Di Alessandro Amaolo

Il legislatore penale del 1930 ha sancito e stabilito, con l’art. 610 c.p., che : “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni”. In particolare, nel secondo comma del predetto articolo, il legislatore afferma che : “ La pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall’articolo 339”.
Si tratta di un reato comune, di danno a carattere commissivo ed a forma vincolata dove il tentativo risulta essere configurabile ed ammissibile. Inoltre, il delitto di violenza privata ha natura di reato istantaneo che si consuma nel momento in cui l’altrui volontà sia rimasta di fatto costretta a fare, tollerare od omettere qualcosa, senza che sia necessario il protrarsi nel tempo dell’azione o dell’omissione o del permanere degli effetti. ( Cassazione penale, sezione V, sentenza 11 febbraio 1988, n. 1738 )
In via preliminare, osservo che il delitto di violenza privata è un reato sussidiario che in tanto può esistere in quanto l’agente non sia animato da un dolo specifico che porti alla configurazione di altro reato.
Il bene giuridico tutelato dalla norma penale è la libertà morale di cui è titolare ciascuna persona. In particolare, la suddetta libertà morale deve essere intesa come la facoltà di determinarsi in maniera spontanea, in base a processi di motivazioni autonomi e senza dover subire forme illegittime di costrizione o di limitazione. Con la fattispecie in oggetto il legislatore penale tende anche a garantire la libertà psichica dell’individuo; quest’ultima, si identifica nella libertà della propria sfera psichica da qualsiasi interferenza esterna.
La coercizione della libertà morale può avvenire sia nella fase formativa della volontà ( c.d. vis compulsiva ) che nella fase attuativa della scelta deliberata ( c.d. vis absoluta ).
Lo scrivente ritiene che la libertà morale può trovare un valido referente costituzionale proprio nell’articolo 13 Costituzione che tutela non solo la libertà fisica della persona, ma, latu sensu, anche indirettamente quella morale.
L’elemento psicologico del reato in commento è formato dal dolo generico, non occorrendo il concorso di un fine particolare oltre quello di costringere taluno, mediante violenza o minaccia, a fare, tollerare od omettere qualcosa. In particolare, il predetto dolo generico importa anche la consapevolezza del dissenso della vittima. La Cassazione penale, sezione V, sentenza 8 febbraio 2011, n. 4526 ha sancito che: “ Ai fini della configurazione del reato di violenza privata ( art. 610 codice penale ) è sufficiente la coscienza e volontà di costringere taluno, con violenza o minaccia, a fare, tollerare od omettere qualcosa, senza che sia necessario il concorso di un fine particolare: il dolo è, pertanto, generico.
Inoltre, non possono essere soggetto passivo del reato di violenza privata gli enti, in quanto incapaci di subire una coazione di volontà.
Presupposto essenziale del delitto è la preesistenza di una libertà di determinazione e di azione di chi subisce la condotta criminosa.
La componente oggettiva del delitto si fonda proprio su tre possibili tipologie di condotte. La prima si sostanzia nel costringere altri a fare qualche cosa; la seconda si esplica nel costringere altri a tollerare qualche cosa. Invece, la terza si manifesta nel costringere altri ad omettere qualche cosa. In particolare, la configurabilità della fattispecie criminosa in commento esige che la condotta sia compiuta con violenza oppure con minaccia.
