Gino Scaccia
Roma, Palazzo della Consulta, 20 aprile 2018
Corti dei diritti e processi politici
Convegno internazionale in memoria di Carlo Mezzanotte
Relazione di Gino Scaccia
Corti sovranazionali dei diritti e judicial activism
- Prologo
Una celebre pagina del Begriff des Politischen di Carl Schmitt, sebbene riferita a un oggetto del tutto diverso, sembra attagliarsi perfettamente alla parabola ormai più che sessantennale della tutela dei diritti fondamentali in Europa. Mi permetterete perciò di citarla in extenso: «L’umanità europea migra in continuazione da un campo di lotta a un terreno neutrale, e continuamente il terreno neutrale appena conquistato si trasforma di nuovo, immediatamente, in un campo di battaglia e diventa necessario cercare nuove sfere neutrali».
Nel Novecento l’Europa ha rinvenuto la forma istituzionale più raffinata di neutralizzazione della lotta politica e di moderazione del principio di maggioranza nel controllo giurisdizionale della Costituzione.
Con la proclamazione e poi il pieno sviluppo delle Carte e dei documenti internazionali rivolti alla protezione dei diritti dell’uomo, i centri di riferimento più alti di questa neutralizzazione hanno preso a collocarsi – prima timidamente, poi, in anni più recenti in modo più deciso – non solo nelle Corti costituzionali, ma anche nelle Corti sovranazionali dei diritti: la Corte di giustizia dell’Unione europea e soprattutto la Corte Edu.
Se le giurisdizioni costituzionali nazionali sono state concepite come istanze di moderazione e “addomesticamento” del principio di maggioranza, le Corti europee e sovranazionali hanno elevato le loro ambizioni di neutralizzazione ancora più in alto. Sono infatti dirette a contenere e limitare lo stesso principio di sovranità nazionale in nome di un ordine pubblico europeo dei diritti fondamentali, uno jus publicum europaeum. Mentre dunque le Corti nazionali salvaguardano le libertà dalla dittatura della maggioranza, quelle sovranazionali le preservano dallo stesso arbitrario uso della ragione di Stato (Raison d’état).
Così inquadrate in via di prima approssimazione, le Corti di Giustizia ed EDU paiono anticipare l’utopia cosmopolitica kantiana della pace perpetua nelle forme di una giurisdizione delle libertà che si estende su una porzione geografica intercontinentale e rivendica il potere di definire per tutti gli Stati contraenti i requisiti essenziali della Rechtsstaatlichkeit o, come si preferisce dire nella giurisprudenza di Strasburgo, le condizioni minime di una società democratica.
Le jurisdictiones europea e convenzionale, peraltro, non danno vita semplicemente a una sorta di giurisdizione costituzionale di grado più alto, differenziata da quella nazionale per il solo fatto che l’atto assunto a parametro delle violazioni dei diritti trova applicazione in uno spazio inter e sovranazionale.
Al contrario vari sono gli elementi di tipo qualitativo che le differenziano dalle giurisdizioni costituzionali nazionali: diversi sono gli stili argomentativi; diversi gli strumenti di giudizio e di intervento; diverso il rapporto con gli attori politici. E tutti questi fattori cospirano nel rilasciare alle Corti europee un margine di discrezionalità interpretativa più esteso di quello disponibile per le Corti nazionali. Altrimenti detto, nel propiziare il judicial activism.
Nelle pagine che seguono analizzerò alcune delle ragioni di questa tendenza strutturale delle Corti europee all’attivismo e argomenterò la tesi che nel contesto ambientale europeo non paiono facilmente rinvenibili le condizioni e gli incentivi istituzionali per porre in un ragionevole bilanciamento fra dimensione storico-politica e dimensione giurisdizionale dei diritti fondamentali.
Prima di svolgere questi passaggi argomentativi occorre, a modo di premessa, dare una definizione di attivismo giudiziario dotata di un accettabile tasso di scientificità.
- Il judicial activism
Di attivismo si parla quasi sempre in senso negativo, rappresentandolo come una patologia rispetto alla deferenza “ordinaria” e “fisiologica” delle Corti nei confronti delle scelte riferibili al processo deliberativo politico.
