di abuso del diritto[63]. L’eco della teoria dell’abuso pare spegnersi nelle parole del legislatore interno, che riferisce le disposizioni al risultato dell’abuso: la grave iniquità dell’accordo. L’impressione sfuma a una riflessione appena attenta.
In effetti, il legislatore disegna anche qui un contesto abusivo. Proponendosi la tutela del creditore e, attraverso di essa, la protezione della efficienza e della razionalità del mercato[64], stabilisce il diritto a disposizione delle parti (sui termini e sui tassi); dispone, inoltre, la nullità dell’accordo in deroga irragionevole al diritto dispositivo in relazione a parametri già sperimentati nell’art. 34, comma 1, c. consumo (natura del bene o servizio e circostanze concrete del caso[65]) e in relazione ai parametri nuovi, quali la corretta prassi commerciale[66] e le condizioni dei contraenti e dei rapporti commerciali in corso tra di essi.
In dottrina si osserva che nella normativa in esame la parte tutelata è individuata, semplicemente, nel ‘creditore’; il regime protettivo, che pur richiama da vicino quello apprestato per i contratti del consumatore, non sembra apprestato necessariamente per un contraente debole. In particolare, del regime beneficeranno non soltanto le imprese medie e piccole, ma anche le imprese della grande distribuzione. Cosicché è parso che la finalità perseguita sia, soprattutto, la conformazione del mercato[67].
Se l’asimmetria di potere contrattuale non costituisse profilo del contesto abusivo, la normativa in esame non potrebbe pertinentemente essere inserita nell’ambito della contrattazione diseguale. Tuttavia, tale asimmetria è agevolmente argomentabile sulla scorta del dato positivo.
Illuminante il riferimento alla condizione in cui versano i contraenti: nel rapporto commerciale che li lega e, anche rispetto alle coordinate di tale rapporto, nel singolo contratto. Perché possa attivarsi il regime protettivo, dall’esame in concreto di tale condizione deve emergere il fenomeno della asimmetria di potere contrattuale del creditore rispetto al debitore (sarà anche qui importante la predisposizione unilaterale del contratto o per lo meno la fissazione unilaterale delle clausole sul pagamento) e poi l’abuso della libertà contrattuale di quest’ultimo, di cui sintomo eloquente è la deroga irragionevole al diritto dispositivo che determina lo squilibrio contrattuale[68].
Alla luce di queste considerazioni, appare significativo il nesso di derivazione della nullità/illiceità dalla valutazione del caso concreto: elementi già considerati discorrendo delle clausole abusive nei contratti del consumatore, e tali da far revocare in dubbio – da parte di molti – la natura di nullità del vizio. Ora tornano a determinare un giudizio di nullità testuale. Di nuovo è sanzionata la deroga sistematica al diritto dispositivo; si conferma che la tutela della parte debole del rapporto si accompagna alla tutela del mercato; ancora una volta è disposta la nullità (testuale) della clausola abusiva: a tutela dell’interesse della parte debole e soprattutto del mercato.
Come già sperimentato nei contratti del consumatore, il controllo sul contratto è necessariamente elastico; affidato non alle rigidità del diritto imperativo, ma alla duttilità del diritto dispositivo: suggerito e derogabile[69], ma non irragionevolmente derogabile[70]. La deroga che (in quanto irragionevole) possa considerarsi irrazionale alla stregua della teoria dell’abuso della libertà contrattuale, e quindi possa anche per questo verso ritenersi in violazione della clausola generale dell’ordine pubblico nel mercato, è sanzionata con la nullità/illiceità[71].
Questa sanzione nel nuovo diritto dei contratti cambia fisionomia, e da rimedio rigido e ultimativo che era, si rivela fluido e adatto a rispondere alle esigenze affidate al suo governo. Ai fini della razionalizzazione del contratto, grande importanza riveste la sostituzione a opera del giudice della clausola abusiva (illecita e nulla) con il diritto dispositivo derogato (il quale, per altro verso, indica anche la linea dettata dal legislatore alla ricerca, da parte del giudice, della corretta prassi commerciale)[72].
- ii) Nullità/illiceità testuale per abuso di dipendenza economica. – Nell’art. 9 della legge sulla subfornitura (n. 192 del 1998) si vieta, testualmente, «l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice. Si considera dipendenza economica la situazione in cui una impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti» (comma 1). Si precisa che l’abuso può consistere anche nel rifiuto di concludere il contratto o nella imposizione di «condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie», nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali (comma 2). Si dispone la nullità del patto abusivo (comma 3). Il legislatore ha avuto cura di aggiungere che, se l’abuso ha rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato, procede alle diffide e alle sanzioni previste dalla legge antitrust (comma 3 bis, aggiunto dall’art. 11, comma 2, l. 5 marzo 2001, n. 57).
All’evidenza, il legislatore disegna un altro contesto abusivo seguendo la tecnica già illustrata: descrizione di quel contesto attraverso la individuazione delle qualità soggettive dei contraenti; delle condizioni concrete in cui versa il rapporto (posizione dominante di una impresa e dipendente dell’altra); delle condotte di abuso della libertà contrattuale (imposizione di un assetto di interessi eccessivamente squilibrato o ingiustificatamente gravoso o discriminatorio, rifiuto di contrattare, interruzione abusiva dei rapporti contrattuali).
Benché sia in atto un dibattito sulla estensione di tale contesto abusivo, la tesi di gran lunga prevalente riferisce convincentemente il divieto di abuso di dipendenza economica allo spazio della contrattazione interessato dai rapporti di integrazione verticale tra imprese[73].
Secondo la lettera della legge, il principale criterio per discriminare la dipendenza economica è dato dalla possibilità di un’impresa di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. Il criterio della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti rileva soltanto come criterio secondario (cfr. art. 9, comma 1, l. subfornitura).
Il principale criterio discriminante della dipendenza economica, in se stesso considerato, avvicina la dipendenza economica alla soggezione contrattuale.
Qualora la dipendenza economica venisse accertata unicamente alla luce di tale criterio, potrebbe sostenersi la positivizzazione di una norma generale sul controllo dell’equilibrio contrattuale nei rapporti tra imprese. Si traccerebbero così i prolegomeni di un controllo generalizzato sull’equilibrio contrattuale in ampia misura assimilabile a quello che avviene nei contratti del consumatore[74] e in effetti più esteso: sia perché nella dipendenza economica, non distinguendosi in alcun modo, è sindacabile non solo l’equilibrio normativo ma anche quello economico[75]; sia perché nella dipendenza economica sono suscettibili del giudizio di abusività anche le clausole negoziate[76].
Diversamente da quanto accade per i contratti del consumatore, tuttavia, l’abuso non sarebbe indagato all’interno di uno specifico contesto disciplinare (tipico dell’abuso di dipendenza economica: quello dei rapporti di integrazione verticale tra imprese) ma dedotto semplicemente dalla possibilità e poi dalla realtà dell’assetto squilibrato di interessi.
Se non che, il legislatore impone – sia pure accessoriamente – un altro criterio di verifica: la mancanza di alternative soddisfacenti sul mercato (rilevante). Si tratta dell’unico criterio previsto nelle altre legislazioni, e segnatamente in quella tedesca e francese che dichiaratamente hanno ispirato la disciplina interna. È pertanto diffusa l’opinione che quest’ultimo sia il criterio principale[77], se non effettivamente l’unico criterio utilizzabile[78].
Proprio la mancanza di alternative soddisfacenti sul mercato fonda il giudizio sulla dipendenza (non meramente contrattuale ma prima ancora) economica[79].
D’altronde, in assenza della verifica sulle alternative di mercato, la possibilità di determinare assetti contrattuali eccessivamente squilibrati potrebbe desumersi solo dalla constatazione, nel caso concreto, di tale qualificato squilibrio contrattuale[80]: in tal modo, tuttavia, abuso di dipendenza economica e dipendenza economica non si distinguerebbero e verrebbero a fondersi all’interno di un unico giudizio. Invece, verificata l’assenza di alternative (la realtà della dipendenza economica) lo squilibrio contrattuale oltre che confermare lo stato di dipendenza economica (che l’impresa dominante possa imporre condizioni ingiustificatamente gravose è dimostrato dal fatto che le ha imposte) può fondare il giudizio – successivo – sull’abuso.
Letti in tale maniera – e cioè attraverso una inversione logica dell’ordine che parrebbe imposto dal legislatore e sulla base di una invertita rilevanza discriminatoria[81] – i due criteri della dipendenza economica acquistano plausibilità sia dal punto di vista del diritto antritrust (al quale è estraneo il criterio sullo squilibrio) sia dal punto di vista del diritto dei contratti (al quale, in effetti, è parimenti estraneo il rilievo di uno squilibrio in quanto tale) e si prestano entrambi a una piena utilizzazione.
Ciò che maggiormente preme sottolineare ai fini di queste pagine è che la dipendenza economica non è la dipendenza contrattuale (da potere contrattuale). La dipendenza è connotato di un rapporto economico (di integrazione verticale tra imprese, e che la legge qualifica genericamente come «commerciale») il quale acquista senso e determinazione soltanto se calato in uno specifico contesto (mercato rilevante): dove potrebbero esservi o mancare alternative concretamente praticabili.
Ecco allora sufficientemente delineato un particolare contesto abusivo nei contratti d’impresa[82].
Ancora una volta il giudizio di nullità non è aprioristico e astratto: non si conduce sul raffronto tra regola legale e contratto, ma discende dall’esame giudiziale del caso concreto: dall’indagine volta a far emergere l’esistenza o meno del contesto abusivo e, al suo interno, della pratica di abuso[83].
Come nelle regole legali sui ritardi di pagamento, la nullità è testuale. Più chiaramente che nella disciplina delle clausole abusive e degli stessi abusi nei ritardi di pagamento, la sanzione del contratto è sanzione dell’esercizio della libertà contrattuale: sanzionato sul presupposto, esterno al contratto, del rapporto di dominanza/dipendenza tra imprese nello spazio del mercato[84].
L’ordine del contratto dipende dall’ordine del mercato. La nullità/illiceità delle clausole abusive (del ‘patto’ attraverso cui si realizza l’abuso, per usare le parole del legislatore) è conseguenza della violazione dell’ordine pubblico del mercato.
Tutela del contratto e tutela del mercato si stringono in un legame ancora più intenso nell’ipotesi di abuso di dipendenza economica concorrenzialmente rilevante, prevista nell’art. 3 bis della legge: dove, pur non rinvenendosi una impresa in posizione dominante sul mercato, è constatabile, dal lato debole del rapporto e con riguardo alle concrete possibilità di reperire alternative soddisfacenti, un condizionamento esiziale del mercato (per l’effetto che la condotta abusiva sprigiona sul comparto di riferimento di imprese medie e piccole, anche collegate in reti contrattuali, rilevante nel mercato nazionale) [85].
Vale aggiungere che, oltre che nel giudizio sulla abusività della clausola (accertata come) non negoziata nei contratti del consumatore, anche nel giudizio sull’abuso di dipendenza economica (anch’essa accertata come tale) è usuale, in letteratura, il ricorso alla clausola generale della buona fede.
Questa opzione appare comprensibile alla luce del ruolo storicamente svolto dalla buona fede nelle questioni teoriche e applicative sull’equilibrio contrattuale. Il che ha indotto la dottrina a superare le perplessità che, nell’uno e nell’altro caso, il testo legislativo suscita evidentemente: nel primo, come detto, per la dizione letterale inizialmente propria dell’art. 1469 bis, comma 1, c.c., poi ripresa nell’art. 33, comma 1, c. consumo; nel secondo, perché nell’art. 9 l. subfornitura, menzionandosi l’abuso, si tace sulla violazione della buona fede. Si è pure visto come il richiamo alla buona fede – piuttosto che inteso alla buona fede soggettiva o alla buona fede oggettiva propria del diritto codicistico dei contratti – inteso quale riferimento a uno standard valutativo della condotta delle parti, acquisti plausibilità e si presti a un uso effettivo nel diritto vivente nel settore dei contratti del consumatore.
Nella stessa funzione, di standard valutativo, la buona fede si presta a essere utilizzata nel diverso contesto abusivo della dipendenza economica. Acclarata la realtà della dipendenza economica, lo standard consentirà il giudizio sulla abusività della condotta posta in essere nella stipulazione o nella esecuzione del contratto, nelle fattispecie esemplificate dal legislatore o in quelle che si pongono nella prassi (nelle forme del c.d. abuso atipico).
Così inteso, il richiamo alla buona fede si mostra pertinente nello scrutinio sull’abuso della dipendenza economica[86].
iii) Nullità/illiceità virtuale per abuso di posizione dominante. – Conferma di tutto quanto esposto può ravvisarsi nell’art. 3 della legge antitrust, che – con passo di ulteriore avvicinamento della tutela del contratto alla tutela del mercato – sanziona l’abuso di posizione dominante, ossia una condotta anticoncorrenziale dell’impresa che incide direttamente sul mercato.
Di nuovo si stilizza un contesto abusivo, riassunto nel concetto di dominanza sul mercato rilevante; anche in tal caso si esemplificano condotte abusive contrattualmente rilevanti (l’imposizione di prezzi e condizioni ingiustificatamente gravosi; l’imposizione di condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare svantaggi ingiustificati nella concorrenza; l’imposizione di prestazioni supplementari e non connesse con l’oggetto del contratto) [87].
La norma è imperfetta, nel senso che al precetto (divieto di contratto frutto di abuso di posizione dominante) non si accompagna la sanzione: come è anche comprensibile, non essendo l’antitrust disciplina del contratto ma sistema regolamentare del mercato.
In dottrina, si riscontra un dibattito non sopito, essendo state prospettate le tesi più varie: sulla nullità[88]; sulla annullabilità[89]; sulla rescindibilità[90]; sul risarcimento del danno[91].
Tuttavia, se ci si interroga sul destino della clausola che possa definirsi ‘abusiva’, che cioè sia posta in essere da una impresa in posizione dominante e integri gli estremi dell’abuso, ci si avvede subito che essa viola l’ordine pubblico del mercato; questa violazione determina la qualificazione della clausola in termini di illiceità; conseguenza della illiceità è la nullità (in queste ipotesi, virtuale)[92].
Si trae conferma della tesi anche dal rilievo che il più delle volte (e in pratica sempre) nei rapporti tra imprese l’abuso di posizione dominate si manifesta nella concreta relazione commerciale come abuso di dipendenza economica, il patto realizzativo del quale è espressamente colpito da nullità[93]. Dunque, ogni tesi diversa sul trattamento del patto abusivo stigmatizzato nell’art. 3 l. antitrust rischierebbe di apparire incoerente.
Le nullità dei contratti anticoncorrenziali (frutto di abuso di posizione dominante, di dipendenza economica, o produttivi di intese vietate) sono state classificate come ‘nullità da divieto’. Con l’importante precisazione che è «il divieto – e la sua area di incidenza – a delimitare il confine della nullità. Il che deriva dal fatto che qui la nullità è servente rispetto al divieto e non l’inverso. […] Si spiega allora che la nullità non possa che riguardare i soli e singoli elementi dell’accordo colpiti dal divieto, e non l’intero, tranne che gli elementi colpiti siano da esso inseparabili»[94].
Nella teoria generale dell’attività (economica e di diritto privato) già dall’esame delle regole sulla concorrenza sleale si inferì che il principio generale in materia d’impresa è la libertà; e che il divieto concerne, di norma, non l’attività ma sue particolari modalità nocive all’interesse all’attività da parte di tutti gli aspiranti alla stessa e, dunque, all’interesse generale al progresso economico: i quali interessi «costituiscono la giustificazione del principio di libertà di concorrenza»[95].
La considerazione di tali interessi come indissolubili nella tutela chiarisce come, nelle fattispecie in esame, ricorra ancora una volta la figura della nullità/illiceità protettiva: desumibile dalla ragione di ordine pubblico del mercato – a tutela del contraente debole e della razionalità del mercato – di quei divieti e della loro sanzione[96].
II.4. Rilievi conclusivi. I diversi contesti di abuso nella legislazione nuova e l’illiceità nel contratto. – La nullità/illiceità che sanziona il contratto concluso con abuso della libertà contrattuale a pregiudizio della parte debole e degli interessi generalmente affermati nel mercato è parsa assolutamente altra dalla nullità(illiceità) descritta nel codice civile. Si è discorso di un «oltrepassamento» della teoria della fattispecie, che determina l’affermarsi di una inedita «nullità funzione»: «nullità, cioè che è e sta in diretto rapporto di congruenza e di corrispondenza con un determinato assetto di interessi, in ragione della natura degli stessi, della specifica posizione delle parti, dei beni e dei servizi negoziati»[97]; cosicché le previsioni di nullità rinvenibili nella legislazione nuova appaiono «distanti anni luce da quelle forme tradizionali di nullità, che si sono definite ‘strutturali’, perché intrinseche al contratto»[98].
Sotto quest’ultimo angolo visuale, si specifica: «le ‘cause’ e/o i fattori […] di nullità qui attengono a circostanze o elementi che sono, tutti, ‘esterni’ al contratto e che pure sono destinati a reagire sul trattamento di esso[…]. È evidente che, in tali casi, si attinge a situazioni o circostanze tutte ‘esterne’ al singolo contratto perché proprie di situazioni più complessive in cui si trovano le parti. Si guarda dunque ai ‘dintorni’ del contratto. Il contratto è solo la punta di un iceberg. Le cause e i fattori dunque delle nullità ‘di protezione’ non si lasciano rinchiudere in una determinata fattispecie. Essi sono la negazione della fattispecie»[99].
Il passo evidenzia in maniera efficace un profilo essenziale del nuovo volto della nullità. L’impressione che le ragioni del rimedio siano addirittura estrinseche al contratto può dipendere da una caratteristica fondamentale del contratto, particolarmente valorizzata nella legislazione nuova: la relazionalità. Il contratto è considerato nel contesto in cui, quale fatto storico, accade. È pertanto considerato come relazione di mercato[100].
Su questa fondamentale acquisizione merita svolgere qualche annotazione, seppure di sintesi.
Il contesto in cui maturano i fatti esterni che determinano la nullità è il mercato. All’interno del mercato, e nel contratto quale relazione di mercato, sono rilevanti: le qualifiche soggettive degli attori dello scambio, i ruoli da essi ricoperti nel vasto spazio del mercato e nella dimensione microeconomica della contrattazione[101]; la modalità seriale degli atti; il contenuto del contratto.
Con specifico riguardo al contenuto, sono poi di volta in volta importanti: il rapporto il cui sta l’assetto degli interessi rispetto a equilibri oggettivi del mercato (contratti usurari) o emergenti nella prassi commerciale[102]; la proporzione in cui stanno prestazione e controprestazione (onde verificare l’esistenza di uno squilibrio significativo [nei contratti del consumatore] o eccessivo [nei contratti in cui si abusa della dipendenza economica]); la imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie o inique, avuto anche riguardo alla corretta prassi commerciale e alla natura dei beni o servizi; l’imposizione di prestazioni supplementari non connesse con l’oggetto del contratto.
Infine, in quanto atto di relazione, il contratto è considerato nelle sue connessioni con atti unilaterali o altri contratti (quelli a cui è collegato o da cui dipende). I nessi di collegamento assumono rilevanza sotto più profili di disciplina[103]. La complessa fenomenologia giuridica meglio si comprende sotto il segno (piuttosto che del singolo contratto) della operazione economica; le regola del contratto si ridefiniscono come regole della operazione.
Sono pertanto importanti determinate caratteristiche dei contraenti, della contrattazione e del contenuto del contratto che consentono la emersione di contesti abusivi, in cui la libertà contrattuale si afferma in pregiudizio di se stessa.
Può allora affermarsi che nella contrattazione diseguale assurge a rilevanza giuridica primaria non il contratto, ma l’esercizio della libertà contrattuale[104].
Se si osserva più da presso il contratto quale relazione diseguale di mercato (con esclusione, quindi, dei contratti civili e dei contratti simmetrici d’impresa) è possibile delineare una bipartizione: che annovera, da un lato, i contratti tra imprese e consumatori; e comprende, dall’altro lato, i contratti diseguali d’impresa[105].
Nei contratti tra professionista e consumatore l’asimmetria di potere è un dato sistemico connaturato alla qualità delle parti e come tale acquisito dal legislatore[106]. Si richiede infatti che il contratto leghi un professionista e un consumatore; in presenza di questo unico presupposto, il giudice può condurre il giudizio di abusività.
Del tutto diversamente, nella relazione contrattuale tra imprese lo squilibrio di forza contrattuale non può assumersi come dato aprioristico, e deve essere oggetto di verifica caso per caso[107].
Ancora di più che nei contratti del consumatore, nel contratto asimmetrico d’impresa il giudizio di nullità/illiceità è affidato dal legislatore all’interprete. Se così può dirsi, le ragioni della nullità/illiceità che alberga nel contratto virano sempre di più all’esterno dello stesso: come già accade per l’assenza di trattativa, vanno colte nella concretezza del rapporto commerciale in cui determinati soggetti stanno.
Tuttavia, se la riflessione si focalizza sulla questione delle nullità protettive, si scorge che anche nei contratti asimmetrici d’impresa resta determinante il contesto abusivo in cui avviene la contrattazione e, al suo interno, il fatto storico dell’abuso della libertà contrattuale con lesione della libertà contrattuale della parte debole e dunque con violazione dell’ordine pubblico del mercato.
Dal punto di vista del diritto razionale è pertanto possibile sostenere che le rilevanti differenze tra contratti del consumatore e contratti asimmetrici d’impresa non dovrebbero determinare – a livello sanzionatorio – ripercussioni sulla disciplina.
III. NULLITÀ/ILLICEITÀ ‘DI PROTEZIONE’. SPUNTI RICOSTRUTTIVI
III.1. Esigenza di razionalizzazione delle previsioni di nullità (da illiceità) con funzione protettiva. Il ruolo ricoperto, in una possibile ricostruzione, dall’ordine pubblico. – La peculiarità delle previsioni di nullità nelle leggi recenti ha determinato un grande spaesamento nella dottrina, tanto che si è argomentata una «frammentazione» o «frantumazione» o «destrutturazione» della categoria della nullità[108].
Il che ha indotto la maggioranza degli autori a discorrere del fenomeno con declinazione al plurale: escludendosi una categoria sufficientemente unitaria di ‘nullità protettiva’, è parso inevitabile riferirsi alle ‘nullità protettive’[109].
In effetti, i tentativi di razionalizzazione delle nullità protettive non sembrano aver prodotto risultati soddisfacenti.
Si è scritto che «nel sistema delle nullità così come delineatosi dopo l’avvento del diritto europeo dei contratti, il dato unitario e costante va riposto nella rilevanza, mentre il profilo variabile e come tale necessariamente diversificato e multiplo è rappresentato dalla efficacia»[110]. Si è obbiettato che il dato della rilevanza non riesce tuttavia a discriminare il contratto nullo rispetto a quello annullabile, l’elemento discriminante tra i quali sarebbe invece da individuarsi nella indisponibilità dell’interesse protetto[111]. Nemmeno questa tesi resta immune da una critica che risulta decisiva[112]; infatti, il carattere della indisponibilità è desumibile proprio dalla disciplina dell’atto: cosicché, escluse le ipotesi di nullità testuale, si determina un circolo vizioso e il problema si ripropone in tutta la sua portata.
È stato annotato come nei tentativi di razionalizzazione la dottrina abbia fatto ricorso al concetto di ordine pubblico: e specificamente di ordine pubblico economico. Tuttavia, con percorsi sensibilmente diversi: alcuni hanno ravvisato la ragione della tutela nell’affermazione dei canoni dell’ordine pubblico economico di protezione della parte debole; altri l’hanno colta nella promozione del mercato concorrenziale. In generale, si è criticato che «molto spesso, il riferimento all’ordine pubblico economico non appare un criterio del tutto chiaro e preciso, anzi sembra aggiungere incertezze a incertezze» delineandosi piuttosto che nelle vesti del parametro della illiceità, quale formula riassuntiva del finalismo legale nella regolamentazione dei rapporti economici[113].
Da queste osservazioni emerge chiaramente la centralità della questione ai fini della ricostruzione dello statuto del contratto illecito.
La figura è evocata attraverso il richiamo del fondamentale parametro del giudizio di illiceità: l’ordine pubblico. Tuttavia, la dottrina non ha affrontato lo studio delle nuove nullità sotto il profilo della illiceità, che pure costituisce la qualificazione da cui conseguono le nullità da disvalore. Ne è discesa la marginalizzazione della questione della illiceità nel nuovo diritto dei contratti, dove la nullità si pone quale conseguenza di cui rimane oscura la ragione.
È dunque lecito supporre le insufficienze accusate dalle soluzione finora prospettate (e riassumibili nella frantumazione delle nullità di protezione ciascuna chiusa nella sua specifica disciplina) sia dovuta anche alla visione pregiudiziale sulla illiceità contrattuale (esposta sin dalle prime pagine) e alla conseguente sottovalutazione delle potenzialità dell’ordine pubblico quale fattore di razionalizzazione della legge.
Proprio con riferimento all’ordine pubblico, quale parametro fondamentale della illiceità del contratto, può essere sviluppata la riflessione.
Nelle pagine precedenti si è cercato, innanzitutto, di attribuire maggiore concretezza alle connotazioni che l’ordine pubblico assume nella contemporaneità – nell’epoca del diritto regolatore statuale ed europeo – distinguendo tra ordine pubblico del mercato e ordine pubblico oltre il mercato.
Si è poi cercato di approfondire la riflessione sui fitti nessi che corrono tra interesse della parte debole del contratto e interesse generale nella formula comprensiva dell’ordine pubblico del mercato. Per chiarire come la protezione della parte debole costituisca, per consapevolezza abbastanza diffusa, un momento essenziale della edificazione dell’ordine pubblico del mercato concorrenziale (fondato quest’ultimo sulla tutela sostanziale della libertà contrattuale di tutti i soggetti coinvolti nella dinamica giuridica ed economica)[114].