Sussiste la violenza privata solo quando la volontà della vittima si uniforma a quella dell’aggressore. La violenza privata anzitutto può essere commessa con atti per sé violenti ed è poi soprattutto finalizzata a costringere la persona offesa a fare, non fare, tollerare o omettere qualche cosa, cioè ad obbligarla ad uno specifico comportamento.
Il reato di violenza privata ammette una coartata attuazione da parte del soggetto passivo di un contegno ( commissivo od omissivo ) che egli non avrebbe preso ed accettato, ovvero una coartata condiscendenza di una altrui condotta che egli non avrebbe sopportato. Per violenza privata non si intende solo una coercizione ed sopraffazione fisica che trattenga e blocchi i liberi movimenti della persona offesa, ma anche qualsiasi azione minacciosa oppure una azione valida a porre il soggetto passivo nell’alternativa di non muoversi o muoversi col pericolo di lesionare l’integrità altrui, anche dello stesso agente che, consapevolmente crea l’ostacolo.
Nella violenza privata, ex articolo 610 c.p., l’azione(1) intimidatrice è specifica, finalizzata all’evento di danno, rappresentato dal comportamento coartato del soggetto passivo. Inoltre, nel delitto preso in esame la costrizione e la limitazione, mediante violenza o minaccia a fare, tollerare od omettere qualcosa deve essere ingiusta ed illecita, cioè non autorizzata da nessuna norma giuridica.
La previsione dell’art. 610 c.p. perciò non genera solo il turbamento emotivo occasionale dell’offeso per il riferimento ad un male futuro, ma esclude la sua stessa volontà in atto di determinarsi nella propria attività.
La consumazione del reato si avrà nel momento in cui la volontà della vittima, oramai deviata dalla condotta costrittiva del responsabile, coinciderà con quella dell’agente, annullando la sua autodeterminazione.
Un esempio pratico del reato in commento si riscontra proprio nella condotta di un dirigente il quale, in modo arrogante, altezzoso, minaccioso ed irriverente, comunichi verbalmente ad un suo subalterno ( impiegato amministrativo ) di non poter uscire dal proprio ufficio ( stanza ) senza la sua autorizzazione. Sul piano processuale la predetta condotta è penalmente rilevante unicamente sotto il profilo del tentativo(2), poiché appare difficile pensare o credere che un dipendente non possa soddisfare i suoi più elementari bisogni di vita, all’interno del posto di lavoro, quali ad esempio il fruire di poter bere un bicchiere di acqua o di te’ dai distributori automatici che si trovano all’interno di un edificio . In sintesi, integra gli estremi del delitto in commento una qualunque minaccia, sebbene non esplicita, che si concreti in un qualsiasi comportamento o atteggiamento capace di incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di un danno ingiusto al fine di ottenere che, mediante la detta intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare o ad omettere qualcosa.
Tuttavia, la condotta posta in essere e realizzata verbalmente dal dirigente è sicuramente idonea a concretarsi proprio come un atto di umiliazione della persona offesa, così come una violazione del tutto palese della libertà morale e di autodeterminarsi del lavoratore.
Proprio su quest’ultimo punto gli ermellini hanno chiaramente affermato quanto segue: “La configurabilità del tentativo di violenza privata (artt. 56 e 610 c.p.) non esige che la minaccia abbia effettivamente intimorito il soggetto passivo determinando una costrizione, anche se improduttiva del risultato perseguito, essendo sufficiente che si tratti di minaccia