La deferenza rappresenta la regola, che perciò viene enunciata e spiegata; l’attivismo costituisce invece l’eccezione, e si può pertanto definire come infrazione della regola, scostamento da essa, più che meritare una definizione autonoma. Non sorprende, dunque, che l’activism sia prevalentemente identificato per contrapposizione rispetto al judicial self-restraint, o come pure si dice nel dibattito scientifico di lingua inglese, alla modesty giudiziaria.
Comune a tutte le posizioni anti-attiviste è la preoccupazione di preservare gli spazi del legislatore democratico, e dei circuiti di formazione dell’opinione più in generale, che potrebbero essere posti sotto tutela e deresponsabilizzati e “infantilizzati” (come dice Richard Posner) da Corti erettesi ad interpreti della moralità pubblica.
Questo obiettivo di politica costituzionale ispira due linee di analisi e di ricerca.
La prima riferisce l’attivismo alla posizione del giudiziario rispetto alla forma di governo e al principio di separazione dei poteri. A questa stregua, si considera attivista la Corte che forza i limiti sistemici imposti al potere giudiziario e invade gli ambiti di scelta politica affidati al legislatore democratico.
Secondo una diversa ricostruzione, sarebbe activist chi non segue criteri di stretta interpretazione dei testi legislativi, nello specifico senso che:
- i) non si limita a ricostruire i significati normativi solo nella misura in cui questo sia essenziale a risolvere il caso in giudizio, ma si diffonde in una ricostruzione più generale anche di profili non necessari a fini argomentativi (e quindi abbonda di obiter e fa ricorso a sentenze-trattato);
- ii) precisa il contenuto della legge nel modo più innovativo rispetto alle prevalenti letture interpretative;
iii) non si colloca nella prospettiva del legislatore (valorizzando ad esempio i lavori preparatori e l’indagine sulla voluntas storica) per sciogliere i dubbi interpretativi emergenti dal testo e quindi non si pone il problema di come il legislatore li avrebbe sciolti se gli fossero stati prospettati.
Il primo orientamento teorico prende atto della politicità inevitabile delle Corti costituzionali e misura i limiti di azione di questa nel rapporto con gli altri attori politici, che con esse competono per acquisire quote crescenti di influenza. Colloca la riflessione sulla giustizia e sul processo costituzionale nella cornice della forma di governo e dei vincoli che da questa derivano, secondo un indirizzo di pensiero che ha trovato una delle forme più alte di espressione nella monografia di Alexander Bickel The Least dangerous Branch e che in Italia percorre l’intera riflessione teorica del grande giurista e Maestro che oggi ricordiamo.
Il secondo versante di indagine sul judicial activism si colloca invece sul piano delle teorie dell’interpretazione giudiziale dirette a ridurre il margine di scelta discrezionale, e in tal senso la “politicità” delle decisioni, intesa qui come sinonimo di creatività. Queste proposte teoriche non indugiano sul ruolo delle Corti come attori politici, ma piuttosto definiscono un decalogo di regole ermeneutiche che, garantendo la fedeltà al testo, disseccano la fonte alla quale l’attivismo giudiziario si alimenta.
Questo indirizzo teorico cerca nella rigidità applicativa, nella stabilità dei test di giudizio, il rimedio alle tentazioni della politicità e trova terreno propizio in dottrine della Costituzione come il testualismo e l’originalismo.
Sennonché non sembrano esservi teorie generali della Costituzione che possano con sicurezza orientare il giudice nell’interpretazione di tutte quelle controversie costituzionali (la schiacciante maggioranza) che richiedono un qualche apporto creativo del giudice perché implicano scelte di valore condizionate da orientamenti culturali e precomprensioni etico-morali. Dottrine generali della Costituzione sono, in tal senso, tutte parziali e insoddisfacenti, nella loro pretesa di ridurre a sintesi matematica un’attività di giudizio non strutturabile secondo schemi euclidei, come diceva il giudice Felix Frankfurter, ma che al contrario si svolge, nelle società pluralistiche dell’Occidente, avendo a premessa un reasonable disagreement (così Richard Fallon) sui valori sostanziali.