Su questa sponda concettuale, appare possibile avviare una ricostruzione delle discipline protettive. Dal punto di vista funzionale, infatti, emerge nitidamente che tutte quelle discipline rispondono a ragioni di ordine pubblico del mercato. Per conseguenza, non dovrebbe apparire azzardato ipotizzare che nell’ottica che privilegia la funzione possa discorrersi, piuttosto che di ‘nullità protettive’, di ‘nullità/illiceità protettiva’: a tutela degli interessi della parte debole (alla piena espressione della libertà contrattuale) e insieme della razionalità del mercato (la quale razionalità impone la promozione della concorrenza)[115].
Appare pertanto giustificato interrogarsi sulla questione se la pluralità di discipline in vigore, piuttosto che costituire un insieme disorganico di tutele non riconducibili a una razionale unità, sia invece testimonianza dei profili affioranti di un fenomeno giuridico unitario nel quale si manifesta un fondamentale modo di essere della illiceità contrattuale nei tempi correnti.
III.2. Nullità protettiva nei contratti del consumatore. – Il materiale normativo di maggiore importanza ai fini dell’indagine ricostruttiva sulle (in ipotesi: sulla) nullità di protezione è contenuto nel codice del consumo.
In quel codice, infatti, è rinvenibile una disciplina compiuta della nullità/illiceità di protezione: precisamente, nell’art. 36, commi 1 e 3, avente a oggetto la nullità delle clausole abusive.
Si tratta perciò di verificare se l’art. 36, commi 1 e 3, c. consumo costituisca, anche, la disciplina applicabile a tutti i casi di nullità/illiceità protettiva nei contratti del consumatore.
La risposta affermativa costituirebbe un importante progresso verso la ricostruzione unitaria della figura della nullità di protezione come determinata da ragioni di ordine pubblico del mercato.
- i) Significato della codificazione dei diritti del consumatore. – Le finalità che hanno determinato la codificazione dei diritti dei consumatori sono dichiarate nell’art. 1 del codice dedicato: armonizzazione e sistemazione delle normative allo scopo di garantire un elevato livello di tutela al consumatore.
A questa dichiarazione di intenti si accompagna un incisivo intervento che coinvolge lo stesso codice civile: le norme inserite in occasione della attuazione della direttiva sulle clausole abusive e della direttiva sulle vendite mobiliari (artt. 1469 bis ss. e 1519 bis ss. c.c.) sono trasposte nel codice del consumo.
Lo spostamento di articoli dal codice civile al codice del consumo si giustifica non soltanto con l’esigenza sistematica (arricchire la coerenza interna del codice settoriale inserendo le norme fondamentali sulla tutela contrattuale del consumatore) ma anche prestando attenzione alle finalità della codificazione: di dare sistemazione a uno specifico diritto contrattuale diseguale. Nella relazione illustrativa si sottolinea la distanza che corre tra la concezione della libertà contrattuale accolta nel codice civile rispetto a quella propria degli interventi a tutela del consumatore[116]. La diversità delle ragioni ispiratrici porta a escludere che il codice civile possa costituire la sede appropriata per la sistematizzazione dei regimi sulla tutela contrattuale del consumatore. La riorganizzazione dei regimi protettivi deve svolgersi in una sede diversa e appositamente costituita. La sede dedicata è strutturata secondo la forma – ambiziosa – del ‘codice’[117].
Senza entrare nel merito del complesso problema posto dal fenomeno delle codificazioni di settore[118], ci si può limitare a osservare che il codice del consumo si presenta come il primo tentativo di sistematizzare il diritto contrattuale diseguale. Un simile tentativo non affranca completamente le leggi sul diritto diseguale da uno statuto inferiore rispetto al diritto codicistico dei contratti: infatti, il primo non si esaurisce nella tutela contrattuale del consumatore ma involge anche la protezione dell’impresa ‘debole’, al momento sfornita di disciplina organica. Tuttavia, benché il codice del consumo chiuda e isoli la parte forse più significativa del nuovo diritto dei contratti asimmetrici, è pur vero che in tal modo ne rende possibile la riorganizzazione interna[119].
La scelta per un ‘codice del consumo’ da un lato legittima l’ambizione sistematica, dall’altro costituisce una precisa chiave di lettura delle regole raccolte. Quella legittimazione e quella chiave di lettura sono date dalla esigenza di apprestare una tutela elevata (e perciò preliminarmente razionale e sistematica) al consumatore coinvolto in un contratto con una controparte professionale. Se la tutela è finalizzata alla rimozione degli effetti prodotti nel contratto dalla condizione di asimmetria di potere in cui versano le parti, le disposizioni che costituiscono questa tutela devono essere interpretate e applicate in vista della superiore finalità che le determina.
- ii) Tutela del consumatore e nullità di protezione. L’innovazione costituita dall’art. 36 c. consumo. – Nella relazione illustrativa al codice del consumo si puntualizza che i meccanismi di riequilibrio delle asimmetrie di forza contrattuale sono basati su «‘nullità di protezione’, rilevabili, anche d’ufficio, ma solo a vantaggio del contraente debole»[120]. Dietro queste affermazioni, che legano in nesso inscindibile riequilibrio e nullità protettiva, emerge il ruolo centrale ricoperto dalla tecnica della nullità nella disciplina dei contratti del consumatore.
La predilezione per la nullità trova conferma nell’opera di trasposizione delle regole inizialmente ospitate nel codice civile in materia di clausole abusive. Rispetto alla formulazione dell’art. 1469 quinquies c.c., nell’art. 36 c. consumo la conseguenza della abusività è espressamente indicata nella nullità.
Nella relazione illustrativa l’intervento è spiegato come modificazione terminologica finalizzata a una maggiore precisione del linguaggio legislativo[121]. Sembrerebbe dunque che, a giudizio dei compilatori, la novità introdotta sia puramente formale o quantomeno non importi alcun rilevante cambiamento sostanziale rispetto al passato, non potendo determinarsi questo cambiamento semplicemente a seguito dell’adozione di una terminologia più appropriata.
Eppure non poteva ignorarsi che, mentre proseguivano i lavori sul codice del consumo, sulla natura della sanzione delle clausole abusive perdurava un acceso dibattito che vedeva la dottrina schierata su posizioni nettamente contrapposte (inefficacia vs. nullità).
Nemmeno poteva sfuggire che soprattutto in ragione della forte peculiarità del procedimento di accertamento della abusività, in effetti poco conciliabile con la concezione della nullità invalsa nella cultura civilistica e confermata dagli artt. 1418 ss. c.c., si era progressivamente consolidata la tesi sulla mera inefficacia delle clausole abusive.
Infine, e quanto maggiormente importa, una riflessione appena attenta avrebbe evidenziato che la scelta a favore dell’inefficacia delle clausole abusive comportava la conseguenza di sottrarre all’area della nullità la disciplina più completa e maggiormente lineare con le finalità protettive del consumatore, contenuta proprio nell’art. 1469 quinquies, commi 1 e 3, c.c. [122].
Dunque, a prescindere dalle dichiarazioni minimizzanti dei redattori, la scelta di sostituire il termine ‘inefficacia’ con il termine ‘nullità’ non assume un significato semplicemente tecnico, ma si manifesta come scelta fondamentale a chiarire la razionalità complessiva sottesa alla elaborazione, nel codice, della tutela contrattuale del consumatore.
Questa scelta deve essere attentamente valutata: non soltanto in se stessa, ma anche con riguardo al dibattito nel corso del quale interviene risolutivamente. L’opzione per la nullità delle clausole abusive assume infatti un significato preciso e rilevante. Nonostante il contrario avviso della dottrina prevalente, e lo scetticismo storicamente radicato nei confronti della nullità, la sanzione è utilizzata dal legislatore che fonda su di essa l’intera strategia di riequilibrio della asimmetria di potere manifestatasi nel contratto tra professionista e consumatore. La nullità che cade in questione non è infatti la figura tradizionale consegnata nelle regole del codice civile, intrinsecamente inadatta allo scopo; è invece – come dichiara la relazione illustrativa in via generale (ossia: per tutte le ipotesi di nullità) e come esplicita la rubrica dell’art. 36 c. consumo per le clausole abusive – la nullità di protezione.
iii) Insufficienze di disciplina e incertezze sul regime della nullità. Il problema della integrazione delle disposizioni incomplete. – Il difficile problema della ricostruzione interpretativa del regime delle nullità protettive nei contratti del consumatore si ripropone anche all’esito della codificazione. Bisogna infatti riconoscere che rispetto alla nullità la razionalizzazione del regime protettivo non appare un obbiettivo effettivamente raggiunto. Benché l’art. 36 c. consumo esprima una articolazione compiuta del regime della nullità all’insegna della protezione del consumatore, le regole che lo compongono – espressamente dedicate alla clausole abusive – non sono mai integralmente riprodotte nelle altre comminatorie di nullità.
Se si scorre in dettaglio il codice del consumo, ci si avvede della effettiva asistematicità della disciplina. Alcune disposizioni prevedono la nullità per l’intero contratto, escludendo di conseguenza il carattere di parziarietà; tuttavia, tacciono sulla legittimazione all’eccezione, che pertanto costituisce un problema aperto[123]. Altre disposizioni comminano la nullità parziale, riferendola, con una terminologia tanto variegata quanto criticabile a singole clausole[124]; oppure a specifici patti[125]; o infine a determinati accordi[126]. Tutte queste disposizioni, tuttavia, tacciono sia sulla legittimazione all’eccezione sia sulla possibilità del giudizio di nullità parziale. Dunque: nei casi di nullità totale non è specificata la relatività dell’azione; nei casi di nullità parziale (clausole, patti, pattuizioni, accordi) non è inoltre specificato che il contratto si conserva valido per la parte restante. A differenza di quanto accade nell’art. 36, in nessun caso è specificato che la nullità può essere eccepita dal consumatore e rilevata di ufficio dal giudice e che essa opera soltanto a vantaggio del consumatore.
La disposizione meno lacunosa è nell’art. 134, comma 1, in tema di vendita di beni mobili, ove si commina la nullità a determinate clausole specificando che essa può essere fatta valere solo dal consumatore e può essere rilevata di ufficio dal giudice. Nemmeno qui si precisa che il contratto rimane valido per la parte restante e che la nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore.
La disposizione maggiormente problematica è nel nell’art. 143, comma 1. Similmente ad altre regole, anche questa stabilisce la nullità delle ‘pattuizioni’ in contrasto con le disposizioni del codice senza aggiungere alcunché sul regime operativo di tale nullità. Tuttavia, la regola è inserita non in uno specifico settore del codice ma nella parte sesta, rubricata alle «disposizioni finali». Di modo che l’incertezza che si innesca sul regime della nullità, sintetizzandosi in una norma che appare essere ‘di chiusura’, si diffonde in tutto il tessuto normativo[127].
Vi è poi da considerare che la tutela del consumatore non si esaurisce nel codice del consumo e nelle leggi di settore, ma si pone come problema per la disciplina dei contratti conclusi da imprese con determinate caratteristiche (in posizione dominante: art. 3 l. antitrust) e per regimi contrattuali costruiti intorno a talune soggettività imprenditoriali a tutela delle controparti: come nei contratti bancari e dell’intermediazione finanziaria. Infatti, quando partner contrattuale dell’impresa in posizione dominante o cliente della banca o investitore sia non una impresa ma un consumatore, si ripropone la questione del regime protettivo sempre incompleto rispetto a quello disegnato nell’art. 36 c. consumo.
Davanti a un simile panorama positivo, occorre esaminare le conseguenze della innovazione costituita dall’art. 36 c. consumo con riguardo alla questione della completezza e della unitarietà della disciplina della nullità nei contratti del consumatore. E dunque verificare la possibilità che la disposizione sulla nullità delle clausole abusive valga per ogni caso che si presenta nel codice o nelle leggi speciali, a prescindere dalla esaustività del richiamo eventualmente effettuato.
Anche a una riflessione sommaria si profila infatti la seguente alternativa: a) integrazione del singolo regime protettivo, per quanto non previsto, con le regole degli artt. 1419 e 1421 c.c.; b) oppure integrazione con le regole stabilite nell’art. 36 c. consumo[128].
- iv) Nullità di protezione nella disciplina delle clausole abusive. – Dalle pagine precedenti emerge l’importanza dell’art. 36 c. consumo nelle questioni in tema di nullità di protezione. Questa importanza è determinata da almeno tre fattori: l’oggetto di disciplina, la scelta del legislatore sulla nullità protettiva in luogo della inefficacia e la completezza della regolamentazione.
Sotto il primo aspetto, e come già evidenziato, l’art. 36 sancisce e disciplina la nullità delle clausole abusive nel contratto; le clausole abusive costituiscono il prodotto più eloquente dell’esercizio abusivo della libertà contrattuale del professionista: l’art. 36 assume dunque un ruolo centrale nella normativa sulla tutela contrattuale del consumatore.
Pure importante è l’attenzione riservata a questo articolo dal legislatore. Si è anticipato che, mentre le disposizioni sulla nullità già presenti negli interventi a tutela del consumatore sono state trasposte nel codice dedicato senza subire modificazioni, invece l’art. 1469 quinques c.c. nel divenire l’art. 36 c. consumo ha subito una importante variazione: la sanzione delle clausole abusive è stata sottratta alla sfera indeterminata della inefficacia e inserita nello spazio della nullità, per di più qualificata come protettiva.
Altro carattere di sicura rilevanza dell’art. 36 è nella completezza delle disposizioni, che si affermano come l’esempio più convincente di regime della nullità a protezione del consumatore.
Sotto quest’ultimo profilo, l’art. 36 contiene una previsione articolata del rimedio protettivo, evidentemente pensata in rapporto dialettico con le disposizioni tradizionali degli artt. 1419 e 1421 c.c.: a) nullità necessariamente parziale (comma 1); b) rilevabile di ufficio; c) ma operativa soltanto a vantaggio del consumatore (comma 3: e quindi rilevabile su eccezione in senso lato del consumatore ma non del professionista).
Il primo elemento caratterizzante della disciplina della nullità/illiceità delle clausole abusive è dato dalla parzialità: si ha una deroga legale all’applicazione del giudizio di nullità parziale secondo il disposto dell’art. 1419 c.c.
Sin dai primi commenti è emersa la consapevolezza della deroga all’art. 1419 c.c.[129]. Questa deroga ricorre esplicitamente in altri fondamentali casi disciplinati (su tutti, s’è visto campeggiare l’esempio del mutuo usurario). In altre fattispecie si ritiene comunque argomentabile (è il caso dei contratti con abuso di dipendenza economica).
Il significato della innovazione si coglie considerando che la regola della nullità parziale – decisamente segnata da riflessi volontaristici[130] – risultò invecchiata alla prova applicativa data in un contesto classico di contrattazione diseguale, le clausole vessatorie nei contratti standard, la cui nullità si dubitava (e perlomeno in giurisprudenza si dubita ancora) potesse confinarsi nella clausola o nella parte, senza travolgere tutto il contratto. Il dibattito fu di avvertimento al legislatore, che nella costruzione del regime protettivo, sotto la guida della direttiva sulle clausole abusive, ne ha escluso l’operatività.
Il secondo elemento caratterizzante della disciplina della nullità/illiceità nei contratti del consumatore è dato dalla rilevabilità di ufficio del vizio. Non vi è eccezione alla regola generale dell’art. 1421 c.c., ma diversità di soluzione rispetto ad altre ipotesi di nullità protettiva, testualmente conformate come nullità relative: conoscibili dal giudice sulla scorta dell’eccezione della parte a vantaggio della quale la nullità è disposta.
Questo secondo elemento va letto in stretta connessione con il terzo elemento caratterizzante: dato dalla regola per cui la nullità, pur rilevabile di ufficio, è operativa soltanto a vantaggio del consumatore (dunque, non sarebbe rilevabile d’ufficio quando tale rilievo anziché affermare pregiudicasse l’interesse del consumatore)[131].
Al riguardo giova rammentare che sempre la dibattuta vicenda della nullità delle clausole vessatorie segnalò il pericolo del rilievo incondizionato della nullità a opera del giudice, e dell’uso strumentale dell’eccezione di nullità (della clausola onerosa) da parte del predisponente (che potrebbe avvantaggiarsene per ottenere la dichiarazione di nullità dell’intero contratto)[132].
Dal che la regola – indotta dalla direttiva sulle clausole abusive e pedissequamente recepita, nel suo contenuto atecnico, dal legislatore interno – secondo cui la nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore. Regola ormai diffusamente letta come se disponesse: a) un rilievo condizionato d’ufficio[133]; b) un’esclusione dell’eccezione in capo al professionista.
La regola sul rilievo condizionato di ufficio solleva la domanda sul criterio che possa orientare il giudice nel suo lavoro. Infatti, non pare sufficiente affermare che il potere di ufficio possa essere esercitato solo a vantaggio del consumatore. Poiché tale potere ha sempre a oggetto clausole abusive nei confronti del consumatore, e dunque clausole sempre e per definizione a quest’ultimo svantaggiose, ragionando in astratto sembrerebbe che esso dovrebbe essere sempre esercitato[134].
Si è sostenuto che «non è da ritenere che il giudice possa rilevare d’ufficio la nullità se e quando essa ridondi a vantaggio del soggetto legittimato, ma, in termini opposti, che non possa motu proprio rilevarla solo quando sia questi a precludere la declaratoria con l’invocazione o l’accettazione degli effetti negoziali»[135]. Tuttavia, poiché per inequivocabile disposizione di legge la nullità deve operare soltanto a vantaggio del consumatore, tale rilievo di ufficio deve ritenersi escluso ogni qual volta possa determinare la nullità totale del contratto. In tali casi la nullità non potrebbe essere accertata[136].
Sul secondo aspetto, si contesta in dottrina che la normativa in esame inibisca la legittimazione del professionista; si rileva infatti che (tale normativa) nulla dice sul punto, se non che il giudice ha il potere di conoscere di ufficio l’eccezione di abusività. La ridotta propagazione della nullità, che non può volgere in danno del consumatore, non si riferirebbe «alla legittimazione, di cui tace, ma appunto al modo di operare della inefficacia, unidirezionale anche in clausole di contenuto strutturalmente sinallagmatico»[137].
Tuttavia, il rapporto fra legittimazione ad agire e interesse ad agire, se riferito all’azione di nullità, si rovescia. In generale, se la legittimazione consiste nella titolarità (affermata) della posizione di vantaggio azionata in giudizio e l’interesse nel bisogno di tutela giurisdizionale che quella posizione in concreto reclama, l’interesse presuppone la legittimazione (solo il legittimato, in quanto titolare della posizione pregiudicata, può avere interesse all’azione). Nel campo della nullità è vero, in pratica, il contrario: poiché la legittimazione è in astratto di tutti, ma la nullità può essere azionata solo da chi è veramente interessato, l’interesse ad agire opera come selettore della legittimazione (fra tutti solo l’interessato è legittimato all’azione)[138]. Come riconosce la stessa dottrina in commento, il professionista non può mai essere legittimato perché non può essere interessato a una declaratoria che non può produrgli, per legge, alcun vantaggio[139].
- v) Sulla generale applicabilità dell’art. 36 c. consumo. Superamento delle critiche fondate sull’art. 143, comma 1, c. consumo. – Nell’art. 36 c. consumo si trovano elencate le regole necessarie e sufficienti per la compiuta articolazione di un regime protettivo fondato sulla nullità/illiceità nella contrattazione diseguale. Questo articolo è posto tra le regole in apertura del titolo I della parte III c. consumo, dedicato alla disciplina generale dei contratti del consumatore. Nella compiutezza delle sue disposizioni, si presenta in se stessa come disciplina a vocazione generale perlomeno nel settore contrattuale di riferimento. Ci si attenderebbe, pertanto, che la tutela ivi apprestata sia operativa in tutti i casi: a prescindere dalla compiuta articolazione (per le discipline previgenti alle regole del 1996, e trasfuse insieme a esse nel codice del consumo) e dalla completezza del richiamo (per le discipline sopravvenute, e pure trasfuse nel codice del consumo). Potrebbe anche supporsi che ogni diversa opinione esporrebbe le singole discipline incomplete alla censura di incostituzionalità per violazione dell’art. 3, comma 1, Cost.: giacché casi uguali (clausole abusive nei contratti del consumatore) sarebbero governati da regimi protettivi irragionevolmente diversi[140].
A fronte della intuitiva propensione a ritenere le regole dell’art. 36 c. consumo di generale applicazione nella materia dei contratti del consumatore si pongono tuttavia alcune riserve, in parte già avanzate in dottrina. Le perplessità sono suscitate dalla pessima formulazione delle regole sulla nullità nel codice del consumo. Il carattere determinante di questa normativa è riassumibile nella frammentarietà e asistematicità delle singole disposizioni, la più completa delle quali è contenuta nelle regole – tanto centrali quanto peculiari – sulle clausole abusive e la meno completa delle quali è contenuta nella disposizione, collocata tra le norme finali, sulle nullità dei patti in contrasto con il codice del consumo.
Cosicché un ostacolo alla estensione della disciplina generale della nullità contenuta nell’art. 36 c. consumo è stato individuato nel fatto che in esso si compone non – onnicomprensivamente – la nullità nei contratti tra professionista e consumatore ma soltanto – e più settorialmente – la nullità delle clausole abusive. Invece, la disposizione generale sulla nullità nei contratti del consumatore sembra essere contenuta nella norma finale costituita dall’art. 143, comma 1, c. consumo, che si limita a stabilire la nullità delle pattuizioni in contrasto con le disposizioni del codice senza nulla aggiungere sulle regole operative di tale nullità.
In particolare, questi i passaggi argomentativi. Nell’art. 143 non solo non è dichiarata in alcun modo la natura protettiva di tale nullità; ma, inoltre, la legittimazione a far valere il vizio non è circoscritta alla persona del consumatore; infine, nemmeno è dichiarata la natura necessariamente parziale di tale nullità. Su questa constatazione si deduce che la previsione (piuttosto che arricchirsi dei profili regolamentari stabiliti dalla regola settoriale dell’art. 36) si pone inevitabilmente in immediato rapporto con le regole generali sulla nullità, stabilite nel codice civile. La norma dell’art. 143 c. consumo, collocata tra le disposizioni finali, deve considerarsi ‘norma di chiusura’. Il regime dettato per questa norma deve dunque estendersi a tutti gli altri casi che non siano diversamente disciplinati[141].
In realtà l’argomento, siccome basato sulla formulazione della legge, non appare preclusivo[142].
Inoltre, pur restando sul piano dell’indagine formale, deve osservarsi che il dubbio evidenziato soccombe al vaglio critico non appena si considerino l’oggetto della disposizione, la sua natura e la sua funzione. Nondimeno, nel ragionamento sono in parte sottesi i termini effettivi del problema della applicabilità delle regole dell’art. 36 c. consumo a tutti i casi di nullità protettiva nei contratti del consumatore. L’esame critico dell’argomentazione contribuisce, pertanto, a definire più precisamente i nodi della complessa questione.
L’analisi di oggetto, natura e funzione della norma portano a escluderne : a) il carattere di norma generale di chiusura del sistema; b) il carattere di norma generale sul regime delle nullità consumeristiche. Inoltre, c) anche interpretando tale norma come di chiusura, si giunge alla stessa conclusione: infatti, se dovesse ritenersi tale norma immediatamente integrabile dalle regole del codice civile sulla nullità, si cadrebbe in una antinomia: giacché mentre le regole specifiche sulla nullità nei contratti del consumatore sono declinate in senso protettivo, la norma generale e finale sarebbe formata in senso diverso (ed effettivamente inverso).
- a) L’art. 143, comma 1, si compone di due periodi. Nel primo è disposta la irrinunciabilità dei diritti attribuiti al consumatore dal codice; nel secondo si dispone che ogni pattuizione in contrasto con le disposizioni del codice è nulla. Nel primo periodo è fissato un precetto (irrinunciabilità dei diritti del consumatore); nel secondo è stabilita una sanzione (nullità delle pattuizione in violazione del codice). I due periodi sono chiaramente posti in nesso di consequenzialità: a un precetto segue una sanzione. Questa è l’estensione dello spazio, precettivo e sanzionatorio, ricoperto dalla disposizione. Letto nel complesso normativo di cui è parte, il periodo dedicato ai patti in violazione delle regole del codice ha pertanto a oggetto non tutte le clausole contrattuali che contrastano con le disposizioni del codice del consumo, ma esclusivamente i patti con cui si dispone dei diritti del consumatore stabiliti – perlomeno – nel codice.
Circa la natura della disposizione ne discende che, se con l’aggettivo ‘generale’ si intende designare l’intero spazio ricoperto dal diritto (anche soltanto codicistico) dei consumatori, la regola dell’art. 143, comma 1, a prescindere dalla sua collocazione ‘sistematica’, non può essere definita ‘norma generale’.
Circa la funzione della disposizione, ne discende ancora che essa – in quanto riferibile a uno specifico, per quanto vasto, ambito applicativo – non può definirsi ‘di chiusura’.
- b) Concentrando inoltre l’attenzione sull’art. 143, comma 1, secondo periodo, si può osservare che nel disporre la conseguenza della nullità, questo frammento normativo non precisa alcunché sulle regole interne della sanzione. Questa caratteristica strutturale si chiarisce prestando ancora attenzione all’oggetto di disciplina. Come pure si evince dalla rubrica dell’articolo, limitata alla «irrinunciabilità dei diritti», esso non è il regime della nullità ma la tipologia della sanzione per la violazione delle disposizioni codicistiche che stabiliscono diritti del consumatore[143]. Più precisamente, la tipologia della sanzione che colpisce gli atti con cui, prima o contestualmente alla stipulazione del contratto, si dispone dei diritti riconosciuti al consumatore[144]. Il frammento normativo in esame si limita a disporre che tale sanzione è la nullità.
Oggetto (irrinunciabilità dei diritti del consumatore e nullità dei patti di disposizione degli stessi) natura (di norma non generale) e funzione (di norma non di chiusura) dell’art. 143, comma 1, c. consumo escludono pertanto che tale disposizione, non dedicata al regime della nullità, possa essere richiamata per argomentare le regole costitutive di tale regime.
- c) A conferma delle conclusioni raggiunte va annotato che esse non sono escluse nemmeno dall’idea che l’art. 143, comma 1, assolva a una funzione di chiusura del sistema.
