A cura del Dott. Alessandro Amaolo
Anche se le origini dei delitti di omissione e rifiuto di atti d’ufficio sono comunemente individuate nel diniego di giustizia di cui all’art. 185[1] del codice penale francese del 1810, in verità il delitto in commento affonda le proprie radici in tempi molto più remoti, addirittura risalente agli albori dell’epoca romana e, poi, anche nell’epoca medioevale.
Durante l’epoca medioevale, attorno all’anno 1000, l’esigenza di garantire il corretto comportamento dei pubblici ufficiali si consolida. Infatti, ne sono una significativa dimostrazione i vari Statuti dei primi Comuni Italiani che sanciscono, tutti circa allo stesso modo, la responsabilità dei pubblici ufficiali. Inoltre, nel sistema del diritto comune l’omissione di atti d’ufficio venne a corrispondere con il concetto di denegata giustizia, con l’affermazione del principio generale : “Officialis qui omisit quod facere debat, punitur” (l’ufficiale che omette/rinuncia a ciò che deve fare, viene punito).
Orbene, l’art. 185 del codice penale Francese del 1810 trovava la propria ragion d’essere nella necessità di stabilire i giusti rapporti tra gli organi giurisdizionali dello Stato e il privato cittadino. Inoltre, il successivo Codice del Regno delle due Sicilie ampliò l’incriminazione per denegata giustizia, facendo comparire per la prima volta la previsione del rifiuto di un atto d’ufficio; ma notevoli sono anche il Codice Sardo e quello Toscano. Il percorso incominciato dai codici preunitari influenzò decisamente il codice Zanardelli del 1889 nella parte relativa ai delitti dei pubblici ufficiali. Il codice, in considerazione del profondo mutamento sociale in senso statalista, era volto a garantire il regolare andamento dei pubblici servizi, pertanto strutturò la norma non tanto a tutela dell’attività amministrativa quanto, piuttosto, a tutela della sua organizzazione.
Fatte queste brevissime premesse storiche, l’autore rileva come la ratio dell’incriminazione di cui all’art. 328 codice penale è costituita dall’esigenza di assicurare il regolare funzionamento della pubblica amministrazione, imponendosi al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio di assolvere scrupolosamente e tempestivamente i doveri inerenti all’ufficio o servizio, e di non venirvi meno intenzionalmente, rifiutando, omettendo o ritardando atti dovuti. Nell’ipotesi di ritardo dell’atto, è sufficiente, per la sussistenza del reato, che il ritardo sia intenzionale e illegittimo non trovi, cioè, giustificazione nella legge o in una disposizione della pubblica autorità onde nessun altro motivo è valido a far escludere l’illegittimità del rifiuto. Nè è richiesto un fine particolare, dato che il dolo consiste nella coscienza e volontà di rifiutare indebitamente un atto di ufficio o servizio, e nulla rileva il fatto che, in seguito a qualsiasi impulso esterno, il tardivo compimento dell’atto produca egualmente i suoi effetti.
Si tratta di un reato proprio[2] nel senso che può essere commesso solo dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio che abbia competenza a compiere l’atto richiesto.
Tuttavia, secondo l’insegnamento della Corte di Cassazione la fattispecie penale in commento non richiede necessariamente l’attualità dell’esercizio della pubblica funzione o del pubblico servizio, cioè che l’agente sia titolare dei poteri o della qualità di cui abusa nell’immanenza della condotta criminosa. Infatti, gli ermellini hanno sancito che : “In applicazione della regola dettata dall’art. 360 c.p., deve ritenersi che l’intervenuta cessazione della qualità di pubblico ufficiale non abbia incidenza sulla configurabilità del reato di cui all’art. 328 c.p. a carico di un giudice di pace il quale, successivamente alla cessazione dall’incarico, abbia omesso di ottemperare alla richiesta, fattagli pervenire dal magistrato coordinatore dell’ufficio, di restituire taluni fascicoli processuali che, durante il suddetto incarico, gli erano stati affidati”. (Cassazione penale, sezione VI, 31 maggio 2010, n. 20558)
Il bene giuridico tutelato dalla norma è quello del buon andamento e della trasparenza della pubblica amministrazione, intesi proprio come una garanzia per il corretto esercizio delle funzioni in relazione al perseguimento di finalità di pubblico interesse.
In sintesi, l’interesse tutelato è rappresentato dall’esigenza di tutelare il buon andamento della pubblica amministrazione, per quanto attiene all’effettività, tempestività ed efficacia dell’adempimento delle pubbliche funzioni e delle prestazioni dei pubblici servizi.