Note:
1) In tema di violenza privata l’azione deve considerarsi unica anche in presenza di una pluralità di atti tipici, quando questi si presentino offensivi del medesimo interesse tutelato e si svolgano in unico contesto. ( Cassazione penale, sezione V, sentenza 14 aprile 1987 , n. 4554 )
2) E’ configurabile il delitto tentato e non quello consumato di violenza privata ( artt. 56 e 610 c.p.) allorché, pur sussistendo l’idoneità dell’azione a limitare la libertà del soggetto passivo, quest’ultimo non adotti la condotta che la violenza e la minaccia esercitate nei suoi confronti erano preordinate ad ottenere e, pertanto, l’evento non si verifichi. ( Cassazione penale, sezione V, sentenza 28 aprile 2005, n. 15989 )

idonea ad incutere timore e diretta a costringere il destinatario a tenere, contro la propria volontà, la condotta pretesa dall’agente. (Cassazione penale, Sezione V, 4 marzo 2005 – 28 aprile 2005, nr 15977).
In riferimento ai rapporti con altri reati, osservo che l’estorsione(3) costituisce un titolo specifico di violenza privata. Infatti, la prima si differenzia dalla seconda, di cui presenta tutti i requisiti, per l’elemento dell’ingiusto profitto con danno altrui che nell’estorsione costituisce il dato caratteristico dell’azione ed il momento consumativo del reato.
Peraltro, sempre in riferimento ai rapporti con altri reati, la sezione VI della Suprema Corte di Cassazione Penale, nella sentenza del 2 novembre 1990 nr 14413, ha affermato che : “ Il reato di maltrattamenti in famiglia, previsto dall’art. 572 c.p., può concorrere (materialmente) con il reato di cui all’art. 610 stesso codice, qualora le violenze e le minacce dal soggetto attivo siano adoperate, oltre che con la coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo a sofferenze fisiche e morali in modo continuo e abituale, anche come nel caso di specie con l’intento criminoso di obbligare la moglie ad abbandonare il domicilio coniugale e quindi con violazione di una obiettività giuridica ( libertà psichica e morale di decisione tutelata dall’art. 610 c.p., diversa da quella tutelata dall’art. 572 predetto, che è l’assistenza famigliare in generale). In sintesi, sussiste il delitto della violenza privata solo quando la volontà della vittima si uniforma a quella dell’aggressore.
Il concorso del reato di violenza privata risulta essere ammissibile anche per altre tipologie di reati. Infatti, in tema di reati sessuali, è ammissibile il concorso del reato di violenza sessuale con il delitto di violenza privata, quando quest’ultimo, pur strumentale rispetto alla condotta criminosa di cui all’art. 609 bis c.p., rappresenta un quid pluris che eccede il compimento dell’attività sessuale coatta. (Cassazione penale , sezione III, sentenza 6 ottobre 2006, n. 33662 )
Il reato di violenza privata ( 610 c.p.) si differenzia anche da quello di atti persecutori ( 612 bis c.p. ) perché, mentre nel primo le condotte della persona offesa sono direttamente coartate dal reo ( costrizione di fare, omettere, tollerare ), nel secondo esse sono finalizzate ad evitare ogni contatto con il persecutore, ma non specificamente imposte da costui. Tuttavia, il reato di stalking configura una fattispecie speciale rispetto al reato di minaccia, ma non rispetto al reato di violenza privata. La violenza privata, infatti, è finalizzata a costringere la persona offesa a fare, non fare, tollerare o omettere qualcosa, mentre lo stalking influisce sull’emotività della vittima. Pertanto, ne consegue che i due reati possono essere contestati in concorso fra di loro.
Tuttavia, in alcune situazioni giuridiche, la differenza ontologica fra la violenza privata ed altri reati appare sottile, tenue, problematica e sfumata, tanto che si rende spesso necessario un intervento giurisprudenziale dai parte dei giudici ermellini per risolvere il singolo caso concreto. Sotto quest’ultimo profilo, è stato affermato dalla Suprema Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 21 dicembre 2010 n. 44803, quanto segue: “ Integra il reato di violenza privata, aggravato dall’abuso della relazione di prestazione d’opera, e non il reato di maltrattamenti in famiglia o quello di atti persecutori ex art. 612 bis, c.p., la condotta

Note:
3) Integra il delitto di tentata estorsione ( art. 56 e 629 c.p. ) e non quello di cui all’art. 610 c.p. ( violenza privata ) la condotta di colui che, con minacce, pretenda il versamento di una somma di denaro dal soggetto passivo, per consentirgli di esercitare la prostituzione in un dato luogo, considerato che entrambe le fattispecie incriminatrici in questione ( estorsione e violenza privata ) tutelano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, ma ricorre il delitto di estorsione allorché ( come nella specie ) la coartazione sia preordinata a procurare al soggetto attivo un ingiusto profitto. ( Cassazione penale, sezione V, sentenza 28 settembre 2006, n. 32011 )