Infatti, se l’art. 143, comma 1, è norma di chiusura, essa deve necessariamente ripetere natura e funzione proprie delle nullità raccolte nel codice del consumo: nel senso della ‘protezione’ del consumatore. Tuttavia questa norma, a differenza dell’art. 36, non dichiara il carattere e la funzione della nullità in termini di ‘protezione’ del consumatore. Inoltre, a differenza di numerose altre regole del codice settoriale, non presuppone tali natura e funzione della nullità per mezzo di una regolamentazione (per quanto incompleta) in termini protettivi. L’intento dichiarato del legislatore è tuttavia di tutelare i diritti del consumatore attraverso la tecnica – pertanto generale – della nullità protettiva. Sarebbe dunque implausibile che proprio nella norma di ‘chiusura’ sulla nullità ne siano radicalmente contraddette natura e funzione.
L’antinomia in cui ci si imbatte considerando l’art. 143, comma 1, norma di chiusura direttamente integrabile in termini ‘non protettivi’ è tuttavia evitabile.
Non dovrebbe infatti sfuggire che nemmeno interpretando l’articolo in esame come norma di chiusura esso potrebbe costituire sede sistematicamente adatta per il dettaglio sul regime della nullità, che dovrebbe invece trovare espressione in altre regole, appositamente dedicate. Dunque non incoerentemente tale regola, stabilendo la nullità, tace su relativo regime.
In definitiva, se si valorizza la circostanza che l’art. 143, comma 1, nulla dice sulla natura e sul regime della nullità che dispone, dovrebbe concludersi che il problema delle regole non enunciate resta aperto. In particolare, per la stessa (centrale) collocazione dell’art. 143, comma 1, nel codice settoriale, dovrebbero sorgere gravi perplessità sulla possibilità che tale regime sia senz’altro integrato da norme contenute in un codice diverso (sia pure il codice civile)[145].
- vi) Impostazione del problema. Regole sulla nullità delle clausole abusive e loro applicabilità alla nullità per violazione di norme imperative. – Dietro queste annotazioni, i termini della questione si pongono con maggiore chiarezza, articolandosi nel modo che segue.
Nei contratti del consumatore le regole interne della nullità (oltre agli specifici profili in molti casi stabiliti: circa la relatività dell’azione, la rilevabilità di ufficio, la parziarietà necessaria) possono essere integrate da due regimi alternativi: da un lato le regole del codice civile contenute negli artt. 1419 e 1421; dall’altro le regole del codice del consumo nella articolazione compiutamente sviluppata dell’art. 36.
Infatti, a considerare il dato della codificazione del diritto dei consumi nel suo valore oggettivo, non può dubitarsi che la scelta tra i due regimi non possa essere aprioristicamente esercitata a favore del codice civile, ma deve essere adeguatamente argomentata[146].
Se si presta attenzione alle diverse ragioni ispiratrici del codice civile da un lato e del codice del consumo dall’altro, ci si avvede che il mancato riferimento, nelle disposizioni sulla nullità contenute nel codice settoriale, alle regole generali del codice civile è il naturale effetto della distanza che separa codice civile e codice del consumo.
Infatti, la trasposizione delle soluzioni accolte nell’uno potrebbero ampiamente frustrare le finalità perseguite nell’altro.
Pertanto, anziché svalutare il dato (rilevante sia sotto il profilo politico che culturale che tecnico) della codificazione settoriale per rivolgersi – come esorta la tradizione – al codice civile quale sede di regole ‘generali’, sembra metodologicamente appropriato affrontare il problema della disciplina della nullità nel codice del consumo con uno sguardo che si rivolga all’interno di quel codice.
Soltanto qualora dovesse riconoscersi che nel codice settoriale non è rinvenibile un regime generale della nullità, ossia una disciplina non solo compiuta ma anche argomentabile come valida in tutti i casi, sarebbe giustificato (e anche necessario) prestare attenzione alla soluzione accolta nel codice civile[147].
Su questa premessa, l’esame deve concentrarsi sull’art. 36, quale norma più completa sul regime della nullità protettiva rinvenibile nel codice del consumo. Qualora questa norma, inserita nel titolo dedicato ai contratti del consumatore «in generale», possa effettivamente ritenersi applicabile a tutte le ipotesi di nullità protettiva, resterebbe esclusa la possibilità della integrazione attraverso le regole degli artt. 1419 e 1421 c.c.
Tanto premesso, non può sfuggire che il vero ostacolo alla estensione del regime previsto dall’art. 36 c. consumo si evidenzia proprio concentrando l’attenzione sulle articolazioni della nullità nel codice di settore.
L’ostacolo è dato dallo specifico oggetto di disciplina che variamente cade in questione. Le regole della nullità protettiva sono contenute in disposizioni dedicate alla repressione delle clausole abusive. La nullità delle clausole abusive è in reazione alla deroga irragionevole al diritto dispositivo. Essa appare dunque del tutto diversa dalla nullità derivante dalla violazione di norme imperative, quali sono tutte le previsioni sparpagliate nel codice la cui violazione è sanzionata con la nullità. Sotto questo aspetto, il dubbio sollevato in dottrina sulla applicabilità in via generale delle regole dell’art. 36 c. consumo si ridefinisce alquanto, e può apprezzarsi nella effettiva portata.
Per fissare meglio i termini del problema, bisogna ricordare come la peculiare conformazione della nullità nei modi dell’art. 36 c. consumo abbia indotto la dottrina prevalente a condividere la tesi (non della nullità ma) della inefficacia. Quella conformazione della ormai testuale nullità, mentre si spiega bene con l’oggetto della sanzione, dato dalle clausole abusive, mal si concilia con la nullità derivante da violazione di norme imperative per come tradizionalmente concepita.
Come esposto nelle pagine precedenti, una clausola può giudicarsi abusiva solo in quanto non preventivamente assoggettata a trattativa: la nullità dipende, pertanto, dal coinvolgimento o meno del consumatore in sede precontrattuale; cosicché appare comprensibile che dipenda anche dalle scelte del consumatore in sede processuale[148]. Una clausola può inoltre considerarsi abusiva non semplicemente perché in deroga al diritto dispositivo, ma solo in quanto quella deroga determini un significativo squilibrio dei poteri contrattuali in contrasto con la buona fede e a vantaggio del predisponente. La nullità non è desumibile aprioristicamente, ma richiede il previo esame del regolamento contrattuale integralmente considerato. Da queste sintetiche considerazioni emerge chiaramente la peculiarità della nullità comminata per abusività della clausola.
Diversa conclusione impone la violazione di norme imperative (protettive[149]). In tale evenienza, la nullità discende dalla violazione della norma posta a tutela del consumatore e del mercato; ma la norma – proprio perché imperativa – resta sottratta alla disponibilità del consumatore, che non potrebbe in alcun modo condizionarne o escluderne la imperatività: per esempio, accedendo alla trattativa. In secondo luogo, il più delle volte la violazione della norma imperativa emerge dal semplice esame della clausola contrattuale che sia (che possa dirsi) in contrasto con quella norma imperativa, e non dipende in alcun modo dalla condotta precontrattuale e/o processuale del consumatore.
Ecco dunque definiti i termini del problema. La diversità della logica operativa riscontrabile tra nullità in reazione alla deroga abusiva al diritto dispositivo e nullità per violazione di norme imperative revoca in grave dubbio l’idea sulla estensione del regime della nullità protettiva per come posto nell’art. 36 c. consumo a tutte le ipotesi di nullità (testuale o virtuale). Potrebbe infatti sostenersi che, poiché l’art. 36 e le altre disposizioni del codice disciplinano casi diversi (deroga abusiva al diritto dispositivo; violazione di norme imperative) la diversità del rimedio (nullità protettiva; nullità codicistica) sia conseguenza della diversità della situazione alla quale reagisce: nel primo caso, deroga abusiva al diritto dispositivo, nel secondo, violazione di norme imperative. E che, dunque, non sia irragionevole – ma al contrario comprensibile anche ai sensi dell’art. 3 Cost. – che il legislatore tratti in maniera diversa situazioni tra loro diverse.
Questa la distanza che separa la regola della nullità protettiva, riferita alle clausole abusive, rispetto alla regola della nullità per violazione di norme imperative, testualmente comminata in numerose disposizioni del codice settoriale e ribadita nella regola dell’art. 143, comma 1, c. consumo.
vii) Svolgimento della tesi. Oggetto delle disposizioni dell’art. 36 c. consumo: deroga abusiva al diritto dispositivo e violazione di norme imperative. – L’ostacolo evidenziato appare superabile sia nell’ambito di un esame che privilegi l’oggetto delle disposizioni (deroga abusiva al diritto dispositivo, violazione di norme imperative) sia nell’ambito di un esame che privilegi il fondamento della tutela.
Circa l’oggetto delle disposizioni, vanno esaminate le clausole costituenti la c.d. ‘lista nera’ (art. 36, comma 2, lett. a, b e c, c. consumo). Esse sono qualificate nulle. Lo schema normativo è: ‘la clausola p è nulla’. Ovverosia: ‘la clausola p è vietata e dunque nulla’. Il che è dire: ‘è vietato inserire nel contratto la clausola p’.
La nullità non dipende in alcun modo dalla assenza di trattativa. Infatti, tali clausole sono dichiarate nulle ancorché abbiano costituito oggetto di trattativa (art. 36, comma 2, c. consumo). Dunque, la decisione precontrattuale del consumatore sul regolamento negoziale è ininfluente.
La nullità, inoltre, non dipende in alcun modo dall’indagine sulla esistenza di un significativo squilibrio contrattuale in contrasto con la buona fede: di tale indagine, necessaria all’accertamento sulla natura abusiva della clausola (cfr. art. 33, comma 1, c. consumo) non vi è traccia.
Coerentemente, tali clausole non sono nemmeno ‘presunte’ come abusive (diversamente da quanto accade per le fattispecie elencate nell’art. 33, comma 2, c. consumo). E, in effetti, le clausole della ‘lista nera’ non sono aggettivate come ‘abusive’ (a differenza di quanto accade per le previsioni dell’art. 33, commi 1 e 2, c. consumo) ma semplicemente come ‘nulle’ (invece, l’art. 36, comma 1, riferito alle clausole ‘presunte ’ abusive o comunque accertate tali, aggiunge a questa primaria configurazione la seconda, sulla nullità).
Ne discende che compito del giudice è di verificare la corrispondenza tra clausola del concreto contratto e clausola vietata e, in caso di esito positivo del giudizio, dichiarare la nullità.
Questa modalità di giudizio (sussunzione) è tipica del classico giudizio di illiceità per contrasto dell’atto (qui della clausola) con una norma imperativa. Dunque, la natura imperativa delle disposizioni dell’art. 36, comma 2, lett. a) b) e c) c. consumo appare difficilmente discutibile[150].
Poiché anche per quelle disposizioni valgono le regole della nullità indicate nello stesso art. 36, commi 1 e 3, può concludersi che tali regole abbiano generale validità: siano cioè valide non solo per i casi di nullità di clausole abusive ma anche per i casi di nullità derivanti da violazioni di norme imperative protettive sempre nei contratti tra professionista e consumatore
Per inciso, giova sottolineare che un importante riflesso di queste considerazioni è sulla attuale conformazione della nullità in quanto piegata a funzioni protettive. Questa funzione qualificante determina il superamento delle concezioni ricevute su struttura e funzionamento della nullità per violazione di norme imperative, di cui si è riferito nel corso del lavoro[151].
viii) (Segue) Fondamento della tutela dalle clausole abusive e dalla violazione di norme imperative. La ragione accomunante dell’ordine pubblico del mercato. – Se si indaga il fondamento della tutela apprestata al consumatore dalle clausole abusive e dalle clausole nulle per contrasto con norme imperative protettive, la tesi sulla portata generale dell’art. 36, commi 1 e 3 c. consumo si mostra ulteriormente fondata.
Nelle pagine precedenti ci si è diffusi sulla natura di ordine pubblico (del mercato) della tutela contro le clausole abusive e sulla contrarietà all’ordine pubblico (sempre del mercato) della deroga irragionevole al diritto dispositivo. Non appare necessario dilungarsi sulla eguale natura – di ordine pubblico del mercato – delle norme imperative poste a tutela contrattuale del consumatore.
Nell’evenienza delle clausole abusive, la libertà contrattuale non è aprioristicamente emarginata; infatti la deroga in cui si sostanzia la disponibilità del diritto dispositivo è lecita salvo il limite dell’abuso in concreto della libertà di contratto. Nel caso delle norme imperative a tutela del consumatore la ragione fondativa dell’ordine pubblico si manifesta con forza accentuata: infatti la libertà di contratto è sin dall’origine e incondizionatamente esclusa.
Dunque: il controllo della libertà contrattuale del professionista e la tutela di quella stessa libertà in capo al consumatore si realizzano secondo due meccanismi operativi tra loro diversi. Tuttavia, questa differenza non toglie che le importanti limitazioni alla libertà contrattuale nel diritto dei consumatori rispondano sempre a ragioni di ordine pubblico del mercato.
In entrambi i casi, le regole sulla nullità che colpisce la violazione contrattuale dei diritti attribuiti al consumatore assicurano la effettività della tutela rispetto all’interesse cui è rivolta. Si tratta dell’interesse del consumatore non – semplicemente – a non essere vincolato a un contratto squilibrato e dal quale la nullità consentirebbe di liberarsi, ma del più intenso interesse a conseguire la partecipazione a un contratto normativamente e, nei limiti dell’art. 34 c. consumo, economicamente riequilibrato. Poiché il consumatore è soggetto del mercato, il suo e il generale interesse concerne le condizioni dell’accesso al mercato. La funzione della nullità protettiva è di permettere l’accesso al mercato a condizioni equilibrate[152]. La struttura della nullità protettiva è congegnata per questa finalità. In tal senso, la sua ragione ordinante non si esaurisce nella tutela del consumatore nel contratto ma si espande fino a coinvolgere la tutela del consumatore nel mercato.
In questo ampio spazio di tutela, il controllo della libertà contrattuale del professionista avviene secondo due modalità convergenti nel fine: liceità della deroga al diritto dispositivo nei limiti della abusività; predisposizione di norme imperative che, imponendo obblighi positivi e negativi al professionista, rifediniscono alla radice lo spazio di azione della libertà contrattuale.
Sia la deroga abusiva al diritto dispositivo che la violazione di norme imperative contraddicono al superiore interesse della razionalità del mercato: sono dunque sanzionate con la nullità. Poiché l’affermazione di tale interesse non può disgiungersi dalla tutela dell’interesse del consumatore, tale nullità si conforma come di protezione di quest’ultimo interesse.
In un’ottica che privilegia l’esame della funzione delle discipline, non dovrebbero pertanto residuare dubbi sulla applicabilità delle regole poste dall’art. 36 c. consumo a tutti i casi di nullità contemplati nel codice del consumo dovute a violazione contrattuale di norme poste a tutela del consumatore.
- ix) (Segue) Conferma delle conclusioni raggiunte. Nullità di protezione nei contratti del consumatore tra codice del consumo, leggi speciali e codice civile. – In punto di rapporti tra disciplina generale e regimi protettivi speciali nell’ambito dei contratti del consumatore è stato sostenuto che qualora la norma imperativa posta a pena di nullità abbia a oggetto una clausola per altro verso considerata abusiva, il giudizio di abusività deve ritenersi precluso, essendo la disposizione generale (e meno protettiva) superata, nel caso specifico, da una disposizione speciale (e maggiormente protettiva): non potendosi ammettere, infatti, il giudizio di abusività su una norma imperativa[153].
Lo stesso vale per il rapporto intercorrente tra regime consumeristico e disciplina generale del contratto: se una clausola è oggetto di divieto imperativo in quest’ultima, poiché il giudizio di abusività deve ritenersi logicamente precluso, la clausola deve essere considerata senz’altro nulla[154].
Lo stesso, va aggiunto, è a dirsi per il caso che la norma imperativa protettiva sia rinvenibile in una disciplina non espressamente deputata alla tutela del consumatore (es., contratti bancari e finanziari)[155].
Le disposizioni del nuovo art. 1469 bis c.c., secondo cui le regole sui contratti in generale si applicano ai contratti del consumatore, ove non derogate dal codice di consumo o da altre disposizioni più favorevoli per il consumatore, e dell’art. 38 c. consumo, a tenore del quale per quanto non previsto dal codice, ai contratti conclusi tra il consumatore e il professionista si applicano le disposizioni del codice civile, sancendo la prevalenza del regime maggiormente protettivo per il consumatore, da un lato confermano queste osservazioni e dall’altro impongono una precisazione.
Infatti, una grave falla nel sistema di tutela si produrrebbe egualmente se la prevalenza, in questi casi, sul regime consumeristico generale del regime consumeristico speciale o del diverso regime protettivo o delle regole comuni sui contratti si estendesse fino a consentire la disapplicazione delle regole sulla nullità protettiva: previste, appunto, nel regime consumeristico generale[156].
Nel coordinare l’applicazione dei due regimi codicistici (generale e settoriale) gli artt. 1469 bis c.c. e 38 c. consumo sottolineano nondimeno la separatezza tra i due sistemi di regole, la quale è dovuta alla diversità sostanziale delle ragioni ispiratrici.
Sembra dunque ulteriormente confermato che il codice del consumo, proprio in quanto codice (ancorché settoriale) deve essere assunto come tendenzialmente completo con riguardo alla specificità delle materie che disciplina (contratti tra professionista e consumatore: regolati o meno in quel codice)[157].
Ne consegue che il ricorso alle regole del codice civile presuppone – metodologicamente – l’insuccesso della preventiva ricerca delle regole necessarie all’interno del codice di consumo[158].
In particolare, poiché la protezione del consumatore attraverso l’eliminazione delle asimmetrie di potere costituisce la ragione unificante del codice del consumo, e poiché l’obbiettivo del riequilibrio è perseguito con la tecnica della nullità protettiva, diviene metodologicamente discutibile operare una integrazione delle regole della nullità protettiva con le disposizioni del codice civile (e dunque con gli artt. 1419, comma 1 e 1421) che confliggono apertamente con essa.
Alle stesse conclusioni si può agevolmente giungere con riguardo alla tutela del consumatore in regimi protettivi predisposti per settori della contrattazione a tutela di soggetti deboli anche non consumatori (valga ancora l’esempio dei contratti bancari e finanziari). Ogni regime protettivo della parte debole risponde ai principi di ordine pubblico del mercato che pure informano il codice del consumo, e perseguono gli stessi obbiettivi. I regimi protettivi della parte debole si collocano in una zona intermedia di tutela, chiusa da un lato dall’area occupata dal codice del consumo e dall’altro dall’area ricoperta dal codice civile. Nondimeno, quando nel contratto sia coinvolto un consumatore, il singolo regime protettivo – eccettuati i casi di deroga espressa – subirà l’attrazione del sistema disciplinare affine nella ragione fondativa: il codice del consumo[159].
In conclusione, è confermata la tesi che la disciplina della nullità nei contratti del consumatore sia articolata nell’art. 36 c. consumo, collocato nel titolo dedicato ai contratti del consumatore in generale e mai espressamente derogata nelle specifiche disposizioni dedicate alla nullità nei titoli successivi. Nei contratti tra professionista e consumatore (regolati dentro o fuori il codice) quelle regole devono ritenersi sempre e integralmente applicabili. La disciplina degli art. 1419 e 1421 c.c. non svolge nessun ruolo[160].
III.3. Nullità di protezione nella contrattazione diseguale tra imprese. Problematicità di una ricostruzione razionale. – Se si riflette che la figura del consumatore emblematizza, nella legislazione nuova, il concetto di ‘parte debole’ del contratto; se si considera che, anche nei contratti del consumatore, la ‘parte forte’ è sempre una impresa; se si conviene che la logica binaria presente in tutti i recenti prodotti normativi (sempre relativi ai contratti d’impresa) è quella che distingue tra ‘parte forte’ da un lato e ‘parte debole’ dall’altro, risulta anche evidente la unitarietà di fondo della ragione delle tutele disorganicamente affermatesi nei vari regimi in tema di contrattazione diseguale d’impresa e l’identità di questa ragione con quella che fonda le regole sulla nullità protettiva nei contratti del consumatore. In entrambi i casi essa è rinvenibile nell’affermazione dell’ordine pubblico del mercato attraverso la tutela della posizione contrattuale della parte ‘debole’.
Nell’ottica che privilegia la funzione ci si attenderebbe che, qualora l’abuso della libertà contrattuale sia sanzionato in tali diversi contesti con la nullità, il regime protettivo si articoli secondo le caratteristiche fissate per la nullità/illiceità delle clausole abusive nei contratti del consumatore[161].
Giova infatti ribadire che le rilevanti differenze tra regime della nullità/illiceità nei contratti del consumatore e nei contratti asimmetrici d’impresa si esauriscono – per quanto concerne il tema della sanzione – nelle modalità, in questi ultimi più complesse, dell’accertamento in concreto dell’abuso della libertà contrattuale e della causa di nullità. Una volta appurati abuso e nullità, ci si attenderebbe che le conseguenze di trattamento siano le stesse[162].
Nella stratificazione dei regimi protettivi del contraente debole si mostra limpidamente una tendenza verso la modulazione delle regole rimediali nel senso della nullità anch’essa (coerentemente con le premesse) protettiva. Questa tendenza è ancora più significativa in quanto affermata non in disposizioni particolari, ma nelle regole generali di rilevanti settori contrattuali[163].
La razionalità del mercato e la dipendente razionalità del contratto, entrambi valori di ordine pubblico, inducono a pensare che nel contesto della contrattazione diseguale la nullità/illiceità dovrebbe avere sempre le caratteristiche specificate nell’art. 36 commi 1 e 3 c. consumo. La ragione di ordine pubblico di protezione e l’appartenenza di queste discipline incomplete all’ambito della contrattazione diseguale dovrebbero determinare una cesura tra di esse e il regime codicistico della nullità.
Del resto, per tradizione l’illiceità ha sempre qualificato il regime della nullità: calibrandolo, negli effetti prodotti, all’interesse superiore protetto. Nella contrattazione eguale il risultato di questo adattamento è nel senso di una marcata inefficacia, affinché l’interesse divisato sia paralizzato nella sua forza di contrapposizione all’ordine di sistema. Nella contrattazione diseguale, trattandosi di tutelare l’interesse generale per mezzo della tutela – anche – dell’interesse della parte debole, la conformazione del regime della nullità volge costantemente (ancorché confusamente) nella direzione di una recuperata efficacia unidirezionale: a vantaggio della parte debole; e dunque della giustizia del contratto; e quindi dell’efficienza del mercato.
Sull’abbrivio di queste suggestioni, a prescindere dalla specifica scrittura legale di ogni regime protettivo e dalla possibilità di applicazione analogica di frammenti normativi dall’uno all’altro, potrebbe avanzarsi l’idea della applicabilità in ogni caso delle regole generali della nullità/illiceità protettiva, compiutamente trascritte nell’art. 36 commi 1 e 3 c. consumo. Tale applicazione sarebbe in funzione chiarificatrice (piuttosto che integrativa) della regola insufficiente(mente) codificata[164].
Non bisogna tuttavia sottacere che un tentativo di ricostruire in senso integrativo discipline (non completamente, e tuttavia parzialmente) carenti rispetto al complesso regime predisposto nell’art. 36 c. consumo incontrerebbe difficoltà difficilmente sormontabili.
Si tratterebbe infatti di implementare attraverso regole tratte dal codice del consumo discipline estranee alla tutela del consumatore, e tra loro alquanto distanti[165], le quali costituiscono – per di più – profili di diritto positivo immediatamente integrabile dalle regole generali degli artt. 1418 ss. c.c.
Qualora si verificasse – come peraltro è facile prevedere – la introduzione di nuovi regimi protettivi in cui la nullità sia piegata a quelle finalità, oppure una riscrittura razionalizzante di regimi esistenti (come si è tentato di fare con il codice del consumo) i profili del diritto dei contratti diseguali tra imprese sarebbero più nettamente disegnati. Questo diritto raggiungerebbe inoltre una sufficiente ‘massa critica’ e potrebbe separarsi con maggiore persuasività dal diritto codicistico. Sarebbe allora più agevolmente sostenibile che le regole dell’art. 36 c. consumo – benché codificate nell’ambito dei contratti del consumatore – definiscano in realtà lo statuto della illiceità nell’intero contesto della contrattazione diseguale, e siano di generale applicazione.
III.4. Nullità virtuali di protezione. Nullità virtuale e scopo di protezione.- La ricostruzione finora tentata potrebbe essere ridimensionata da un dubbio essenziale che occorre pertanto affrontare e sciogliere: se sia effettivamente argomentabile la sussistenza di nullità di protezione non testuali ma virtuali.
Qualora infatti si dovesse ammettere che la nullità protettiva non possa essere configurata quale conseguenza del giudizio di nullità virtuale, l’ampio mondo delle norme imperative imperfette resterebbe escluso dai vantaggi promessi dalla peculiare disciplina della nullità di protezione. La ricostruzione della illiceità nell’ambito della contrattazione diseguale accuserebbe una disarmonia; ipotesi quali quella della nullità/illegalità da disvalore riacquisterebbero plausibilità per lo meno sotto il profilo della opportunità con riguardo agli interessi che esigono tutela; gli obbiettivi avuti di mira dalle leggi sulla contrattazione diseguale sarebbero in parte falliti (giacché, come pure è emerso nel corso di questo lavoro, l’evenienza della norma imperativa imperfetta a tutela della parte debole del contratto è tutt’altro che rara).
In dottrina non si rinvengono studi articolati sul punto; nondimeno si registrano posizioni sia favorevoli sia sfavorevoli alla ammissibilità di nullità protettive virtuali[166].
Una difficoltà potrebbe rinvenirsi nella conformazione legale di un requisito normativo caratterizzante: la relatività della legittimazione all’azione[167]. Tale legittimazione relativa è ammessa dall’art. 1421 c.c. nei soli casi previsti dalla legge. Il che potrebbe indurre l’idea della necessità di una previsione espressa e di conseguenza della inammissibilità di una ricostruzione argomentativa delle ipotesi di nullità virtuale in termini protettivi.
