La riforma della giustizia, passando per l’Università.
Dall’ordine imposto, all’ordine negoziato.
Avvocato in giudizio. Negoziatore in mediazione.
di Angelo Monoriti
I. Premessa – II. La decisione – III. L’accordo – IV. La negoziazione diretta – V. La mediazione – VI. La Suprema Corte di Cassazione “riconosce” il negoziatore: una “figura professionale nuova” – VII. La scienza della negoziazione come materia obbligatoria nelle nostre università.
I. Premessa
L’accordo e la decisione[1].
Se si esclude il ricorso alla forza, l’accordo e la decisione sono il prodotto dei due principali sistemi utilizzati dal mondo civilizzato per gestire i conflitti umani e ripristinare l’ordine sociale: gli interessi e il diritto. I sistemi di gestione dei conflitti possono essere immaginati, infatti, come una piramide il cui vertice è rappresentato dalla forza, il centro dal diritto e la base dagli interessi. Essi perseguono diversi obiettivi: accertare chi ha più potere (forza), stabilire chi ha ragione sulla base di una regola (diritto), conciliare gli interessi delle parti (interessi). I conflitti si originano sempre nell’area alla base della piramide, quella degli interessi, poiché sono proprio gli interessi i motivi che danno impulso all’azione umana. Si può scegliere di gestirli con metodi caratteristici della stessa area in cui sorgono (negoziazione, mediazione), oppure – risalendo la piramide – con metodi propri di altre aree, come quella del diritto (arbitrato, giudizio) e della forza (autotutela, guerra).

Gli interessi ed il diritto[2] sono dunque sistemi diversi, che funzionano attraverso percorsi diversi e risolvono i conflitti con strumenti diversi: appunto, l’accordo e la decisione. Per giungere ad un accordo il conflitto deve essere mantenuto nella disponibilità delle parti e si dissolve. Per giungere ad una decisione, il conflitto viene deferito ad un terzo e si risolve.
II. La decisione
Per ottenere una decisione occorre “comprendere” ed utilizzare il linguaggio del terzo che dovrà “decidere”: un giudice pubblico o privato. Questo linguaggio è complesso perché richiede la conoscenza di regole riguardanti la procedura da seguire e la sostanza da decidere: l’insieme di queste regole costituisce una “metarealtà” attraverso la quale viene diretta e guidata la realtà della vita: il diritto[3]. Quello della decisione è quindi un linguaggio difficile per le parti proprio perché non è il linguaggio della realtà (fatta di interessi), ma quello di una “metarealtà” (fatta di diritti soggettivi). Nella realtà della vita esistono gli esseri umani in carne ed ossa (Maria, Francesco, ecc.) con i loro interessi e le loro emozioni; nella metarealtà esistono solo “ruoli” virtuali (debitore/creditore, compratore/venditore). Con una metafora moderna, potremmo immaginare questi “ruoli virtuali” come degli avatar senza volto le cui sembianze sono definite non sulla base di caratteristiche fisiche, ma sulla base (dei “modelli” astratti) del loro comportamento; ad essi viene attribuita ragione o torto in astratto attraverso l’assegnazione dei diritti soggettivi. Il creditore non ha una faccia, ma si caratterizza solo per quello che ha fatto, per il suo comportamento[4].
Mentre nella realtà della vita gli esseri umani sono mossi dai loro interessi, nella metàrealtà del diritto ai “ruoli astratti” vengono preassegnati i diritti soggettivi. Gli interessi sono il “perché” delle cose: sono i bisogni degli esseri umani in carne ed ossa e non sono conoscibili ed istituzionalizzabili prima che il conflitto sorga. I diritti soggettivi, invece, sono “interessi categorizzati” cui viene assegnata una priorità attraverso uno “standard di regolazione”: la norma[5]. L’insieme degli interessi che nascono nella realtà degli esseri umani è molto più grande di quello dei diritti soggettivi che vengono preassegnati ai “ruoli virtuali” nella metarealtà. Entrambi, interessi e diritti soggettivi, sono dunque “congegni” utilizzabili per risolvere conflitti, ma operano su “piani di gioco” fra loro differenti: la realtà della vita e la metarealtà del diritto. Con questa consapevolezza è più facile scoprire che, mentre nella realtà della vita gli interessi – anche opposti – si possono “incastrare” o “combinare”, nella metarealtà del diritto, i diritti soggettivi (“preassegnati” ai relativi ruoli) sono incompatibili: l’uno prevale sull’altro; l’uno vince, l’altro perde. Gli esseri umani cercano di ottenere una decisione quando non sono più in grado di comunicare fra loro e, quindi, non possono più generare soluzioni autonomamente e informalmente attraverso la combinazione dei rispettivi interessi (sia quelli convergenti, sia quelli divergenti)[6]. E’ l’interruzione della comunicazione (nella maggioranza dei casi per una non corretta gestione emozionale) il momento che segna il passaggio dalla ricerca di un accordo alla ricerca di una decisione. Proprio in quel momento, le parti si spogliano del controllo sul conflitto e ne devolvono la risoluzione ad altri: non ci sarà più un confronto fra gli interessi nel mondo reale, ma un confronto fra (pretesi) diritti soggettivi che verrà eseguito da un terzo in una “realtà parallela” ed il cui esito verrà poi riversato sulla realtà della vita proprio attraverso la decisione. Questo confronto avverrà attraverso un “gioco ritualizzato” per condurre il quale ciascuna parte dovrà avvalersi dell’intervento di un professionista appositamente formato (l’avvocato) che sostituirà le parti, facendole uscire di scena, fino alla decisione del giudice-terzo[7]. Gli avvocati daranno quindi impulso e giocheranno fra loro una “partita” (il processo-giudizio) congegnata secondo la logica vittoria/sconfitta per produrre una decisione: l’uno proverà a prevalere sull’altro per dimostrare che il proprio assistito ha “diritto”, ha “ragione” [8]. L’obiettivo non è dimostrare la verità, ma è vincere[9]. L’avvocato sostituisce la parte (la “rappresenta”) proprio perché lui solo conosce il linguaggio da utilizzare in questo gioco: il linguaggio che, come detto, punta alla vittoria, non (necessariamente) alla verità. Il processo-giudizio, peraltro, è un “gioco a somma zero”. La posta in gioco non può essere modificata (non si può andare oltre il petitum), ma solo attribuita all’una o all’altra parte: uno vince, appunto, e l’altro perde. All’esito di un gioco rituale e formalizzato, dunque, il conflitto fra esseri umani verrà risolto da un terzo (il giudice) attraverso l’applicazione di regole generali e tarate sui “ruoli virtuali”; queste regole consentiranno di stabilire chi ha “diritto”, chi ha “ragione”. La decisione, in sostanza, risolverà il conflitto separando la “ragione” dal “torto”. E senza necessariamente portare al “riconoscimento” dell’altro: l’obiettivo del diritto, del resto, non è quello di “riappacificare”, ma quello di ripristinare l’ordine. Con l’autorità. Con la forza. Pur che sia. Uno vince, uno perde. Come noto, del resto, la dea della giustizia, oltre ad essere bendata, viene sempre raffigurata con la bilancia e con la spada. E proprio con la spada decide, separando la ragione dal torto, l’innocenza dalla colpevolezza, la vittoria dalla sconfitta. La vittoria ottenuta nella metarealtà consentirà di dirigere la realtà della vita. Così l’ordine sarà ripristinato, ma sarà comunque un ordine “imposto” poiché l’ordine è dapprima “rinvenuto” nella metarealtà (dove si opera un confronto fra diritti soggettivi e si stabilisce cosa è “giusto” e chi ha “ragione”) ed è poi imposto nella vita reale. Attraverso la decisione.
III. L’accordo
Anche l’accordo è una decisione. Non è la decisione di un terzo secondo una regola predefinita. E’ una decisione delle parti presa al momento sulla base dei reciproci interessi. Si passa dalla “centralità della regola” alla “centralità dell’essere umano”. In una negoziazione, del resto, non ci saranno mai entità astratte, ma esseri umani portatori di interessi diversi, individuali e/o collettivi. Dalla questione familiare o condominiale alla più complessa negoziazione internazionale, non si negozia mai con persone giuridiche, società o enti (questi esistono solo nella logica del diritto), ma con esseri umani in carne ed ossa e con gli interessi di cui sono portatori (propri o altrui)[10]. E questi interessi devono essere prima identificati e poi messi a confronto. In effetti, per raggiungere un accordo ciascuna parte deve prima “apprendere” e “comprendere” gli interessi dell’altra. Questi interessi – che si generano e sono conoscibili solo al momento in cui il conflitto sorge – dovranno poi essere messi a confronto fra loro con l’obiettivo di combinarli e/o incastrarli. E così, anche per giungere ad un accordo, le parti dovranno giocare un “gioco” [11]; un gioco in cui la logica non è quella di attaccare o difendersi, ma semplicemente quella di apprendere il più possibile sugli interessi e le emozioni dell’essere umano che si ha di fronte.
La vita, del resto, è un’autostrada a due corsie: non potrò mai soddisfare i miei interessi se non conosco, e provo a soddisfare, gli interessi dell’altro. E se non conosco, e provo gestire, le sue emozioni (e anche le mie).
In effetti, a differenza dell’assunto da cui muove la teoria dei giochi[12] – e, cioè, che tutti i “giocatori” sono razionali – occorre sempre tener presente che gli esseri umani che interagiscono fra loro sono esseri irrazionali[13] – anzi, come dimostrato da Dan Ariely, sono prevedibilmente irrazionali)[14] –e, pertanto, l’obiettivo di risolvere il problema comune creando valore per entrambe le parti non può che passare attraverso un’interazione umana e, cioè, un confronto, con lo sguardo rivolto al futuro, fra gli interessi e le emozioni che reciprocamente sorgono al momento del conflitto. E’ evidente dunque che chiunque volesse cimentarsi e provare a “supportare” le parti per farle addivenire ad un accordo, dovrebbe avere una preparazione adeguata non (tanto) in termini tecnico-giuridici (e, cioè, una preparazione basata sulla conoscenza di regole che servono per ottenere una decisione da un terzo), quanto in termini tecnico-negoziali: una preparazione, cioè, adeguata per continuare a far “comunicare” le parti fra loro, per gestire costantemente le loro emozioni (i.e. la loro parte “irrazionale”) e, infine, per identificare i loro interessi. Una preparazione, in sostanza, volta non a “sostituire” le parti nel gioco, ma a farle giocare meglio.