violenta e minacciosa reiteratamente posta in essere da un capo officina nei confronti di un meccanico, in modo da costringere il lavoratore, nel contesto di un’azienda organicamente strutturata, a tollerare una situazione di denigrazione e deprezzamento delle sue qualità lavorative”.
Si ribadisce, nuovamente, che la norma penale in commento ha carattere sussidiario e generico in quanto è diretta a reprimere fatti di coercizione non espressamente considerati da altre disposizioni di legge, né come elemento costitutivo, né come circostanza aggravante di diverso reato. Tuttavia, la violenza privata si differenzia dal sequestro di persona poiché in quest’ultimo reato la coazione determina la privazione della libertà di locomozione del soggetto passivo. In particolare, nel sequestro di persona la violenza costituisce il mezzo esecutivo del reato di sequestro. Su questo punto i giudici ermellini hanno correttamente affermato che : “ Per il principio di specialità di cui all’art. 15 c.p. non è configurabile il delitto di violenza privata qualora la violenza ( fisica o morale ) sia stata usata direttamente ed esclusivamente per uno dei fini particolari previsti da altre ipotesi di reato, quale il sequestro di persona, allorchè la violenza esercitata sulla vittima sia stata unicamente rivolta a privarla della libertà”. ( Cassazione penale, sezione II, sentenza 10 dicembre 2004, n. 47922). Il principio di diritto che è stato elaborato dalla predetta sentenza risulta essere di formidabile chiarezza nel delineare il perimetro ed i confini di applicazione delle rispettive due fattispecie incriminatrici.
La violenza privata ha dei riflessi oggettivi ed applicativi anche nel diritto della circolazione stradale(4). Infatti, su quest’ultimo profilo riporto, con interesse, il seguente principio di diritto elaborato dalla Suprema Corte : “ Integra il reato di violenza privata la condotta del conducente di un veicolo che, eseguendo una brusca sterzata ovvero affiancando o sorpassando un’altra autovettura, costringa il conducente di quest’ultima a cambiare direzione di marcia per evitare la collisione”. ( Cassazione penale, sezione V, sentenza 14 dicembre 2010, n. 44016 ) Inoltre, è, altresì, configurabile il delitto di violenza privata nella condotta di chi parcheggia la propria autovettura all’interno del cortile condominiale in modo tale da impedire alla parte offesa di muoversi. ( Cassazione penale, sezione V, sentenza 28 febbraio 2011, n. 7592 )
Restano ancora da analizzare gli aspetti procedurali. Si tratta di un reato procedibile d’ufficio (art. 50 cpp) dove l’autorità giudiziaria competente è il tribunale in composizione monocratica ( art. 33 ter cpp). L’arresto è facoltativo in flagranza (art. 381 c.p.p.) , mentre l’altra misura precautelare del fermo di indiziato di delitto non viene consentita. Tuttavia, sono ammissibili le altre misure cautelari, così come la custodia cautelare in carcere; infine, l’azione penale si esercita con il decreto di citazione diretta a giudizio ed il termine di prescrizione è di sei anni.
Da ultimo, ritengo che il fenomeno generalmente noto come mobbing , consistente in atti e comportamenti vessatori sistematici e duraturi posti in essere dal datore di lavoro, pubblico

Note:
4) La condotta di chi, parcheggiando la propria autovettura in modo da bloccare quella di un altro automobilista, impedisca alla parte offesa di uscire dal proprio garage, deve ritenersi integrativa del reato di violenza privata, di cui all’art. 610 c.p., fattispecie che esula dalla competenza per materia del giudice di pace. ( Cassazione penale, sezione V, sentenza 29 novembre 2010, n. 42205 )

o privato ( imprenditore1 ), al fine di estromettere il lavoratore dal lavoro, può anche in alcune specifiche situazioni essere riconducibile al reato di violenza privata.
In ultima analisi, la giurisprudenza di legittimità, sulla base di quanto sopra esposto, è concorde nel ritenere che la finalità della fattispecie incriminatrice, prevista e punita dall’art. 610 c.p., è proprio quella di garantire non tanto la libertà fisica o di movimento, bensì la libertà psichica della persona umana. Pertanto, il delitto si realizza quando l’agente, con il suo comportamento violento o intimidatorio, eserciti una coartazione, diretta o indiretta, sulla libertà di volere o di agire nei diretti confronti del soggetto passivo, così da costringerlo ad una certa tolleranza, omissione od azione.

(Articolo giuridico a cura del Dott. Alessandro Amaolo)