Di Alessandro Amaolo
In via preliminare, si può affermare che il delitto di rapina si connota e contraddistingue per il suo elevato allarme sociale, così come per il suo particolare disvalore nei confronti della società civile.
La condotta antigiuridica di questo particolare delitto di aggressione unilaterale può costituire e rappresentare il presupposto, la condizione e l’antefatto per la realizzazione di ulteriori e più gravi reati quali ad esempio l’omicidio(1), la strage ( art. 422 c.p.) . Infatti, la commissione del reato in commento può scatenare degli impulsi, forze e delle reazioni incontrollabili sia nella psiche del rapinatore che in quella del rapinato.
Il delitto di rapina può commettersi mediante l’uso della violenza o della minaccia, la prima intesa come esercizio di un’energia fisica che provochi la coazione personale in senso lato del soggetto passivo, e la seconda come prospettazione anche per mezzo di un’azione o di un comportamento di un male, idonea a indurre la persona offesa a determinarsi in modo diverso da quello che avrebbe scelto. Più in particolare, la violenza di cui sopra può consistere anche in una semplice spinta o in un semplice urto nella vittima, al fine di poter realizzare l’impossessamento della cosa.
Il legislatore penale, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 628 c.p., punisce la condotta di “chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s’impossessa della cosa mobile altrui(2), sottraendola a chi la detiene” (c.d. rapina propria). Questa prima condotta integra il reato di rapina propria che sussiste allorquando la vis (la violenza) o la minaccia servono come mezzo per neutralizzare ostacoli di persona che si interpongono tra l’agente e la cosa da sottrarre. Inoltre, la cd. minaccia di cui all’art. 628 c.p. si configura come la prospettazione di un male, idonea ad indurre la persona offesa a determinarsi in modo diverso da quello che avrebbe liberamente scelto. La minaccia necessaria ad integrare l’elemento oggettivo della rapina può consistere in qualsiasi comportamento deciso, perentorio
Note:
1) L’omicidio della vittima in occasione di una rapina (anche non a mano armata) si raccorda di regola alla disciplina dell’art. 116 c.p., giacchè tale reato determina sempre un gravissimo pericolo per la vita del rapinato, il quale per impulso naturale è portato a resistere alla violenza o alla minaccia che gli proviene dal rapinatore e a sperimentare qualsiasi mezzo per sottrarsi ad essa. Il verificarsi del più grave reato di omicidio è in tale ipotesi non già un evento eccezionale o atipico rispetto al crimine voluto e concordato, ma un evento che rientra nell’ordinario svolgersi dei fatti umani. (Cassazione penale, sezione V, sentenza 12 febbraio 1992, n. 1488)
2) Qualora la detenzione di sostanze stupefacenti, che può essere anche legittima, diventa ad un certo punto illecita, ciò non comporta che esse diventino res nullius ai fini della configurabilità del delitto di rapina. E’, a tal fine sufficiente il requisito dell’alienità della cosa costituente oggetto dell’impossessamento della cosa mobile, mediante minaccia sottraendola al detentore. Persiste, pertanto, l’aggravante di cui all’art. 576, n. 1, c.p., in relazione alla circostanza del nesso teleologico ex art. 61, n. 2, c.p. in caso di omicidio volontario commesso al fine di imposessamento di droga illecitamente detenuta dalla vittima. (Cassazione penale, sezione I, sentenza 5 settembre 1991, n. 8755)
e univoco dell’agente che sia astrattamente idoneo a produrre l’effetto di turbare o diminuire la libertà psichica e morale del soggetto passivo (in tal senso, Cassazione penale, sezione I, sentenza 1 dicembre 2009, n. 46118).
Sotto il profilo esecutivo e fattuale, integra la minaccia costitutiva del reato di rapina la condotta del soggetto che, falsamente presentandosi come operatore di polizia, effettui una fittizia perquisizione domiciliare – con ciò comprimendo la libertà psichica della vittima – per impossessarsi dei beni di questa, perché la minaccia può essere esercitata mediante qualsiasi comportamento che, prospettando un male, limiti la libertà di autodeterminazione (in tal senso, Cassazione penale, sezione II, sentenza 13 gennaio 2010, n. 948).