IV. La negoziazione diretta
Il percorso-base che porta ad un accordo è la negoziazione diretta fra le parti. In questo percorso non vi sono giudici, né avvocati: la negoziazione è fra le parti. Una negoziazione, dunque, è sempre un processo di reciproco apprendimento basato sull’interazione umana[15]. Questo processo è finalizzato (i) a rilevare gli interessi e a combinarli fra loro e ad (ii) ingegnerizzare le possibili soluzioni. In una negoziazione non si attacca, né ci si difende, non si vince, né si perde: le parti non competono, ma cooperano per risolvere il problema più grande. Il bisogno da soddisfare quando si affronta una negoziazione non può essere quello di “vincere” sul nemico (come nel caso in cui si scelga di utilizzare il diritto o la forza), ma quello di risolvere un problema comune. L’obiettivo è infatti quello di risolvere il problema “più grande” il cui perimetro sarà delineato dal confronto fra gli interessi propri e quelli di un altro individuo; quest’ultimo, dunque, merita rispetto semplicemente perché – all’inizio – vede solo il suo problema e lo vede esclusivamente dal suo punto di vista. Esattamente come noi. Non è un nemico, ma un semplice avversario.
Occorre in tale prospettiva sfatare un mito.
Negoziare non ha niente a che fare con il concetto di “vincere” o “perdere”. Un negoziatore efficace non “vince” sugli altri, ma è colui che – acquisendo più informazioni possibili – “ingegnerizza” la miglior soluzione per tutti. Un grande negoziatore non è colui che attacca o si difende con più veemenza o miglior eloquio, ma è colui che ha appreso di più sulle persone coinvolte e sui loro interessi[16].
Vi è poi un altro mito da sfatare.
Mentre nella logica del diritto e della decisione pensiamo sempre ad un solo professionista (avvocato) contro un solo professionista (avvocato) che si preparano separatamente per vincere l’uno sull’altro, in una negoziazione occorre pensare a due professionisti (negoziatori) che apprendono insieme l’uno dall’altro al fine di “supportare” le parti fino al raggiungimento dell’accordo.
Cambia totalmente la logica (da competitiva a cooperativa) della formazione e dell’interazione fra questi professionisti.
E’ la coppia di negoziatori che, interagendo, diviene in grado di supportare le parti per la (dis)soluzione del problema. E quello che deve essere “dissolto” è il problema “più grande” cioè, quello comune che si delinea non guardando al passato per individuare le responsabilità e, quindi, le pretese giuridiche delle parti, ma guardando al futuro attraverso la comprensione degli interessi e delle emozioni di entrambe le parti stesse [17].
Ora, se negoziare non è altro che un processo di reciproco apprendimento (degli interessi e delle emozioni dell’altro) basato sulla capacità di interazione umana, che senso ha pensare ad una negoziazione competitiva? Si tratterebbe di un ossimoro. Una negoziazione – intesa come un processo di interazione umana volto alla (dis)soluzione dei conflitti – ha senso se, e solo se, il suo obiettivo primario rimane costantemente quello di consentire a ciascuno di affrontare il conflitto non come un gioco competitivo, ma come un gioco cooperativo.
Come noto, infatti, vi sono diversi tipi di giochi[18].
E così, ad esempio, i giochi a somma zero (quelli in cui il guadagno di un giocatore corrisponde alla perdita dell’altro) e i giochi a somma positiva (in cui è possibile che tutti i giocatori abbiano un guadagno). I giochi possono essere anche competitivi (o non cooperativi) o cooperativi a seconda che i giocatori debbano decidere individualmente la propria strategia senza conoscere quella degli altri oppure possano accordarsi preventivamente sulla strategia da seguire per massimizzare i guadagni di tutti. Del resto, la teoria dei giochi si divide in due ampie branche: (i) la teoria dei giochi non cooperativi (la cooperazione tra i giocatori è vietata o è resa impossibile dalla struttura del gioco) [19] e (ii) la teoria dei giochi cooperativi (in cui la cooperazione tra i giocatori esiste e gli stessi possono avere reciproci o espliciti vincoli, e possono formare coalizioni con l’obiettivo di ottenere più ampi benefici). Ora, nella vita quotidiana non è possibile stabilire a priori se una situazione di conflitto ha di per sé le caratteristiche per dar vita ad un gioco competitivo o ad un gioco cooperativo.A seconda di come si svolge l’interazione, un particolare conflitto potrà infatti risultare a somma zero, con la vittoria di un individuo e la sconfitta di un altro oppure a somma variabile, se sarà stato generato valore in modo da mettere d’accordo tutti. Non è quindi di per sé un conflitto ad essere competitivo o collaborativo, ma è la modalità di approccio dei partecipanti a definire la sua struttura. In altri termini, è la modalità di approccio al conflitto (competitivo/collaborativo) a delineare le caratteristiche del gioco, non viceversa. Del resto, occorre ricordarsi che non si è obbligati, necessariamente, a giocare un “gioco” per come ci si presenta, ma che – invece – “c’è sempre un gioco più grande”[20] . Il rapporto fra giochi competitivi e giochi cooperativi può essere infatti spiegato anche considerando che la nostra vita è un insieme di “giochi finiti” che possono essere giocati all’interno di uno o più “giochi infiniti” [21]. Ogni “gioco finito” deve avere necessariamente un vincitore scelto sulla base di regole definite di comune accordo tra tutti i giocatori. Un “gioco finito” non solo ha – ma deve necessariamente avere – dei confini: temporali, spaziali e numerici. Un gioco finito è delimitato dall’esterno[22]. Al suo interno, un gioco finito ha delle ulteriori limitazioni che costituiscono le “regole del gioco”: queste regole costituiscono, in sostanza, i termini contrattuali attraverso cui i giocatori concordano chi, alla fine, avrà vinto. Le regole di un gioco finito non possono cambiare durante il gioco, altrimenti diventerebbe un gioco diverso da quello originariamente definito. Al contrario, i confini esterni di un gioco finito possono essere modificati (ampliati o ristretti) con l’accordo dei giocatori. Un gioco infinito non ha limiti di spazio e numerici, né vi sono limiti all’accessibilità: chiunque può giocare un gioco infinito. Mentre le regole di un gioco finito non possono cambiare durante il gioco, quelle di un gioco infinito – al contrario – possono cambiare liberamente anche mentre il gioco è in corso[23]. Ecco, se volessimo tracciare un parallelo, potremmo dire che il processo-giudizio è più vicino al concetto di gioco finito, mentre una negoziazione a quello di “gioco infinito”.
La vita, del resto, è una negoziazione infinita.
Da quanto sopra discende che un approccio competitivo tende sempre a delineare un gioco finito (e, quindi, un gioco a somma zero), mentre solo un approccio cooperativo (c.d. approccio “integrativo”) – attraverso il quale si mira a colmare il divario fra gli interessi delle parti e, così, a creare nuovo valore da suddividere successivamente fra i giocatori – può portare oltre i confini del gioco finito e, quindi, realizzare un gioco a somma positiva[24]. Il principio da cui partire sempre, dunque, è che nella vita il conflitto non è un fenomeno patologico che si può evitare oppure affrontare come un male da cui uscire “vincendo”, rivendicando il proprio “diritto”. Il conflitto è un fenomeno “fisiologico” ed inevitabile poichè connaturato alla nostra essenza di esseri umani e dovuto alla scarsità di risorse, di spazio, di tempo e di comunicazione. Il conflitto non è ontologicamente né un bene, né un male. E’ la modalità che scegliamo per gestirlo che potrà trasformarlo in un’esperienza positiva o negativa. Siamo circondati dai conflitti. E’ un dato di fatto. Per risolverli, occorre affrontare un insieme di “giochi” con la consapevolezza che ciascun gioco fa sempre parte di un gioco “più grande”. Ed è proprio il tentativo di giocare sempre il gioco “più grande” a rendere possibile la cooperazione e la creazione di valore[25].
La negoziazione è dunque un “gioco” informale cui partecipano direttamente le parti e in cui l’obiettivo non è attribuire una vittoria o una sconfitta, ma quello di far sì che siano le parti stesse a risolvere il loro problema comune: non il problema dell’uno (da far prevalere sull’altro) contro il problema dell’altro (da far prevalere sull’uno), ma il problema (più grande) di entrambe le parti. Il tutto senza l’intervento di alcun potere esterno, ma semplicemente attraverso la loro reciproca interazione. Ed è un gioco a “somma positiva” [26]. E’ possibile giocare il gioco “più grande” ed ampliare la posta in gioco, poiché non si è vincolati ad un petitum[27]. In questo gioco, come detto, non ci sono né vincitori, né vinti. Pertanto, se proprio ci volessimo chiedere cosa significhi veramente “vincere” in termini negoziali, la risposta sarebbe che in un una negoziazione si “vince” quando si raggiunge un punto che, pur non coincidendo con il massimo risultato teoricamente ottenibile da una sola parte, consente di ottenere il massimo livello di soddisfazione di tutte le parti in quelle date circostanze. Potremmo quindi sostenere – definendo, così, l’obiettivo di ogni negoziazione – che il miglior risultato si ottiene quando ciascun negoziatore fa ciò che è meglio per sé e per gli altri negoziatori[28]. In sostanza, considerato che è il risultato migliore per tutti si ottiene sempre attraverso la cooperazione[29], la negoziazione va considerata come il processo di interazione umana che – attraverso l’apprendimento di informazioni e l’influenza del comportamento – consente di affrontare il conflitto come gioco cooperativo ovvero di indirizzarlo e/o trasformarlo da gioco competitivo a gioco cooperativo[30].
Ecco, dunque, una definizione di negoziazione che può essere utile per comprenderne la reale essenza e, quindi, il percorso di formazione utile per diventare negoziatori. Essa non è un processo di comunicazione attiva con cui un soggetto attacca e/o si difende per ottenere (quello che crede sia) il meglio per sé, ma è un processo di apprendimento degli interessi e delle emozioni delle parti finalizzato alla combinazione degli stessi e alla generazione di soluzioni utili al raggiungimento del miglior risultato di gruppo. In una negoziazione non si “parla per attaccare”, ma si “ascolta per apprendere”. E per poi ingegnerizzare le soluzioni migliori per tutti.
Per cui, dando per assunto, che il miglior risultato da perseguire per risolvere i conflitti e per progredire non è quello di massimizzare il profitto per sé (nel breve termine), ma quello di massimizzare il valore per sè e, al contempo, quello per il gruppo (preferibilmente nel lungo termine) l’obiettivo da perseguire in ogni negoziazione non può che essere quello di trovare soluzioni in grado di creare valore per l’intera collettività di riferimento (anche due persone). E per fare ciò, piuttosto che iniziare, o continuare, a giocare in un’ottica non cooperativa – e, cioè, in assenza di apprendimento reciproco – occorrerà invece prepararsi per “cambiare gioco” e, cioè, per trasformare il gioco (i.e. il conflitto) da non cooperativo a cooperativo. Ecco, dunque, lo scopo ultimo della scienza della negoziazione: quello di mettere a disposizione dei giocatori (tutti i giocatori) lo strumento (ovvero un processo di apprendimento) in grado di dissolvere i conflitti giocando un gioco cooperativo. Ora, per cooperare, occorrono almeno due elementi: raccolta di informazioni (sugli interessi dell’altro negoziatore) e creazione di una relazione. Si capisce, dunque, che, per arrivare ad un “accordo”, le parti devono necessariamente apprendere le une dalle altre e comunicare fra loro. Del resto, l’unico modo per comporre i loro interessi autonomamente è quello di utilizzare il linguaggio che conoscono, quello della realtà della vita (interessi). Sono dunque le parti le protagoniste del percorso che porta all’accordo. Attraverso questo percorso (negoziazione) il conflitto viene dissolto dalle parti in autonomia. La “procedura” per giungere all’accordo non è (e non deve essere) pre-stabilita dall’esterno (i.e. dalla legge), ma sono le stesse parti a concordare liberamente il processo e poi a comporre – sul piano sostanziale – gli interessi in gioco. Ciò non significa che le parti non possano aver bisogno di un “supporto” esterno, ma questo supporto non potrà mai essere tale da escludere la presenza delle parti e/o da “espropriarle” del controllo sulla gestione del conflitto: un eventuale supporto esterno dovrà essere necessariamente finalizzato ad “assistere” le parti sullo stesso piano di gioco, non a sostituirle per giocare la partita su un altro piano (cioè quello del diritto).