Potrebbe nondimeno sostenersi che la «diversa disposizione di legge» di cui discorre l’art. 1421 c.c. possa intendersi in senso meno costrittivo, così da leggerlo come se autorizzasse la ricerca di una diversa disposizione non necessariamente esplicita, ma anche implicita. Prescegliendo tale opzione, tuttavia, si valorizzerebbe lo scopo della norma violata (per indagarne la natura protettiva ed inferire, di conseguenza, la legittimazione relativa all’azione di nullità) con la rilevante implicazione dell’amplissima discrezionalità che dovrebbe a tal punto riconoscersi all’interprete: che prima accerta la nullità indagando lo scopo della norma imperativa imperfetta violata nel contratto, e poi si convince della natura protettiva di tale norma, e della identica natura protettiva della nullità che reagisce alla sua violazione.
Con riguardo ai contratti del consumatore, la difficoltà è agevolmente superabile. In tale settore, lo statuto della nullità è compiutamente articolato nell’art. 36 c. consumo: in una disposizione che ripete un carattere di generalità in tutto l’ambito contrattuale che coinvolge e che per di più si pone in alternativa all’art. 1421 c.c.
Ne discende che il problema della nullità virtuale nei contratti tra professionista e consumatore non potrebbe mai essere risolto, quanto ai profili di disciplina, con il ricorso alle regole codicistiche sulla nullità, ostandovi appunto la previsione generale dell’art. 36 c. consumo. La discrezionalità dell’interprete si esaurirebbe nel processo di individuazione della fattispecie di nullità virtuale. Infatti tale nullità, ove rinvenuta, atteso il settore rilevante avrebbe carattere protettivo e sarebbe caratterizzata dai tratti disciplinari testualmente previsti nell’art. 36 c. consumo.
La difficoltà si mostra invece più difficilmente superabile con riguardo ai contratti diseguali d’impresa. Nella frastagliata e disorganica disciplina che li interessa non è rinvenibile una norma generale equiparabile all’art. 36 c. consumo. Dovrebbe pertanto convenirsi sulla estensibilità dello spettro applicativo di questa disposizione fino a coprire anche i contratti diseguali d’impresa (con le difficoltà accennate nel § precedente).
Preme comunque di osservare che il dubbio che la natura protettiva della nullità non possa essere adeguatamente dedotto dalla natura dell’interesse protetto dalla norma rispetto alla violazione della quale si pone come conseguenza non si mostrerebbe persuasivo.
L’indagine sulla natura protettiva della norma violata è implicita in ogni questione in materia di contrattazione diseguale, e non soltanto nelle ipotesi in cui ci si interroghi sulla sanzione. Talvolta questa indagine appare risolta dal legislatore, che detta la disciplina che cade in esame all’insegna della tutela di un soggetto ritenuto debole: così si verifica nei contratti del consumatore (dove il lavoro dell’interprete sulla chiarificazione del regime protettivo permane in qualche misura, e si rinviene nella indagine da effettuarsi sui ruoli ricoperti dai contraenti). Talaltra lo spazio interpretativo è notevolmente ampliato: così nei contratti tra imprese, dove si indaghi la diseguaglianza che segna il rapporto tra le parti. L’ampliamento dell’orizzonte interpretativo non è tuttavia così esteso come potrebbe sembrare. La contrattazione diseguale d’impresa rileva infatti nelle sole fattispecie disciplinate (abuso della propria posizione dominante e dell’altrui dipendenza economica sopra tutte) ed è puntualmente contrassegnata da una serie di indici volti a stabilire il contesto abusivo in cui la contrattazione avviene. Il lavoro dell’interprete, allo stesso modo che nei contratti del consumatore, deve indirizzarsi a rinvenire nel caso concreto gli estremi del contesto abusivo disciplinati in astratto e il fatto storico dell’abuso della libertà contrattuale consumato all’interno di tale contesto rilevante.
In via generale, va ribadito che l’indagine sulla illiceità ha natura non strutturale ma funzionale; la verifica sulla natura degli interessi coinvolti nel contratto non è eludibile e connota lo statuto normativo della illiceità contrattuale: tanto nella contrattazione eguale (come eloquentemente mostra l’art. 1343 c.c. e il richiamo alle clausole generali in esso contenuto) tanto nella contrattazione diseguale.
Non sembra pertanto che l’individuazione della natura protettiva della nullità inespressa, desunta dalla natura protettiva della norma imperativa violata, segni di empirismo l’indagine: contrassegnandone, all’opposto, il profilo sulla funzione illecita dell’atto.
[1] Cfr. E. Cimbali, La nuova fase del diritto civile nei rapporti economici e sociali, Torino, 19074, p. 3 ss.
[2] Che si rivelano non diversi modi di ‘essere’ dell’ordine pubblico (dal punto di vista ontologico) ma più modestamente diversi modi di operare, con riguardo agli specifici ambiti di incidenza (secondo un punto di vista funzionale). L’ordine pubblico conserva e custodisce i valori ritenuti non negoziabili (dal legislatore, e anche dalla elaborazione culturale del diritto) nei più diversi ambiti; di conseguenza, le varie modalità operative che si possono annoverare nell’esperienza si presentano ontologicamente identiche: sfaccettature distinte ma tutte costitutive del complesso prisma dell’ordine pubblico.
[3] G. Oppo, Impresa e mercato, in Riv. dir. civ., 2001, I, p. 430.
[4] Non a caso studi recenti sull’illiceità (peraltro sulla scia di contributi più risalenti, tra i quali spicca il lavoro di G.B. Ferri, Ordine pubblico, cit.) sono incentrati sull’ordine pubblico: cfr., in questo senso, L. Lonardo, Ordine pubblico, cit.; A. Federico, Illiceità contrattuale, cit.; Id., L’ordine pubblico economico, cit.; G. D’Amico, Ordine pubblico, cit.
[5] Nei quali il richiamo alla categoria del contratto illecito è alquanto rara. Valga per tutti l’esempio dato dalla elaborazione dottrinale sulla ‘inefficacia’ delle clausole abusive, inizialmente disposta dall’art. 1469 quinquies, comma 1, c.c. Come può constatarsi nella sezione II di questo capitolo, la maggioranza della dottrina ha sostenuto, a riguardo, la tesi della inefficacia in senso stretto delle clausole abusive; una opinione minoritaria la nullità semplice; soltanto un numero ristrettissimo di autori si è pronunciato nel senso della nullità/illiceità.
[6] Scrisse M. Weber, Economia e società, cit., p. 23: «il crescere dell’importanza del contratto di diritto privato in generale rappresenta il riflesso giuridico della comunità di mercato». Osservazione preliminare è che «In un ordinamento giuridico preminente rispetto all’autonomia privata quest’ultima non può esistere allo stato puro, essa è soltanto come l’ordinamento la conforma ed essenzialmente intrinseca al mercato, dal quale perciò non può essere distinta» (C. Castronovo, Autonomia privata e costituzione europea, in Europa dir. priv., 2005, I, p. 49, nota 39); in efetti, come contestare che «se il mercato è sede naturale di qualcosa, è sede naturale di un – come direbbero gli anglosassoni – vastissimo bargaining, cioè di una contrattazione continua» (G. Rossi, Diritto e mercato, in Riv. soc., 1998, 14). Sulla scorta di tale consapevolezza, è stato affermato che «può identificarsi nel contratto il punto di incidenza e coincidenza della disciplina giuridica vuoi dell’impresa, vuoi del mercato: il collegamento dei dati economici avviene con la mediazione giuridica del contratto» (G. Oppo, Impresa e mercato, cit., p. 423); si è precisato che «il contratto è libero se è adeguato alle regole della concorrenza» (R. Sacco, in R. Sacco, G. De Nova, Contratto, I, p. 612); constatando inoltre che «La normativa non si esprime più come regola del contratto (e dei suoi tipi) ma semmai come disciplina dei soggetti che operano sul mercato» (N. Lipari, Diritto e mercato della concorrenza, in Riv. dir. comm., 2000, I, p. 325); e che «disciplina della concorrenza e tutela dei consumatori sono profili costitutivi del mercato» (N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 58); per riconoscere che «il contratto è un’istituzione essenziale in un mercato efficiente» (U. Mattei, Il nuovo diritto europeo dei contratti, tra efficienza ed eguaglianza. Regole dispositive, inderogabili e coercitive, in Riv. crit. dir. priv., 1999, p. 611); in quanto, e più in generale, «ogni contratto è un fatto inserito nell’economia generale della nazione» (G. Vettori, Contratto e concorrenza, cit. p. 797). Sui nessi tra contratto e mercato cfr., ancora, G. Guizzi, Mercato concorrenziale, cit, p. 67 ss.; G. Bellantuono, I contratti incompleti nel diritto e nell’economia, Padova, 2000, p. 66 ss.; M.R. Maugeri, Abuso di dipendenza economica e autonomia privata, Milano, 2003, p. 172 ss.; P. Sirena, L’integrazione del diritto dei consumatori nella disciplina del contratto, in Riv. dir. civ., 2004, I, p. 805 ss.; E. Navarretta, Buona fede oggettiva, contratti d’impresa e diritto europeo, ivi, 2005, I, p. 516 ss.; v. inoltre i saggi raccolti in Aa.Vv., Il diritto europeo dei contratti d’impresa, cit.; Aa.Vv., Contratto e mercato, a cura di A. Azzaro, Torino, 2004. Tra gli ultimi interventi, cfr. G. Oppo, Categorie contrattuali e statuti del rapporto obbligatorio, in Riv. dir. civ., 2006, Atti del convegno per il cinquantenario della Rivista, cit., p. 46 ss.; V. Buonocore, Contratto e mercato, in Giur. comm., 2007; I, 379; E. Gabrielli, Contratto, mercato e procedure concorsuali, cit.; infine, i contributi in A.a.V.v., Contratto e antitrust, cit.; A.a.V.v., Il terzo contratto, cit.
[7] Cfr. le osservazioni di P. Perlingieri, Nuovi profili del contratto, cit., p. 419 ss.
[8] Precorritrici le pagine di G.B. Ferri, Ordine pubblico, cit., p. 241 s. A tal proposito, è degno di nota che nonostante il dibattito, fino a ieri accesissimo, sulla tutela costituzionale del mercato concorrenziale, dopo la riforma introdotta con l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, il nuovo art. 117 Cost., comma 1, lett. c) riservando alla competenza statale, tra l’altro, la tutela della concorrenza, pertanto elevata a materia di rilievo costituzionale, alimenta l’idea che quella tutela sia divenuta «attività costituzionalmente doverosa per lo Stato» (M. Libertini, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, in Riv. dir. comm., 2002, I, p. 441). Sul dibattito, cfr., per es., le diverse posizioni assunte da N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 18 ss. e da M. Libertini, Caratteristiche della normativa antitrust e sistema giuridico italiano. Un bilancio dei primi dieci anni di applicazione della legge 287, in Riv. dir. comm., 2000, I, p. 493 ss.; Id., Le riforme del diritto dell’economia: regolazione e concorrenza, in Giorn. dir. amm., 2002, p. 802 ss.; Id., La tutela della concorrenza nella Costituzione italiana, in Giur. cost., 2005, p. 1429 ss. Cfr., inoltre, G.M. Berruti, La concorrenza sleale nel mercato, Milano, 2002, p. 4 s.; B. Sordi, Ordine e disordine giuridico del mercato (in margine ad alcuni scritti di Tullio Ascarelli) in Aa.Vv., Ordo iuris, Milano, 2003, p. 319 ss.; infine, le sintetiche annotazioni di G. olivieri, Interpretazione del contratto e tutela della concorrenza, in A.a.V.v., Contratto e antitrust, cit., p. 75 ss.
[9] N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 48 s.
[10] La locuzione ‘contratti d’impresa’ è qui adoperata in senso lato e descrittivo, a indicare pertanto la relazione contrattuale in cui sia coinvolta una ‘impresa’ (nel senso allargato, proprio del diritto comunitario, di contraente ‘professionale’). Non si affronta pertanto il complesso problema – estraneo a queste pagine – sulla prospettabilità di una categoria contrattuale riferibile all’impresa (sul che cfr., anche per la letteratura di riferimento, F. Di Marzio, Contratti d’impresa, cit., p. 313 ss.).
[11] Indubbiamente, «non è possibile distinguere una economia di produzione da una economia di consumo» (T. Ascarelli, Corso di diritto commerciale, cit., p. 80). Contratti tra consumatori non vi sono, non potendosi scambiare beni e denaro per reciproco scopo di ‘consumo’: infatti, quello scopo rileva – economicamente e giuridicamente – esclusivamente nel mercato dei beni seriali determinato dall’attività di impresa.
[12] Residuano eccezioni: la fondamentale si apprezza in alcune fattispecie di contratto in violazione della legge penale, come quelle della circonvenzione e quella dell’usura non consumata in contratti d’impresa, di cui si è trattato nel capitolo precedente.
[13] Così A. Federico, L’ordine pubblico economico, cit., p. 85, a cui il rinvio per i numerosi riferimenti di letteratura.
[14] Sull’acceso dibattito svoltosi in quegli anni cruciali in materia di autonomia privata cfr. la suggestiva ricostruzione critica di F. macario, L’autonomia privata, in Aa.V.v., Gli anni Settanta del diritto privato, a cura di L. Nivarra, Milano, 2008, p. 126 ss. In particolare, e per quanto più da vicino riguarda l’oggetto di queste pagine, preme ricordare come sotto l’ombrello dell’ordine pubblico economico si pretendesse di introdurre penetranti criteri di controllo sull’esercizio della libertà di iniziativa economica e contrattuale. Tali criteri erano elaborati e proposti da prospettive sulla organizzazione dello spazio pubblico inconciliabili e accomunate soltanto dall’intento di comprimere significativamente l’esercizio della libertà economica e di contratto. Si fece così riferimento, dagli autori di ispirazione liberista, alla produttività e all’efficienza economica dell’impresa (giungendo a rinvenire i contenuti dell’ordine pubblico economico nelle regole della deontologia manageriale) con la proposta di ritenere invalidi, per contrasto con l’ordine pubblico economico, i contratti che non assecondassero gli obbiettivi della produttività e dell’efficienza. Tutto all’opposto, gli autori di formazione cattolica e gli autori di formazione marxista si richiamarono, i primi, all’idea di ‘bene comune’ di matrice cristiana, i secondi, ai valori della società socialista (da affermarsi attraverso un uso ‘alternativo’ del diritto positivo, piegato alle esigenze di un ‘diritto naturale proletario’); con proposte come quella di ritenere invalidi per contrasto con l’ordine pubblico economico i contratti che contrastassero l’occupazione operaia: cfr. il resoconto di A. Guarneri, L’ordine pubblico, cit., p. 132 ss.
La reazione a un simile stato di cose non mancò di manifestarsi da parte dei giuristi di cultura liberale, e si tradusse in istanze sulla rivalutazione del ruolo della legge quale unica fonte sicura di un diritto democratico. Per naturale effetto, clausole generali quali l’ordine pubblico economico subirono un processo di svalutazione. La critica all’interventismo giudiziario si spinse a volte nella contestazione radicale dei poteri discrezionali del giudice: giungendo anche a esiti riecheggianti alcune concettualizzazioni del formalismo dogmatico tradizionale (cfr. ancora il resoconto di A. Guarneri, L’ordine pubblico, cit., p. 137 ss.). In quel contesto l’esigenza della razionalizzazione della legge, benché fosse di già urgente, non era tuttavia ancora chiaramente percepibile dall’interprete il quale, se non tendeva all’eversione del sistema, nello sforzo di contrastare quella spinta non poteva che riporre la sua fiducia nella legge scritta come espressione della volontà popolare democraticamente manifestata (tra i tanti, v. il contributo di G.B. Ferri, Antiformalismo, democrazia, codice civile, in Riv. dir. comm., 1968, I, spec. p. 377 s.) desistendo dall’intervenire nelle difficili materie in cui si manifestava il diritto delle leggi speciali, frutto di precise opzioni politiche altamente opinabili e da lasciarsi alla parola determinativa della legge (cfr. la posizione di L. Mengoni, Forma giuridica e materia economica, in Studi Asquini, II, Padova, 1965, p. 1089).
Attualmente, la fiducia nella legge può dirsi definitivamente tradita dalla legge stessa, incapace di un indirizzo sufficientemente univoco delle condotte; d’altro canto, il diritto di matrice comunitaria pur nella frammentazione degli interventi esprime una logica unitaria, volta alla costruzione sempre più precisa del mercato europeo. L’esigenza della razionalizzazione è evidente; la scelta politica effettuata dal legislatore induce ad abbandonare prudenze non più attuali (le quali apparirebbero anche anacronistiche, data la crisi della dogmatica formalistica).
[15] Cfr. G.B. Ferri, L’ordine pubblico economico (a proposito di una recente pubblicazione) in Riv. dir. comm., 1963, I, (citazione a p. 346).
[16] Cfr., in generale, N. Irti, Diritto europeo e tecno-economia, in Riv. dir. civ., 2006, I, p. 2, il quale, ribadendo la concezione del mercato come luogo artificiale, (im)posto dalla scelta politica e formalizzato dalla norma giuridica, osserva: «qualsiasi mercato, appunto per essere mercato ha già in sé – e non potrebbe non avere – valori e diritti».
[17] Sul nesso oggi condiviso tra tutela del contraente debole e tutela del mercato cfr. la pagina sempre attuale di T. Ascarelli, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1954, p. 673 ss.. Il legislatore della disciplina antitrust dimostra eguale consapevolezza (cfr., per es., l’art. 3, lett. b) della l. n. 287 del 1990, secondo cui costituisce abuso di posizione dominante l’ostacolo alla produzione o all’accesso al mercato o allo sviluppo tecnico o al progresso tecnologico a danno dei consumatori). Il legame tra tutela del consumatore e tutela del mercato apparve subito chiaro ai primi commentatori delle nuove regole sui contratti tra professionista e consumatore. Cfr., esemplificativamente, F.D. Busnelli, Una possibile traccia per una analisi sistematica delle clausole abusive, in Nuove leggi civ. comm. 1997, p. 766; G. Iudica, Clausole abusive e razionalità del mercato, ivi, p. 777; F. Bocchini, Tutela del consumatore e mercato, ivi, p. 784. Nella letteratura che è seguita cfr. F. Macario, I diritti oltre la legge, Principi e regole nel nuovo diritto dei contratti, in Scritti Rescigno, III, 2, Milano, 1998, p. 489. Nella giurisprudenza si segnala Cass. sez. un. 4 febbraio 2005, n. 2207, in Foro it., 2005, I, c. 1014 (seguita da Cass. 26 agosto 2005, n. 17398) la quale, riconoscendo al consumatore la legittimazione all’azione davanti al giudice ordinario ai sensi dell’art. 33, comma 2, l. n. 287/1990, dichiara: «la legge antitrust non è legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque vi abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere. […] Il consumatore, che è l’acquirente finale del prodotto offerto al mercato, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene. Pertanto la funzione illecita di un’intesa si realizza per l’appunto con la costituzione del suo diritto di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una scelta apparente». Dedica particolare attenzione al nesso tra tutela contrattuale del consumatore e mercato A.M. Azzaro, I contratti non negoziati, Napoli, 2000, spec. p. 112 ss.; Id., Abusi nell’attività economica e tecniche di tutela del contraente debole, in Aa.Vv., Contratto e mercato, cit., p. 11 ss.
[18] La considerazione unitaria di contratto e mercato e della tutela del contratto quale relazione di mercato consente di comprendere i rapporti che corrono tra legislazione di matrice comunitaria da un lato e diritto comune europeo (costituito dalle varie proposte colte di codificazione: sopra tutte, i Principles elaborati dalla ‘Commissione Lando’) dall’altro: l’uno costruito imperativamente in protezione del consumatore, l’altro edificato nell’ambizione di una ricomposizione generale della figura contrattuale. Leggendo le discipline del contratto nella preoccupazione della tutela del mercato, il diritto comunitario e il diritto comune si mostrano, piuttosto che come opzioni alternative, quali fasi in successione della edificazione del diritto contrattuale diseguale. Testimoniano, questi interventi, del processo di stratificazione delle soluzioni normative e delle proposte di intervento all’insegna di una soddisfacente tutela della libertà contrattuale della parte debole: non già di per se stessa ma per l’affermazione, concorrente, della razionalità del mercato. Da questo punto di vista, le dispute in atto sulla matrice liberista o solidaristica del diritto comunitario dei contratti se confrontato con il diritto comune europeo dei contratti (cfr. le opposte valutazioni di U. Mattei, Il nuovo diritto europeo dei contratti, cit., p. 611 ss., 621 ss., secondo cui il diritto comunitario sarebbe ispirato alla tutela della parte debole, mentre il diritto comune alla logica mercantile, e di A. Somma, Temi e problemi di diritto comparato, IV, Diritto comunitario vs. diritto comune europeo, Torino, 2003, p. 7 ss., secondo cui proprio il diritto comunitario sarebbe frutto della logica mercantile, in quanto la tutela del consumatore è strumentale alla tutela della concorrenza) si sciolgono nella considerazione che, al di là di ogni apparente contrasto, questi diritti sono entrambi finalizzati alla razionalità del contratto per la razionalità dei rapporti di mercato. Cfr., sul punto, anche le osservazioni di V. Roppo, Sul diritto europeo dei contratti: per un approccio costruttivamente critico, in Europa e dir. priv., 2004, p. 439 ss. e di P.G. Monateri, I contratti di impresa, cit., p. 489 ss.
[19] A. Federico, L’ordine pubblico economico, cit., p. 65.
[20] A. Federico, L’ordine pubblico economico, cit., p. 66.
[21] A. Guarneri, L’ordine pubblico, cit., p. 19.
[22] L’ultimo aspetto va adeguatamente soppesato. L’ordine pubblico quale limite all’autonomia privata era formula scarsamente compatibile con la struttura dei sistemi capitalistici tradizionali ispirati alla vecchia ideologica liberale di tutela assoluta dell’individuo economico dalle ingerenze dello Stato: perciò il legislatore tedesco non contemplò la clausola nel BGB (cfr. P. Rescigno, «In pari causa turpitudinis…», cit., p. 193). La classica visione all’epoca invalsa, raccolta nel diritto delle pandette e classificabile ‘teoria formale del diritto’, che concepisce la scienza giuridica chiusa in se stessa (e perciò ‘pura’) e come tale «mirabilmente idonea» (P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico. 1860-1950, Milano, 2000, p. 8, nota 12) al calcolo economico eseguito in uno spazio di mercato volutamente ignorato dalla legge (cfr. M. Weber, Economia e società, cit., p. 189), non doveva preoccuparsi del carattere essenziale della concorrenzialità: che costituisce invece il metro attuale della razionalità del mercato. Appare invece evidente che il diritto sistematizzato dalla Pandettistica, nella sua apparente maggiore razionalità rispetto al diritto diseguale delle tutele differenziate, nel contesto attuale sprigionerebbe un forte potenziale di irrazionalità perché – non limitando l’ordine del contratto così da assicurare la concorrenzialità del mercato e non rimediando alla prepotenza stipulativi – comprometterebbe quella razionalità irreparabilmente.
[23] M. Weber, Economia e società, cit., p. 19.
[24] Nella filosofia della politica cfr. le osservazioni generali di S. Veca, La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull’idea di giustizia, Milano, 2002, p. 19.
In queste pagine, ovviamente, il concetto di mercato è inteso in senso ampio e lato, a designare lo spazio della relazione economica a prescindere dalla partecipazione, in quella relazione, di un soggetto imprenditoriale. Infatti, il problema dei confini esterni del mercato non si pone diversamente per lo scambio d’impresa e per lo scambio civile (né è condizionato dalle regole concorrenziali): si tratta pur sempre di decidere se ammettere allo scambio ciò che finora si giudicava escluso, o invece di negare l’ingresso.
[25] L’espressione ‘ordine pubblico oltre il mercato’ copre uno spazio tradizionalmente riservato al buon costume. La scelta tra la formula tradizionale del ‘buon costume’ o quella dell’‘ordine pubblico oltre il mercato’ potrebbe apparire semplicemente nominalistica. Tuttavia, in contesti di estrema disputabilità della decisione etica, il riferimento al concetto di ‘ordine’, nella sua eco giuridica, appare meno fragile del riferimento immediato alla struttura etica dell’organizzazione sociale. Se il pluralismo è il volto etico delle democrazie liberali, l’eticità sociale si esprime non immediatamente, ma nella proceduralità della decisione politica e quindi giuridica. In altri termini, l’etica sostanziale, piuttosto che come dato pregiuridico e prepolitico capace di imporsi immediatamente nelle forme della decisione giuridica, rileva come materia emergente nel dibattito politico e giuridico continuamente in atto, e si afferma selettivamente nella società attraverso gli esiti (precari) di quel dibattito. L’ordine pubblico, più intensamente che il buon costume, reca in se stesso l’idea della proceduralità della elaborazione non semplicemente etica, ma più ampiamente culturale e poi politica e giuridica dei relativi principi: perciò si fa preferire al buon costume.
Scrisse F. Ferrara, Teoria, cit., p. 6 ss.: «morale e diritto non sono che gradi di evoluzione: il diritto è quella parte di morale che come più importante e più esteriormente riferentesi ai rapporti sociali, si è venuta evolvendo ed acquistando carattere obbligatorio» (p. 7). Il che è dire: dalla morale al diritto, anche attraverso l’implementazione del diritto per mezzo della morale. La stessa funzione valvolare, storicamente riconosciuta al buon costume, si è poi ritenuta anche per l’ordine pubblico (superata l’idea che l’ordine pubblico esprimesse – semplicemente e soltanto – i principi dello ius cogens, come pure Ferrara riteneva). L’equiparazione nella funzione di buon costume e ordine pubblico coincide con il tramonto storico del primo, allo stesso modo di come la progressiva giuridicizzazione dell’ordine morale socialmente condiviso determina l’evoluzione della morale da diretto materiale etico giuridicamente rilevante a sistema assiologico giuridicizzato (in cui il materiale etico è indiscernibile dal materiale propriamente giuridico): il che consentì il trapasso dalla morale al diritto, e l’evoluzione degli ordinamenti antichi.
[26] Cfr. N. Irti, S-confinatezza, in Id., Norma e luoghi, cit., p. 95 ss.
