Di Alessandro Amaolo

In via preliminare, l’autore osserva che risponde del reato di diffamazione chi, comunicando con più persone, offende la reputazione di una persona non presente.

La diffamazione è un delitto di limitato allarme sociale, ma è sconsigliabile una sua eventuale depenalizzazione, così come è avvenuto per l’ingiuria.

La diffamazione è un reato da non sottovalutare poiché è idonea a turbare ed a ledere non solo la l’onore e la reputazione[1], ma anche la sfera psichica delle persone e, talvolta, può generare conseguenze, danni che si riverberano anche nella qualità della vita di tutti i giorni.

Ed ancora, talvolta, l’effetto della diffamazione diviene e rappresenta il presupposto o l’antefatto per la realizzazione di più gravi reati contro la persona come l’omicidio, le lesioni personali gravissime, il reato di rissa. Spesso, le percezioni dirette od indirette di alcune parole come “offensive” del proprio onore, reputazione, prestigio e decoro possono provocare ed accendere nella psiche umana riflessi e reazioni negative, impulsi incontrollabili ed è questo un dato di fatto che non si può contraddire in alcun modo.

In tema di diffamazione, la reputazione, di cui sopra, non si identifica con la considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice amor proprio, ma con il senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico.

Invece, per onore in senso lato si deve intendere “il complesso delle condizioni da cui dipenda il valore sociale della persona”. In sintesi, nel concetto di onore ci sono l’insieme delle doti morali (onestà, lealtà, fedeltà), intellettuali (istruzione, educazione, intelligenza, saggezza), fisiche (prestanza, robustezza, sanità) e delle altre qualità che concorrono a definire il pregio , il valore di un individuo nell’ambiente sociale in cui vive”.

Tutto ciò premesso, il testo vigente dell’articolo 595 del codice penale che , attualmente, punisce il delitto di diffamazione si compone di quattro commi. Il primo comma afferma che : “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente (ora abrogato dall’art. 1 del d.lgs. 15 gennaio 2016), comunicando con più persone offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro”.

Il secondo comma precisa che : “ Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2.065 euro ”.

Il terzo comma prevede che : “Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro”.

Ottengono rilievo penale ai sensi del terzo comma dell’articolo 595 codice penale anche le trasmissioni radiofoniche e televisive, le comunicazioni telematiche, le rappresentazioni cinematografiche.

L’ultimo comma prevede una circostanza aggravante ovvero che : “Se l’offesa è recata ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una rappresentanza, o ad una Autorità costituita collegio, le pene sono aumentate”.

Il delitto della diffamazione è un reato di mera condotta, a forma libera ed il tentativo non è configurabile nelle ipotesi di diffamazione verbale, potendo, invece, essere configurabile nella diffamazione in forma scritta o con condotta frazionata. In linea generale, il delitto preso in commento è un reato comune, perché può essere commesso da chiunque ad eccezione della diffamazione militare. Infatti, il delitto di diffamazione militare previsto dall’articolo 227 codice penale militare di pace, che presenta una identità strutturale con la corrispondente fattispecie dell’articolo 595 codice penale quanto al modello oggettivo di condotta, se ne distingue per il requisito della necessaria concorrenza della qualità militare di entrambi i soggetti, attivo e passivo del reato. (Cassazione penale, sezione I, sentenza 17 novembre 2010, n. 40556)

Orbene, l’articolo 21 della Costituzione, nel garantire il diritto di libera manifestazione e diffusione del pensiero, non definisce il diritto stesso come illimitato e assolutamente prevalente su ogni altro diritto parimenti garantito dalla Costituzione o dalle altre leggi che, senza contrastare con essa, compongono l’ordinamento giuridico vigente. In particolare, l’esercizio della libertà di opinione, e di pensiero non può risolversi in diritto di offesa dell’altrui onorabilità, bene che altra norma costituzionale (art. 2) tutela come inviolabile: ne consegue che la facoltà di manifestare il proprio pensiero va concretamente esercitata entro e non oltre i limiti posti dall’intero ordinamento giuridico, compresi quelli che si desumono dalle regole di probità e correttezza professionale (le cosiddette regole deontologiche), alla cui osservanza sovraintendono i preposti organi di categoria (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 16 aprile 1971, n. 474).