In concreto, questa “assistenza” esterna si potrà – e si dovrà – concretizzare: (i) nella gestione emozionale per mantenere sempre aperta la comunicazione fra le parti (relazione); (ii) nella definizione della procedura che esse dovranno seguire per arrivare all’accordo (processo) e (iii) nella ingegnerizzazione delle soluzioni possibili per soddisfare i reciproci interessi[31]. E questa “assistenza” esterna alle parti può dunque venire non solo da un mediatore (colui che “sta in mezzo”), ma – come vedremo – anche da due figure a latere (una per parte) la cui preparazione non può corrispondere (unicamente) alla preparazione tecnico-giuridica di un avvocato, ma a quella tecnico-negoziale di un negoziatore. Ascoltare per apprendere, piuttosto che attaccare o difendersi[32].
V. La mediazione
Orbene, una negoziazione diretta può diventare mediazione quando nel processo di composizione degli interessi interviene un terzo. Quest’ultimo non si sostituisce alle parti nella risoluzione del conflitto, non adotta una decisione e non assegna una vittoria o una sconfitta (come farebbe un giudice): egli mantiene aperta ed agevola la comunicazione fra le parti, le aiuta a scandire le fasi dei loro incontri e le guida per far trovare loro le migliori soluzioni al problema comune. Del resto, è proprio la comunicazione diretta fra le parti l’elemento che rimane imprescindibile anche nella mediazione: senza di essa, cade il presupposto per il suo corretto funzionamento. Sono sempre le parti, dunque, protagoniste di una mediazione (non certo il mediatore, né coloro che dovessero “assistere” le parti). E sono sempre le parti a mantenere il controllo sulla gestione del conflitto. La mediazione, del resto, non è nient’altro che una negoziazione fra le parti (e non certo fra gli avvocati) guidata dal mediatore. Anche la mediazione è – e deve rimanere – un procedimento autonomo ed informale che non tollera “regole procedurali” poste dall’esterno (da soggetti e/o entità terze diverse dalle parti e/o dalla legge) pena la palese “distorsione” dell’efficacia del meccanismo che deve invece lasciare alle parti la disponibilità del controllo non solo sulle tempistiche e sulle modalità di incontro, ma anche sulla discussione della sostanza. In tale ottica, si comprende bene che anche in una mediazione le parti dovranno continuare ad essere presenti e a comunicare sempre con il loro linguaggio (quello degli interessi); un linguaggio che non può dunque trasformarsi nel linguaggio tecnico-giuridico degli avvocati (quello dei diritti soggettivi). Eventuali professionisti che “assistano” le parti – ai lati del mediatore – non dovranno sostituirle o rappresentarle, ma dovranno unicamente aiutarle a comunicare fra loro utilizzando il loro linguaggio (non quello del diritto). Non servono dunque dei tecnici della decisione (avvocati), quanto piuttosto dei professionisti dell’interazione umana (negoziatori). Il compito di questi ultimi non sarà quello di “attaccare” o “difendersi” (per vincere o perdere) ma quello di “riaprire” o mantenere “aperta” la comunicazione fra le parti, quello di supportarle per la definizione del percorso che le porterà all’accordo (chi? come? dove? quando?) e, infine, quello di ingegnerizzare una soluzione al problema comune attraverso il confronto fra i rispettivi interessi. A differenza degli avvocati, i negoziatori non si posizionano “davanti” alle parti, ma “a fianco” a queste ultime e devono collaborare fra loro al fine di consentire alle stesse parti di dissolvere il loro problema comune. In questo senso, infatti, un accordo ha una valenza “costituzionale” poiché deve servire di fatto a governare i futuri rapporti fra le parti. Le parti saranno i padri costituenti del loro futuro rapporto; i negoziatori dovranno quindi supportarli a (ri)scrivere la loro costituzione.
VI. La Suprema Corte di Cassazione “riconosce” il negoziatore: una figura professionale nuova.
E’ proprio questo il senso di quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con la propria pronuncia n. 8473/2019[33]. Riferendosi all’avvenuta introduzione nel nostro ordinamento – ad opera del D. Lgs. 28/2010 (come novellato nel 2013) – della presenza necessaria dell’avvocato in mediazione, la Corte ha infatti chiarito che tale normativa ha avuto l’effetto di “[…] affiancare all’avvocato esperto in tecniche processuali che “rappresenta” la parte nel processo, l’[avvocato] esperto in tecniche negoziali che “assiste” la parte nella procedura di mediazione …”.
Sebbene abbia il pregio di mettere in evidenza la differenza di “preparazione tecnica” fra l’avvocato che “rappresenta” la parte nel processo e l’avvocato che “assiste” la parte in mediazione, nel secondo caso – quello della mediazione – il riferimento esplicito della Cassazione alla figura dell’avvocato è impreciso, poiché – come chiarito invero subito dopo dalla stessa Corte – qui si fa riferimento alla “… progressiva emersione di una figura professionale nuova, con un ruolo in parte diverso e alla quale si richiede l’acquisizione di ulteriori competenze di tipo relazionale e umano, inclusa la capacità di comprendere gli interessi delle parti al di là delle pretese giuridiche avanzate”.
In tal senso, dunque, se non vi è dubbio che per affrontare un processo-giudizio (e, quindi, per ottenere una decisione) ci voglia un avvocato, per affrontare una mediazione (e, quindi, per ottenere un accordo) ci vuole un professionista “… esperto in tecniche negoziali che “assiste” la parte nella procedura di mediazione …”.
Non è dunque sufficiente che questo professionista abbia acquisito il titolo di avvocato sulla base di una preparazione tecnico-giuridica, ma è necessario che abbia una specifica preparazione in scienza della negoziazione. Pertanto, sebbene il D.Lgs. n. 28/2010 imponga la presenza dell’avvocato in mediazione (richiedendo, in apparenza, la mera presenza di un soggetto con la relativa abilitazione e, quindi, con una preparazione tecnico-giuridica) in realtà ciò che è – e dovrebbe, anzi, essere esplicitamente – richiesto dalla legge è che il professionista che “assiste” la parte in mediazione abbia una specifica preparazione professionale di tipo tecnico-negoziale e non (solo) di tipo tecnico-giuridico. La “figura professionale nuova” cui si riferisce la Cassazione non è – e non può essere – dunque l’avvocato in quanto tale, richiedendosi che tale soggetto – a seguito di apposito processo di formazione universitaria o post-universitaria – sia divenuto anche un “negoziatore” ovvero un professionista dotato di speciale competenza in scienza della negoziazione. E’ il negoziatore che “assiste” la parte in mediazione (anche se ha il tesserino da avvocato), non l’avvocato.
E qualora un avvocato abbia studiato anche scienza della negoziazione, concentrando in sé, sia la preparazione tecnico-giuridica sia la preparazione tecnico-negoziale, è fondamentale che in mediazione utilizzi quest’ultima e non la prima; pena la trasformazione, come sempre più spesso accade, della mediazione in un “giudizio anticipato”. E sì, perché la mediazione non è affatto un “giudizio anticipato” da far gestire in autonomia ai tecnici del diritto (del resto, come detto, non deve produrre una “decisione”), ma una negoziazione fra le parti – che devono quindi essere necessariamente presenti[34] – “assistita” dai negoziatori delle parti stesse.
L’avvocato è un tecnico del diritto, della decisione.
Non è di per sé un negoziatore e non lo diventa automaticamente seguendo il proprio percorso di studi tecnico-giuridici. Può però diventarlo – e concentrare in sé entrambe le qualità – attraverso lo studio della scienza della negoziazione. Ciò, ripetesi, non significa che un avvocato – pur non essendo di per sé formato per essere un professionista dell’accordo – non possa diventare un negoziatore, ma solo che per esserlo debba affrontare uno specifico percorso professionale universitario o post-universitario. In tale ottica, peraltro, il fatto che un avvocato abbia già acquisito anche una formazione tecnico-giuridica potrebbe però indubbiamente rappresentare un vantaggio vista l’esperienza del giurista sul “funzionamento” delle regole; regole, però, non saranno più quelle predeterminate ed astratte poste dal diritto, ma quelle concrete poste dalla vita e dagli esseri umani in carne ed ossa.
In altri termini, la sentenza della Suprema Corte di Cassazione deve essere letta necessariamente alla luce della richiamata – ma spesso trascurata – differenza ontologica fra il giudizio e la mediazione. Come abbiamo visto, infatti, lo strumento che tali diverse procedure producono per risolvere un conflitto è tecnicamente diverso: la decisione, nel primo caso, l’accordo, nel secondo. E la differenza non è di poco conto. Essendo diverso il risultato che si vuole ottenere per risolvere il conflitto – la decisione, da una parte, e l’accordo delle parti, dall’altra – non può che essere diversa la preparazione professionale necessaria per produrre l’uno o l’altro risultato; preparazione che, nel primo caso, trova la sua centralità sulla conoscenza e sull’interpretazione delle “regole astratte”, nel secondo caso, invece, trova la sua centralità sulla conoscenza e l’interpretazione dell’“essere umano”.
Nel caso del processo-giudizio continuerà quindi senza dubbio ad essere necessario un tecnico (avvocato) che abbia studiato il diritto e che sia in grado di “rappresentare” la parte (cioè di “stare” in sua sostituzione) e di dare l’impulso affinchè si produca una decisione; l’avvocato deve essere tecnicamente preparato per “vincere”. Nel caso della mediazione saranno al contrario necessari, non uno, ma due professionisti che abbiano studiato negoziazione e che siano in grado di “affiancare” (e non sostituire) le parti nel percorso che porterà ad un accordo: i negoziatori non devono essere tecnicamente preparati per “vincere”, ma per risolvere problemi.
Pertanto, proprio il richiamato intervento con cui anche la Suprema Corte di Cassazione ha espressamente riconosciuto “una figura professionale nuova” con competenze diverse ed ulteriori rispetto a quelle dell’avvocato rappresenta la definitiva “consacrazione” nel nostro ordinamento della figura – ormai da tempo riconosciuta dagli studiosi – del negoziatore come risolutore di conflitti. E tale intervento non può che essere visto, in Italia, come la definitiva spinta al recupero di una tradizione che abbiamo invero messo da parte, quella della risoluzione dei conflitti attraverso un metodo diverso dal diritto: il metodo del confronto fra interessi umani[35].