Ad esempio, ricorrono gli estremi soggettivi ed oggettivi del delitto di rapina qualora la violenza, consistente nel buttare giù a terra sul pavimento una persona che si trova a difesa del muro su cui si appoggia la cassaforte, sia finalizzata all’impossessamento del denaro, dei gioielli e degli orologi di valore che sono depositati proprio all’interno della predetta cassaforte.
In questa fattispecie penale incriminatrice, il soggetto attivo del reato si trova di fronte all’alternativa tra ricorrere alla violenza o alla minaccia oppure rinunciare alla sottrazione della cosa.
L’articolo 628 c.p. stabilisce, inoltre, che “alla stessa pena soggiace chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l’impunità” (c.d. rapina impropria).
La predetta ipotesi sussiste quando la vis (la violenza) o la minaccia servono come mezzo per neutralizzare ostacoli di persona insorti subito dopo la sottrazione, clandestinamente o comunque pacificamente realizzata. Pertanto, il soggetto attivo del reato si pone l’alternativa tra ricorrere alla violenza o minaccia oppure di rinunciare al mantenimento di un possesso non ancora consolidato o all’impunità. Più precisamente, la rapina impropria sussiste anche nell’ipotesi in cui l’agente ha già attuato la sottrazione, privando così la vittima della disponibilità materiale della cosa, ma senza averne ancora realizzato l’impossessamento. In estrema sintesi, la rapina impropria sussiste nell’ipotesi in cui l’agente, effettuata la sottrazione, abbia già operato, ma non ancora consolidato, l’impossessamento.
In sintesi, la differenza tra la rapina propria ed impropria risiede dunque nell’inversione temporale in cui si succedono sottrazione e impossessamento, violenza o minaccia. Infatti, nella rapina impropria si verifica prima lo spossessamento e, poi, la violenza o la minaccia, che servono all’agente per conseguire o consolidare il possesso, ovvero assicurare a sé o ad altri l’impunità. Pertanto, la vis (forza , energia fisica ) nel caso della rapina impropria non è un mezzo che serve all’agente per spogliare altri del bene in questione, ma uno strumento attraverso il quale poter conseguire o consolidare il possesso, ovvero assicurare a sé o ad altri l’impunità.
Il trattamento sanzionatorio per la rapina semplice è quello della reclusione da 3 a 10 anni e della multa da euro 516 a euro 2.065.
Invece, se ricorre almeno una delle circostanze di cui al 3° comma dell’articolo 628 c.p. (cd. rapina aggravata), il trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore è molto più rigido e severo, poiché è prevista la pena della reclusione da 4 anni e 6 mesi e della multa da euro 1.032 ad euro 3.098.
Le circostanze speciali in esame, anche se previste in numeri diversi, non concorrono tra loro quoad poenam, in quanto operano unitariamente l’effetto sui limiti edittali.
La peculiare finalità di assicurare, con violenza o minaccia, a sé o ad altri il possesso o l’impunità rende la rapina un reato a dolo specifico.
Il momento consumativo del reato di rapina è segnato dall’impossessamento della res. In particolare, è sufficiente che la cosa sottratta sia passata, anche per breve tempo ed anche nello stesso luogo in cui la sottrazione si è verificata, sotto il dominio esclusivo dell’agente .
Pertanto, il reato non può regredire allo stadio di tentativo solo perché in un momento successivo altri abbia impedito al suo autore di mantenere il possesso della cosa sottratta o di procurarsi la impunità. In sintesi, si realizza l’ipotesi di rapina consumata anche se l’agente sia stato costretto ad abbandonare la refurtiva subito dopo la sottrazione a causa del pronto intervento dell’avente diritto o della forza pubblica. Tuttavia, nella rapina impropria è necessario che, dopo la sottrazione, il soggetto agente usi la violenza o la minaccia per realizzare l’impossessamento, poiché resta indifferente per la perfezione del reato che tale scopo sia raggiunto.