Tuttavia, secondo il modesto parere dell’autore vengono in evidenza, di riflesso e indirettamente, anche altri beni primari come il diritto alla salute. Si pensi, ad esempio, alla condotta omissiva di un medico di guardia che, dopo aver ricevuto una telefonata da un paziente affetto da sintomi di malessere fisico, non si rechi con urgenza a visitarlo presso l’abitazione tanto da provocarne il successivo decesso. In sostanza, l’autore rileva un collegamento funzionale tra l’articolo 328 c.p. e l’omicidio colposo (articolo 589 c.p.), tanto da costituire il primo un presupposto del secondo delitto.
Dopo queste disquisizioni teorico – dottrinali, risulta essere opportuno analizzare il contenuto normativo dell’articolo 328 del vigente codice penale (Rifiuto di atti d’ufficio. Omissione). Il primo comma del predetto articolo afferma che : “ Il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta[3] un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni”.
Nella nozione di atto d’ufficio, di cui all‟art. 328 c.p., sono compresi tutti gli atti che rientrano nella sfera di competenza funzionale dei pubblici ufficiali il cui compimento sia loro imposto dall’ordinamento giuridico.
Essendo il reato de quo considerato come una mera violazione dell’obbligo cui sono soggetti i pubblici ufficiali, la funzione dell’atto non assume alcuna valenza; è del tutto indifferente che l’atto di ufficio o di servizio abbia carattere interno[4] o esterno, poiché in entrambi i casi le condotte di omissione, rifiuto o ritardo ledono il regolare funzionamento degli organi pubblici.
Tuttavia, in senso contrario a quanto sopra esposto, si riporta che secondo l’insegnamento della Corte di Cassazione : “La norma di cui all’art. 328 c.p. non mira tanto a salvaguardare il regolare andamento della pubblica amministrazione ed il buon funzionamento della sua struttura organizzativa, quanto l’agire della stessa, attraverso i propri dipendenti, per il conseguimento dei suoi compiti istituzionali. Pertanto, restano estranee all’ambito di operatività della suddetta norma le omissioni che si concretano nella mera violazione dei doveri d’ufficio senza rilevanza esterna”. (Cassazione penale, sez. VI, 18 ottobre 1994, n. 10729)
Il reato di rifiuto di atti di ufficio previsto dal primo comma dell’art. 328 c.p. è un reato istantaneo, il cui momento consumativo si realizza con il rifiuto[5] o con l’omissione. Si deve intendere, inoltre, per rifiuto qualsiasi manifestazione di volontà negativa in ordine all’adozione del provvedimento in questione. L’autore osserva che il reato in commento non è integrato quando l’atto, pur rispondente alle ragioni indicate dall’articolo 328 c.p., non riveste il carattere di indifferibilità e di doverosità.
L’elemento psicologico è rappresentato dal dolo generico, inteso come la coscienza e la volontà di realizzare il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice. L’avverbio “indebitamente” inserito nel dettato legislativo non implica l’esigenza di un dolo specifico, ma sottolinea la necessità della consapevolezza che l’atto omesso era dovuto e, pertanto, della consapevolezza di agire in violazione dei doveri imposti. In base a quanto in precedenza esposto, si può correttamente affermare che ai fini della configurabilità del reato di rifiuto di atti d’ufficio è necessario che il pubblico ufficiale sia consapevole del suo contegno omissivo. In sintesi, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio devono rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento contra jus.
Il rifiuto a cui fa espresso riferimento il primo comma dell’articolo 328 c.p. si configura come una silente ed ingiustificata inerzia dell’agente pubblico e deve esser redibito, vale a dire posto in essere in violazione dei doveri imposti dalla legge. In sostanza, l’oggetto del rifiuto è il compimento di un atto d’ufficio, cioè di un atto che il pubblico ufficiale ha il dovere giuridico di compiere quale risultato concreto dell’esercizio del potere attribuitogli per la realizzazione delle finalità perseguite dall’ente pubblico cui appartiene.
Sul punto, molto interessante risulta essere un insegnamento degli ermellini i quali hanno stabilito quanto segue : “Integra il delitto di cui all’art. 328, comma primo c.p. il rifiuto di procedere al ricovero ospedaliero di un malato, opposto dal medico responsabile del reparto, esclusivamente se il ricovero doveva ritenersi indifferibile per la sussistenza di un effettivo pericolo di conseguenze dannose alla salute della persona”. (Cass. pen., sez. VI, 3 dicembre 2009, n. 46512)
Inoltre, desta interesse per la sua portata chiarificatrice una pronuncia della Suprema Corte nella quale si legge che: “Il rifiuto di un atto d’ufficio si verifica non solo a fronte di una richiesta o di un ordine, ma anche quando sussista un’urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell’atto, in modo tale che l’inerzia del pubblico ufficiale assuma, per l’appunto, la valenza del consapevole rifiuto dell’atto medesimo”. (Cass. pen., sez. VI, 8 febbraio 2010, n. 4995) . Nel caso di cui sopra si trattava di una fattispecie relativa all’omessa notificazione da parte di un ufficiale giudiziario di atti giudiziari che per ragioni di giustizia dovevano essere notificati senza ritardo.