L’elemento oggettivo del reato implica tre requisiti. Infatti, il primo requisito è l’assenza dell’offeso mentre, invece, il secondo è l’offesa all’altrui reputazione. L’ultimo dei tre requisiti è la comunicazione a più persone e cioè la divulgazione, con qualsiasi mezzo (a voce , per iscritto etc.), ad almeno due persone del fatto offensivo. In particolare, è necessario che le più persone percepiscano il fatto offensivo ed non è richiesta la contemporaneità della comunicazione, potendo essa aver luogo in tempi diversi ed anche ad intervalli più o meno lunghi. Più in dettaglio, per aversi il requisito della comunicazione con più persone occorre che l’agente renda partecipi dell’addebito diffamatorio almeno due persone, le quali siano state in grado di percepire l’offesa e di comprenderne il significato. Tra le due o più persone non vanno, ovviamente, conteggiati il soggetto passivo, il soggetto attivo e gli eventuali concorrenti nel reato.

Ai fini dell’individuabilità dell’offeso non occorre che l’offensore ne indichi espressamente il nome, ma è sufficiente che l’offeso possa venire individuato per esclusione in via deduttiva, tra una categoria di persone, a nulla rilevando che in concreto l’offeso venga individuato da un ristretto gruppo di persone (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 25 maggio 1978, n. 6507).

La diffamazione, per concorde giurisprudenza e dottrina, è un delitto doloso. Infatti, ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico del reato di diffamazione è sufficiente il dolo generico, vale a dire la consapevolezza di offendere l’onore o la reputazione altrui. Inoltre, per la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato in commento (art. 595 c.p.) non occorre alcuna indagine sui motivi dell’azione, essendo sufficiente la prova della volontà libera e cosciente di diffondere notizia e commenti con la consapevolezza della loro attitudine a ledere l’altrui reputazione.

In questo specifico contesto di analisi e di studio dell’elemento soggettivo ritengo utile inserire, nel corso di questo contributo giuridico, un principio di diritto elaborato dalla Cassazione penale, sezione V, 18 novembre 1986, n. 12882 che, seppur risalente nel tempo, appare di grande attualità ed interesse per la dottrina penalistica. Nella predetta sentenza il Suprema collegio ha stabilito che : “Nel delitto di diffamazione, il dolo richiesto è solo quello generico e deve consistere nella volontà cosciente e libera di usare espressioni offensive, propalare notizie e commenti, con la consapevolezza della loro attitudine a ledere l’altrui reputazione; qualora tale volontà esista nessuna rilevanza può attribuirsi ai fini ed ai moventi dell’agente che possono assumere rilievo solo per giustificare la concessione di attenuanti o la riduzione della pena, ma non per escludere l’elemento soggettivo”.

L’integrazione del reato di diffamazione non richiede che la propalazione delle frasi offensive venga posta in essere simultaneamente, potendo la stessa aver luogo anche in momenti diversi, purché risulti comunque rivolta a più soggetti . (Cassazione penale, sezione V, sentenza 25 febbraio 2011, n. 7408)

Inoltre, secondo l’insegnamento della Corte di legittimità “Non commette il reato di diffamazione il testimone che, adempiendo il dovere di testimoniare, renda dichiarazioni offensive dell’onore altrui”. (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 28 marzo 2011, n. 12431)

Orbene, secondo l’autore, può integrare il delitto di diffamazione la condotta del datore di lavoro (ad esempio un dirigente comunale) che indirizzi al proprio dipendente una lettera protocollata contenente giudizi negativi connotati da espressioni offensive di cui ne informi, integralmente, per conoscenza anche il Sindaco, il Vice Sindaco , il Presidente del Consiglio Comunale ed i membri dell’ Organismo Indipendente di Valutazione, in quanto il potere gerarchico o, comunque, di sovraordinazione consente di richiamare, ma non di diffamare il lavoratore dipendente (ad esempio un istruttore amministrativo) o di esorbitare dai limiti della correttezza e del rispetto della dignità umana con espressioni che contengano un’intrinseca valenza mortificatrice, denigratoria della persona e si dirigano più che all’azione censurata, alla figura morale del dipendente, traducendosi in un attacco personale sul piano individuale, che travalichi ogni ammissibile facoltà di critica.