[27] Cfr., in questo senso, R. Sacco, in R. Sacco, G. De Nova, Contratto, II, cit., p. 88 s. Sul punto, è stato specificato che: a) sono annoverabili accordi leciti su materie non patrimoniali, i quali non sono inquadrabili perciò nella categoria del contratto. Gli esempi forniti: matrimonio, accordi di convivenza, atti di consenso su diritti della personalità; accordi in materie non economiche. b) Pure è possibile la patrimonializzazione lecita di accordi su materie non patrimoniali, e ciò mediante l’introduzione, nell’accordo, di elementi patrimoniali: e qui si hanno veri e propri contratti. c) Infine, possono darsi accordi illeciti su materie non patrimoniali, che si qualificano contratti se è previsto l’elemento patrimoniale. Essi possono distinguersi in accordi/contratti su valori non disponibili, ossia illeciti in se stessi, a prescindere al fatto che sia stato pattuito un corrispettivo; e poi accordi/contratti su valori non commerciabili, ossia illeciti in quanto patrimonializzati. Cfr. V. Roppo, Contratto, cit., p. 5 ss.
[28] Decidere se la compravendita di un neonato sia tutelabile o meno richiede di decidere se un neonato possa essere, in un dato ordinamento, compravenduto o meno. Questo giudizio richiede un parametro. Esso è dato dalla compatibilità del contratto con i valori di quell’ordinamento. In una formula di sintesi, dalla compatibilità del contratto con l’ordine pubblico. Un contratto incompatibile con tali valori non cessa per ciò stesso di essere un contratto; resta infatti un contratto non tutelabile.
Ritiene che la non patrimonialità in sé della prestazione sia insufficiente «a mettere fuori gioco il contratto, e, con esso, il limite dell’ordine pubblico» G. D’Amico, Ordine pubblico, cit., p. 43, nota 64.
[29] La tesi della irrilevanza è stata anche e per altro verso sostenuta con riferimento ad alcuni patti criminali, frutto di condotte tutte in se stesse illecite, e come tali ritenute incapaci di integrarsi in un contratto illecito, in quanto già illecite a monte (cosicché sarebbe criticabile discorrere di reati-contratto, in quanto in tali fattispecie mancherebbe la stessa figura del contratto): cfr. A. Bellizzi, Contratto illecito, cit., p. 15 ss. Ma v. la critica puntualmente svolta da A. Di Amato, Contratto e reato, cit., p. 129, il quale osserva che il legislatore, nella disciplina della nullità, ha apprestato una serie di previsioni nell’insieme complete e idonee a regolare «qualsiasi accordo, quale ne sia il grado di disvalore e la compromissione alla stregua anche del diritto penale». Significativo il pensiero di A. Federico, Illiceità contrattuale, cit., p. 60 s. che, riferendo l’opinione di Bellizzi, formalmente vi aderisce, salvo affermare che l’accordo basato su condotte già tutte illecite non può definirsi contratto sulla scorta, appunto, del giudizio di illiceità (che tuttavia è proprio del contratto). Del resto, lo stesso A. Bellizzi, Contratto illecito, cit., p. 15, riconosce che, dal punto di vista sociologico, anche tali accordi si inseriscono nella categoria del contratto. Il punto fondamentale è dunque che ciò che fattualmente costituisce oggetto di scambio è già, dal punto di vista giuridico, un contratto: è già esistente e rilevante come contratto. Se tutto ciò è condivisibile, il confine tra ciò che è contratto e ciò che non è contratto, non può essere trovato sul piano del giudizio di illiceità, che un contratto – come tale esistente e rilevante – già presuppone.
[30] Superare la distanza tra concetto sociologico di contratto e concetto giuridico, così da giudicare giuridicamente esistente come contratto ciò che oggettivamente appare tale secondo l’apprezzamento sociale, consente un importante vantaggio sistemico: recuperare anche sotto tale aspetto il ruolo della comunità degli interpreti giuridici nella definizione di profili essenziali della idea di società civile. Infatti, escludere che ciò che socialmente appare contratto non possa essere così qualificato da un punto di vista giuridico significa estendere la rilevanza giuridica – nei termini della categoria contrattuale – a tutto il fenomeno di scambio socialmente rilevante: e quindi consentire pienamente il giudizio giuridico sul mercato.
[31] Cfr. G. Oppo, Categorie contrattuali e statuti del rapporto obbligatorio, cit, p. 43 ss.
[32] Cfr. G. Oppo, Categorie contrattuali, cit, p. 44.
[33] Cfr. F. Di Marzio, Contratti d’impresa, cit, p. 38 s.
[34] Cfr. capitolo secondo, § III.2.
[35] La dottrina maggioritaria, anche sulla scorta della indicazione testuale che era contenuta nell’art. 1469 quinquies c.c., sostenne la tesi della inefficacia: cfr., tra gli altri, F.D. Busnelli, Una possibile traccia, cit., p. 762; E. Navarretta, Art. 1469 quinquies, comma 2°, in Nuove leggi civ. comm., 1997, p. 1235 ss.; G. Alpa, Sul recepimento della direttiva comunitaria in tema di clausole abusive, in Nuova giur. civ. comm., 1996, II, p. 46; F. Alcaro, L’inefficacia delle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori, in Vita not., 1996, p. 1119; G. Lener, La nuova disciplina delle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori, in Foro it., 1996, V, c. 145; A. Tullio, Il contratto per adesione tra il diritto comune dei contratti e la novella sui contratti dei consumatori, Milano, 1997, p. 84; U. Morello, Clausole vessatorie, clausole abusive: le linee di fondo di una nuova disciplina, in Notariato, 1996, p. 287; P. Chirico, Art. 1469 quinquies (Inefficacia) in Clausole vessatorie e contratto del consumatore, a cura di E. Cesàro, Padova, 1998, I, p. 627; S. Maiorca, Tutela dell’aderente e regole del mercato nella disciplina generale dei «contratti del consumatore», Torino, 1998, p. 141; V. Scalisi, Nullità e inefficacia, cit., p. 214 ss.; Id., Invalidità e inefficacia. Modalità assiologiche della negozialità, in Riv. dir. civ., 2003, I, p. 201 ss.; L. Valle, La categoria dell’inefficacia del contratto, in Contratto impresa, 1998, p. 1243; Id., L’inefficacia delle clausole vessatorie, Padova, 2004, passim.; Id., L’inefficacia delle clausole vessatorie e la nullità a tutela della parte debole del contratto, in Contratto impresa, 2005, I, p. 149 ss.
Ampia parte degli studiosi, invece, fu per l’avviso della nullità: cfr., per tutti, G. Cian, Il nuovo capo XIV bis (titolo II, libro IV) del codice civile, sulla disciplina dei contratti con i consumatori, in Studium iuris, 1996, p. 447; U. Ruffolo, La «inefficacia» delle clausole vessatorie, in Clausole «vessatorie» e «abusive», Milano 1997, p. 73; A. Gentili L’inefficacia delle clausole abusive, in Riv. dir. civ. 1997, II, p. 403 ss.; S. Monticelli, Dall’inefficacia della clausola vessatoria alla nullità del contratto (note a margine dell’art. 1469 quinquies, commi 1 e 3 c.c.) in Rass. dir. civ, 1997, p. 568; G. Passagnoli, Art. 1469 quinquies, comma 1, 3 e 5, in, Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, a cura di G. Vettori, Padova, 1999, p. 182; V. Roppo, Contratto, cit., p. 918.
Alcuni, infine, si pronunciarono nel senso della nullità/illiceità delle clausole abusive: cfr. F. Di Marzio, Clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore. Prime riflessioni sulla previsione generale di vessatorietà, in Giust. civ., 1996, II, p. 533; Id., Illiceità delle clausole abusive, ivi, 1999, II, p. 479; A. Bellelli, Art. 1469 quinquies, 1° e 3° co., in Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, a cura di G. Alpa e S. Patti, Milano, 1997, p. 684; C.M. Bianca, Diritto civile, cit., p. 388; A. Albanese, Violazione di norme imperative, cit., p. 76 ss. (spec. p. 80); G. D’Amico, L’abuso cit., p. 651 ss. Nella giurisprudenza cfr. la notissima pronuncia della Corte di Giustizia del 27 giugno 2000, Océano Grupo Editorial SA, cause riunite C-240/98 a C-244/98, in Foro it., 2000, IV, c. 413 ss., ove si afferma, testualmente, la illiceità delle clausole abusive.
[36] Cfr. G. D’Amico, L’abuso, cit., p. 647 ss.
[37] Così M. Nuzzo, Art. 1469 quinquies, comma 1° e 3°, in Nuove leggi civ. comm., 1997, II, p. 1218, seguito da G. Passagnoli, Art. 1469 quinquies, comma 1, 3 e 5, cit., p. 181 s. e, per ultimo, da G. Bonfiglio, La rilevabilità d’ufficio, cit., p. 884. Cfr., inoltre, A. Bellelli, Art. 1469 quinquies, 1° e 3° co., cit., p. 689 ss. L’idea è probabilmente influenzata dalla constatazione più generale, e certamente condivisibile, che «Le direttive europee di rilevanza contrattuale hanno solitamente obiettivi di tutela (e più precisamente di tutela ‘minimale’) di determinate categorie di contraenti: in particolare i consumatori. Questo fa sì che le loro prescrizioni non siano derogabili (se non nella misura in cui la deroga offra ai contraenti protetti un livello di tutela più elevato del minimo legale). A sua volta la legislazione nazionale di recepimento, per conformarsi a siffatte prescrizioni delle direttive, deve introdurre nelle discipline contrattuali di riferimento norme non derogabili (se non a vantaggio delle categorie tutelate) che sole consentono di salvaguardare l’effettività dei livelli di tutela comunitariamente imposti» ( V. Roppo, Il contratto del duemila, cit., p. 13).
[38] Cosicché in un recente intervento – che legge coordinatamente la disciplina delle clausole vessatorie (art. 1341, comma 2, c.c.) e quella delle clausole abusive – la tesi della inefficacia è stata ribadita proprio sul presupposto che «L’inefficacia della clausola vessatoria è […] conseguenza non già della violazione di una norma imperativa che limita l’autonomia privata dei contraenti, bensì di una norma di protezione dell’utente che compensa la norma che riconosce il potere di predisposizione del professionista […]. I limiti all’autonomia contrattuale (di cui all’art. 1322 c.c.) attengono esclusivamente a ciò che è stato effettivamente pattuito e negoziato […] sicché la loro violazione – determinando la illiceità del contratto per illiceità della causa e/o dell’oggetto – comporta la nullità del contratto o della singola clausola negoziata. Diversamente i limiti alla predisposizione unilaterale delle clausole generali riguardano esclusivamente le clausole predisposte unilateralmente che integrano o modificano le norme dispositive, sicché tali limiti attengono alla salvaguardia dell’equilibrio dei diritti e degli obblighi che deriverebbero dal contratto se fossero state integralmente operative le norme dispositive» (U. Majello, Essenzialità dell’accordo, cit., p. 128 ss.). Ne discende la conclusione sulla inefficacia tanto delle clausole vessatorie quanto delle clausole abusive, entrambe espressive non della libertà contrattuale del predisponente ma del potere, appunto, di predisposizione, riconosciuto a determinate condizioni: da rispettarsi a pena di inefficacia.
L’apprezzamento isolato del potere di predisposizione presuppone la distinzione concettuale tra accordo inteso in senso proprio e accordo ridotto nello spazio angusto dell’adesione al modello predisposto. La distinzione, come è noto, fu evidenziata nella dottrina tedesca – che per prima affrontò la questione – nella scomposizione analitica della libertà contrattuale (Vertragsfreiheit) nei due fattori costitutivi: l’essenziale libertà di conclusione del contratto (Abschlussfreiheit); l’ulteriore libertà di codeterminazione del suo contenuto (Inhaltsfreiheit) (cfr. il classico lavoro di H.K. Nipperdey, Kontrahierungszwang und diktierter Vertrag, Jena, 1920, p. 2 ss.; per la dottrina successiva, v. per tutti le pagine insuperate di L. Raiser, Das Recht der Allgemeinen Geshäftsbedingungen, Hamburg, 1935, p. 77; e, infine, v. K. Larenz, Lehrbuch des Schuldrechts, I, Munchen-Berlin, 1967, p. 46 ss. Nella nostra letteratura recente cfr. M. Maggiolo, Il contratto predisposto, Padova, 1996, spec. p. 92 ss.).
Tuttavia, il connotato specifico del potere di predisposizione è, piuttosto che giuridico, economico (per una ricostruzione della predisposizione quale attività di natura economica cfr. A.M. Azzaro, I contratti non negoziati, cit., p. 131 ss). In ambito giuridico, riesce difficile scindere il ‘potere di predisposizione’ dall’esercizio della libertà contrattuale: se con quello nulla ha a che fare la libertà del consumatore, è pur vero che molto ha a che fare la libertà del professionista. Indubbiamente, non ricorrono norme imperative violate da un accordo illecito. Non si versa, infatti, nell’ambito della contrattazione tra eguali ma in quello della contrattazione diseguale. La libertà contrattuale non opera per la confezione di accordi contro l’ordinamento, ma per affermare se stessa (quale libertà del predisponente) in pregiudizio di se stessa (quale libertà dell’aderente e quale valore riconosciuto nell’ordinamento). In tal senso si apprezza una violazione dell’ordine pubblico quale limite all’esercizio della libertà contrattuale: che non può lecitamente trasmodare in vulnerazione della libertà contrattuale medesima. Anche per questa ragione è argomentabile, come anticipato, non soltanto la nullità ma anche la illiceità delle clausole abusive.
[39] Così N. Irti, Scambi senza accordo, cit., p. 170 s.: «L’aderire non è un risultato dialogico, ma – come rivela l’etimo latino – soltanto un ‘rimanere attaccati’, un’impossibilità di sciogliersi, un’irreversibilità dell’accaduto. Moduli e formulari sono tecniche conformatrici del rapporto: esse non servono, ma dominano l’incontro delle parti».
[40] S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, cit., p. 65.
[41] È istintivo avvertire che nella trattativa riposa l’essenza del contratto come risultato di un esercizio di libertà: di una scelta. Dove vi è trattativa, la tutela del contratto – e la tutela della libertà da cui quello si origina – non può tradursi legittimamente nella repressione di una libertà contrattuale (del professionista) che sotto questo importante versante non si manifesta in forme abusive (cosicché le ragioni della tutela si affievoliscono e il giudizio di abusività si restringe alle clausole elencate nell’art. 36, comma 2, c. consumo). Dove vi è predisposizione e non vi è trattativa sul predisposto, nemmeno vi è libertà autentica del consumatore. La tutela della libertà contrattuale può passare per la repressione dell’abuso di potere contrattuale (sostanziato, fino a prova contraria, in alcune clausole di deroga al diritto dispositivo o comunque argomentabile e dimostrabile in ogni altro caso dal consumatore: art. 33, rispettivamente commi 2 e 1, c. consumo).
[42] Si spiega come mai nell’art. 3, § 1 della direttiva l’assenza di trattativa emargini la tutela: la mancanza di negoziazione è considerata elemento non del giudizio di abusività ma del contesto abusivo.
[43] Alla superiore razionalità economica si reputa accettabile sacrificare «il bisogno di una libertà di trattativa» (relazione al c.c., n. 612). Cfr. le classiche pagine di L. Raiser, Das Recht der Allgemeinen Geshäftsbedingungen, cit., p. 20, 41, 60, 92. E poi, nella copiosissima dottrina che è seguita, An. Genovese, Le condizioni generali di contratto, Milano, 1954, p. 1 ss.; M. Wolf, Vorschläge für eine gesetzliche Regelung der Allgemeinen Geshäftsbedingungen, in JZ, 1974, p. 41; V. Roppo, Contratti standard, Milano, 1975, p. 29 ss.; M. Bessone, Condizioni generali di contratto e tutela del consumatore. Interventi del giudice o garanzie di controllo amministrativo?, in Vita not., 1986, p. 985 ss.; A. Gambaro, Perché si vessa il cliente. Note ed appunti di un itinerario tra i modelli occidentali, in Quadrimestre, 1991, p. 397 ss.; M.J. Trebilcock, The Limits of Freedom of Contract, Cambridge (Mass.)-London, 1993, p. 119; J.A. Ballesteros Garrido, Las condiciones generales de los contratos y el principio de autonomía de la voluntad, Barcelona, 1999, p. 30 ss. Da ultimo, v. R. Calvo, I contratti del consumatore, cit., p. 9 ss.
[44] Cfr. infatti le osservazioni (destinate a influenzare decisivamente prima la giurisprudenza e poi il legislatore del AGB-Gesetz) di L. Raiser, Das Recht der Allgemeinen Geshäftsbedingungen, cit., passim e spec. p. 290 ss.
[45] Come riconosce la dottrina straniera: cfr., per es., E. Von Hippel, Der Schutz des Verbrauchers vor unlauteren Allgemeinen Geshäftsbedingungen in den EG-Staaten, in RabelZ 41 (1977) p. 240; K. Herkenrath, Die Umsetzung der Ricthlinie 93/13/EWG über missbräuchliche Klausen in Verbraucherverträgen in Deutschland, dem Vereinigten Königreich, Frankreich und Italien, Frankfurt a.M., 2003, p. 69.
[46] Cfr., in questi termini, Cass. 5 ottobre 1976, n. 3272, in Foro it.,, 1976, I, c. 2126.
[47] Cfr. P. Perlingieri, Appunti sull’inquadramento della disciplina delle c.d. condizioni generali di contratto, in Condizioni generali di contratto e tutela del contraente debole, cit., p. 25.
[48] Per tutti, cfr. W. Weber, Die Allgemeinen Geshäftsbedingungen, Berlin, 1967, p. 385; M. Wolf, Selbstbestimmung durch vertragliches Abschlußrecht, in JZ, 1976, p. 42 e la ricostruzione della vicenda in R. Calvo, I contratti del consumatore, cit., p. 158 ss.
[49] Una puntuale e documentata ricostruzione della vicenda si legge in R. Calvo, I contratti del consumatore, cit., p. 160 ss.
[50] Cfr. le osservazioni di A. di Majo, Il controllo giudiziale delle condizioni generali di contratto, in Riv. dir. comm., 1970, I, p. 239 e di G. De Nova, Il tipo contrattuale, cit., p. 157 s., svolte nella stagione in cui si discusse della possibilità di un controllo non soltanto formale ma anche di merito sull’utilizzo delle condizioni generali di contratto, e si propose di sanzionare con la nullità la deroga abusiva al diritto dispositivo che esse dovessero esprimere (tra tutti gli incontri spiccò la famosa Tavola rotonda tenuta presso l’Istituto di diritto privato dell’Università di Catania il 17 e il 8 maggio 1969, i cui Atti sono pubblicati in Condizioni generali di contratto e tutela del contraente debole, cit.).
La tesi non ebbe seguito né in dottrina né in giurisprudenza. Infatti, come annota G.B. Ferri, Nullità parziale e clausole vessatorie, cit., p. 400, «La possibilità di derogare ad una norma derogabile scaturisce direttamente dalla natura (derogabile appunto) della norma. In questo senso nullità e derogabilità sono chiaramente categorie concettuali tra loro incompatibili».
Al di là della indubbia fondatezza della critica, preme sottolineare come la stessa fosse edificata per intero sopra una concezione confermata dal codice civile: che limite alla libertà contrattuale possa ritenersi soltanto la norma imperativa e giammai l’insieme del diritto dispositivo in quanto solo la prima, e non anche il secondo, risponde a ragioni di ordine pubblico (in questo senso le considerazioni già espresse da G.B. Ferri, Condizioni generali di contratto, diritto dispositivo e ordine pubblico, in Condizioni generali di contratto e tutela del contraente debole, cit., ora in Saggi di diritto civile, cit., p. 596).
La novità introdotta dalla tutela contrattuale del consumatore induce la dottrina a nuove aperture: da ultimo, si richiama alla tesi sul diritto dispositivo come parametro per verificare l’abuso della libertà contrattuale R. Calvo, I contratti del consumatore, cit., p. 172 ss.
[51] «In questa prospettiva, la regola di ordine pubblico o la regola di ordine pubblico economico vieterebbe quelle condizioni generali di contratto che rappresentano une deroga costante e generalizzata, non giustificata da ragioni obiettive, al diritto dispositivo» (A. Guarneri, L’ordine pubblico, cit., p. 136, che, riferendosi al dibattito sul controllo di merito delle condizioni generali di contratto, ricorda tra le altre le posizioni assunte da P. Barcellona, Intervento statale, cit., p. 220 ss. e da A. di Majo, Il controllo giudiziale, cit., annotando inoltre «l’ulteriore proposta di un ordine pubblico repressivo di tutte le convenzioni contrarie a principi latenti nel diritto dispositivo» [p. 137]: e qui richiamando il pensiero di G. Panza, Buon costume e buona fede, cit.).
[52] In particolare, una concezione così severa di ‘consumatore’ è difesa dalla Cassazione, che si mostra refrattaria a condividere interpretazioni che consentano di allargare l’ambito soggettivo della tutela. Cfr. Cass. 11 gennaio 2001, n. 314 in Giust. civ. 2001, I, p. 2149; Cass. 25 luglio 2001, n. 10127, ivi 2002, I, p. 685; Cass. 13 giugno 2006, n. 13643 (ord.) in Contratti, 2007, p. 119. L’indirizzo (confermato negli ultimi tempi: cfr. Cass. 23 febbraio 2007, n. 4208, in Contratti, 2007, p. 1071) è stato condiviso dal giudice delle leggi (cfr. Corte cost. 22 novembre 2002, n. 469, in Foro. it. 2003, I, c. 332).
[53] L’ampiezza semantica della nozione ha suscitato in parte della dottrina l’ipotesi di assimilare il concetto di consumatore a quello di cittadino e di persona, al fine di costruire la dinamica della tutela stringendola tra esigenze di protezione della persona e esigenze del libero mercato. In tal modo, la tutela del consumatore è dedotta, nel suo fondamento costituzionale, dalla tutela della persona, e dai limiti conseguentemente patiti dalla libera iniziativa economica (artt. 2, 3, 32, e 41 Cost.): cfr. P. Stanzione, Per una sintesi unitaria nella difesa del consumatore, in Riv. dir. civ. 1994, I, p. 888 ss.
D’altro canto, una parte consistente della dottrina (ma anche certa giurisprudenza di merito) ha(nno) espresso forti critiche sulla scelta prima del legislatore comunitario e poi del legislatore italiano di limitare la protezione dalle clausole abusive alle persone fisiche che pongono in essere atti di consumo. È parso infatti che la ragione fondamentale della tutela – il riequilibrio della forza contrattuale tra parti diverse – non si esaurisca nella salvaguardia delle persone fisiche, e non si esaurisca nella salvaguardia di chi pone in essere atti di consumo, ma si proponga inalterata anche nel caso in cui a contrattare sia una organizzazione (personificata o meno). E tutto questo anche se tale soggetto negozia nell’esercizio, a sua volta, di una attività di impresa (cfr., per tutti, V. Roppo, La nuova disciplina delle clausole abusive nei contratti fra imprese e consumatori, in Riv. dir. civ. 1994, I, p. 282). Di modo che una interpretazione della legge che, privilegiando il dato letterale, escludesse tali soggetti dalla sfera tutelata esporrebbe la normativa a una censura di incostituzionalità, in questi termini anche sollevata (dal Giudice di pace di L’Aquila, ord. 3 novembre 1997, in in Giust. civ., 1998, I, p. 2341. Tuttavia, la Corte costituzionale, con provvedimento del 30 giugno 1999, in Foro it. 1999, I, c. 3118, ha dichiarato la questione manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sul requisito della rilevanza con riguardo al caso concreto).
Altra dottrina ha invece ritenuto ragionevole la scelta di limitare la protezione alle persone fisiche sia perché nei loro confronti appare decisamente più fondata da presunzione di inferiorità di forza contrattuale che giustifica la speciale tutela sia perché le organizzazioni agiscono con finalità sempre (in senso ampio) professionali, ossia delimitate dall’atto costitutivo, dallo statuto, o comunque dagli atti che le strutturano e dunque solo impropriamente si può sostenere che pongano in essere atti di consumo, per definizione estranei all’oggetto predeterminato della loro attività (per una opinione autorevole, v. G. Cian, Il nuovo capo XIV-bis, cit., p. 414).
Sulla complessa questione cfr., di recente, e. gabrielli, Sulla nozione di consumatore, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, p. 1149 ss.; ID., Il consumatore e il professionista, in Trattato Rescigno-Gabrielli, I contratti dei consumatori, a cura di E. Gabrielli, E. Minervini, Torino, 2005, p. 5 ss.; 24 ss.
[54] Secondo la tesi già prospettata da L. Raiser, Das Recht der Allgemeinen Geshäftsbedingungen, cit., che parlò di «Missbrauch der Vertragsfreiheit» (cfr. anche le osservazioni di V. Rizzo, Le ‘clausole abusive’ nell’esperienza tedesca, francese, italiana e nella prospettiva comunitaria, Napoli, 1994, p. 96 ss.). In precedenza, aveva sottolineato il problema dell’abuso di potere nei contratti H.K. Nipperdey, Kontrahierungszwang und diktierter Vertrag, cit., p. 3. Cfr. inoltre F. Von Hippel, Das Problem der rechtsgeshäftlichen Privatautonomie, Tübingen, 1936, p. 128 (nella dottrina italiana, testimonia l’influenza di questo insegnamento G. Pasetti, Parità di trattamento, cit., p. 10; a riguardo, cfr. anche M. Giorgianni, La crisi del contratto nella società contemporanea, in Riv. dir. agr., 1972, e in Scritti minori, Napoli, 1988, p. 798). Cfr., inoltre, R. Reinhardt, Die Vereinigung subjektiver und objektiver Gestaltungskräfte im Vertrage, in Festschift zum 70. Geburtstag von W. Schmidt-Rimpler, Karlsruhe, 1957, p. 133; E. Auer, Die Richterliche Korrektur von Standardverträgen, Bern, 1964, p. 9. Nel contesto austriaco cfr. D. Kiendl, Unfaire Klauseln in Verbraucheverträgen, Wien, 1997, p. 130 ss. Nell’ultima letteratura, per tutti, v. M. Becker, Der unfair Vertrag, Tübingen, 2003, p. 4 ss. Nell’ultima dottrina italiana, cfr. G. D’Amico, L’abuso, cit., p. 649, che richiama la teoria dell’abuso del diritto (nota 58) e R. Calvo, I contratti del consumatore, cit., p. 194, il quale annota che «l’abuso della libertà contrattuale è una forma particolarmente insidiosa della più ampia categoria dell’abuso del diritto». Cfr., infine, F. Di Marzio, Teoria dell’abuso, cit., p. 681 s.