Tuttavia, nell’ipotesi di omissione di atti di ufficio, se i provvedimenti concreti che si assumono omessi appartengono alla sfera della discrezionalità tecnica del pubblico ufficiale, e non sono dunque strettamente doverosi ed in ogni caso imposti, non si può parlare in senso tecnico – giuridico di omissione, ritardo o rifiuto di atti di ufficio, e viene meno la stessa materialità del delitto di cui all’art. 328 cod. pen.
Nell’omissione di atti di ufficio da compiere senza ritardo, di cui all’art. 328, comma primo, c.p., la persona offesa dal reato è soltanto la collettività, nel cui interesse devono svolgersi le indifferibili attività di regolare funzionamento della pubblica amministrazione nelle materie ivi indicate, e ciò a differenza dell’ipotesi di cui al comma secondo del medesimo articolo, che è un reato plurioffensivo. Ne consegue che nella prima ipotesi il privato danneggiato dal reato non è legittimato a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero, trattandosi di facoltà che la legge riserva esclusivamente alla persona offesa. (Cassazione penale, sez. VI, 28 ottobre 1997, n. 3806)
Il reato di rifiuto di atti di ufficio è un reato di pericolo. Perciò, sussiste la violazione dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice ogniqualvolta venga denegato un atto non ritardabile alla luce di esigenze prese in considerazione e difese dall’ordinamento, prescindendosi dal concreto esito dell’omissione.
Il legislatore, al secondo comma dell’art. 328 c.p., stabilisce che : “Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a € 1032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa”.
Questo reato è imputabile se, una volta trascorsi 30 giorni da una richiesta, non si abbia ancora conseguito alcuna risposta, né delle spiegazioni per il ritardo. Inoltre, l’autore precisa che il predetto termine di 30 giorni non decorre dalla prima richiesta del privato, quella cioè tendente ad ottenere il provvedimento richiesto, ma da una seconda istanza. Quest’ultima si configura come una vera e propria messa in mora. In stretta sostanza, sulla base di quanto poc’anzi esposto, il silenzio è in questo specifico caso considerato dal legislatore penale come una vera e propria omissione di legge.
Orbene, la norma di cui al secondo comma dell’art. 328 c.p. prevede che la richiesta del privato cittadino, cui corrisponde un dovere di rispondere o di attivarsi da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, deve riflettere un interesse personale, serio, concreto, attuale e diretto all’emanazione di un atto o di un provvedimento identificabile in una posizione giuridica soggettiva di diritto soggettivo o di interesse legittimo. In particolare, si devono escludere dall’ambito di applicazione della norma tutte quelle situazioni che attengono ad interessi di mero fatto.
Perché la norma in oggetto risulti applicabile è necessario che venga posto in essere un meccanismo di messa in mora, vale a dire una istanza in forma scritta da parte del privato, da cui comincia a decorrere il termine per l’adozione dell’atto ovvero per comunicare ed esternare una risposta negativa che espliciti le ragioni del ritardo.
Tuttavia, il predetto meccanismo innescato dalla richiesta del privato non si attiva inevitabilmente ogni qualvolta il richiedente prospetti la sfera di competenza dell’ufficio. Infatti, è indispensabile che esista un obbligo di inizio del procedimento e che la diffida provenga non da un privato qualsiasi ma da colui che abbia un interesse qualificato al compimento dell’atto.
In tema di reato di omissione di atto d’ufficio, il dolo può ritenersi escluso se il rifiuto a compiere l’atto stesso sia stato apposto in buona fede.
Il tentativo non è configurabile al primo comma, mentre risulta essere ammissibile al secondo.
In riferimento ai rapporti con altri reati, secondo l’insegnamento dei giudici di legittimità si è sancito che : “Nell’ipotesi di abuso d’ufficio realizzato mediante omissione o rifiuto deve trovare applicazione l’art. 323, primo comma codice penale, in quanto reato più grave di quello previsto dall’art. 328 codice penale, tutte le volte in cui l’abuso sia stato commesso al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio ingiusto patrimoniale, o comunque per arrecare ad altri un danno ingiusto, e tali eventi si siano realizzati effettivamente”. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza nr. 18360 del 17 aprile 2003)
Ed inoltre, il reato di omissione di atti d’ufficio può concorrere con il reato di corruzione, qualora il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, una volta ricevuto il prezzo della corruzione, omettano effettivamente di compiere l’atto dovuto; ciò sempre a condizione che l’omissione, il rifiuto o il ritardo sia l’atto pattuito con tale delitto.