Piuttosto che attardarsi nella ricerca di una generale teoria interpretativa dei testi costituzionali che scongiuri o minimizzi l’attivismo, sembra più proficuo ricercare i fattori di ordine sistemico che possono limitarlo rispetto alla sua naturale vocazione espansiva.
La premessa disincantata dalla quale mi pare corretto muovere è che tutte le Corti tendono a privilegiare le interpretazioni che ne rafforzano posizione e ruolo istituzionale, e per ciò stesso tendono ad essere attiviste, sia quanto all’applicazione delle norme che ne disciplinano funzioni e strumenti processuali; sia quanto a dilatazione e incisività del controllo ad esse affidato.
Volontarie emarginazioni delle Corti non sono storicamente attestate, e paiono comunque irrealistiche; è vano perciò attendersi che esse si autoimpongano dottrine informate al self-restraint quando non hanno alcun incentivo politico-istituzionale ad imporsele.
Per questo, nel nostro orizzonte di indagine, è decisiva la ricognizione dei vincoli di ordine normativo e politico che definiscono la cornice in cui si innesta la funzione di tutela dei diritti affidata alle Corti costituzionali nazionali e alle Corti europee. Non è difficile avvedersi, a tale riguardo, che le Corti sovranazionali operano in un habitat politico-istituzionale strutturalmente privo di robusti disincentivi al judicial activism.
- Le ragioni del judicial activism delle Corti sovranazionali
Le ragioni della naturale inclinazione delle Corti sovranazionali al judicial activism risiedono: a. nella disponibilità di strumenti processuali di intervento più duttili e al contempo penetranti rispetto a quelli delle Corti nazionali; b. nella struttura delle norme parametro; ma soprattutto e decisivamente c. nella debolezza della relazione con gli attori politico-istituzionali e nella conseguenza assenza dei limiti sistemici che da tale relazione derivano.
- L’esercizio dell’attivismo giudiziario è favorito anzitutto dalla ricchezza di strumenti processuali a disposizione delle Corti di Lussemburgo e di Strasburgo.
La loro giurisdizione si estende infatti su atti generalmente sottratti alle Corti costituzionali nazionali. Investe tutti gli atti, di qualunque forma ed efficacia giuridica, che comportino violazioni di diritti fondamentali, e non solo quelli che godono di un certo grado di forza normativa (in Italia, a mente dell’art. 134 Cost., le leggi e gli atti con forza di legge).
Inoltre, tanto la Corte Edu, quanto la Corte di giustizia dell’Unione europea dispongono del potere di sanzionare condotte omissive totali delle autorità nazionali, violazioni di diritti derivanti da un esercizio inefficiente della funzione di governo; e cioè condotte che – nel contesto giuridico nazionale – sovente non varcano la soglia della rilevanza costituzionale ma restano interne al circuito della responsabilità politica.
Si pensi, da un lato, ai pilot judgments introdotti nella giurisprudenza della Corte EDU a partire dal caso Broniowski; dall’altro, sul versante della Corte di Lussemburgo, al ricorso in carenza e al ricorso per inadempimento. Attraverso queste tipologie di pronunce, che vanno a colpire violazioni dei diritti aventi carattere strutturale e sistematico o inattuazioni complete di vincolanti prescrizioni europee, gli Stati si vedono imporre obblighi di adeguamento (o di ottemperanza, nel lessico del giudizio amministrativo), sul piano dell’azione esecutiva, della legislazione e addirittura della disciplina di rango costituzionale.
Non è azzardato, pertanto, concluderne che nell’ambito CEDU come in quello UE la responsabilità politica può assumere forma giurisdizionale, è tecnicamente giustiziabile.