La diffamazione è un reato che può avere numerose applicazioni in qualsiasi settore della società civile. Infatti, per offrire ai lettori un ulteriore esempio, è stato sancito dagli ermellini che : “ Riportare su un comunicato stampa la notizia di una procedura disciplinare a carico di un magistrato, collegandola, in modo non rispondente al vero, ad un atto del suo ufficio, costituisce offesa alla reputazione (art. 595 c.p.), screditando detta persona pubblicamente in ordine alla mancanza di doti professionali. Né può essere esclusa la responsabilità dell’imputato in base ad una asserita buona fede non rilevante nel reato in esame, il cui elemento psicologico è costituito dal dolo generico. (Cassazione penale , sezione V, sentenza 20 gennaio 1998, n. 679 )

Il reato si consuma con la percezione da parte delle due o più persone del fatto offensivo. Più in dettaglio, se sono state fatte due comunicazioni a soggetti differenti in tempi successivi è con la seconda comunicazione che il reato si perfeziona. Orbene, il reato si consuma non al momento della diffusione del messaggio offensivo, ma al momento della percezione dello stesso da parte di soggetti che siano terzi rispetto all’agente ed alla persona offesa.

La diffamazione è un reato di evento, inteso quest’ultimo come un avvenimento esterno all’agente e causalmente collegato al comportamento di costui. Si tratta di un evento non fisico (non c’è una modificazione della realtà esterna come nel danneggiamento), ma psicologico, consistente nella percezione da parte dei terzi della espressione offensiva.

Anche secondo l’insegnamento della Cassazione “la diffamazione, che è reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione ingiuriosa e dunque, nel caso in cui frasi o immagini lesive siano state immesse sul web, nel momento in cui il collegamento viene attivato” (Cassazione penale, sentenza 25 luglio 2006, n. 25875).

Inoltre, la velocità con cui le nuove tecnologie si evolvono è tale che, da qualche tempo, il reato di diffamazione si può realizzare anche in forma digitale per il tramite delle rete di internet, così come nei social network online[2] più comuni quali facebook, twitter, instgram etc… L’utilizzo dei predetti strumenti ha reso possibile sempre nuove e più gravi forme di aggressione ai diritti della personalità, fra i quali la privacy e la reputazione. Ciò pone il problema della responsabilità penale per la pubblicazione via internet di notizie od affermazioni diffamatorie. Si tratta di un problema di non facile soluzione e molto articolato al suo interno. Su quest’ultimo punto altro problema, in considerazione del carattere transnazionale dei siti web, è quello di individuare il luogo di commissione del reato, ai fini della individuazione della competenza territoriale. In particolare, è vero che il sito è leggibile, attraverso la rete di internet, anche in Italia, ma la sua concreta pubblicazione avviene in uno Stato Estero.

Secondo l’insegnamento del giudice di legittimità : “Il giudice italiano è competente a conoscere della diffamazione compiuta mediante l’inserimento nella rete telematica (internet) di frasi offensive e/o immagini denigratorie, anche nel caso in cui il sito web sia stato registrato all’estero e purché l’offesa sia stata percepita da più fruitori che si trovino in Italia; invero; in quanto reato di evento, la diffamazione si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono la espressione ingiuriosa” (Cassazione penale, sentenza 27 dicembre 2000, n. 4741).

Sulla base delle precedenti considerazioni e riflessioni, si deve affermare che la diffusione di notizie diffamatorie a mezzo internet è idonea ad integrare, comunque, gli estremi del reato di cui all’art. 595, comma 3, c.p.