Restano ancora da analizzare alcune brevi note procedurali del reato preso in commento. Si afferma, quindi, che le misure pre-cautelari dell’arresto e del fermo di indiziato di delitto non sono consentite mentre, invece, può essere consentita la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio ex articolo 289 c.p.p. L’autorità giudiziaria competente è il Tribunale collegiale (art. 33 bis c.p.p.) ed viene prevista l’udienza preliminare; si tratta di un reato procedibile d’ufficio (art. 50 c.p.p.) in cui il termine di prescrizione è di sei anni e dove la declaratoria di non punibilità per la tenuità del fatto risulta essere possibile.
In conclusione, l’autore osserva che l’articolo 328 c.p. disciplina due distinte ipotesi di reato. Infatti, nella prima il delitto si perfeziona con la semplice omissione del provvedimento di cui si sollecita la tempestiva adozione, incidente su beni di valore primario quali la giustizia, la pubblica sicurezza, l’ordine pubblico, l’igiene e la sanità. Invece, nella seconda, ai fini della consumazione, risulta essere necessario il concorso di due condotte omissive ovvero la mancata adozione dell’atto entro trenta giorni dalla richiesta scritta della parte interessata e la mancata risposta sulle ragioni del ritardo.
In ulteriore ultima analisi, sulla base di tutte le precedenti considerazioni e riflessioni, l’autore afferma che affinché il rifiuto o l’omissione assumano rilevanza penale è necessario che la condotta sia indebita. Infatti, l’espressione utilizzata dal legislatore “indebitamente” è volta a tratteggiare un caso di illiceità speciale, categoria che tende a delimitare la rilevanza penale a quelle sole forme di diniego di adempimento che non trovano alcuna giustificazione ammissibile alla stregua delle norme amministrative che regolano i doveri di agire.
(a cura del Dott. Alessandro Amaolo – Specializzato nelle PROFESSIONI LEGALI CON INDIRIZZO GIUDIZIARIO – FORENSE ed abilitato all’esercizio della professione di Avvocato presso la Corte di Appello di Ancona)
[1] CODE PÉNAL DE 1810 Édition originale en version intégrale, publiée sous le titre : CODE DES DÉLITS ET DES PEINES – ABUSO DI AUTORITÀ. 1a CLASSE. – Abuso di autorità contro individui. Articolo 185.
Ogni giudice o tribunale, qualsiasi amministratore o autorità amministrativa, che, sotto qualsiasi pretesto, anche il silenzio o l’oscurità della legge, avrà negato di rendere la giustizia che deve alle parti, dopo essere stata richiesta e chi ha perseverato nella sua negazione, dopo l’avvertimento o l’ingiunzione dei suoi superiori, può essere perseguito, e deve essere punito con una multa di non meno di duecento franchi e non più di cinquecento franchi, e dal divieto di esercizio di funzioni pubbliche da cinque anni a venti.
[2] I coadiutori del commissario governativo nominato nella procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi rivestono la qualità di pubblici ufficiali e sono pertanto autori propri dei reati di corruzione propria e di omissione di atti d’ufficio, nonché di quello previsto dall’art. 228 legge fall. (Cassazione penale, sezione VI, 4 novembre 2010, n. 38986)
[3] La fattispecie del rifiuto da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio di compiere un atto di ufficio è integrata non solo quando vi sia stata una sollecitazione soggettiva concretatasi in una richiesta o in un ordine e il comportamento del soggetto attivo si ponga come risposta «negativa» ad essi, esplicita o implicita, ma anche, indipendentemente da una richiesta o da un ordine, quando sussista un’urgenza sostanziale, impositiva dell’atto, resa evidente dai fatti oggettivi posti all’attenzione del soggetto obbligato ad intervenire, dimodoché l’inerzia soggettiva del medesimo assuma la valenza di rifiuto. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 11 maggio 1998, n. 5482)
[4] È responsabile di omissione di atti di ufficio il direttore didattico, (o il preside), il quale non elimini dalla disponibilità degli allievi oggetti (nella specie macchina – giocattolo) pericolosi per l’integrità fisica dei giovani e fonti di eventuale responsabilità della P.A. per i danni subiti dagli utenti del servizio. In tal caso è estraneo il consiglio di circolo, (o di istituto), poichè l’istituzione degli organi collegiali della scuola non ha fatto venir meno nè le competenze nè le responsabilità del personale direttivo e docente. (Cassazione penale, sezione VI, 8 agosto 1989, n. 10982)
[5] Commette il delitto di rifiuto di atti d’ufficio il militare dell’Arma dei Carabinieri che ometta la dovuta segnalazione al Prefetto circa la detenzione di una modica quantità di sostanze stupefacenti da parte di taluno.(Cassazione penale, sezione VI, 23 settembre 2010, n. 34401)