VII. La scienza della negoziazione come materia obbligatoria nelle nostre università.
Da tutto quanto sopra discendono due importanti conseguenze:
- in mediazione, ai lati del mediatore, dovrà richiedersi la presenza di (una, anzi, due) “figure professionali nuove” e, cioè, di professionisti che – indipendentemente dall’aver acquisito l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato – abbiano studiato scienza della negoziazione;
- siccome a tali figure professionali si richiede lo studio di una materia diversa dal diritto – quale è la scienza della “negoziazione”[36] – è evidente che questa scienza dovrà essere introdotta e diventare centrale nel nostro sistema universitario.
Nelle nostre facoltà di Giurisprudenza[37], in particolare, ma non solo[38].
Del resto, se oggi, nelle nostre Facoltà di Giurisprudenza si formano avvocati per il giudizio, domani, nelle nostre Facoltà di Giurisprudenza (e Negoziazione?) potranno formarsi non solo avvocati, ma anche negoziatori; professionisti in grado di condurre professionalmente una negoziazione diretta e una mediazione.
Il legislatore non potrà far altro – prima o poi – che prendere atto e dare finalmente impulso a quanto sopra poiché ciò avrebbe importanti conseguenze nell’ottica di riduzione del numero dei contenziosi che ingolfano il nostro sistema giudiziario; un obiettivo deflattivo che si continua invece a perseguire attraverso (ipotesi) di riforme che riguardano unicamente la struttura dello stesso processo–giudizio[39] oppure – per incidere sul rapporto tra questo e la mediazione – l’estensione del novero delle controversie soggette a mediazione obbligatoria (cfr. art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28).
Proprio quest’ultima discussione del resto – se posta in questi esatti termini – rischia di porre a diretto confronto due posizioni apparentemente difficili da conciliare: quella dei cittadini alla “deflazione” dei processi e quella degli operatori del diritto al mantenimento e consolidamento delle proprie prerogative professionali.
Anche in questo caso, dunque, i principi della scienza della negoziazione possono rivelarsi utili a risolvere il problema. Anziché tentare di “ravvicinare” posizioni, può essere opportuno provare a “combinare” interessi.
In effetti, piuttosto che discutere unicamente (e rimanere prigionieri) del problema della estensione o meno dell’ambito di ”obbligatorietà” della mediazione oppure di ipotesi di “ritualizzazione” della mediazione stessa (ipotesi che, come detto, ne snaturerebbero l’efficacia), occorrerebbe intanto procedere con la introduzione dello studio della scienza della negoziazione come requisito di preparazione necessario per poter “assistere” una parte in mediazione. Tale soluzione, del resto, potrebbe gradualmente soddisfare non solo l’interesse degli operatori professionali ad essere protagonisti nel mercato della risoluzione dei conflitti (semplicemente integrando la propria preparazione), ma anche quello della collettività a veder pian piano aumentare l’efficacia dello strumento della mediazione e, conseguentemente, l’effetto deflattivo sulla macchina della giustizia.
A ben vedere, infatti, sebbene l’obbligatorietà della mediazione per alcune categorie di controversie civili e commerciali[40] sia stata fino ad oggi indubbiamente fondamentale per la diffusione della cultura della mediazione (nell’ambito di una società che, come la nostra, considera il diritto statale il mezzo principale, se non l’unico, per risolvere i conflitti), non è a partire da questa previsione normativa che va pensato l’ulteriore sviluppo della cultura della mediazione. La mediazione è – e deve – per sua natura rimanere una “scelta” delle parti. L’obiettivo è fare in modo che – proprio attraverso il “suggerimento” e l’“assistenza” di professionisti appositamente formati – la mediazione diventi la prima scelta delle parti rispetto al processo-giudizio[41]. L’introduzione della scienza della negoziazione – quale materia obbligatoria – nel nostro sistema universitario, avrebbe infatti non solo l’effetto di formare “figure professionali nuove”, ma anche quello di portare automaticamente il mercato dei conflitti ad accoglierle dando loro una specifica e imprescindibile collocazione. Ed infatti, le stesse aziende – e, perché no, anche gli studi legali – potrebbero introdurre e sviluppare dei veri e propri negotiation teams in grado di cooperare fra loro ed “assistere” cittadini e imprese nella dissoluzione dei conflitti quotidiani[42] in maniere più rapida ed informale. Si dovrà dunque fare in modo che le nuove generazioni superino – attraverso la formazione – l’assunto secondo cui, per risolvere un conflitto (e ristabilire l’ordine), non si possa far altro che: (i) usare direttamente il potere per piegare il nemico; oppure (ii) far accertare da un giudice l’esistenza di una regola prestabilita e standardizzata che ci farà “aver ragione” e “vincere” sulla controparte (se del caso, facendo applicare tale regola attraverso la “forza” dallo Stato). Vi è almeno un’altra possibilità: quella di fare in modo che l’ordine delle cose sia determinato e ristabilito autonomamente dalle parti come soluzione ad un problema comune. Ma per questo occorre imparare ad “assistere” le parti diventando negoziatori efficaci. Si potrà così superare il pregiudizio più grande.
Negoziatori non si nasce, ma si diventa!
Con lo studio e la preparazione scientifica.
Insomma, solo ricentrando la nostra formazione (anche) sullo studio della scienza della negoziazione, i sistemi dell’ordine negoziato (negoziazione diretta e mediazione) potranno smettere automaticamente di assumere una valenza “alternativa” al processo-giudizio (ancora oggi vengono definiti “ADR – Alternative Dispute Resolution”) per divenire da sé preliminari e principali rispetto ad esso. Quale immediata conseguenza, il processo-giudizio potrà finalmente ritornare ad assumere la sua vera funzione: quella di residuale e delicato baluardo di protezione rispetto al ricorso alla forza e alla violenza degli esseri umani. E come tutte le cose delicate potrà essere finalmente usato con parsimonia e trattato con estrema delicatezza. Si tratta di recuperare un approccio più liberale alla risoluzione dei conflitti – quello che, probabilmente, è andato perso nei primi decenni del secolo scorso con l’avvento di un modello di Stato autoritario – in cui la logica diventa quella di “assistere” le parti nel conflitto offrendo un servizio, piuttosto che escluderle dal conflitto imponendo il potere. Ed è dunque la formazione di professionisti in grado di fornire questo prezioso “servizio” la chiave per invertire il paradigma che vede le controversie riservate ancora strenuamente – quasi in via esclusiva – ai sistemi dell’ordine imposto (processo-arbitrato), piuttosto che (sempre di più) anche ai sistemi dell’ordine negoziato. Solo allora si potrà realizzare la condizione minima che, come evidenziato (anche) dalla Suprema Corte, che sarebbe in grado di “invertire” naturalmente, senza obblighi o imposizioni e in ottica “deflattiva”[43] il rapporto fra negoziazione diretta/mediazione, da una parte, e processo-giudizio, dall’altra e, cioè, l’esistenza di due tipologie di figure professionali (non fisicamente, ma) logicamente diverse: il negoziatore in mediazione e l’avvocato in giudizio.
E si tratterà, come visto, di due figure con una formazione diversa adeguatamente preparate per dissolvere (l’uno) ovvero per risolvere (l’altro) i conflitti con strumenti diversi: l’accordo e la decisione.
[1] G. Cosi, L’accordo e la decisione. Modelli culturali di gestione dei conflitti, UTET, Torino, 2017.
[2] G. Zagrebelsky, Diritto allo specchio, Einaudi, Torino, 2018: “[…] il diritto nasce distinguendosi con caratteri propri dal coacervo delle strutture normative della società, quando le norme del vivere comune si spersonalizzano, si rendono oggettive e non coincidono con l’immediata e contingente volontà del re, sia pure il re più giusto di questo mondo, o con un’ansia immediata di giustizia non mediata da regole valide in generale ….il diritto nasce per differenziazione sia dal comando capriccioso, sia dallo spontaneo istinto di giustizia. Rendendosi oggettivo può diventare oggetto di una scienza, una scienza la quale si dedicano “i giuristi”, un centro sociale dedito a varie attività che assumono, tutte, il diritto come professione.
[3] Il diritto è un sistema che per gestire i conflitti deve necessariamente “oggettivarli” nel senso che, per risolverli, tenta di sovrapporre un modello di regolazione formalizzato e convenzionale alla complessità della situazione reale. Come evidenziato da M. Ventura, Diritto, Psiche e credenze nel conflitto in Mediazione, conciliazione, riparazione, Torino, 1999, p. 91: “il modello oggettivista funziona sovrapponendo alla realtà della vita una seconda realtà puramente fittizia. Il conflitto è così gestito attraverso la mediazione di una metarealtà finzionale in cui l’irripetibile diversità del caso concreto e la pluralità dei punti di vista (interpretazioni) sul reale vengono ridotte a un senso univoco (oggettivo). La mediazione finzionale rende oggettivabile e quindi controllabile la confusione del conflitto”.
[4] Al diritto, del resto, “[…] non interessa chi ha fatto qualcosa, ma cosa è stato fatto; anche questo significa che “la legge è uguale per tutti” [Così G. Cosi – G. Romualdi, La mediazione dei conflitti – Teoria e pratica dei metodi ADR, Torino 2012, 56].
[5] G. Cosi, L’accordo e la decisione. Modelli culturali di gestione dei conflitti, UTET, Torino, 2017, p. 124: “Qualsiasi ordinamento giuridico, date le sue caratteristiche di generalità ed astrattezza normative, non può operare se non come formalizzatore di categorie di interessi. Ne prende dei grandi sottoinsiemi che ritiene accomunabili e lì “impacchetta” in dei contenitori che chiama ”diritti”. Poi, per poter funzionare, è necessario che basi il suo gioco ritualizzato solo su queste scatole. […]”
[6] E’ bene ricordare che, nel mondo reale, sono proprio gli interessi (apparentemente) incompatibili ovvero quelli addirittura opposti a rendere possibili gli accordi fra le parti. Un accordo è reso possibile proprio dal fatto che gli interessi differiscono. Interessi comuni e interessi opposti — che, attraverso il processo negoziale, devono essere resi “complementari” e, quindi, “incastrati” fra loro — possono tutti servire come materiale per la costruzione di buon accordo. Ad esempio, se una parte ha interesse ad un bene e l’altra non lo ha più si conclude una compravendita. Se una parte ha anche interesse al presente, l’altra al futuro (diversità di valore attribuito al tempo), è possibile concludere una vendita a rate. Se una parte crede che il prezzo delle azioni salirà e l’altra che scenderà (diversità di previsione), è possibile concludere una compravendita di azioni.
[7] N. Irti, Un diritto incalcolabile, Torino 2016, 127: “Il terzo decide la causa. I ‘due’ sono in conflitto; la pretesa dell’uno, contestata dall’altro. Dal conflitto bisogna uscire. Questa è l’esigenza propria di ogni società: andare oltre il conflitto; non verso la pace perpetua, ma verso nuovi e ignoti conflitti. La decisione scioglie il conflitto, preferisce l’una all’altra tesi, assegna ragione o torto”.