Pertanto, si deve affermare che al reato di diffamazione si possono applicare, in linea generale, tutte le cause di giustificazione comuni (scriminanti) previste dagli articoli 50-54 c.p., oltre alle cause di non punibilità “speciali” previste negli artt. 596-599 c.p. In quest’ultimo contesto si deve precisare che l’esercizio dei diritti di cronaca e critica[3] possono “scriminare” l’illiceità del fatto-reato qualora ricorrono le seguenti condizioni:

– l’utilità sociale dell’informazione, ossia l’interesse pubblico alla conoscenza della notizia. Con tutto ciò, l’utilità sociale dell’informazione, in grado di scriminare il reato de quo, è indissolubilmente connessa alla veridicità dell’informazione medesima. Ciò lo si deduce facilmente in quanto la diffusione di notizie non rispondenti al vero è sia inutile, così come anche controindicata al formarsi di una corretta opinione pubblica e sociale.

– la verità della notizia pubblicata (pertinenza), ossia la corrispondenza fra i fatti accaduti e quelli narrati. Inoltre, il principio di pertinenza impone che i fatti narrati rivestano un certo interesse per l’opinione pubblica.

– la correttezza della forma espositiva ossia la continenza[4]. Quest’ultimo elemento, principio richiede l’esattezza nell’esposizione dei fatti, in modo che siano evitate gratuite aggressioni all’altrui reputazione. Più in particolare, il linguaggio utilizzato (ad esempio da un giornalista, da un esponente politico etc..) deve essere improntato a serena obiettività e correttezza, senza degenerare in gratuite espressioni volgari, prive di ogni rispetto per la dignità e l’individualità delle persone o della persona di cui trattasi.

 

Inoltre, secondo l’ opinione dell’autore non esiste il reato di diffamazione, ma piuttosto un legittimo esercizio del diritto di critica sancito dall’art. 21 della Costituzione, qualora si pronuncino giudizi negativi sulle persone o cose oggetto della stessa quando le espressioni usate non siano tipiche manifestazioni di gratuita contumelia.

Il concorso di persone risulta essere compatibile ed ammissibile per il delitto presso in commento. Infatti, proprio in questo contesto, la Suprema Corte ha stabilito che: “Qualora un atto giudiziario a firma del difensore di una parte contenga affermazioni o espressioni diffamatorie, la relativa responsabilità penale in ordine al reato di cui all’art. 595 c.p. (ove non sussistano le condizioni per l’applicazione della causa di giustificazione prevista dall’art. 598 c.p.) può estendersi, in applicazione della disciplina generale in materia di concorso di persone del reato, anche alla parte che abbia riferito al difensore quanto da questi poi trasfuso nell’atto”. (Cassazione penale, sezione V, sentenza 23 giugno 2004 – 15 ottobre 2004, n. 40427)

Si pensi, ad esempio, ad una comparsa di costituzione e risposta (art. 167 c.p.c.) redatta da un avvocato, all’interno di un procedimento civile per convalida di sfratto, in cui il proprietario (locatore) dell’immobile venga accusato ingiustamente di essere in malafede e di avere danneggiato i conduttori dell’immobile (locatori) con una non dovuta azione di sfratto per morosità. Infatti, il termine “malafade”, nel caso sopra esposto, assume sicuramente un carattere diffamatorio, poiché i canoni di locazione e gli oneri accessori condominiali non risultavano, in vero, essere pagati prima dell’azione giudiziale esperita da parte del proprietario dell’immobile. Ed ancora, per fare un ulteriore esempio, ancora più diffamatorio nei confronti del locatore risulta essere per un difensore parlare di “malafede del locatore” ed allegare, nella comparsa di costituzione e risposta (art. 167 c.p.c.), una copia di un bonifico bancario, relativo ad un canone di locazione, che non verrà mai accreditato dalla banca sul conto corrente del proprietario dell’immobile. In quest’ultimo caso, il requisito per la diffamazione, ossia la comunicazione con più persone, ha quali destinatari sia il Giudice istruttore che il o i difensori del locatore (almeno due persone).

Restano ancora da analizzare le note procedurali per il reato in commento. Si tratta di un reato procedibile a querela di parte dove le misure precautelari del fermo e dell’arresto non possono essere consentite. Tuttavia, la misura cautelare reale del sequestro preventivo avente per oggetto un articolo pubblicato su un sito internet risulta essere ammissibile secondo l’insegnamento degli ermellini.