Ben diversa la condizione delle Corti costituzionali nazionali che generalmente – è questo il caso della Corte italiana – possono rimediare ad omissioni legislative parziali attraverso la variegata tipologia delle pronunce additive (di regola, di principio, di procedimento), ma restano relativamente impotenti dinanzi ad omissioni totali, e cioè a consapevoli decisioni di sabotaggio della Costituzione da parte degli organi politici di vertice. La Corte costituzionale, ad esempio, può assicurare l’effettività dei diritti attraverso l’annullamento di una legge invalida o l’integrazione in essa di un frammento normativo (annullandola “nella parte in cui non prevede” ciò che dovrebbe), ma non può costituire obblighi di facere atti a superare un assoluto deficit di protezione costituzionale derivanti da “ostruzionismo di maggioranza”. Appare sotto questo riguardo palpabile la differenza in termini di efficacia e forza persuasiva fra le sanzioni pecuniarie, effettive e immediate, irrogate dalle Corti europee e le sentenze-monito, con le quali la Corte italiana suole evidenziare la necessità di un intervento normativo che ripristini la legalità costituzionale e in particolare che assicuri ai diritti fondamentali il livello di tutela minimo, senza però disporre di alcuno strumento realmente cogente per imporre il pronto adeguamento del legislatore, che infatti generalmente non dà seguito agli ammonimenti della Corte.
3.b. La struttura delle norme-parametro, se posta in raffronto con le norme costituzionali interne, pare più adatta a propiziare la discrezionalità interpretativa delle Corti.
Le norme della Convenzione (e in parte della CDFUE) presentano in effetti formulazioni letterali open-textured, e di necessità generiche, dovendo conciliare tradizioni culturali e giuridiche differenziate nel lessico come nella grammatica giuridica. Si caratterizzano per una intensa “neutralità contenutistica”(F. Bilancia, I diritti fondamentali come conquiste sovrastatali di civiltà, Giappichelli,Torino, 2002, 96), che svaluta l’argomento storico-generico e propizia al contrario un’interpretazione di tipo evolutivo, che nella prassi ha costituito il principale strumento di attivismo giudiziario, spingendo talora la Corte all’elaborazione creativa di regole sostanziali e processuali prive di ogni fondamento nel testo della Convenzione.
Analoga tendenza attivista si riscontra anche nell’impiego della comparazione giuridica, che non è staticamente rivolta alla ricognizione del minimo comune denominatore tra le variegate tradizioni giuridico-costituzionali, ma assume un’intensa carica valutativa.
Nella logica della wertende Rechtsvergleichung (comparazione giuridica valoriale o orientata ai valori), la Corte propugna infatti un dato indirizzo teorico-interpretativo al fine di espandere evolutivamente i contenuti di garanzia della Convenzione anche quando non trova rispondenza in tradizioni comuni o, al contrario, volutamente ignora orientamenti diffusi nella maggioranza degli Stati membri quando essi non sono in linea con lo sviluppo dei diritti fondamentali di cui la Corte si fa paladina (G. Repetto, Argomenti comparativi e diritti fondamentali in Europa: teorie dell’interpretazione e giurisprudenza sovranazionale, 122 ss., 128).
Interpretazione evolutiva, argomento comparativo ma anche dottrina dei rimedi effettivi e del margine di apprezzamento sono metodi ermeneutici che contribuiscono a relativizzare il valore prescrittivo dei testi. Tanto che si è potuto a buona ragione sostenere che le norme della CEDU hanno quasi del tutto perso “la funzione di parametri del giudizio, nel senso proprio del diritto processuale costituzionale, per assumere la veste di quadri argomentativi aperti” all’interazione continua con i principi e con le aspettative di protezione emergenti dai diversi contesti applicativi. Le regole della Convenzione, nella concretezza dell’applicazione giudiziaria, hanno assunto perciò i tratti di un “precedente giudiziario da interpretare” (G. Repetto, op.cit., 125-126 e 201), modificabile come lo sono i precedenti con il variare delle circostanze di fatto, del contesto applicativo di riferimento o, più prosaicamente, con il semplice mutamento nella composizione del collegio giudicante. Tutto ciò non può che incoraggiare l’attivismo.
3.c. Ma il fattore forse più importante nel definire un ambiente favorevole al judicial activism è il rapporto fra Corti sovranazionali e attori politici.
Da questa prospettiva, la Corte EDU – e in misura minore la Corte di giustizia – sembra davvero incarnare nella sua forma pura l’archetipo ideale di una giurisdizione neutrale, emancipata da qualunque condizionamento di ordine sistemico e politico perché sorta al di fuori di un apparato statale e di una forma di governo.