[8] G. Cosi, L’accordo e la decisione. Modelli culturali di gestione dei conflitti, UTET, Torino, 2017, p. 125: “[…] All’inizio di un conflitto individuale che verrà gestito giuridicamente, c’è sempre un soggetto dotato di nome, cognome e storia personale che vuole affermare i propri interessi. L’ordinamento però non gli permette di farlo direttamente, ma solo con le forme le regole consentite punto. Ecco allora che il nostro va da un tecnico -un avvocato -che cercherà di mettere le “gambe” giuridiche alle sue pretese. Solo così potrà essere giocata la “partita di diritto” del processo: un percorso di generalizzazione di astrazione spersonalizzante cui si può partecipare esclusivamente indossando le “maschere” di ruolo consentite dal regolamento (attore/convenuto, debitore/creditore, compratore/venditore…) e rispettando tutti i passaggi procedurali. Solo alla fine del rituale l’individuo torna alla ribalta, perché nel moderno responsabilità e normalmente personale. Qui sta la forza, e insieme il limite, del diritto in quanto strumento di gestione dei conflitti: offre a tutti la possibilità di partecipare a un gioco ritualizzato dotato di regole relativamente stabili, ma il prezzo della spersonalizzazione e della presa di distanza dalla dimensione degli interessi.”
[9] Sono le regole che assegnano alle parti l’onere della prova di quanto accaduto nella vita reale (cfr. art. 2969 cod. civ.) a determinare – quanto meno in astratto – la linea di confine fra la verità e la vittoria.
[10] R. Fisher – W. Ury – B. Patton, Getting to Yes. Negotiating Agreement Without Giving In, Random House Business Book 2012, 20-21: “a basic fact about negotiation, easy to forget in corporate and international transactions, is that you are dealing not with abstract representatives of the “other side”, but with human beings. They have emotions, deeply held values, and different backgrounds and viewpoints; and they are unpredictable. They are prone to cognitive biases, partisan perceptions, blind spots, and leaps of illogic. So are we”.
[11] Sia per ottenere un accordo sia per ottenere una decisione occorre passare attraverso un “gioco”, ma questo gioco si differenzia in termini di partecipanti e di obiettivi. Per ottenere una decisione, un terzo stabilisce chi ha ragione, rispetto una regola: in questo caso lo scopo è conseguire una vittoria riguardo a ciò che è successo in passato. Per ottenere un accordo le parti mettono a confronto e incastrano i loro interessi: in quest’ultimo caso, l’obiettivo è risolvere il (più grande) problema comune riguardo il futuro.
[12] La teoria dei giochi ha avuto lontane origini nel 1654 da un carteggio fra Blaise Pascal e Pierre de Fermat, sul calcolo delle probabilità al gioco d’azzardo. L’espressione “teoria dei giochi” fu usata per la prima volta da Emil Borel negli anni ’20. La nascita della moderna teoria dei giochi può essere fatta coincidere con l’uscita del libro “Theory of Games and Economic Behavior” di John von Neumann e Oskar Morgenstern nel 1944 anche se altri autori (quali Ernst Zermelo, Armand Borel e von Neumann stesso) avevano scritto, ante litteram, di teoria dei giochi. I due erano, nell’ordine, un matematico e un economista. L’idea di questi due studiosi era legata, in sostanza, al tentativo di descrivere matematicamente il comportamento umano in tutti i casi in cui l’interazione comporta la vincita, o lo spartirsi, di qualche tipo di risorsa. Il più famoso studioso ad essersi occupato successivamente della Teoria dei giochi, in particolare per quel che concerne i “giochi non cooperativi”, è stato il matematico John Forbes Nash jr. Nel 1950, Nash dimostrò che ogni gioco non cooperativo ammette un equilibrio, una soluzione, e tale scoperta lo portò nel 1944 a vincere il premio Nobel per l’economia. La teoria dei giochi non ha soltanto un ruolo positivo (descrittivo) di interpretazione della realtà (che permette di spiegare come mai, in certe situazioni di conflitto, i soggetti coinvolti adottano certe strategie) ma ha anche un ruolo prescrittivo: essa consente, cioè, di determinare quali situazioni di equilibrio possono o non possono verificarsi come risultato dell’interazione fra due soggetti. Presupposto fondamentale dell’efficacia della teoria è la razionalità dei soggetti decisori: in caso di giocatori irrazionali lo schema matematico perde ovviamente la propria validità.
[13] E’ dunque fondamentale considerare che, in situazioni reali, i giocatori possono comportarsi in modi molto diversi rispetto quanto previsto dai modelli classici della teoria dei giochi: al riguardo, infatti, sono determinanti gli aspetti sociali e psicologici, nonché le opinioni di ciascun giocatore sugli interessi degli altri giocatori, che possono formarsi attraverso una comunicazione “pre-gioco” ovvero attraverso una negoziazione. Al riguardo, v. A. K. Dixit, B. J. Nalebuff, L’arte della strategia, Milano, 2010, p. 142 secondo cui “molti matematici che si occupano di teoria dei giochi non apprezzano il fatto che l’esito di un gioco possa dipendere da aspetti storici, naturali o linguistici, oppure da stratagemmi puramente arbitrari come le cifre tonde; preferiscono che la soluzione sia determinata esclusivamente dalle caratteristiche matematiche del gioco (il numero di partecipanti, le strategie a disposizione di ognuno, i payoff in relazione alle scelte strategiche). Noi non siamo d’accordo. A nostro avviso è del tutto legittimo che l’esito di un gioco a cui partecipano degli esseri umani in un contesto sociale debba dipendere dagli aspetti sociali e psicologici del gioco. Pensiamo ad esempio ai negoziati […]”.
[14] Dan Ariely, Predictably Irrational. The hidden forces that shape our decisions, 2008, page 13: “My further observation is that we are not only irrational, but predictably irrational – that our irrationality happens the same way, again and again. Wheter we are acting as consumers, businesspeople, or policy makers, understanding how we are predictably irrational provides a starting point for improving our decision making and changing the way we live for the better. This leads me to the real “rub” (as Shakespeare might have called it) between conventional economics and behavioral economics. In conventional economics, the assumption that we are all rational implies that, in everyday life, we compute the value of all the options we face and then follow the best possible path of action. What if we make a mistake and do something irrational? Here, too, traditional economics has an answer: “market forces” will sweep down on us and swiftly set us back on the path of righteousness and rationality. On the basis of these assumptions, in fact, generations of economists since Adam Smith have been able to develop far-reaching conclusions about everything form taxation and health-care policies to the pricing of goods and services. But…we are really far less rational than standard economic theory assumes. Moreover, these irrational behaviors of ours are neither random non senseless. They are systematic, and since we repeat them again and again, predictable”.
[15] Cfr. A. Monoriti – R. Gabellini, NegoziAzione – Il Manuale dell’interazione umana, Giuffrè, 2018.
[16] A ben vedere, sebbene la logica vincere/perdere domini le strategie di senso della nostra società (il nostro discorso si muove da sempre sulla contrapposizione fra una tesi e un’antitesi), nelle dinamiche delle scelte aziendali è ad esempio già rinvenibile una logica vincere/vincere volta a cooperare e creare valore. Si pensi ad esempio alle sessioni di brainstorming che vengono frequentemente organizzate nelle grandi aziende per risolvere problemi importanti. I leader aziendali non mirano a prendere subito una decisione,ma sono liberi di esprimere la propria percezione e la propria visione in ordine al problema in questione. Questo processo collettivo di “apprendimento” ricomprende e ricerca anche gli interessi dell’altra parte e consente di avere a disposizione non solo un ventaglio completo delle opzioni possibili, ma anche dei mezzi e delle risorse per raggiungerle.
[17] Mentre il processo-giudizio che guarda al passato per attribuire responsabilità e produrre una decisione, la negoziazione guarda al futuro cercandovi delle opportunità/opzioni per produrre una o più soluzioni condivise che saranno oggetto dell’accordo. Ad un negoziatore (così come al mediatore) interessa poco di ciò che è successo nel passato e di chi ne è la responsabilità: interessa molto di più generare idee per sistemare il futuro. In questo senso possiamo dire che la negoziazione è orientata alle persone, mentre il giudizio ai fatti.
[18] Come anticipato, la teoria dei giochi è la scienza matematica che analizza le situazioni di conflitto e ne ricerca le soluzioni attraverso giochi esemplari in cui le decisioni di un soggetto interagiscono con quelle degli altri. Essa consente di rappresentare secondo un modello matematico il processo decisionale che si verifica in situazioni conflittuali, in cui sono presenti più persone (o gruppi di persone, o organizzazioni), con autonoma capacità di decisione e con interessi contrastanti. Nell’ambito della teoria dei giochi, tradizionalmente, gli esseri umani vengono denominati: giocatori o gruppi. E si può definire gioco qualsiasi situazione di interdipendenza strategica e, quindi, qualsiasi situazione di conflitto. Il gioco è rappresentato dall’insieme di tutti i giocatori, delle loro strategie e dei guadagni che essi ricavano dall’applicazione di queste strategie. L’obiettivo di ogni giocatore consiste nella massimizzazione del proprio guadagno, sapendo che questo obiettivo è comune a tutti gli altri partecipanti al gioco. Il gioco è quindi un modello in cui il risultato di ogni giocatore dipende non solo dalle sue scelte, ma anche dalle scelte degli altri. L’interdipendenza delle decisioni dei giocatori è quindi un aspetto essenziale dei “giochi” e può verificarsi in modo “sequenziale” (quando i giocatori compiono le proprie mosse a turno) ovvero in modo “simultaneo” (quando i giocatori giocano “contemporaneamente” – come nel dilemma del prigioniero, che vedremo – e ignorano le mosse che gli altri stanno compiendo). In sostanza, la teoria dei giochi rappresenta attraverso modelli matematici il processo decisionale in situazioni e processi di conflitto tra giocatori che devono avere due caratteristiche fondamentali: essere intelligenti e razionali. Laddove, per giocatori “intelligenti” si intendono generalmente individui che hanno conoscenza esaustiva, mentre per giocatori “razionali” si intende gli individui che massimizzano il loro vantaggio personale. La soluzione del gioco è una descrizione sistematica dei risultati che ne possono derivare: la teoria dei giochi si propone infatti di calcolare matematicamente la soluzione razionale migliore possibile nell’interesse dei giocatori (assumendo, come detto, che siano razionali) e nel suggerire come essi possano raggiungerla.
[19] Quando si parla di giochi “non cooperativi”, il concetto equivale essenzialmente a quello di “assenza di comunicazione” e non a quello di mancanza assoluta di cooperazione: esistono infatti modelli di giochi che non prevedono la comunicazione fra giocatori, ma includono invece la possibilità di cooperazione (es. data per scontato).
[20] A. K. Dixit, B. J. Nalebuff, L’arte della strategia, Milano, 2010, p. 46.