[55] Su cui cfr., in generale, A. Falzea, Gli standards valutativi e la loro attuazione, in Riv. dir. civ., 1987, I, p. 1 ss.
[56] Cfr. D. Messinetti, Abuso del diritto, cit., p. 9. Cfr. anche F. Di Marzio, Abuso nella concessione del credito, cit., p. 113 ss.; 199 ss.
[57] Nell’art. 33, comma 1, c. consumo, è stato trasposto il testo dell’art. 1469 bis, comma 1, c.c. Anche oggi, pertanto, diffusamente si considerano ‘vessatorie’ le clausole che determinano un significativo squilibrio contrattuale ‘malgrado la buona fede’, piuttosto che ‘contrariamente alla buona fede’, (come imporrebbe una fedele traduzione del testo della direttiva).
La dottrina, come è noto, aveva da subito evidenziato questa e altre inesattezze in cui era incorso il legislatore (cfr., in generale, le considerazioni di F.D. Busnelli, Una possibile traccia, cit., p. 758, e di M. Bin, Clausole vessatorie: una svolta storica (ma si attuano così le direttive comunitarie?), in Contratto impresa Europa, 1996, p. 438; con riguardo al problema specifico dell’espressione ‘malgrado la buona fede’, cfr. le considerazioni critiche e ricostruttive di V. Rizzo, Il significativo squilibrio ‘malgrado la buona fede’ nella clausola generale dell’art. 1469-bis c.c.: un collegamento ‘ambiguo’ da chiarire, in Rass. dir. civ., 1996, p. 497 ss.).
I redattori hanno preferito lasciare inalterata la formula, argomentando: «Il testo attuale offre un maggiore livello di tutela al consumatore, permettendo di qualificare come abusive le clausole contrattuali che determinano un significativo squilibrio tra le prestazioni, in danno del consumatore, nonostante la buona fede soggettiva dell’altro contraente, senza richiedere l’accertamento ulteriore della violazione delle regole della buona fede» (relazione, § 6).
In realtà, la buona fede soggettiva del predisponente non spiega influenza sul tema della nullità; cosicché ogni riferimento alla stessa si espone a critica. Nondimeno, una autorevole dottrina giudica opportuna una scelta che scongiura l’ingresso, nel nostro ordinamento, della buona fede contrattuale in senso caducatorio: dunque, in una veste ignota alla nostra dogmatica (cfr. L. Mengoni, Problemi di integrazione della disciplina dei ‘contratti del consumatore’ nel sistema del codice civile, in Studi Rescigno, III, cit., p. 543). Lo stesso risultato si ottiene convenendo – più linearmente – che la buona fede rilevante nel controllo di abusività non sia la buona fede nella classica accezione codicistica (soggettiva e oggettiva) ma – come anticipato nel testo – la buona fede quale standard valutativo dell’abuso della libertà contrattuale.
[58] La teoria dell’abuso del diritto spiega, sotto questo aspetto, perché il giudizio sulla sanzione non possa essere aprioristico, ma debba necessariamente formarsi sulla base dell’esame della fattispecie concreta (l’astratta attribuzione della libertà contrattuale si rivela non conseguente nel caso esaminato solo considerando il piano concreto dell’esercizio storicamente effettuato di quella libertà).
Dal punto di vista del giudizio pratico, la libertà di deroga al diritto dispositivo è valutabile secondo il criterio della ragionevolezza. Da una visuale che abbracci il mercato, la deroga irragionevole al diritto dispositivo evidenza una azione irrazionale sul mercato stesso: l’atto frutto di un esercizio irragionevole della libertà si rivela irrazionale: non conseguente alla logica (deontica) che governa prescrittivamente il mercato.
Sulla irrazionalità oggettiva dell’azione quale metacriterio per discriminare l’abuso del diritto (in se riassuntivo dei criteri della buona fede oggettiva, operativo in ambito contrattuale, e del bilanciamento degli interessi, operativo in ambito extracontrattuale) cfr. F. Di Marzio, Abuso nella concessione del credito, cit., p. 114 ss.
[59] Cfr. oltre, § III.2.
[60] Cfr., in generale, M.C. Venuti, Nullità della clausola e tecniche di correzione del contratto. Profili della nuova disciplina dei ritardi di pagamento, Padova, 2004, p. 56 ss.; E. Minervini, La nullità per grave iniquità dell’accordo sulla data del pagamento o sulle conseguenze del ritardato pagamento, in Illiceità, immeritevolezza, nullità, cit., p. 204 ss.; G. Amadio, Nullità anomale e conformazione del contratto (note minime in tema di ‘abuso dell’autonomia contrattuale’) in Riv. dir. priv., 2005, p. 290. La stessa direttiva 2000/35/CE, attuata con la normativa in esame, si è resa necessaria, tra l’altro, per la constatata deroga sistematica al diritto dispositivo sui termini per l’adempimento delle obbligazioni pecuniarie in gran parte dei Paesi dell’Unione; constatazione che determinò l’apposita Raccomandazione della Commissione del 12 maggio 1995. Cfr. G. De Cristofaro, Note introduttive, in La disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, a cura dello stesso, in Nuove leggi civ. comm., 2004, p. 461. Sulla tecnica di regolamentazione del contratto attraverso le norme dispositive cfr. A. Gambaro, Contratto e regole dispositive, in Riv. dir. civ., 2004, I, p. 1 ss.
[61] Cfr., ancora, E. Minervini, La nullità per grave iniquità, cit., p. 206, e la dottrina ivi citata. V. poi, ampiamente, F. Volpe, La giustizia contrattuale tra autonomia e mercato, Napoli, 2004, p. 247 ss.
[62] Dove si legge: «L’opzione normativa in favore della sanzione di nullità è sistematicamente giustificata dalla considerazione che il legislatore comunitario reprime la violazione di una norma interpretativa di divieto dell’abuso della libertà contrattuale, imponendo la rilevazione d’ufficio da parte del giudice».
[63] Cfr. G. Fauceglia, Direttiva 2000/35/CE in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2001, p. 314. Cfr. anche le osservazioni di L. Mengoni, La direttiva 2000/35/CE in tema di mora debendi nelle obbligazioni pecuniarie, in Europa dir. priv., 2001, p. 81.
[64] Cfr., le monografie di V. Pandolfini, La nuova normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, Milano, 2003, p. 4; M.C. Venuti, Nullità della clausola, cit., p. 8 ss.; E. Russo, Le transazioni commerciali, Padova, 2005, p. 260.
[65] La dottrina che si è occupata della questione esemplifica il rilievo della presenza o della assenza della trattativa individuale: cfr., tra gli altri, G. De Cristofaro, Obbligazioni pecuniarie e contratti d’impresa: i nuovi strumenti di lotta contro i ritardi nel pagamento dei corrispettivi di beni e servizi, in Studium iuris, 2003, p. 12 s.; G. Amadio, Nullità anomale, cit., p. 299.
[66] Pertanto, non della corrente prassi, ma della prassi da assumersi corretta: conforme alla razionalità del mercato (cosicché si è pure evidenziata la portata moralizzatrice del criterio: cfr. L. Mengoni, La direttiva 2000/35/CE, cit., p. 74; E. Minervini, La nullità per grave iniquità, cit., p. 208).
[67] Cfr. G. De Cristofaro, Note introduttive, cit., p. 463, seguito da G. Amadio, Nullità anomale, cit., p. 298 s.
[68] Atteso che, come annota G. Amadio, Nullità anomale, cit., p. 295, l’equità rilevante nella normativa in esame non è quella in senso proprio, attributiva di un potere conformativo del contratto al giudice, ma quella da riferirsi all’equilibrio economico delle prestazioni (e da dedursi dalla corretta prassi economica, dal diritto dispositivo, ecc.).
[69] Cfr. le osservazioni di M.C. Venuti, Nullità della clausola, cit., p. 57 e di A. Bregoli, La legge sui ritardi di pagamento nei contratti commerciali: prove (maldestre) di neodirigismo?, in Riv. dir. priv., 2003, p. 731.
[70] Cfr. G. De Nova, Il tipo contrattuale, cit., p. 159 s., il quale sostenne, in via generale, che «Se una norma, cogente o dispositiva, appare derogata, la validità della clausola che diversamente dispone è condizionata dall’esistenza di una fondata ragione per la deroga».
[71] Cfr. anche G. D’Amico, La formazione del contratto, in A.a.V.v., Il terzo contratto, cit., p. 68 ss.
[72] E. Russo, La nuova disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratto impresa, 2003, p. 445 ss., mosso dall’idea che gli interessi singolari – assicurati da norme inderogabili ma non imperative, quanto piuttosto cogenti – siano tutelati con la inefficacia o al più con la nullità semplice, mentre gli interessi generali – assicurati da norme imperative – siano tutelati con la nullità/illiceità, ritiene che gli interessi tutelati dalla normativa in esame siano singolari e non generali; che le norme in questione siano da definirsi cogenti; che pertanto la sanzione apprestata sia l’inefficacia (nello stesso senso, v. L. Valle, L’inefficacia delle clausole vessatorie e la nullità a tutela della parte debole, cit., p. 195). In articolata critica si esprime M.C. Venuti, Nullità della clausola, cit., p. 62 ss.: contestando il rilievo positivo della distinzione tra norma imperativa e norma cogente; affermando la natura dispositiva delle norme in questione (cfr. art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 231/2002); sottolineando il dato testuale della nullità.
Preme aggiungere come il profilo maggiormente criticabile della ricostruzione proposta da Russo sia nella individuazione della natura degli interessi tutelati, e della effettiva funzione svolta dalla tutela. Venuti contesta che la nullità, specie nel nuovo diritto dei contratti, sia sempre a presidio di interessi generali (v. p. 68, con ciò riaffermando una idea diffusa: cfr., per una sua compiuta articolazione, G. Passagnoli, Nullità speciali, cit., passim); invece, e per come argomentato nel corso del lavoro e soprattutto di questo capitolo, è vero che la nullità/illiceità (che non di rado assicura anche interessi individuali, ma fondamentali) tutela sempre interessi generali, e che anche nel caso dei ritardi ingiustificati nei pagamenti si tratta di tutelare interessi generali: attraverso la protezione del creditore, infatti, si afferma la razionalità del contratto e del mercato.
[73] Nella letteratura civilistica è diffusa la concezione del divieto di dipendenza economica come (non norma ma) clausola generale nei rapporti (contrattuali) tra imprese. Cfr., per tutti, R. CASO, R. Pardolesi, La nuova disciplina del contratto di subfornitura (industriale): scampolo di fine millennio o prodromo di tempi migliori?, in Riv. dir. priv., 1998, p. 725 che scrivono di una «clausola generale di abuso di potere contrattuale nelle relazioni negoziali fra imprese»; cfr., in seguito, V. Pinto, L’abuso di dipendenza economica ‘fuori dal contratto’ tra diritto civile e diritto antitrust, in Riv. dir. civ., 2000, II, p. 411 ss. La tesi ha riscosso consensi nella dottrina più autorevole: cfr. G. Oppo, Princìpi, in Trattato Buonocore, Torino, 2002, p. 72, che discorre di un «principio di ordine generale e di grande momento, capace di moralizzare i rapporti tra imprenditori» ; R. Sacco, in R. Sacco, G. De Nova, Contratto, II, cit., p. 611; da ultimo v. F. Macario, Abuso di autonomia negoziale e disciplina dei contratti fra imprese: verso una nuova clausola generale?, in Riv. dir. civ., 2005, I, p. 663 ss.
Per la tesi restrittiva che – argomentando dalla collocazione del divieto nella legge n. 192 del 1998, dedicata non a tutti i contratti scaturenti da rapporti di integrazione verticale tra imprese, ma soltanto ai contratti di subfornitura – ricostruisce il divieto di abuso come confinato in quest’ultimo ambito della contrattazione cfr., tra gli altri, U. Ruffolo, Il contratto di subfornitura nelle attività produttive. Le nuove regole della legge 18 giugno 1998, n. 192: ‘correzione’ dell’autonomia contrattuale a tutela del subfornitore come professionista debole, in Resp. comun. impr., 1998, p. 409; A. Musso, La subfornitura, in Commentario Scialoja-Branca–Galgano, Bologna-Roma, 2003, p. 483 ss.; U. Perfetti, L’ingiustizia del contratto, Milano, 2005, p. 141 ss. ; G. Tucci, C. Calia, La subfornitura in Italia: sette anni di applicazione della legge 18 giugno 1998, n. 192, in Riv. dir. priv., 2006, p. 112.
Questa tesi non considera i molteplici e decisivi argomenti a favore della portata generale della norma con riguardo a tali rapporti di integrazione verticale. Secondo la lettera stessa dell’art. 9 il divieto non concerne solo la dipendenza c.d. tecnologica, specifica dei rapporti di subfornitura (cfr. art. 1 l. n. 192/1998) e univocamente orientata a svantaggio del subfornitore, ma la dipendenza economica in quanto tale: qualsiasi dipendenza economica in cui può versare – del resto – tanto l’impresa cliente come l’impresa fornitrice. Inoltre, sarebbe costituzionalmente dubbio un divieto selettivo che discriminasse senza specifica ragione una particolare forma di dipendenza economica (del subfornitore) da tutte le altre. Infine, l’intenzione iniziale del legislatore sulla introduzione dell’art. 3 bis nella l. antitrust e l’effettiva introduzione di una regola come l’art. 3 bis nella l. n. 192 del 1998 illuminano sulla valenza generale del divieto, che si mostra nelle forme di una regola generale sulle relazioni di impresa nel mercato (le quali – va ulteriormente sottolineato – potrebbero anche non essere contrattuali pur manifestandosi come abusive: così per il rifiuto di vendere e comprare).
In giurisprudenza, le scarse pronunce rinvenibili (di natura cautelare) affermano anche l’opposta visione restrittiva, in ragione della collocazione topografica del divieto. Nell’ambito dei ventuno provvedimenti giurisprudenziali emanati in materia di ‘subfornitura’ (secondo la ricerca di G. Tucci, C. Calia, La subfornitura, cit., p. 100, nota 3) per la tesi estensiva cfr. Trib. Bari, 6 maggio 2002, in Corr. giur., 2002, p. 1063; Trib. Taranto, 17 settembre 2003, in Foro it., 2003, I, c. 3440; Trib. Roma 5 novembre 2003, ivi; Trib. Catania, 5 gennaio 2004, in Danno e resp., 2004, p. 426; Trib. Bari 22 ottobre 2004, ivi, 2005, p. 750. Per la tesi restrittiva cfr. Trib. Bari 2 luglio 2002, in Foro it., 2002, I, c. 3208; Trib. Taranto, 22 dicembre 2003, in Danno e resp., 2004, p. 424; Trib. Roma, 29 luglio 2004 (inedita, citata da Ph. Fabbio, L’abuso di dipendenza economica, Milano, 2006, p. 92, nota 38). Il numero, oggettivamente modesto delle pronunce, l’essere tutte esclusivamente di corti di merito, e l’essere la metà delle stesse riferibili a un ambito territoriale limitato riducono sensibilmente l’importanza del dato. L’atteggiamento della giurisprudenza potrebbe dipendere anche dalla modesta sensibilità finora manifestata dai giudici sulle implicazioni che tale divieto ha per la disciplina del mercato concorrenziale, a sua volta presumibilmente indotta dalle incertezze accusate dal legislatore nel posizionare il divieto in una legge dedicata al diritto contrattuale.
[74] Alcune opinioni, estremizzando la concezione del divieto di dipendenza economica come clausola generale nei rapporti tra imprese, prospettano l’idea che l’ambito della clausola generale possa estendersi a prescindere dai confini operativi che la dipendenza economica intesa in senso proprio e stretto sembrerebbe avere nell’ottica antitrust. In tal modo, potrebbe esporsi al vaglio sull’abuso non soltanto il rapporto di dipendenza economica, ma qualsiasi rapporto asimmetrico: tra imprese e anche tra imprese e soggetti non imprenditoriali, fino a giungere alla figura del consumatore (cfr., in tal senso, i contributi di F. Prosperi, Subfornitura industriale, abuso di dipendenza economica, e tutela del contraente debole: i nuovi orizzonti della buona fede contrattuale, in Rass. dir. civ., 1999, p. 639 ss.; Id., Il contratto di subfornitura e l’abuso di dipendenza economica, Napoli, 2002, p. 10 s., ove si coglie la ragione della tutela apprestata dall’art. 9 l. subfornitura non nella repressione degli abusi di dipendenza economica ma nella tutela del contraente debole dagli abusi posti in essere dalla controparte. Per una critica puntuale cfr. S. Pagliantini, L’abuso di dipendenza economica, cit., p. 461 ss.).
[75] Dottrina quasi pacifica (cfr., per es., A. Barba, L’abuso di dipendenza economica: profili generali, in Aa.Vv., La subfornitura nelle attività produttive, a cura di V. Cuffaro, Napoli, 1998, p. 342; G. Ceridono, Art. 9 (Abuso di dipendenza economica) in Nuove leggi civ. comm., 2000, p. 145; A. Albanese, Abuso di dipendenza economica: nullità del contratto e riequilibrio del rapporto, in Europa dir. priv., 1999, p. 1194; Ph. Fabbio, L’abuso di dipendenza economica, cit., p. 362 s. Per una opinione in senso contrario, cfr. U. Perfetti, L’ingiustizia del contratto, cit., p. 174.
[76] Infatti, a differenza di quanto accade nella tutela contrattuale del consumatore, nella logica protettiva dall’abuso di dipendenza economica, il procedimento di formazione del contratto (predisposizione o negoziazione) è irrilevante. L’intervento giudiziale non è in alcun modo condizionato dalla intervenuta trattativa: cfr. le osservazioni di S. Pagliantini, L’abuso di dipendenza economica, cit., p. 485 ss.
[77] Cfr., per es., R. Caso, R. Pardolesi, La nuova disciplina del contratto di subfornitura, cit., p. 734; M.S. Spolidoro, Riflessioni critiche circa il rapporto tra abuso di posizione dominante e abuso di dipendenza economica, in Riv. dir. ind., 1999, I, p. 405; C. Osti, Nuovi obblighi a contrarre, Torino, 2004, p. 286; A. Barba, L’abuso di dipendenza economica, cit., p. 327; V. Pinto, L’abuso di dipendenza economica, cit., p. 405; Ph. Fabbio, L’abuso di dipendenza economica, cit., p. 110.
[78] Così r. natoli, L’abuso di dipendenza economica. Il contratto e il mercato, Napoli, 2004, p. 117 s.
[79] Sulla scorta dell’esperienza tedesca, in letteratura si ha cura di specificare che le alternative teoricamente disponibili devono essere anche concretamente praticabili (cfr., tra gli altri, G. Ceridono, Art. 9, cit., p. 433 ss.; A. Barba, L’abuso di dipendenza economica , cit., p. 330 ss.; V. Pinto, L’abuso di dipendenza economica, cit., p. 406 s.). Detto altrimenti, le alternative devono essere effettive dal punto di vista dell’impresa dipendente. La puntualizzazione appare particolarmente importante ai fini di queste annotazioni. Infatti solo le alternative effettivamente praticabili valgono a scongiurare la possibilità per l’impresa dominante di determinare un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi nei rapporti commerciali (e – nello specifico abuso – l’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie). Il rapporto asimmetrico e il contratto squilibrato possono affermarsi solo quando chi vi si assoggetta non può farne, ragionevolmente, a meno (dunque: non può allacciare altri rapporti commerciali e concludere contratti maggiormente equilibrati).
[80] In altri termini, il criterio principale, della possibilità di determinare nelle relazioni commerciali un assetto di interessi eccessivamente squilibrato, presuppone per un suo apprezzamento sufficientemente incontrovertibile che contratti siano stati stipulati, e che il rifiuto di contrattare avvenga all’interno di accordi quadro o normativi. In tutti gli altri casi, sulla scorta di tale criterio, l’abuso di dipendenza economica che si esprima nel rifiuto di vendere o comprare nel senso del rifiuto di avviare rapporti contrattuali, sarebbe difficilmente accertabile e sanzionabile.
[81] L’inversione dell’ordine previsto dal legislatore fa giustizia, dal punto di vista della logica, di quello stesso ordine: giacché la possibilità di imporre condizioni contrattuali eccessivamente squilibrate è effetto, e non causa, della condizione di dominanza economica dell’impresa prevalente. Come insegna l’esperienza, non è il potere contrattuale a determinare il potere economico, ma viceversa (mentre è pur vero che il potere economico si incrementa attraverso il potere contrattuale che genera).
[82] È facile notare che «i termini ‘eccessivo’, ‘arbitrario’, ‘ingiustificatamente’, indicano chiaramente che l’impresa esercita una diritto, un potere, che le è riconosciuto, ma lo fa in modo abusivo, oltre i limiti posti dalla legge, determinando uno squilibrio in senso lato del rapporto contrattuale»: A.M. Azzaro, Abusi nell’attività economica, cit., p. 18. Nello stesso senso, A. Barba, L’abuso di dipendenza economica, cit., p. 317 ss.; F. Prosperi, Subfornitura industriale, cit., p. 322 ss.; F. Toriello, Art. 9 – Abuso di dipendenza economica, in Aa.Vv., La subfornitura. Commento alla legge 18 giugno 1998 n,. 192, a cura di G. Alpa, A. Clarizia, Milano, 1999, p. 236 ss.; di recente, M. Orlandi, Dominanza relativa e illecito commerciale, in A.a.V.v., Il terzo contratto, cit., p. 151 ss.; altri preferisce l’idea che non di abuso del diritto si tratti ma, diversamente, di abuso di potere contrattuale (così, con vari accenti, G. De Nova, La subfornitura: una legge grave, in Riv. dir. priv., 1998, p. 451; M. Mazziotti Di Celso, in Aa.Vv., La subfornitura. Commento alla legge 18 giugno 1998, n. 192, cit., p. 241 ss., V. Carbone, Il contratto di subfornitura nelle attività produttive, commento alla legge 18 giugno 1998, n. 192, in Temi Romana, 1998, I, p. 691).
L’idea si deve a P. Rescigno, L’abuso del diritto, cit., p. 58: «Nel contratto, al quale è connaturale l’idea dell’accordo, e quindi dell’accettazione (che ciascun contraente compie) dell’altrui esercizio dell’autonomia, può aversi ‘abuso della situazione economica’ nel senso che il contraente economicamente più forte può dettare all’altra parte condizioni inique; non ricorrerà ‘abuso del diritto’ nel senso proprio dell’espressione». Va tuttavia rilevato che l’abuso di potere economico integra semplicemente il presupposto fattuale della prepotenza contrattuale: dell’esercizio abusivo della libertà di contratto con compressione di quella stessa libertà in capo alla controparte. Più articolatamente, cfr. L. Raiser, Il compito del diritto privato, cit., spec. p. 66; G. Amadio, Nullità anomale, cit., p. 296 s.; F. Di Marzio, Teoria dell’abuso, cit.
In particolare, con riguardo alla interruzione ingiustificata del rapporto, si precisa che anche «una valida previsione di recesso può divenire illecita ove il suo esercizio sia effettuato con modalità abusive, che spetta al giudice accertare, nonostante la formale legittimità del comportamento» (A. Musso, La subfornitura, cit., p. 526): il che è il proprio della valutazione dell’abuso del diritto. Sempre a proposito della interruzione ingiustificata del rapporto, non pare superfluo ricordare come la giurisprudenza ha variamente sanzionato la prassi bancaria del c.d. recesso ad nutum dal contratto di finanziamento regolato in conto corrente, avendo cura di affermare che il recesso, in se legittimo, non può tuttavia mai realizzarsi in violazione della regola del divieto di abuso del diritto (cfr., per es., Cass. 21 maggio 1997, n. 4538, in Foro it., 1997, I, c. 2479; Cass. 14 novembre 1997, n. 11271, in Corr. giur., 1998, p. 540; Cass. 14 luglio 2000, n. 9321, in Corr. giur., 2000, p. 1479; Cass. 22 novembre 2000, n. 15066, in Contratti, 2001, p. 79. Cfr., in dottrina, per tutti, F. Galgano, Abuso del diritto: l’arbitrario recesso ‘ad nutum’ della banca, in Contratto impresa, 1998, p. 23).
[83] Cfr. A. Musso, La subfornitura, cit., p. 481 ss., che segnala questa coincidenza sull’esame della fattispecie concreta sia nell’evenienza delle clausole abusive nei contratti dei consumatori che in quello dell’abuso di dipendenza economica nel contratto.
[84] E. Navarretta, Buona fede oggettiva, cit., p. 524 s. esclude pertanto, contro la lettera della legge, che ricorra una ipotesi di nullità, la quale in quanto dipendente da ragioni esterne al contratto, accuserebbe una anomalia, e propone una interpretazione correttiva nel senso della inefficacia. Nello stesso senso si pronuncia L. Valle, L’inefficacia delle clausole vessatorie e la nullità a tutela della parte debole, cit., p. 195. Così, invece, M. Orlandi, Dominanza relativa e illecito commerciale, cit., p. 157: nell’art. 9 l. subfornitura «non vi è descrizione di una fattispecie strutturale di nullità o la descrizione di clausole nulle: più semplicemente e radicalmente è riprovata una mera condotta (l’abuso di dipendenza), la quale per ciò steso riceve un predicato di illiceità e diviene insuscettibiel di essere dedotta in un contratto».
[85] Cfr. ancora A. Musso, La subfornitura, cit., p. 541 ss.