Una giurisdizione senza Stato, dunque, che può essere – lo dico parafrasando una felice definizione di Franco Modugno – “isola della ragione giuridica” perché non è limitata da alcuna “ragione politica”.
E in effetti in ambito EDU e in ambito UE, il dialogo necessario fra attori politici e attori giurisdizionali, o è del tutto assente, o comunque appare molto meno intenso di quanto non sia a livello nazionale.
Questa carenza si coglie in primo luogo, nell’assenza del confronto costante con istituzioni politiche, di quel continuo e non episodico democratic dialogue con un legislatore un Governo, un indirizzo politico con cui confrontarsi per accordare in modo armonico la tutela soggettiva dei diritti e l’istanza sistemica di preservazione dei complessivi equilibri istituzionali.
Ma ugualmente debole è il confronto con le istituzioni politiche nazionali che si svolge attraverso il ricorso all’argomento comparativo, e ciò sotto due profili.
In primo luogo le Corti sovranazionali mediante un uso strategico dell’argomento comparativo hanno la possibilità di selezionare con relativa libertà gli attori politici con cui relazionarsi; di scegliere quindi il “contraddittore” più consentaneo ai propri indirizzi interpretativi e alle proprie precomprensioni culturali.
In secondo luogo, come mostrano le più accurate ricerche sul tema, nell’uso dell’argomento comparativo la Corte EDU accoglie un metodo di indagine sociologica che assume le società nazionali come entità ontologiche fisse, capaci di fornire al giudice sovranazionale contenuti, elementi e indirizzi culturali oggettivi, tendenzialmente assunti come immutabili ma soprattutto privi della mediazione giuridico-normativa (così ancora G. Repetto, op.cit.,185) e per questo individuati secondo scelte largamente arbitrarie.
Questo segna una differenza profonda rispetto alle Corti costituzionali nazionali, che muovono al contrario da materiali normativi, ne ricostruiscono e attualizzano le rationes secondo un’analisi “per linee interne” alla legislazione e da questi traggono definizioni, lessico, strumenti interpretativi in una logica circolare che vede l’interpretazione conforme alla legge della Costituzione (gesetzeskonforme Auslegung der Verfassung) e l’interpretazione conforme a Costituzione della legge (verfassungskonforme Auslegung des Gesetzes) come momenti dialettici di un processo interpretativo circolare.
E questo continuo confronto con la legislazione che da un lato concorre a delimitare naturalmente il perimetro delle interpretazioni plausibili, dall’altro circoscrive le stesse possibilità di risoluzione della questione di legittimità, che viene indirizzata verso soluzioni costituzionalmente obbligate, nelle quali non residui margine per opzioni politicamente orientate delle Corti.
Nel contesto sovranazionale viene oltre tutto a mancare il principale disincentivo istituzionale al protagonismo giudiziario nell’elaborazione dei diritti e del diritto: il potere di revisione costituzionale
È questo potere, in ultima analisi, a chiudere il circuito della legittimazione politica della giustizia costituzionale, lasciando al “Politico” la possibilità di sanzionare interpretazioni evolutive considerate non in linea con la coscienza sociale o almeno con l’interpretazione che ne danno le forze politiche egemoni in due modi egualmente efficaci, nella loro durezza: o cambiando la Costituzione o cambiando la Corte, come ammonisce da lontano il Court packing plan elaborato Franklin D. Roosvelt, che fu causa diretta del cambiamento di giurisprudenza della Corte Suprema dell’era Lochner.
Come il legislatore attraverso l’interpretazione autentica ribadisce il primato della voluntas legislatoris sul diritto vivente, dell’indirizzo politico sulla nomofilachia giudiziale, così la revisione costituzionale segna il confine esterno ed estremo al costruttivismo interpretativo dei giudici costituzionali.
Non importa neppure che l’arma nucleare della revisione costituzionale sia esercitata. Il suo effetto deterrente è sempre presente alle Corti costituzionali, come sono presenti i limiti di compatibilità delle proprie decisioni con i complessivi equilibri e bilanciamenti costituzionali.