Infatti, è stata affermato dai giudici di legittimità che: “È legittimo il sequestro preventivo di un articolo pubblicato su un sito internet contenente espressioni ritenute lesive dell’onore e del decoro qualora la sua adozione sia giustificata da effettive necessità e da adeguate ragioni che si traducono nella sussistenza del “fumus commissi delicti” e del pericolo di aggravamento delle conseguenze del reato a cagione del mantenimento in rete delle predette espressioni ; né, a tal fine, rileva l’assenza della ‘definitivamente accertata diffamatorietà’, la quale è un requisito concernente, ex art. 1, comma primo, R.D.L.vo n. 561 del 1946, soltanto il sequestro probatorio”. (Cassazione penale, sezione V, sentenza 24 febbraio 2011, n. 7155)

La competenza risiede nell’ufficio del Giudice di pace per le ipotesi previste dal primo e secondo comma dell’articolo 595 c.p. mentre, invece, è del Tribunale monocratico per le restanti ipotesi previste dai commi terzo e quarto. Inoltre, l’udienza preliminare (art. 550 c.p.p.) non è prevista. Infine, risulta possibile la declaratoria di non punibilità per tenuità del fatto fermo, peraltro, il dettato degli artt. 34 e 35 D.Lgs. 274/2000, quando è competente il Giudice di pace.

Infine, per le ipotesi di competenza del Tribunale monocratico l’azione penale si esercita con il decreto penale di condanna oppure con il decreto di citazione diretta a giudizio. Invece, per le ipotesi di competenza del Giudice di Pace, l’azione penale si esercita, oltre che con il decreto di citazione diretta a giudizio innanzi a quest’ultimo, anche su ricorso della persona offesa ex articolo 21 del Decreto Legislativo nr 274/2000.

(A cura del Dott. Alessandro Amaolo , Specializzato nelle Professioni Legali con indirizzo Giudiziario – Forense ed abilitato all’esercizio della professione di avvocato presso la Corte di Appello di Ancona)

[1] La reputazione di una persona che per taluni aspetti sia stata già compromessa può divenire oggetto di ulteriori illecite lesioni in quanto elementi diffamatori aggiunti possono comportare una maggiore diminuzione della reputazione della persona offesa nella considerazione dei consociati. (Cassazione penale, sentenza 22 settembre 2004, n. 47452)

[2] Va confermata la decisione di merito che, in un procedimento per diffamazione per la pubblicazione online di un commento offensivo, ha individuato l’autore del commento grazie all’indirizzo IP dell’utenza telefonica dell’abitazione dell’imputato. Va ritenuta inidonea a configurare ragionevole dubbio l’astratta possibilità del c.d. furto di identità e cioè che un terzo avesse sfruttato la rete wireless del prevenuto per postare lo scritto diffamatorio. (Cassazione penale, sezione V, sentenza del 29 ottobre 2015, n. 8275)

[3] Il diritto di critica politica, garantito dall’art. 21 della Costituzione, può essere esercitato entro e non oltre i limiti della necessità dell’affermazione e della diffusione delle idee politiche professati, ed è anche condizionato dall’obbligo di rispettare la verità obiettiva delle affermazioni che si immedesimano in fatti determinati, perché, se si trascende da tali limiti e non si rispetta la verità obiettiva e la competizione politica diventa un’occasione per aggredire la reputazione altrui (bene garantito anche esso dall’art. 2 della Costituzione), non si può configurare l’esercizio del diritto di critica e la attribuzione ad altri anche se avversari politici, di fatti e comportamenti che comportino un giudizio di disistima costituisce diffamazione. (Cassazione penale, sezione V, sentenza 15 maggio 1987, n. 6160)

[4] La riserva posta alla impunibilità per la provata verità del fatto diffamatorio dall’ultimo inciso dell’art. 596 codice penale relativo ai “modi usati”, si concreta in un limite di continenza analogo a quello del diritto di cronaca o di critica, il cui superamento rende inoperante l’esimente stessa. (Cassazione penale, sezione V, sentenza 24 aprile 1987, n. 5070)