[21] J. P. Carse, Finite and Infinite games – A vision of Life as Play and Possibility, Free Press, New York, 1986, p. 3-7: “There are at least two kinds of games. One could be called finite, the other infinite. A finite game is played for the purpose of winning, an infinite game for the purpose of continuing the play. If a finite game is to be won by someone it must come to a definitive end. It will come to an end when someone has won. We know that someone has won the game when all the players have agreed who among them is the winner. No other condition than the agreement of the players is absolutely required in determining who has won the game….Finite games can be played within an infinite game, but an infinite game cannot be played within a finite game. Infinite players regards their wins and losses in whatever finite games they play as but moments in continuing play”.
[22] J. P. Carse, Finite and Infinite games – A vision of Life as Play and Possibility, Free Press, New York, 1986, p. 4: “Just as it is essential for a finite game to have a definitive ending, it must also have a precise beginning. Therefore, we can speak of finite games as having temporal boundaries – to which, of course, all players must agree. But players must agree to the establishment of spatial and numerical boundaries as well. That is, the game must be played within a marked area, and with specified players. Spatial boundaries are evident in every finite conflict, from the simplest board and court games to world wars. Numerical boundaries take many forms but are always applied in finite games. Persons are selected for finite play. It is the case that we cannot play if we must play, but it is also the case that we cannot play alone. Thus, in every case, we must find an opponent, and in most cases teammates, who are willing to join in play with us… To have such boundaries means that the date, place and membership of each finite game are externally defined. … A game is played in that place, with those persons. The world is elaborately marked by boundaries of contest, its people finely classified as to their eligibilities”.
[23] Mentre un gioco finito è delimitato dall’esterno, un gioco infinito è definito dall’interno. In questo senso, potremmo dire che in un gioco finito, i giocatori giocano “entro i confini”, mentre in un gioco infinito i giocatori giocano “con i confini”. Per cui, mentre le regole interne di un gioco finito sono i termini contrattuali con cui i giocatori concordano chi ha vinto, le regole interne di un gioco infinito sono i termini contrattuali attraverso i quali i giocatori concordano di continuare a giocare. E’ evidente, dunque, che tali gruppi di regole sono strutturalmente diversi: le regole di un dibattito, nel primo caso, la grammatica di un linguaggio vivente, nel secondo. Per cui visto che, ogni gioco infinito è senza confini, esso non solo apre ai giocatori un nuovo orizzonte temporale, ma anche infinite possibilità [Cfr. J. P. Carse, Finite and Infinite games – A vision of Life as Play and Possibility, Free Press, New York, 1986, p. 9-10].
[24] L’approccio cooperativo (c.d. anche “integrativo” al conflitto) dà particolare importanza al problem solving e ai profitti comuni ed è per questo che le strategie “integrative” incentivano i giocatori (i.e. i negoziatori) a lavorare congiuntamente per creare delle soluzioni finali profittevoli per tutti. L’elemento fondamentale alla base di tale approccio è l’idea di interazione (negoziazione) come un “processo” in cui le parti devono prendersi il tempo necessario per analizzare le caratteristiche del conflitto prima di “giocare”. Questo implica porsi una serie di domande riguardanti l’altra parte, le questioni su cui negoziare, come discuterle, quali valori prendere in considerazione. E’ quindi un processo che richiede un po’ più di tempo, ma nel lungo periodo, ciò consente non solo recuperare il tempo perso, ma anche di raggiungere accordi migliori, più forti e validi. In tale ottica si pone la linea di pensiero della c.d. Principled Negotiation (negoziazione basata sui principi) analizzata e descritta da R. Fisher – W. Ury – B. Patton, Getting to Yes. Negotiating Agreement Without Giving In, Random House Business Book 2012. Questa tipologia di approccio negoziale, infatti, va oltre le scelte strategiche limitate della trattativa competitiva (distributiva del valore esistente) e consente di prepararsi e cooperare per creare valore.
[25] Una conferma di quanto sopra può venire dalla esemplificazione di alcuni principi e criteri della teoria dei giochi fornita dal celebre “dilemma del prigioniero”. Esso rappresenta una situazione tipo che contiene in sé l’essenza di numerosi conflitti ed interazioni che possono verificarsi nella vita quotidiana. La sua struttura matematica è stata studiata da Merrill Flood e Melvin Dresher nel 1950 ed è stato poi successivamente formalizzato da Albert Tucker [W. Poundstone, Prisoner’s Dilemma, Doubleday, New York, 1992, pp. 8-9; S. Nasar, A Beautiful Mind, Simon&Schuster, New York, 1998, pp. 118-119 (trad. It. Il genio dei numeri, Rizzoli, Milano, 1999]. Si tratta di un gioco ad informazione completa poiché ogni giocatore conosce tutte le regole del gioco. Analizziamolo. Due criminali, già complici in altre occasioni, vengono fermati dalla polizia mentre si trovano su due auto diverse, in prossimità di una gioielleria che ha appena subito un furto. Vengo entrambi accusati del fatto e rinchiusi in due celle diverse. Senza alcuna possibilità di comunicare. Ognuno di loro ha due scelte: confessare oppure non confessare. Viene inoltre spiegato loro che: (i) se solo uno dei due confessa accusando l’altro, chi ha confessato evita la pena; l’altro viene però condannato a 7 anni di carcere; (ii) se entrambi accusano l’altro, vengono entrambi condannati a 6 anni; (iii) se nessuno dei due confessa, entrambi vengono condannati a 1 anno, perché comunque già colpevoli di porto abusivo di armi. La scelta è difficile. Un dilemma, appunto: tradire l’altro per tentare di rimanere libero o non parlare, rischiando di scontare la pena più severa?
confessare | non confessare | |
confessare | (6,6) | (0,7) |
non confessare | (7,0) | (1,1) |
Come evidente dalla superiore tabella, la miglior strategia razionale di questo gioco non cooperativo è confessa, confessa perché nessuno dei due criminali sa cosa sceglierà di fare l’altro. Del resto, per ognuno dei due prigionieri lo scopo è minimizzare la propria condanna. Per cui, dato che ogni prigioniero se confessa rischia 0 o 6 anni, mentre se non confessa rischia 1 o 7 anni, la strategia migliore per minimizzare gli anni di galera è rappresentata dalla denuncia da parte di entrambi. Orbene, quest’ultima strategia coincide con il c.d. equilibrio di Nash. E’ la scelta più razionale, la situazione di equilibrio dalla quale nessuno dei due soggetti ha interesse a discostarsi perché, a parità di scelta dell’altro, aumenterebbero gli anni di prigione. Quando la strategia di un giocatore è più vantaggiosa di qualunque altra, a prescindere dalla strategia o dalla combinazione di strategie assunte dall’avversario o dagli avversari, si dice che quel giocatore ha una “strategia dominante”. Nel caso del “dilemma del prigioniero” entrambi i giocatori dispongono di una “strategia dominante”. Per entrambi, infatti, la strategia non confessare è strettamente dominata dalla strategia confessare. Quindi, eliminando le strategie dominate si può identificare l’equilibrio di Nash. Il punto corrispondente all’equilibrio di Nash (quello in cui i due prigionieri collaborano con la polizia e vengono condannati a 6 anni di carcere) fornisce, quindi, un ottimo risultato che soddisfa tutti i giocatori: rappresenta una situazione finale di equilibrio; un risultato finale tale da non essere conveniente una modifica unilaterale. Attenzione, però! Questo non è il risultato migliore in assoluto per entrambi i criminali. Infatti, il risultato migliore in assoluto – che si definisce “ottimo paretiano” – è quello, per entrambi, di non confessare rischiando così solo 1 anno di carcere invece di 6. Ma questo non è però un punto di equilibrio. In effetti, si definisce “ottimo paretiano” una situazione nella quale, indipendentemente dalla specifica allocazione delle risorse, non sia possibile trovare un’altra situazione che porti ad un incremento della ricchezza di alcuni senza sottrarre ricchezza ad altri. L’ottimo di Pareto è razionale dal punto di vista collettivo, ma non lo è affatto dal punto di vista individuale; in sostanza, se gli n agenti di un gioco agiscono secondo la razionalità individuale, cioè col solo fine di massimizzare il proprio profitto personale, non è detto che essi raggiungano un ottimo di Pareto. In alcuni casi lo raggiungono ed in altri no; in quest’ultimo caso le loro azioni comportano una dispersione o cattiva allocazione di risorse. Tornando al nostro dilemma, dicevamo dunque che l’ottimo paretiano non è un punto di equilibrio; ma vediamo perché. Supponiamo che i due prigionieri si fossero anche promessi di non confessare in caso di arresto. Ora sono rinchiusi in due celle diverse e ciascuno si domanda se la promessa sarà mantenuta dall’altro; se un prigioniero non rispetta la promessa e l’altro sì, solo il primo sarà avvantaggiato e verrà liberato. Secondo la teoria dei giochi, dunque, c’è un solo equilibrio (confessa, confessa). Come detto, è la strategia (una per ciascun giocatore) rispetto al quale nessun giocatore ha interesse ad essere l’unico a cambiare. L’equilibrio di Nash può essere quindi visto come uno strumento teorico in grado di spezzare il circolo vizioso che si viene a determinare nella mente di ciascun giocatore in tutti casi in cui, in un conflitto, la decisione di uno dipende dal comportamento dell’altro (e viceversa): esso si basa sull’idea di puntare a un risultato in cui, in risposta alla strategia dell’avversario, ogni giocatore coinvolto sceglie la strategia più efficace in vista del proprio interesse. Ciò posto, è peraltro evidente che il perseguimento dell’interesse personale – e, quindi, della strategia dominante – non porta al risultato migliore per entrambe le parti. E infatti quando i giocatori ricorrono alla strategia dominante, entrambi si comportano in modo meno vantaggioso di quanto avrebbero fatto se fossero riusciti a comunicare e a trovare un accordo condiviso e credibile secondo il quale ognuno avrebbe scelto l’altra strategia, quella dominata. In sostanza potremmo dire che se le due strategie a disposizione dei giocatori (dominante e dominata) venissero descritte come “non cooperare fra loro” e “cooperare fra loro” ne discenderebbe che “Non cooperare è la strategia dominante per entrambi, e la combinazione in cui tutti i giocatori scelgono “non cooperare” porta a un esito meno vantaggioso che se avessero scelto “cooperare”” [A. K. Dixit, B. J. Nalebuff, L’arte della strategia, Milano, 2010, p. 93]. Premesso tutto questo, ai nostri fini, è utile fare una breve riflessione sul significato profondo del concetto di equilibrio di Nash. Si è visto, infatti, come esso rappresenti una situazione nella quale nessun agente razionale ha interesse a cambiare strategia e come esso sia il frutto della scelta, da parte di tutti i giocatori, della propria strategia dominante. L’equilibrio di Nash rappresenta quindi la situazione nella quale il gruppo si viene a trovare se ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé (cioè mira a massimizzare il proprio profitto a prescindere dalle scelte degli avversari). Ma – come abbiamo visto – non è detto che l’equilibrio di Nash sia la soluzione migliore per tutti. Se è vero che in un equilibrio di Nash il singolo giocatore non può aumentare il proprio guadagno modificando unicamente la propria strategia, non è affatto detto che un gruppo di giocatori (o, al limite, tutti) non possano aumentare il proprio guadagno allontanandosi congiuntamente dall’equilibrio. Del resto, lo stesso Nash, nel descrivere la sua teoria chiariva:“Un gioco può essere descritto in termini di strategie, che i giocatori devono seguire nelle loro mosse: l’equilibrio c’è quando nessuno riesce a migliorare in maniera unilaterale il proprio comportamento. Per cambiare, occorre agire insieme. Perché unilateralmente possiamo solo evitare il peggio, mentre per raggiungere il meglio abbiamo bisogno di cooperazione” [John Nash genio e follia. Intervista di Piergiorgio Odifreddi, Repubblica. Espresso. Cultura. 11 marzo 2008]. Nel dilemma del prigioniero, in effetti, il dilemma per i giocatori consiste nel dover scegliere fra due tipi di comportamento: (i) comportamento egoistico-non cooperativo razionale (razionalità individuale); (ii) comportamento cooperativo-irrazionale (razionalità di gruppo).