Ebbene, questo limite è di fatto inoperante nei confronti della Corte di Strasburgo come della Corte di giustizia dell’Unione europea. La Convenzione, al pari dei Trattati europei, sono modificabili solo all’unanimità e questo rende irrealistica la possibilità di sanzionare politicamente esorbitanze attiviste delle Corti europee e lascia gli Stati membri nella scomoda e politicamente scorretta posizione di poter reagire solo con la minaccia di fuoriuscire dal sistema revocando l’adesione alla Convenzione o ai trattati.
In mancanza di una minaccia credibile di essere censurate da istituzioni politiche, le Corti, come ha rilevato Mark Dawson, non hanno alcun reale incentivo ad essere “politically responsive”.
- Epilogo: le Corti sovranazionali come istanze di neutralizzazione e spoliticizzazione: problemi e prospettive
Alla luce di quanto finora rilevato, nelle Corti europee sembra realizzare pienamente e coerentemente il modello di una giurisdizione che sottrae quasi completamente l’elaborazione e la tutela dei diritti alla politica per affidarla alla più alta tecnica giuridica, amministrata da illuminate élite intellettuali.
Una prospettiva molto attraente che esercita il suo indiscusso fascino su un’ampia maggioranza di studiosi, che salutano ogni pronuncia della Corte Edu come un avanzamento della comunità europea dalla barbarie verso la civiltà; e anche da strati larghi della giurisdizione, che in occasioni significative hanno cercato di aggirare limiti pure chiaramente enunciati dalla Corte costituzionale e di applicare indifferenziatamente tutto il diritto unionale e convenzionale come diritto prevalente su quello interno incompatibile, senza alcuna mediazione della Costituzione nazionale.
Ma per tornare in conclusione, e circolarmente, al passo schmittiano citato nell’incipit, può davvero parlarsi di vera e più alta neutralizzazione, per il tramite della tecnica giuridica, della ribollente parzialità del Politico? E a quale prezzo avviene questa neutralizzazione?
Quali sono le conseguenze ordinamentali della collocazione della tutela dei diritti in una sfera multinazionale che sembra farli vivere in una dimensione puramente astratta?
L’impressione è che nella collocazione della tutela dei diritti in una sfera sovranazionale dei diritti non si esprima un’istanza di neutralizzazione tecnica, ma piuttosto si manifesti una precisa concezione filosofico-morale dei diritti umani.
Una concezione che colloca i diritti all’interno di una comunità politica virtuale, che tende ad essere ridotta alla dimensione individuale del claimant, del ricorrente in giudizio, e riferisce i diritti a un individuo scisso dalle proprie legature sociali, dalle proprie appartenenze, dalla responsabilità per la partecipazione attiva a una comunità politica. Da quegli elementi, insomma, che definiscono limiti di sistema alle posizioni individuali di interesse e permettono bilanciamenti più ragionevoli fra diritti individuali e doveri sociali.
Una visione che sembra inevitabilmente comportare una qualche emancipazione dei diritti dai processi deliberativo-discorsivi di formazione dell’opinione, un qualche sganciamento dalla loro dimensione storico-concreta.
A rimediare a questa astrattezza e a supplire all’assenza di un confronto con gli attori politici, di un democratic dialogue sembrano destinate le Corti costituzionali nazionali.
Nel mutato contesto della giurisdizione sovranazionale dei diritti, sembrano proprio le Corti costituzionali nazionali a doversi fare interpreti e paladine delle aspettative e delle prerogative del processo politico nazionale. Sono loro a fungere da istanze di ri-politicizzazione di un diritto giurisprudenziale elaborato dalle Corti sovranazionali senza i vincoli della Politica, in uno spazio relativamente vuoto di relazioni con gli attori politici.
E così, in quanto custodi della dimensione territorialmente situata dei diritti e della loro specifica identità storico-culturale, i giudici costituzionali, impolitici per definizione e statuto teorico, finiscono per porsi, per una paradossale astuzia della storia, come gli autentici, estremi difensori della politicità dei diritti fondamentali. Nel contesto dell’integrazione fra sistemi multilivello di protezione dei diritti, non è escluso che proprio in questa funzione di difesa della dimensione che li riconduce alla sovranità popolare, le Corti costituzionali nazionali possano rinvenire una fonte inedita, ma non secondaria, della loro legittimazione politica.