[86] In tale ottica, appaiono maggiormente condivisibili operazioni come quella di C. Osti, Nuovi obblighi a contrarre, cit., (che pure esclude, a p. 293 che la buona fede rilevi, nel contesto della dipendenza economica, come criterio discriminante dell’abuso del diritto, ma sulla scorta di una concezione del principio storicamente superata, in quanto ancorata all’idea di emulazione [e v., sul punto, F. Di Marzio, Abuso nella concessione del credito, cit., p. 109 ss.]) il quale propone di utilizzare il parametro della buona fede per indagare l’abuso di dipendenza economica, concretizzandolo tuttavia per mezzo di criteri economici (recovery-period rule; retribuzione della cooperazione e della rinuncia alle opportunità: cfr. p. 285 ss.; p. 296 ss.). Se alla luce di simili criteri la condotta dell’impresa dominante non riesce a essere giustificata, l’esercizio della libertà contrattuale (se concludere o meno il contratto, a quali condizioni rinegoziarlo o completarlo, ecc.) si rivelerà come abusivo, e reso possibile dall’uso distorto del potere di mercato.
[87] G. olivieri, Interpretazione del contratto e tutela della concorrenza, cit., p. 78 riflette su come alcune delle clausole considerate sarebbero perfettamente lecite in una prospettiva esclusivamente civilistica, ma divengono illecite nella prospettiva antitrust. La tesi è condivisibile laddove con l’espressione ‘punto di vista civilistico’ voglia designarsi il diritto del codice civile; nella legislazione nuova, infatti, l’ordine pubblico del mercato quale clausola riassuntiva del finalismo di sistema non consentirebbe questa conclusione (dal che l’incidentale annotazione che dopo la iniziale ‘commecializzazione del diritto civile’ condotta con la promulgazione del codice unitario, e in luogo della supposta ‘ricommercializzazione del diritto commerciale’ propugnata sull’onda della legislazione particolaristica, si assista oggi alla costruzione di un ‘diritto privato generale del mercato’).
[88] Cfr., per es., C. selvaggi, Abuso di posizione dominante, in Giur. it., 1992, IV, 134; G. Passagnoli, Nullità speciali, cit., 45; G. Tucci, , Norme bancarie uniformi e condizioni generali di contratto, in Contratti, 1996, 157 ss.
[89] Cfr., per es., R. Sacco, L’abuso della libertà contrattuale, cit., p. 217 ss.
[90] Cfr., per es., le osservazioni di G. Guizzi, Mercato concorrenziale, cit, p. 116.
[91] Cfr., per es., G. D’Amico, Regole di validità, cit., p. 69 ss.
[92] Cfr. M. Libertini, Autonomia privata e concorrenza, cit., p. 456. Lo stesso a., tuttavia, effettua una distinzione tra patti determinanti un abuso ‘di impedimento’ (es., boicottaggio) e patti abusivi di sfruttamento (es., imposizione di prezzi iniqui) affermando che mentre nei primi ricorre una illiceità della causa, invece nei secondi rileva la violazione di una regola di comportamento: cosicché in questo secondo ordine di evenienze, il contratto sarebbe valido e il comportamento precontrattuale illecito determinerebbe responsabilità risarcitoria (cfr. M. Libertini, La causa nei patti limitativi della concorrenza tra imprese, cit., 127 s.; sulla stessa linea si pone M.R. maugeri, Invalidità del contratto e disciplina imperativa del mercato, in A.a.V.v., Contratto e antitrust, cit. p. 185 ss.). Altra dottrina (cfr. G. D’Amico, Regole di validità, cit., p. 69 ss.) sostiene che in tutti i casi di abuso la nullità virtuale sarebbe esclusa poiché la norma civilistica violata dall’impresa in posizione dominante è nel dovere di comportarsi in buona fede durante le trattative. L’autore giunge a tale conclusione ritenendo che la presenza di un apposito rimedio civilistico (qui individuato nel risarcimento del danno per violazione dell’art. 1337 c.c.) escluda, ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c., la nullità. La critica a tali concezioni è esposta nel capitolo secondo, sez. I.
[93] Cfr. M. Libertini, La causa nei patti limitativi della concorrenza tra imprese, cit., 128.
[94] A. di Majo, La nullità, cit., p. 133.
[95] G. Auletta, Attività (dir. priv.), cit., p. 985.
[96] Cfr. ancora M. Libertini, Autonomia privata e concorrenza, cit., p. 457.
[97] V. Scalisi, Nullità e inefficacia, cit., p. 206 s.
[98] A. di Majo, La nullità, cit., p. 128.
[99] A. di Majo, La nullità, cit., p. 128. V. anche V. Roppo, Il contratto del duemila, cit., p. 49; V. Scalisi, Contratto e regolamento, cit., p. 480.
[100] Così S. Rodotà, Introduzione a Le fonti di integrazione del contratto, cit., p. XIII: «Proprio le nuove fortune del contratto, l’accresciuto suo peso economico e sociale, ne precludono una lettura chiusa, quasi che le parti, rinserrandosi nei suoi confini, potessero negare la loro appartenenza al mondo».
[101] In quanto atto relazionale, il contratto corre non più tra generiche parti, ma tra precise soggettività: gli attori del mercato. Nel diritto codicistico l’astrattezza della qualificazione (‘parte’) deprime l’aspetto relazionale a vantaggio di quello attizio, e contribuisce alla entificazione del contratto come separato dalle partecipazioni. Le tradizionali incertezze sull’illiceità come determinata anche dalla qualità soggettiva delle parti, esaminate nel capitolo primo, § II.2, discendono proprio dalla aporia in cui cade lo stesso diritto codicistico: che da un lato struttura monadicamente il contratto come atto astratto dalle partecipazioni, e dall’altro isola alcune caratteristiche soggettive dei contraenti ai fini del giudizio di nullità/illiceità dell’atto medesimo.
[102] I valori oggettivati con calmiere nei contratti usurari sono comunque dipendenti dalla prassi commerciale: come dimostra la procedura di rilevazione trimestrale dei dati, il riferimento è sempre alla razionalità interna del mercato.
[103] Per es., valutazione di abusività, regresso, ecc.: cfr. gli artt. 34, comma 1; 36 comma 4, c. consumo; cfr. le interessanti notazioni di A.M. Azzaro, Abusi nell’attività economica, cit., p. 22 ss.
[104] Il contratto, giova ribadire, non è riguardato in se stesso (come consiglierebbe – nella logica della fattispecie – l’approccio dogmatico tradizionale) ma è considerato come risultato dell’esercizio della libertà contrattuale ed è sanzionato in conseguenza del giudizio ordinamentale espresso sopra quell’esercizio.
[105] Il discrimine – già attentamente vagliato (cfr., per es., r. natoli, L’abuso di dipendenza economica, cit., p. 82 ss.; E. Russo, Le transazioni commerciali, cit., p. 260 s.; 326 ss.) – è oggetto di proficua indagine nei recenti contributi in A.a.V.v., Contratto e antitrust, cit.; A.a.V.v., Il terzo contratto, cit.
[106] Cfr. relazione al c. consumo, § 3, dove si legge: «La tutela del consumatore si caratterizza essenzialmente come disciplina civilistica dei rapporti tra le parti contraenti, sotto lo specifico profilo della relazione tra parti ‘non uguali’, come è quello tra ‘professionista’ e ‘consumatore’, caratterizzato dalla ‘debolezza strutturale’ di quest’ultimo».
[107] In particolare, accertata la qualità dei contraenti (deve trattarsi di imprese e non di una impresa e un consumatore) dovrà appurarsi il fatto storico della posizione di dominanza economica di un’impresa o di dipendenza economica dell’altra e in ogni caso – come dispone la normativa sui ritardi di pagamento – la condizione in cui stanno i contraenti. Solo qualora questo primo giudizio dia esito positivo, potrà indagarsi se si sia realizzato o meno l’esercizio abusivo della libertà contrattuale (e dunque se la posizione dominante o la dipendenza economica siano state abusate).
In questo settore della contrattazione, la legge non richiede che il contratto sia stato predisposto ed accettato, ma soltanto che le clausole abusive siano state imposte: il che può avvenire anche in un contratto negoziato. Va perciò escluso che la modalità della predisposizione contrattuale possa concorrere a integrare il contesto abusivo della dipendenza economica. Invece, la predisposizione di condizioni generali di contratto (ma anche la predisposizione del singolo regolamento) e l’assenza di negoziato sul predisposto possono in qualche misura concorrere a integrare un abuso di dipendenza economica. Ciò può verificarsi quando – accertato nel caso di specie un contesto abusivo di dipendenza economica – la predisposizione contrattuale avvenga in concomitanza con ulteriori fattori connotativi dell’abuso per come individuati dalla letteratura sull’abuso di dipendenza economica.
Quasi in forma di corollario, discende l’inapplicabilità della tutela dall’abuso di dipendenza economica ai contratti stipulati tra imprese e consumatori, pur prospettata in dottrina sulla scorta della tesi che argomenta l’abuso di dipendenza economica come clausola generale sull’equilibrio contrattuale ( v. i citati contributi di F. Prosperi, Subfornitura industriale; Id., Il contratto di subfornitura). È infatti decisivo rilevare che se pure si voglia argomentare l’esistenza di un generale principio di equilibrio o proporzionalità nei contratti (per una versione esaustiva cfr. P. Perlingieri, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, in Id., Il diritto dei contratti fra persona e mercato, cit., p. 443 ss.) esso non possiede una operatività diretta e indifferenziata in ogni contesto disciplinare, ma è operativo alle condizioni e nei limiti in cui acquista positiva rilevanza in ogni settore: come l’edificazione legale dei diversi contesti abusivi dei contratti del consumatore e della dipendenza economica mostra evidentemente.
[108] Cfr. rispettivamente, G. Passagnoli, Nullità speciali, cit., p. 174; M. Rabitti, Contratto illecito, cit., p. 133 ss. e M.R. Maugeri, Abuso di dipendenza economica, cit., p. 160 ss.
[109] In V. Scalisi, Nullità e inefficacia, cit., p. 214, il § 9 è intitolato La nullità al ‘plurale’ quale rilevanza ad efficacia variabile e innovativo principio di sistema. Cfr., inoltre, V. Scalisi, Contratto e regolamento, cit., p. 460 ss. In uno degli ultimi lavori sulle nullità, sulla scorta del pensiero di Scalisi, si dichiara la «consapevolezza del carattere plurale della nullità che si è venuto attestando nel nostro sistema specie per effetto delle sollecitazioni provenienti dal legislatore europeo» (M.C. Venuti, Nullità della clausola, cit., p. 56). Cfr., inoltre, e sempre di recente, E. Navarretta, Buona fede oggettiva, cit., p. 522. Nella dottrina precedente, cfr. G. Iudica, Impugnative contrattuali e pluralità d’interessati, Padova, 1973, p. 21; G. Filanti, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, Napoli, 1983, p. 83 ss.
[110] V. Scalisi, Nullità e inefficacia, cit., p. 214. Cfr. anche G. Passagnoli, Nullità speciali, cit., p. 11 ss.
[111] Così A. Albanese, Violazione di norme imperative, cit., p. 18, nota 48.
[112] Cfr. A. Federico, Illiceità contrattuale, cit., p. 165, nota 105 e, ancora, G. D’Amico, Ordine pubblico, cit., p. 24, nota 24.
[113] Cfr. A. Federico, Illiceità contrattuale, cit., p. 167 s. (il passo riportato è a p. 167) il quale aderisce in tal modo alla critica già formulata da G.B. Ferri, L’ordine pubblico economico, cit., p. 346 ss.
[114] Sotto quest’ultimo profilo, sembra acclarato che, giacché «un ampio riconoscimento della libertà negoziale è condicio sine qua non per l’instaurarsi di situazioni di concorrenza effettiva nei diversi mercati», e giacché «La libertà negoziale può essere esercitata anche in senso anticoncorrenziale, cioè per frenare o eliminare la concorrenza» (M. Libertini, Autonomia privata e concorrenza, cit., p. 433) il problema che attualmente si pone è non tanto e non più di tutelare la libertà di contratto dell’impresa dall’invadenza del potere statuale, quanto di tutelare la libertà contrattuale dall’invadenza pericolosa dei poteri privati, che esprimono una forza soverchiante nella formazione e nella stipulazione.
[115] Anche l’analisi strutturale avverte sulla plausibilità del tentativo. Come ricordato nelle pagine iniziali di questo lavoro (cfr. capitolo primo, § I.2) nelle regole codicistiche il legislatore, disciplinando il fenomeno della nullità/illiceità nel contesto della contrattazione tra eguali, ha predisposto nondimeno il sistema al compiuto avvento del fenomeno della nullità/illiceità nella contrattazione diseguale. Per il ripetuto inserimento delle clausole di salvezza nessuna regola appare assoluta: in tutte è apprestato uno spazio per l’eccezione. In via di principio, il diritto delle nullità protettive si accomoda abbastanza convenientemente negli spazi riservati dal codice: a costituire prima un diritto eccezionale, poi un diritto speciale (dei contratti del consumatore) subito dopo il diritto prevalente della nullità (nell’ampio orizzonte fenomenologico e positivo della contrattazione diseguale). Può dunque sostenersi che il nuovo diritto delle nullità non è sconnesso dal diritto codicistico della nullità. Infatti, la deroga e l’eccezione costituiscono già di per se stesse modalità del rapporto che corre tra nullità del codice e nullità speciali, e costituiscono soltanto le modalità più evidenti; infatti, è la ragione di ordine pubblico – che fonda sia la disciplina codicistica sia i regimi protettivi – a fornire il collante tra i due ordini di regole. La ragione di ordine pubblico spiega sia la ‘regola’ sia l’‘eccezione’; chiarisce le dinamiche della illiceità bilaterale e della illiceità unilaterale; illumina in tal maniera la verità del rapporto. Un rapporto – va precisato – che non corre tra regola ed eccezione ma tra un sistema di regole (nullità codicistica) e un insieme di regole non strutturate in sistema (nullità di derivazione comunitaria). Dietro la razionalità unificante dell’ordine pubblico, il sistema di regole e l’insieme di regole disciplinano in maniera diversa situazioni diverse.
[116] Relazione al c. consumo, § 6: «la normativa di fonte comunitaria a tutela del consumatore ruota intorno ad un’esigenza di protezione speciale di questo soggetto, qualificato come ‘parte debole’ del rapporto con l’interlocutore professionale, rispetto al quale si trova in una posizione di ‘asimmetria contrattuale’. […] Di qui un approccio specifico, ignoto al codice del 1942, fondato invece su un concetto formale di uguaglianza, diretto a garantire una tutela sostanziale, attenta all’equilibrio effettivo – normativo ed economico – del contratto».
[117] La ponderazione – da parte del nostro legislatore – nella scelta della forma ‘codice’ è evidenziata dalle note sul «dubbio, di natura scientifica, piuttosto che pratica, secondo cui la riunione in un unico testo di disposizioni afferenti ai diversi ambiti coinvolgenti il consumatore avrebbe potuto accentuare le differenze di regime a cui sono sottoposti i rapporti tra imprenditori ed i rapporti tra questi ultimi e i consumatori», dubbio superato dalla constatazione che al momento attuale la redazione di «un quadro di principi inerenti esclusivamente l’area del diritto contrattuale riguardante i rapporti posti in essere con i consumatori [… è frutto] di un orientamento irreversibile» in sede comunitaria e nei Paesi membri (cfr. relazione al c. consumo, § 1, da cui le citazioni). Pertanto, il legislatore accetta consapevolmente di pagare un prezzo in termini di razionalità sull’assetto globale del nuovo diritto positivo dei contratti diseguali pur di guadagnare una razionalità più profonda nel particolare settore dei contratti del consumatore.
Sotto quest’ultimo profilo la scelta per un ‘codice’ del consumo, così affiancato al codice civile, si chiarisce come preferenza per una modalità della legge particolarmente idonea ad assicurare una organizzazione delle regole secondo razionalità e sistematicità: caratteristiche indispensabili di un regime protettivo adeguato all’obbiettivo.
Proprio la sistematicità della forma ‘codice’, determinata da una ragione ispiratrice chiara unitaria e unificante, esclude che nel codice civile possano essere razionalmente inserite regole ispirate a una ragione distonica con quella che lo anima. In questa prospettiva, la scelta di un ‘codice del consumo’ segue, tra gli altri, l’esempio francese (cfr. relazione al c. consumo, § 4, in cui quali modelli ispiratori si richiamano, oltre al Code de la consommation, la legge spagnola sulla difesa dei consumatori e degli utenti e il progetto di codice belga) e disattende il più recente esempio tedesco. Come è noto, l’introduzione del Code de la consommation ha dato risposta all’esigenza di evitare il più possibile contaminazioni tra il diritto codicistico e un sistema di regole improntato alla tutela di un soggetto specifico. La riscrittura nel BGB dello Schuldrecht si propone invece di ricondurre a sistema unitario diritto tradizionale e nuovo diritto dei contratti. In sintonia con le ragioni espresse dal legislatore italiano, si è commentato che «La scelta del legislatore tedesco determina una difficile coesistenza tra norme vecchie e nuove ma soprattutto tra due diverse concezioni dell’autonomia privata. Infatti, ad una concezione dell’autonomia privata quasi priva di confini, che individua la funzione del legislatore e del giudice nel sanzionare il mancato rispetto dell’accordo, si è sovrapposta una visione dell’autonomia privata ‘costretta’ entro limiti precisi, dettati al fine di tutelare uno dei contraenti» (S. Patti, Introduzione, in Codice civile tedesco, a cura dello stesso, Milano, 2005, p. XIII).
[118] Sul dibattito innescato dalle codificazioni di settore cfr., per es., P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2001, p. 116 ss.; N. Irti, Codici di settore: compimento della decodificazione, in Dir. e soc., 2005, p. 131 ss.; F. Grua, Le Code civil, code residuel?, in Rev. trim. dr. civ., 2005, p. 253 ss.
[119] Il che non sembra smentito dalla agevole constatazione sulla asistematicità del codice del consumo (cfr. G. De Nova, La disciplina della vendita dei beni di consumo nel ‘Codice’ del consumo, in Contratti, 2006, p. 393) e dunque sulla modestia degli obbiettivi raggiunti con la codificazione (cfr. G. De Cristofaro, Il «Codice del consumo», in Nuove leggi civ. comm., 2006, p. 749 ss.). Il legislatore, infatti, ha scientemente scartato la possibilità di redigere un testo unico, in quanto quello strumento non avrebbe consentito di accentuare la coerenza e la razionalità della normativa a tutela del consumatore nella stessa misura resa possibile dalla realizzazione di un codice (cfr. relazione al c. consumo, § 5). Al di là della intensità con cui il risultato possa dirsi raggiunto resta il fatto della codificazione: «le norme preesistenti, riprodotte, anche invariate, sotto un aulico nome, legittimano operazioni ermeneutiche ed integrative che fanno progredire il diritto privato europeo dei contratti. Per il solo fatto di cambiare la geometria, il Codice ha innovato» (A. Gentili, Codice del consumo ed esprit de géométrie, in Contratti, 2006, p. 159).
[120] Relazione al c. consumo, § 6.
[121] Cfr. Relazione al c. consumo, § 6.
[122] Non appare infatti seriamente contestabile (né bisognevole di ulteriore argomentazione) che, al di là delle intenzioni dei suoi sostenitori, la tesi sulla inefficacia in senso stretto delle clausole abusive abbia sortito l’effetto di ostacolare gravemente la ricostruzione interpretativa del regime delle c.d. nullità di protezione sparse nelle leggi a tutela del consumatore.
[123] Cfr. gli artt. 52, comma 3, con riguardo ai contratti a distanza; 71 e 76, comma 3, in tema di multiproprietà. Una eccezione èdata dall’art. 67 septies decies, comma 5, in materia di contratti finanziari a distanza, dove si stabilisce la nullità totale e relativa.
[124] Cfr. gli artt. 67, comma 5, relativamente ai contratti negoziati fuori dai locali commerciali o a distanza; 78 per il contratto di multiproprietà; 124 circa responsabilità del produttore; 134, comma 3 con riguardo alla vendita mobiliare.
[125] Cfr. l’art. 78, riferito al contratto di multiproprietà.
[126] Cfr. gli artt. 94, comma 3, e 95, comma 2, in materia di servizi turistici.
[127] Sulle incoerenze sistematiche suscitate dalla introduzione dell’art. 143, comma 1, c. consumo, riferisce S. Monticelli, L’indisponibilità dei diritti del consumatore nel Codice del consumo e la nullità dei patti, in Contratti, 2007, p. 697 ss.
[128] Non sussiste invece la possibilità dell’applicazione del regime protettivo per come conformato nella singola ipotesi che viene in rilevo, prescindendo sia dalle regole degli artt. 1419 e 1421 c.c. sia dalle regole dell’art. 36 c. consumo. Infatti, per tutti i profili disciplinari inespressi nella specifica norma che viene in esame, la domanda sulla integrazione: in primo luogo non può essere elusa; in secondo luogo, implica una risposta che non può prescegliere una terza via, come tale inesistente. In dettaglio. Una previsione sulla nullità parziale può escludere l’art. 1419, ma non l’art. 1421: e dunque pone il problema dell’applicabilità di questa regola o, in alternativa, dell’art. 36, comma 3, c. consumo. Una previsione sulla nullità relativa esclude l’art. 1421, ma non l’art. 1419: e dunque pone il problema dell’applicabilità di questa regola o, in alternativa, dell’art. 36, comma 1, c. consumo. Il problema dell’applicazione delle regole dell’art. 36 c. consumo si pone anche nei casi in cui si ritenga di escludere le regole civilistiche in quanto derogate dalla specifica norma protettiva che viene in rilievo e in quanto incompatibili con le finalità protettive. Resta infatti da decidere se quella norma vada o meno integrata con le regole dell’art. 36 c. consumo non richiamate. Così è per le norme che dispongono la relatività dell’eccezione ma tacciono sul potere di rilievo di ufficio: l’esclusione dell’art. 1421 non apre automaticamente le porte all’art. 36, comma 3, c. consumo.
[129] Cfr. S. Mazzamuto, Brevi note in tema di conservazione o caducazione del contratto in dipendenza della clausola abusiva, in Contratto impresa, 1995, p. 1097 ss.
[130] Sulla inattualità del giudizio di nullità parziale così congegnato, e sulla conseguente marginalizzazione della regola nella legislazione recente, v. tra i molti, G. Passagnoli, Nullità speciali, cit., p. 214 ss.; per una ricostruzione del dibattito dottrinale e della evoluzione giurisprudenziale, cfr. F. Di Marzio, La nullità, cit., p. 711 ss. Cfr., in generale, le pagine ancora attuali di G. Farjat, L’odre public, cit., p. 362 s.
[131] Le ragioni che fondano la previsione sono individuate nella scarsa reattività processuale che caratterizza il consumatore: parte debole nel contratto, e ancora debole nel processo. Il potere attribuito al giudice supplisce a una difesa che potrebbe essere carente. Il fondamento dell’attribuzione ne segna i confini: il potere sarà esercitato se il risultato che si matura non confligge con gli interessi del consumatore (Così A. Gentili L’inefficacia delle clausole abusive, cit., p. 429; v. anche M. Nuzzo, Art. 1469 quinquies, comma 1° e 3°, cit., p. 1221; S. Maiorca, Tutela dell’aderente, cit., p. 156). Questa ricostruzione dell’ambito del potere riconosciuto al giudice si concilia con la ritenuta relatività del vizio in punto di legittimazione: se il giudice avesse un potere non così condizionato di rilevare la nullità, sorgerebbe un insanabile conflitto fra la prevalente idea della relatività (piuttosto che dell’assolutezza) dell’azione e il potere riconosciuto all’organo statale, che effettivamente la sconfesserebbe. Come sempre avviene per i poteri di ufficio, anche questo è fondato su ragioni di ordine pubblico (cfr., per es., S. Maiorca, Tutela dell’aderente, cit., p. 156): che dall’abuso contrattuale patito dalla parte debole non si generi, nel processo, un ulteriore danno a carico della medesima.
[132] Per quanto anticipato nel testo, la vicenda delle clausole vessatorie dimostra l’intima connessione in cui stanno le regole della legittimazione all’eccezione e del rilievo di ufficio con la regola della nullità parziale. Come è noto, la giurisprudenza costante ritiene che la mancanza della specifica approvazione per iscritto di tali clausole onerose comporti la nullità delle medesime per inosservanza dell’onere formale imposto dalla legge (e in questa opinione è confortata anche dalla relazione al c.c., n. 612, dove si legge che le clausole vessatorie non specificamente approvate per iscritto sono nulle) nullità eccepibile da chiunque vi abbia interesse e rilevabile di ufficio dal giudice (per tutte, v. Cass. 19 gennaio 2000, n. 569, in Giust. civ. Mass., 2000, 92; Cass. 15 febbraio 1992, n. 1873, in Giust. civ. Mass., 1992, f. 2; episodiche pronunce parlano non di nullità, ma di inefficacia: così Cass. 27 febbraio 1998, n. 2152, in Foro it., 1998, I, c. 1051; Trib. Roma 18 maggio 1999, in Giust. civ., 2000, I, p. 3277). Secondo parte della giurisprudenza, la nullità (eccepita o rilevata di ufficio) delle clausole vessatorie può importare la nullità dell’intero contratto se, in applicazione della regola posta dall’art. 1419, comma 1, c.c., risulta che le parti non lo avrebbero concluso in mancanza della parte viziata (cfr. Cass. sez. un. 11 novembre 1974, n. 3508, in Giust. civ., 1974, I, p. 1469; Cass. 12 giugno 1998, n. 5860, in Giust. civ. Mass., 1998, 1298). Questa conseguenza stride con l’interesse tutelato dall’art. 1341, comma 2, c.c.: quello della parte debole a non sottostare a condizioni inique in contratti che spesso concernono beni o servizi essenziali. L’alternativa sarebbe: o acquiescenza al contratto viziato o nessun contratto. Un diverso indirizzo, pertanto, risolve il giudizio di nullità parziale nel senso della conservazione della parte restante del contratto (cfr. Cass. 9 giugno 1959, n. 1524, in Giur. it., 1961, I, 1, c. 443; Cass. 24 marzo 1966, n. 777, in Foro it., 1967, I, c. 2622).