Esiste, dunque, una differenza fra la razionalità individuale e la razionalità di gruppo: mentre la prima, come detto, attiene alla capacità di massimizzare il proprio profitto personale, la seconda attiene al concetto di efficienza (c.d. “ottimo paretiano”). E’ proprio il dilemma del prigioniero, quindi, ad enfatizzare l’importanza ed il valore di un comportamento altruistico. Infatti, se i giocatori si comportano altruisticamente e scelgono entrambi le loro strategie secondo il vantaggio (anche) dell’altra parte, allora la strategia non confessare, non confessare diviene simultaneamente sia un equilibrio derivante da una strategia dominante (equilibrio di Nash), sia una soluzione efficiente per il gruppo (ottimo paretiano). Si comprende, dunque, che l’equilibrio di Nash può non essere un ottimo paretiano e che, quindi, possono esistere altre combinazioni di strategie che conducono a migliorare il guadagno di alcuni senza ridurre il guadagno di nessuno, o addirittura, come accade nel caso del dilemma del prigioniero, ad aumentare il guadagno di tutti. Il confronto tra equilibrio di Nash e ottimo paretiano smentisce quindi quanto sostenuto da Adam Smith, che era ritenuto, fino a prima della formulazione della teoria dell’equilibrio, il “padre dell’economia moderna”. Egli infatti riteneva che se ogni componente di un gruppo persegue il proprio interesse personale, l’effetto non può che essere un accrescimento della ricchezza complessiva del gruppo. Un ottimo di Pareto, insomma. Al contrario, come sopra evidenziato, se ogni componente del gruppo farà ciò che è meglio per sè, il risultato cui si giungerà potrà essere un equilibrio di Nash, ma non necessariamente un ottimo paretiano. Quindi, se ogni agente fa solo il proprio interesse personale, è possibile (anzi, si è dimostrato molto frequentemente) che si giunga ad un’allocazione inefficiente delle risorse. Nel caso del dilemma del prigioniero, ciò è evidente: il valore minimo possibile di anni di carcere è 0 per il singolo e 2 per il gruppo, ma se entrambi scelgono la propria strategia dominante, ne ottengono 6 a testa. Quindi anche la matematica ci insegna una cosa importante: la cooperazione basata sulla fiducia permette a tutti di guadagnare qualcosa e non solo da un punto di vista morale, ma anche dal punto di vista materiale. Ne discende che – se volessimo provare ad entrare nella psicologia di un altro, prevederne e influenzarne il comportamento – dovremmo ricordarci di “costruire fiducia” e “cooperare” (in altri termini, negoziare), dato che quasi sempre, a differenza di quello che succede nei giochi, un’interazione fra esseri umani è possibile, proprio perché è possibile l’apprendimento (sull’altro) e la comunicazione. E detta interazione apporta sempre maggiori benefici per tutti.
[26] In questo senso, è bene ricordare che, al contrario, la “transazione” (art. 1965 cod. civ.) in cui le parti si fanno “reciproche concessioni” per risolvere il conflitto è un “gioco a somma negativa”, anzi è addirittura un “gioco a somma negativa (perdi/perdi) inserito in un gioco “a somma zero” (vinci/perdi)” [G. Cosi, L’accordo e la decisione. Modelli culturali di gestione dei conflitti, UTET, Torino, 2017, p. 128].
[27] In tal senso, v. G. Subramanian, Dealmaking – The new strategy of negotiauctions, New York, 2010, p. 22: “First offers, counteroffers, and patterns of concession are all important parts of this game. Negotiation theory, however, tells us that this is often the wrong game to be playing. The “fixed pie” assumption is usually incorrect. It’s not necessarily true that more for me mean less for you. One of the core challenges in negotiations is to identify value-creating moves: things that are cheap for me to give and valuable for you to receive, and vice versa. To be clear, “making the pie bigger” isn’t necessarily good in itself. In the end what you care about is how big your slice is, but is obviously a lot easier to get a big slice if the overall pie is bigger”.
[28] Al riguardo, è curioso ricordare che mentre la prefazione originale del primo libro di Dixit e Nalebuff intitolato “Io vinco, tu perdi” si apriva con questo pensiero: “Pensare strategicamente è l’arte di riuscire meglio dell’avversario sapendo che questi sta cercando di fare esattamente lo stesso”, nella prefazione del loro secondo libro, intitolato l’“arte della strategia” gli stessi autori hanno aggiunto quanto segue: “pensare strategicamente è pure l’arte di trovare modalità di collaborazione, anche quando gli altri sono motivati esclusivamente dal proprio tornaconto… E’ l’arte di interpretare e rivelare informazioni. E’ l’arte di mettersi nei panni della controparte in modo da prevederne ed influenzarne la condotta” [A. K. Dixit, B. J. Nalebuff, L’arte della strategia, Milano, 2010].
[29] V. Ungureanu, Pareto-Nash- Stackelberg Game and Control Theory – Intelligent paradigms and Applictions, Springer, 2018, p. 46
[30] E’ proprio la capacità di negoziare efficacemente – acquisita in maniera scientifica – che può consentire di risolvere anche quello David Lax e Jim Sebenius – ripercorrendo la struttura del dilemma del prigioniero – hanno definito come il c.d. “dilemma del negoziatore” [Cfr. David A. Lax and James K. Sebenius, The Manager as Negotiator: Bargaining for Cooperation and Competitive Gain, New York, Free Press, 1986, p. 38-39]. Per rappresentare la tensione che si realizza fra due negoziatori, gli autori hanno ricostruito uno scenario in cui due individui immaginari, Ward e Stone, discutono di diverse questioni. Ward e Stone possono scegliere fra due alternative: possono entrambi “cooperare” (cioè adottare un approccio aperto e disponibile) oppure “competere” (cioè adottare un approccio chiuso e protettivo). Anche i negoziatori, quindi, devono affrontare la stessa scelta dei prigionieri del famoso “dilemma” quando si tratta di decidere se competere o cooperare: qui cooperare corrisponde ad un approccio più morbido e con l’obiettivo di creare valore, mentre competere corrisponde ad un approccio più aggressivo con l’obiettivo di ottenere il massimo del valore per sé. Per rappresentare le varie possibilità emergenti dall’interazione fra i soggetti in questione, Lax e Sebenius hanno costruito la matrice di seguito indicata:

Come mostra la figura sopra, se Ward e Stone cooperano, entrambi ottengono un risultato “buono”. L’approccio aperto e cooperativo consente loro di identificare opportunità per creare valore che poi possono eventualmente dividere fra loro. Laddove, al contrario, Ward e Stone competono, entrambi ottengono un risultato “mediocre”. L’approccio difensivo impedisce loro, infatti, di identificare opportunità per creare valore. In questo caso, essi sarebbero costretti a “combattere” per spartirsi una torta piccola che rimarrà tale. La terza possibilità, evincibile sulla diagonale della matrice, è che uno di loro cooperi e l’altro competa. Quindi, se Ward compete e Stone coopera, Ward avrà un risultato “ottimo” e Stone avrà un risultato “pessimo”. E viceversa. Quindi la domanda potrebbe essere: in questa negoziazione, dal punto di vista logico-razionale Ward dovrebbe scegliere di competere o di cooperare? La risposta richiede una valutazione di quello che potrebbe essere il comportamento di Stone. Un risultato “ottimo” è meglio di un risultato “buono”. Quindi se Stone sceglie di cooperare, la miglior risposta di Ward dovrebbe essere quella di competere: Stone avrà infatti un atteggiamento aperto e collaborativo e così Ward potrà usare le informazioni ottenute per identificare e beneficiare per sé di tutte le opportunità di creazione di valore (piuttosto che cooperare e dover quindi dividere il valore creato con Stone). E se Stone decide di avere un atteggiamento competitivo? Ancora una volta, la miglior scelta di Ward è di essere competitivo. Del resto, un risultato “mediocre” è meglio di un risultato “pessimo”. Quindi, il principio dovrebbe essere il seguente: indipendentemente dalla scelta di Stone, la miglior risposta di Ward sarà sempre quella di “competere”. E, simmetricamente, lo stesso dovrebbe valere per Stone. Quanto sopra dimostra dunque che la strategia di “competere” è una “strategia dominante” il che significa che sia per Ward sia per Stone è sempre conveniente competere, indipendentemente dalla scelta che può fare l’altra parte. In tale senso, il risultato sarà sempre un risultato “mediocre” per entrambi che – a ben vedere – non è quello ottimale poiché vi era la possibilità di ottenere un risultato migliore se entrambi avessero adottato la strategia di “cooperare” e “creare valore”. In altri termini, se considerassimo ogni interazione umana come un fatto totalmente razionale, il risultato dello studio di Lax e Sebenius dimostrerebbe che l’approccio competitivo è quello da preferire poiché consente di ottenere il miglior risultato possibile (sia pur mediocre) nel breve termine; ma non sarebbe il risultato migliore. Quindi, il dilemma del negoziatore ci fa anche capire che se i negoziatori si comportano in maniera logica e razionale il risultato di una negoziazione sarà sempre, complessivamente, “mediocre” posto che le parti lasceranno molto valore sul tavolo. Questo studio ci fa capire che in ogni negoziazione vi è sempre il rischio di perdere molte opportunità per creare valore per entrambe le parti. Fortunatamente, però, nella vita reale, i negoziatori hanno un vantaggio rispetto alla situazione sopra descritta: possono apprendere gli uni dagli altri e comunicare tra loro.
[31] Il programma di studio della “scienza della negoziazione” – che dovrebbe essere, come diremo, il bagaglio di preparazione di chi “assiste” le parti in una negoziazione – si snoda del resto su tre capitoli fondamentali: relazione, processo e sostanza (Cfr. A. Monoriti – R. Gabellini, NegoziAzione – Il Manuale dell’interazione umana, Giuffrè, 2018)
[32] D. Shapiro, Negotiating the Nonnegotiable, New York 2016, 43: “Rather than listening to the other side to learn about their concerns, we critique their perspective and condemn their character. But we dare not criticize our own perspective, for we fear being disloyal to our own identity
[33] Con la propria pronuncia n. 8473/2019 la Suprema Corte di Cassazione, muovendo dall’avvenuta introduzione nel nostro ordinamento – ad opera del D. Lgs. 28/2010 (come novellato nel 2013) – della presenza necessaria dell’avvocato in mediazione ha chiarito che proprio tale normativa “[…] con l’affiancare all’avvocato esperto in tecniche processuali che “rappresenta” la parte nel processo, l’avvocato esperto in tecniche negoziali che “assiste” la parte nella procedura di mediazione, segna anche la progressiva emersione di una figura professionale nuova, con un ruolo in parte diverso e alla quale si richiede l’acquisizione di ulteriori competenze di tipo relazionale e umano, inclusa la capacità di comprendere gli interessi delle parti al di là delle pretese giuridiche avanzate.”
[34] In tal senso, la conferma della necessaria presenza delle parti viene dalla stessa Cass. Civ. n. 8473/2019: “Il successo dell’attività di mediazione è riposto nel contatto diretto tra le parti e il mediatore professionale il quale può, grazie alla interlocuzione diretta ed informale con esse, aiutarle a ricostruire i loro rapporti pregressi, ed aiutarle a trovare una soluzione che, al di là delle soluzioni in diritto della eventuale controversia, consenta loro di evitare l’acuirsi della conflittualità e definire amichevolmente una vicenda potenzialmente oppositiva con reciproca soddisfazione, favorendo al contempo la prosecuzione dei rapporti commerciali”
[35] Siamo infatti passati da un sistema che dava riconoscimento e valorizzava la conciliazione come strumento di risoluzione dei conflitti – già tradizionalmente presente in molti ordinamenti preunitari, specialmente del Sud dell’Italia – ad un sistema in cui non c’è più spazio ai concorrenti del processo-giudizio nella gestione della conflittualità [cfr. C.A. Calcagno, Breve storia della risoluzione del conflitto, Roma, 2014]. Quindi si tratta, in fondo, di recuperare una tradizione che in materia è risalente e che abbiamo perso con il tempo. Basti ricordare, infatti, l’art. 1 del codice di procedura civile del 1865, recitava: “I conciliatori, quando ne siano richiesti, devono adoperarsi per comporre le controversie”, mentre l’art. 1 del codice di procedura civile del 1942 (nella sua formulazione originaria) si presentava con un totale cambio di prospettiva occupandosi unicamente del processo: “la giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del presente codice”.E’ su questo nuovo impianto culturale che si sono formate le successive generazioni di tecnici, dimenticando le logiche della conciliazione e concentrandosi sul modello del processo. Una tradizione, dunque, che, grazie anche alle recenti spinte dell’Unione Europea verso la re-introduzione di nuove forme di risoluzione negoziale delle controversie (è proprio a seguito della Direttiva 2008/52/CE del Parlamento e del Consiglio dell’Unione Europea del 21 maggio 2008 che viene poi emanato in Italia – dopo apposita legge delega al governo – il D.Lgs. n. 28/2010) può essere ora recuperata a condizione che si avvii parallelamente un percorso di formazione di tecnici come negoziatori professionisti.
[36] Proprio la Cassazione, del resto, riferendosi alla “…acquisizione di ulteriori competenze di tipo relazionale e umano, inclusa la capacità di comprendere gli interessi delle parti al di là delle pretese giuridiche avanzate”,ha chiarito definitivamente che la preparazione professionale di chi risolve conflitti non deve essere necessariamente incentrata sulla capacità di confronto fra “diritti soggettivi” (diritto), ma può ben essere incentrata anche sulla capacità di confronto degli interessi umani (negoziazione).
[37] E’ innanzitutto compito dell’università, dunque, quello di mettere a disposizione delle giovani generazioni non solo la preparazione utile per diventare dei tecnici del diritto, ma anche quella necessaria per diventare negoziatori professionisti. Nelle nostre università andrà introdotta come materia distinta ed obbligatoria la “scienza della negoziazione” al fine di formare “negoziatori” in grado di “assistere” le parti in una negoziazione diretta oppure in mediazione (in quest’ultimo caso, cioè, per esser in grado di stare professionalmente ai lati del mediatore). In un tale sistema rinnovato sistema, un moderno professionista dei conflitti non potrà più limitarsi a rivendicare il ruolo di mero “tecnico del diritto”; non potrà più essere solo un professionista in grado di interpretare regole astratte e predeterminate — in quanto tali, mai “precise” — e di associare tali regole ai fatti; non potrà più essere solo un “tecnico” in grado di predisporre gli atti per veicolare ad un terzo (il giudice) l’accertamento di chi ha ragione “per legge” ovvero in grado di far eseguire la decisione attraverso la “forza” dello Stato; non potrà più, infine, limitarsi a formalizzare in un contratto il contenuto di un consenso già costruito e determinato autonomamente dalle parti. Egli dovrà sempre più assumere un ruolo da protagonista, diventando anche – e prima di tuto – un negoziatore efficace; un professionista abile in grado di preparare scientificamente una strategia; capace di attivare e condurre — in prima linea — una comunicazione persuasiva finalizzata a comporre gli interessi delle parti coinvolte e, quindi a creare i contenuti del consenso. Il professionista moderno dovrà essere sempre più protagonista nella costruzione sul momento delle regole necessarie per instaurare, gestire e ricomporre la relazione fra le parti; attività, questa, che non richiede (tanto e solo) la conoscenza di norme giuridiche standard (che preesistono per regolare i rapporti fra gli individui) e del procedimento per farle accertare dallo Stato, bensì la conoscenza degli individui stessi e delle fondamentali regole dell’interazione umana. Ecco, quindi, che, nella strategia predisposta da un negoziatore efficace, la “regola creata dal diritto” non sarà più l’unico, ma solo uno fra i tanti strumenti e criteri utilizzabili per la composizione degli interessi delle parti e per la soluzione dei conflitti.
[38] Sarebbe certamente apprezzabile se l’insegnamento della scienza della negoziazione venisse introdotto anche in altre facoltà che preparano i nostri giovani a muoversi in ambiti fisiologicamente conflittuali dell’agire umano quali – principalmente – le facoltà di Economia e Scienze politiche. Peraltro, ricordando il principio secondo cui la vita è una negoziazione infinita, innumerevoli benefici ne trarrebbero nelle loro future professioni – per la gestione non solo delle interazioni fra colleghi, ma anche di quelle con i fruitori dei relativi servizi – gli iscritti di altre facoltà quali, a mero titolo esemplificativo, quelle di Ingegneria e Medicina. La letteratura scientifica riporta, per esempio, casi di conseguenze dannose a pazienti verificatisi per effetto di una gestione non corretta dell’interazione umana fra colleghi (es. mancato trasferimento di informazioni) dovuta essenzialmente ad impreparazione negoziale (cfr. R. Fisher – D. Shapiro, Beyond reason, Penguin Books, 2005, p. 115.
[39] Per comprendere il rischio di inefficacia di potenziali riforme che, per ridurre i contenziosi, mirano a modificare la struttura e le fasi del processo-giudizio potremmo usare una metafora. Supponiamo di avere una famiglia numerosa e di disporre di una sola lavatrice. Potremo anche accorciarne il ciclo, ma se la quantità di panni che dovremo lavare è sempre altissima, il risultato complessivamente non migliorerà. Anzi il rischio è non solo che i singoli panni ne escano lavati sommariamente, ma anche che alcuni panni vengano lavati dopo anni, quando ormai non serviranno più. Occorrerà quindi mettere meno panni in lavatrice. Per fare questo i componenti della famiglia dovranno imparare non solo a mettere i panni in lavatrice, ma anche a lavarli a mano. E così apprezzeremo di più anche la lavatrice, quando serve. Sono percorsi di formazione diversi: così come diversi sono i percorsi di formazione del diritto e della scienza della negoziazione (cfr. Cass. n. 8473/2019).
[40] Come evidenziato da G. Cosi, L’accordo e la decisione. Modelli culturali di gestione dei conflitti, UTET, Torino, 2017, p. 173 con riferimento all’introduzione del tentativo obbligatorio di mediazione da parte del D.Lgs. n. 28/2010: “Non è una bella norma: una conciliazione obbligatoria è una contraddizione in termini, quasi un ossimoro”.
[41] E’ bene nuovamente ricordare, infatti, che i conflitti nascono sempre nell’area degli interessi (non in quella dei diritti soggettivi) e quindi possono essere gestiti nella stessa area in cui sorgono (negoziazione/mediazione). E’ solo un condizionamento culturale quello che – facendoci percepire il conflitto come uno stato di “disordine” e generando in noi il bisogno di aver “ragione”, piuttosto che quello di risolvere il problema – spinge le parti presto (troppo presto) ad un’escalation versoil “diritto” come unico mezzo di risoluzione del conflitto (ordine imposto), piuttosto che una negoziazione diretta o una mediazione come mezzo di dissoluzione del conflitto (ordine negoziato) [v. G. Cosi, L’accordo e la decisione. Modelli culturali di gestione dei conflitti, UTET, Torino, 2017, p. 126 ss]. Occorre quindi superare – con la formazione e, quindi, con la presenza di negoziatori qualificati in grado di “assistere” professionalmente le parti – la tendenza a ritenere che l’ordine sociale debba essere necessariamente imposto dal potere dello Stato. L’ordine può infatti derivare direttamente dalla stessa interazione fra le persone in conflitto. In una negoziazione diretta, del resto, non interviene alcun potere esterno; e così non interviene alcun “potere” anche nella mediazione, posto che il mediatore non impone nulla e ha semmai solo l’autorità derivante dal fatto di essere li in quel momento “in mezzo” alle parti.
[42] Prendendo come riferimento i principi-base della scienza della negoziazione, la composizione tipica dei negotiation teams potrebbe richiedere la presenza almeno di due figure insieme: quella di un negoziatore – in grado di analizzare e sintetizzare il quadro negoziale e di “assistere” la parte senza sostituirla – e quella del litigator non in veste di gestore del conflitto, ma in veste di esperto in grado di identificare e valutare un parametro fondamentale e, cioè, quello della miglior alternativa all’accordo negoziato (tecnicamente definita BATNA-Best Alternative to a Negotiated Agreement). Come noto, infatti, è dal rapporto relativo fra i “BATNA” di entrambe le parti che si determina la forza negoziale quale parametro fondamentale non solo ai fini dell’impostazione della strategia negoziale, ma anche ai fini della valutazione dell’opportunità ed efficienza dei contenuti del potenziale accordo.
[43] Come noto, del resto, nel nostro paese il processo-giudizio e, cioè, il principale strumento pubblico di gestione della conflittualità sociale, ha ormai assunto dimensioni abnormi, dando vita ad un vero e proprio fenomeno di “abuso di massa”.