È parimenti noto che la dottrina, pur respingendo questa visione, non è uniformemente orientata. Vi è chi concorda con l’avviso espresso in giurisprudenza circa la natura della sanzione, ma da un lato precisa che l’azione di nullità deve essere ritenuta a legittimazione relativa e non assoluta, essendo soltanto l’aderente destinatario della tutela la parte eventualmente interessata ad azionarla, e dall’altro lato puntualizza che il vizio si deve intendere confinato al singolo precetto, senza che possa espandersi nella parte restante del contratto (cfr., per es., G. De Nova, in R. Sacco, G. De Nova, Contratto, I, cit., p. 375). Altra opinione valorizza invece il dato testuale, e legge l’inefficacia delle clausole vessatorie non specificamente approvate per iscritto non nei termini della nullità ma in quelli dell’inefficacia (anch’essa, per le ragioni espresse, relativa) intesa in senso stretto (derivante, cioè, da un contratto valido) (cfr. soprattutto G.B. Ferri, Nullità parziale e clausole vessatorie, in Riv. dir. comm., 1977, e ora in Saggi di diritto civile, cit., p. 16; R. Scognamiglio, Contratti, cit., p. 268 parla invece di inopponibilità).
[133]S. Monticelli, Dalla inefficacia della clausola vessatoria, cit., p. 577, individua a tutto ciò un limite, sostenendo che «non può certo riconoscersi […] a tale legittimazione relativa a far valere l’inefficacia un limite al potere del giudice di dichiarare d’ufficio la nullità del contratto carente di uno dei requisiti essenziali richiesti dall’ordinamento». Altra dottrina è di contrario avviso: a suo giudizio il rilievo della nullità deve sempre essere condizionato al perseguimento dell’interesse del consumatore (cfr. S. Maiorca, Tutela dell’aderente, cit., p. 161). Entrambe le tesi contengono elementi di esattezza. La prima, se si vuol dire che un contratto nullo (per incompletezza o perché contrario a norme imperative) per ragioni diverse dalla abusività di una o più clausole deve essere comunque dichiarato (semplicemente) nullo (o illecito): nemmeno al consumatore può essere concessa tutela accogliendo pretese fondate sulla violazione dell’interesse della collettività. La seconda, se si vuol dire che un contratto che diverrebbe nullo (perché incompleto o illecito) in ragione della (rilevata) abusività della clausola non può esserlo ritenuto di ufficio dal giudice.
[134]Cfr. i rilievi di G. Cian, Il nuovo capo XIV bis, cit., p. 417.
[135] G. Bonfiglio, La rilevabilità d’ufficio, cit., p. 89.
[136] Potrebbe obbiettarsi che una simile ricostruzione stride con la ineffettività originaria della clausola nulla, che in quanto tale non potrebbe spiegare effetto alcuno. Ma potrebbe dubitarsi della esistenza stessa della nullità (di quella clausola in quel contratto). La regola sulla operatività della nullità a esclusivo vantaggio del consumatore potrebbe infatti determinare che la nullità, che non può operare a svantaggio di quello, nella fattispecie concreta non sia argomentabile come tale. Pertanto, a prescindere dalle manifestazioni espresse dal consumatore nel senso della conservazione della clausola abusiva, e anche nel silenzio del consumatore, il giudice deve astenersi, in tali casi, dal rilievo di ufficio (qui il vantaggio del consumatore nella conservazione della clausola è desumibile dal generale vantaggio alla conservazione del contratto, non contraddetto nel caso specifico dall’eccezione del consumatore sulla nullità della clausola abusiva). Per ulteriori considerazioni, cfr. F. Di Marzio, Deroga abusiva al diritto dispositivo, nullità e sostituzione di clausole nei contratti del consumatore, in Contratto impresa, 2006, p. 685 ss.
[137] A. Gentili L’inefficacia delle clausole abusive, cit., p. 429 (e, più in generale, Id., Nullità annullabilità inefficacia, cit., p. 204 s.)
[138] Cfr. G. Iudica, Impugnative contrattuali, cit., p. 68.
[139] Cfr. A. Gentili L’inefficacia delle clausole abusive, cit., p. 430.
[140] In quanto, è appena il caso di notare, nessuna differenza specifica relativa al settore contrattuale ogni volta considerato può essere al riguardo rilevante: tutte le operazioni contrattuali in cui è coinvolto un consumatore e come tali disciplinate nel codice settoriale rispondono alla logica della protezione del consumatore.
[141] Cfr. G. De Cristofaro, Il «Codice del consumo», cit., 815 s., che dunque, pur apprezzandone le finalità di razionalizzazione, solleva il dubbio di natura sistematica sulla tesi esposta nelle pagine seguenti, e già anticipata in F. Di Marzio, Codice del consumo, nullità di protezione e contratti del consumatore, in Riv. dir. priv., 2005, p. 837 ss. Parimenti critica la posizione di E. Mantovani, Le nullità, cit., p. 173, nota 65, che discorre, a riguardo, di «Una recente, interessante ma forse un po’ disinvolta proposta ricostruttiva».
[142] In generale non può sottacersi che nelle questioni sollevate dal nuovo diritto dei contratti, ogni tesi articolata su rilievi formali e sulla sistematica interna dei prodotti normativi, nella misura in cui prende (per così dire) ‘troppo sul serio’ o ‘troppo alla lettera’ le parole chiaramente confuse del legislatore, si espone a qualche riserva metodologica. A differenza del diritto positivo tradizionale i testi normativi della contemporaneità non possono plausibilmente leggersi prescindendo dalle condizioni pratiche, ampiamente inevitabili ma in pari misura deprecabili, in cui oggi disordinatamente si legifera. La consapevolezza di tali condizioni pratiche (e critiche) è generalizzata. Tanto che non si rinvengono saggi sul nuovo diritto dei contratti in generale, e sulle nullità speciali in particolare, che non denuncino lo stato critico in cui versa la redazione della legge. Nonostante ciò, la dottrina fatica sulla strada di un pur necessario rinnovamento metodologico. Invece, questa acquista consapevolezza dovrebbe consigliare grande prudenza nell’affidarsi – come avveniva in passato – alla ‘sistematica’ della legge (che invece non è costruita sistematicamente, ma per mero assemblaggio di regole in testi costellati di refusi) per trarre conseguenze rilevanti sul piano della effettività della tutela. Allo stesso tempo, e in compensazione, non dovrebbe disdegnarsi di prestare attenzione alla intenzione del legislatore, secondo un canone pur stabilito nel nostro ordinamento (cfr. art. 12, comma 1, prel.) ma mai enfatizzato dall’interprete. Ovviamente, si intende far riferimento non alla versione psicologistica del canone (l’intenzione effettivamente nutrita dai compilatori) ma alla versione invalsa nella teoria ermeneutica del diritto: ‘intenzione del legislatore’ intesa «nell’ottica della ragion pratica […], cioè come ricostruzione dei princìpi che hanno contribuito sul piano storico e istituzionale a giustificare una decisione normativa» (F. Viola, in F. Viola, G. Zaccaria, Diritto e interpretazione, cit., p. 397). Nel caso in esame, il principio della protezione del consumatore (attraverso la tecnica della nullità, appunto protettiva). Infatti, il principio della tutela del consumatore nel contratto è rinvenibile non soltanto nelle declamazioni dei redattori del codice settoriale e nei considerando delle direttive comunitarie in oggetto ma – quanto più conta – in numerosissime regole comunitarie e interne che sono state progressivamente emanate in dichiarata o evidente esecuzione di quel disegno.
[143] Questa caratteristica risulta evidente se si paragona l’art. 143 all’art. 36. Nel secondo, rubricato alla nullità protettiva, è conseguentemente dettato il relativo regime; nel primo, rubricato alla irrinunciabilità dei diritti, è disposta la nullità del patto in cui essi sono dedotti.
[144] Come dimostrano le regole codicistiche sulla conciliazione (art. 141) gli atti di disposizione successivi all’acquisizione del diritto sono infatti certamente ammissibili: cfr. S. Monticelli, L’indisponibilità dei diritti del consumatore, cit., p. 699 s.
[145] Infatti, sia l’art. 1469 bis c.c. (versione attuale) che l’art. 38 c. consumo chiariscono, rispettivamente, che le norme del codice generale si applicano ai contratti del consumatore solo in quanto non derogate e sempre che nel codice settoriale manchi una previsione apposita: cfr. oltre, in questo §.
[146] Più in dettaglio, occorre osservare quanto segue. Nel sistema del codice civile vi sono numerose previsioni che dichiarano testualmente la nullità senza mai stabilire alcunché sul relativo regime. Il regime generale della nullità è infatti contenuto negli artt. dal 1418 al 1424 – quali norme espressamente dedicate a stabilirlo – ed è di immediata applicazione in tutti i casi. Invece, in un prodotto scarsamente sistematico come il codice del consumo la disciplina della nullità si svolge disordinatamente. Accanto a regole che si limitano a sancire la nullità ve ne sono di altre che specificano anche alcuni profili del relativo regime. Il regime più completo è contenuto nell’art. 36, dedicato alle clausole abusive. Occorre precisare che le singole previsioni di nullità, anche quando non dispongono alcunché sul relativo regime, non richiamano nessuna disciplina della nullità: non quella degli artt. 1419 e 1421 c.c. e neppure quella dell’art. 36 c. consumo (benché giovi evidenziare che, mentre in nessun caso i profili disciplinari esplicitati ripetono le regole del codice civile o sono compatibili con il loro contenuto, in tutti i casi in cui almeno un profilo disciplinare è esplicitato, esso coincide con il rispettivo profilo disegnato nell’art. 36). Sembra pertanto che l’applicazione delle regole degli artt. 1419 e 1421 c.c. alle previsioni di nullità non specificamente conformate non sia aprioristicamente sostenibile. Infatti, le nullità contenute nel codice del consumo non si pongono semplicemente fuori dal codice civile, ma precisamente dentro un codice di settore. In tale codice la nullità non è semplicemente prevista; essa è altresì spesso articolata secondo profili fortemente singolari rispetto a quelli espressi negli artt. 1419 e 1421 c.c.
[147] Ma va subito aggiunto: neanche a tal punto quella soluzione potrebbe essere automaticamente utilizzata; occorrerebbe infatti interrogarsi sulla compatibilità tra di essa e le finalità invece riposte nelle previsioni di nullità contenute nel codice settoriale, occasionalmente valorizzate dagli specifici profili disciplinari espressi nella singola previsione.
[148] Il consumatore potrà decidere se eccepire o meno la nullità; in questa scelta, egli resta tutelato anche rispetto all’attivismo giudiziale, infatti condizionato al vantaggio del consumatore.
[149] Potrebbe non essere superfluo precisare che la nullità protettiva non può disciplinare le conseguenze della violazione di una norma imperativa non protettiva: predisposta a tutela immediata dell’interesse generale e non a tutela dell’interesse generale e insieme dell’interesse del consumatore. Mentre infatti la norma imperativa protettiva fissa una regola per il contraente forte, la disattenzione della quale comporta la illiceità del contratto per abuso della libertà contrattuale (e deve essere trattata con la nullità di protezione, funzionale al riequilibrio del rapporto) invece la norma imperativa non protettiva fissa una regola per entrambi i contraenti, la disattenzione della quale determina l’illiceità classica (bilaterale) del contratto (sanzionata con le regole sulla nullità previste negli artt. 1418 ss. c.c., indifferenti al riequilibrio contrattuale e funzionali alla sanzione del contratto quale accordo contro gli interessi superiori).
[150] A conferma della conclusione raggiunta si consideri che alcune categorie delle clausole in oggetto non potrebbero mai essere semplicemente presunte come abusive, in quanto sono da giudicarsi illecite perché tutte contrarie a principi di ordine pubblico e già sanzionate, nel codice civile come anche nel codice del consumo, con la nullità (cfr., per es., gli artt. 1229 e 1681 c.c. e l’art. 12 d.p.r. 24 maggio 1988, n. 224, ora art. 124 c. consumo). Le previsioni imperative testualmente sanzionate con la nullità rinvenibili nel codice del consumo non solo ricoprono l’area precettiva di clausole dichiarate senz’altro nulle nella disciplina generale, ma hanno un’area rispetto a questa più ampia. Basti pensare alle nullità delle limitazioni convenzionali della responsabilità del professionista anche al di sotto delle soglie stabilite nell’art. 36 c. consumo e, più ampiamente, la nullità della rinuncia del consumatore ai diritti riconosciuti dal codice (cfr. gli artt. 78; 94, comma 3; 95, comma 2; 134, comma 1 e infine la norma dell’art. 143, comma 1, c. consumo). A fronte della identità di oggetto, e della più vasta estensione della tutela, non sarebbe ragionevole sostenere la semplice presunzione di abusività delle regole generali e invece la secca nullità delle disposizioni di dettaglio (si ripete, riferite a fattispecie meno gravi di quelle sanzionate in via generale).
[151] Queste conclusioni non sono ostacolate alla dottrina addensatasi sul punto. Basti riflettere sul dibattito suscitato dalla versione originaria degli artt. 1469 bis, comma 3, nn. 1, 2 e 10 c.c. da un lato e 1469 quinquies, comma 2, nn. 1, 2 e 3 c.c. dall’altro. Si tratta infatti delle stesse clausole contenute in due diversi elenchi e assoggettate a due diverse discipline (la c.d. presunzione di abusività in assenza di trattative per le prime; l’abusività nonostante la trattativa per le seconde). L’evidente difetto di coordinamento tra queste disposizioni ha fatto ritenere che le clausole presenti in entrambe siano da considerarsi sempre e comunque abusive, ancorché riportate (per refuso) nell’elenco dell’art. 1469 bis, sulle clausole solo presuntivamente abusive (cfr., da ultimo, R. Calvo, I contratti del consumatore, cit., p. 228 s., e la dottrina ivi richiamata). L’obbiettiva rozzezza con cui il legislatore ha redatto le norme sul contratto tra professionista e consumatore traspare in ogni parte del testo normativo. Errori di traduzione (cfr. l’ambigua locuzione ‘malgrado la buona fede’, di cui all’art. 1469 bis, comma 1, c.c. trasfuso nell’art. 33 comma 1, c. consumo); incertezze lessicali (cfr. l’ondivago ricorso, riproposto nel codice settoriale, alle locuzioni ‘clausole abusive’ e ‘clausole vessatorie’), inesattezze tecniche (come nell’azione esperibile dal venditore contro il fornitore, definita di ‘regresso’ e non di rivalsa: art. 1469 quinquies, comma 4 c.c., ora art. 36, comma 4, c. consumo) danno ampiamente ragione dell’ulteriore fenomeno della erronea duplicazione delle stesse previsioni in due norme diverse.
Si è però affermata l’opinione che per tali clausole contenute in entrambi gli elenchi, la presunzione di abusività continui a operare, ma in misura rafforzata rispetto alle altre clausole contenute soltanto nel primo elenco: per il suo superamento non basterebbe che esse siano state contrattate; sarebbe inoltre necessario che esse non determinino un significativo squilibrio nella distribuzione dei diritti e degli obblighi contrattuali (cfr., tra i molti, L. Mengoni, La disciplina delle ‘clausole abusive’ e il suo innesto nel corpo del codice civile, in Riv. giur. Enel, 1997, p. 297; C. Castronovo, Profili della disciplina nuova delle clausole c.d. vessatorie cioè abusive, in Europa e dir. priv., 1998, p. 13; G. De Nova, Le clausole vessatorie, Milano, 1996, p. 10; E. Navarretta, Art. 1469 quinquies, comma 2°, cit., p. 1228; S. Maiorca, Tutela dell’aderente, cit., p. 166; M. Lobuono, La responsabilità degli intermediari finanziari, cit., p. 234; M. Bin, Clausole vessatorie, cit., p. 446, discorre, a proposito, di lista nera ‘attenuata’). Poiché, per opinione assolutamente prevalente, anche le clausole elencate nell’art. 1469 quinquies, comma 2, nn. 1, 2 e 3 c.c. erano in qualche misura assoggettate al giudizio di abusività, le relative disposizioni codicistiche che ne decretavano la inefficacia non potevano conseguentemente ritenersi di natura imperativa; tale qualificata natura, infatti, contraddice alla logica di quel giudizio (non potendosi valutare, ai fini del giudizio di abusività, deroghe a norma imperativa: come tale inderogabile).
Tuttavia, bisogna prestare attenzione al dato che il legislatore non si era limitato a dichiarare le clausole imputate come (presunte) ‘abusive’ nonostante la negoziazione, ma le aveva qualificate ‘inefficaci’, trattandole già con la sanzione: e dunque presupponendo come risolto il giudizio di abusività o, come è preferibile ritenere, trattando quelle clausole come clausole vietate (più ampiamente, v. F. Di Marzio, Illiceità delle clausole abusive, cit., p. 497 ss.; Id., Attuazione del mandato e limitazione abusiva di responsabilità, in aa.vv., Mandato, fiducia e trust. Esperienze a confronto, a cura di F. Alcaro, R. Tommasini, Milano, 2003, p. 257 s.). La sovrapposizione parziale di elenchi si ripete negli stessi termini negli artt. 33, comma 2, lett. a) b) e l) c. consumo da un lato e 36, comma 2, lett. a) b) e c) dall’altro. Tuttavia, nell’ultima disposizione le clausole in oggetto sono testualmente definite non semplicemente ‘inefficaci’ ma – inequivocabilmente – ‘nulle’. Sembra pertanto acuita la difficoltà di considerare tali clausole non nulle senz’altro, bensì nulle (ancorché negoziate, ma) soltanto se produttive di uno squilibrio significativo contrario alla buona fede.
[152] E non l’accesso puro e semplice, il quale non può cadere in discussione, giacché il mercato non può nemmeno concepirsi come deprivato di questa partecipazione: la produzione e la distribuzione di beni e servizi perderebbero la loro ragione.
[153] Cfr. G. D’Amico, L’abuso, cit., p. 645.
[154] Cfr. G. D’Amico, L’abuso, cit., p. 645.
[155] Circa l’interrogativo sulla natura protettiva della norma imperativa, va osservato che la corrispondenza dell’oggetto nella clausola abusiva e nella norma imperativa consente di sciogliere ogni dubbio sulla natura della seconda come protettiva.
[156] G. D’Amico, L’abuso, cit., p. 643, nota 42 scrive di come l’applicazione delle regole generali sulla nullità protettiva sia argomentabile, nei rapporti tra regime consumeristico speciale e generale, non in via analogica ma in via diretta. Cosicché «la normativa sulle clausole vessatorie fa naturalmente ‘sistema’ con tutte le altre previsioni (più specifiche) che compongono il variegato territorio delle c.d. ‘nullità di protezione’, candidandosi (per la sua connotazione chiaramente ‘generale’) a diventare normativa ‘residuale’ alla quale far (direttamente) ricorso per ‘integrare’ le eventuali ‘lacune’ che dovessero presentare le normative più ‘specifiche’».
[157] La completezza è funzionale ad assicurare quell’elevato livello di tutela del consumatore che integra – per quanto stabilito nell’art. 1 c. consumo – la finalità del codice. La tendenziale completezza è dunque essa stessa un obbiettivo (strumentale): cfr. ancora l’art. 144 c. consumo sugli aggiornamenti, con il quale si cerca non soltanto di preservare staticamente ma anche di promuovere dinamicamente l’unicità (e la completezza e l’esaustività) della sede di disciplina (aggregando in essa profili non ancora inseriti).
[158] Cfr. anche le osservazioni G. De Cristofaro, Il «Codice del consumo», cit., 811.
[159] In altre parole, quel regime protettivo, in quanto maggiormente compatibile per struttura e finalità con la struttura e le finalità del codice del consumo piuttosto che del codice civile (o dei singoli regimi protettivi) sarà integrato dalla regole di maggiore tutela eventualmente presenti nella disciplina generale dei contratti del consumatore (e così, per il tema di questo lavoro, dall’art. 36, commi 1 e 3, c. consumo). Si illumina così un importante effetto della codificazione. Come è noto, lo svilupparsi del fenomeno della legislazione speciale ha determinato nel diritto privato un processo di irreversibile decodificazione (cfr. N. Irti, L’età della decodificazione, cit. V. anche A. Patti, Il diritto civile tra crisi e riforma dei codici, in Id., Codificazioni ed evoluzioni del diritto privato, Roma-Bari, 1999, p. 37). Nondimeno, fino a ieri il rapporto tra codice civile e leggi speciali era comunque segnato dalla prevalenza del primo, delle discipline generali del quale risentivano le regolamentazioni speciali. Oggi, la nuova codificazione isola il diritto dei consumi in una disciplina compiuta, che nel settore di riferimento esprime una forza condizionante che si pone in concorrenza con quella non più solitaria del codice civile.
[160] Questa tesi consente anche la chiarificazione di specifiche dinamiche operative della nullità di protezione. Per es., la regola generale del rilievo di ufficio condizionato al vantaggio del consumatore spiega effetti chiarificatori rispetto a regimi protettivi di settore, nei quali la regola non è replicata nella sua interezza. Così, l’art. 134, comma 1, c. consumo, disponendo la nullità di ogni patto volto a escludere i diritti del consumatore acquirente di bene mobile, precisa che essa può essere fatta valere solo dal consumatore e può essere rilevata di ufficio dal giudice. Non afferma, tuttavia, che tale rilievo d’ufficio debba intendersi condizionato al vantaggio del consumatore. La lettura della norma particolare alla luce della regola generale chiarisce tuttavia il punto, dando anche ragione della denegata legittimazione all’azione con riguardo al professionista venditore: «Se in molti casi il legislatore ha optato per una legittimazione relativa a far valere la causa di nullità in tutti i casi non ha, invece, rinunciato alla previsione della rilevabilità d’ufficio della stessa […] con l’evidente intento di supplire alla scarsa reattività processuale che caratterizza il consumatore che è parte debole nel contratto così come lo è nel processo» (S. Monticelli, Limiti sostanziali e processuali al potere del giudicante ex art. 1421 c.c. e le nullità contrattuali, in Illiceità, immeritevolezza, nullità, cit., p. 224).
[161] Cfr. V. Roppo, Contratto, cit., p. 928.
[162] Con riguardo al regime della nullità per abuso della dipendenza economica, cfr. le meditate annotazioni di M.R. Maugeri, Abuso di dipendenza economica, cit., p. 157 ss.
[163] Circa l’esclusione del giudizio di nullità parziale, come indagato nel capitolo secondo, sez. I, l’art. 1815, comma 2, c.c. fissa una regola inequivoca («Se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi»). Essa è ripresa nell’art. 23, comma 2, t.u. della finanza in tema di contratti finanziari in generale («È nulla ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro onere a suo carico. In tali casi nulla è dovuto»). Anche l’art. 7 d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali prevede una nullità necessariamente parziale, questa volta con integrazione a opera del giudice. Similmente, in tema di contratti bancari in generale, l’art. 117, comma 7, t.u. del credito dispone la nullità di determinate clausole e la sostituzione delle stesse. Circa la legittimazione relativa all’eccezione di nullità, nella legislazione recente all’insegna della asimmetria di potere contrattuale, essa è fissata sia nell’art. 127, comma 2, t.u. del credito che negli artt. 23, comma 3, e 24, comma 2, t.u. della finanza.
[164] Nella prospettiva funzionale, propria della illiceità, qualora la singola regola non riporti tutti e tre gli elementi di disciplina dell’art. 36 c. consumo, piuttosto che escludere la loro operatività, si potrebbe pensare di indagare l’oggetto e la ragione della disposizione alla luce degli interessi protetti. Così, se è disposta la nullità del contratto (e non della clausola, della parte, o del patto) non potrebbe certamente esservi spazio per la regola della nullità parziale necessaria, ma non sarebbe allo stesso modo esclusa una legittimazione all’eccezione non assoluta ma confinata nella sfera giuridica del contraente nel cui interesse il requisito formale è eventualmente imposto; se è disposta la nullità di un patto ai danni della parte debole, potrebbe escludersi la legittimazione a eccepire la nullità in capo alla parte forte e riconoscersi il potere del giudice di rilevarla d’ufficio ma pur sempre nei limiti della ragione che anima la tutela (e dunque soltanto a vantaggio della parte debole). Infatti, la parzialità necessaria della nullità, l’eccepibilità da parte del consumatore coniugata alla rilevabilità di ufficio e l’operatività del rimedio soltanto a vantaggio del contraente debole disegnano le linee di una tutela generale in formazione, che potrebbe ritenersi operativa nell’intero ambito della contrattazione diseguale con riguardo alla questione della illiceità. Questo modo di pensare presuppone che, ogni qual volta si versi nello spazio della contrattazione diseguale, si prenda congedo da ogni automatismo interpretativo/applicativo, cosicché: i) le regole della nullità protettiva, per poter essere escluse, dovrebbero essere argomentate come non applicabili nello specifico caso considerato; ii) viceversa in quello stesso caso, e in un momento logicamente successivo, le regole della nullità codicistica, per poter essere applicate, dovrebbero essere argomentate come applicabili.
[165] A differenza di quanto accade per i contratti del consumatore, i regimi sui contratti asimmetrici d’impresa, nella loro eterogeneità, contraddicono a una disciplina unitaria e generale. Va infatti osservato che a fronte dell’intervento sull’abuso della dipendenza economica si pongono le regole più dettagliate sul raggruppamento dei contratti di subfornitura e di affiliazione commerciale e poi le regole, trasversali, sull’aspetto (delicato ma non centrale) dei termini di pagamento. Può concludersi che, allo stato di evoluzione dell’ordinamento, tali regimi non sintetizzano una tutela dell’impresa ‘debole’ così unitaria e autosufficiente da poterne giustificare la considerazione olistica, e il rapporto con la disciplina dei contratti del consumatore. Per ulteriori considerazioni, cfr. F. Di Marzio, Contratti d’impresa, cit., p. 344 s.; v. anche, sullo specifico tema della nullità, G. Villa, Invalidità e contratto tra imprenditori in situazione asimmetrica, in A.a.V.v., Il terzo contratto, cit., p. 113 ss.
[166] Favorevole alla tesi, da ultimo, V. Scalisi, Contratto e regolamento, cit., p. 462, che ricorda la posizione invece perplessa di G. Villa, Contratto e violazione di norme imperative, cit., p. 121.
[167] Cfr., in questa linea argomentativa, A. Gentili, I contratti usurari, cit., p. 366 ss.