In poche parole, il delitto si consuma non appena l’agente consegua, mediante violenza o minaccia, il possesso della cosa, il che si verifica quando la cosa sottratta passi nella sua esclusiva materiale disponibilità, con conseguente privazione, per la vittima, del relativo potere di dominio o di vigilanza. Si ribadisce, nuovamente, che l’impossessamento, quale momento consumativo del delitto di rapina, non esige affatto il requisito della definitività della sottrazione, ma si concretizza appena l’agente abbia conseguito la disponibilità materiale della cosa sottratta, sia pure per breve intervallo di tempo e nello stesso luogo, senza possibilità per la vittima di riprendere il possesso con il normale esercizio del potere di vigilanza e custodia, bensì esclusivamente tramite un’azione violenta personale o da parte di terzi. Sulla base delle precedenti riflessioni, ne deriva che pure un possesso temporaneo della cosa vale ad integrare il momento consumativo, in quanto anche in tal caso le possibilità di recupero della refurtiva potrebbero avvenire solo con il ricorso da parte del rapinato alla violenza o ad altra decisa pressione dell’agente, perciò, attraverso una reazione di segno opposto all’azione delittuosa pienamente realizzatasi.
Il delitto di rapina ha natura di reato plurioffensivo perché lede non solo il patrimonio, ma anche la libertà fisica e morale della vittima ovvero la sua capacità di autodeterminazione nei confronti della realtà esterna che lo circonda e che percepisce in quel dato momento di tempo.
Ancora, nella rapina il profitto, per espressa previsione normativa, deve essere ingiusto(3) e non deve fondarsi su un diritto soggettivo o su una pretesa che direttamente o indirettamente viene tutelata dall’ordinamento giuridico. Nel delitto di rapina, ad avviso di chi scrive, il profitto si può concretare in qualsiasi utilità, anche solo morale, in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene. In tema di rapina, il profitto ingiusto perseguito dall’autore del delitto può consistere anche nella temporanea utilizzazione della cosa. (Cassazione penale, sezione I, sentenza 22 aprile 2010, n. 15405)
Si tratta di un reato comune, perché il soggetto attivo del reato può essere chiunque e di danno in ragione del fatto che richiede l’offesa in senso naturalistico al bene giuridico protetto. Inoltre, la rapina è anche un reato di mera condotta in quanto si perfeziona con la semplice esecuzione dell’azione illecita ed a forma vincolata poiché la condotta è già prestabilita dal legislatore.
Il comma 3 dell’art. 628 c.p. dispone che la pena sia della reclusione da 4 anni e sei mesi a venti anni e della multa da € 1.032 a € 3.098 se la violenza o la minaccia è commessa con armi o da persona travisata, o da più persone riunite. Il travisamento, previsto dall’art. 628, ultimo comma, n. 1, c.p., deve consistere in una qualunque alterazione o celamento dell’aspetto fisico,
Note:
3) Il cliente di una prostituta che, a fronte della prestazione mercenaria effettuata, ottenga la restituzione della somma di denaro versata per essa, con violenza o minaccia, commette il delitto di rapina in quanto, trattandosi di negozio nullo per illiceità della causa, il pagamento effettuato non è ripetibile e il profitto conseguito dall’agente con la sua azione è, quindi, ingiusto, così come ingiusto è il danno per la vittima. (Cassazione Penale,Sezione II, sentenza 22 gennaio 1987, n. 764)
tale da rendere difficoltoso il riconoscimento dell’agente, senza che il suo successivo riconoscimento faccia venir meno l’applicabilità dell’aggravante. (Cassazione Penale, Sezione II, sentenza 22 gennaio 1987, n. 835) . Lo stesso aumento di pena si applica se la violenza consiste nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire, così come se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell’associazione di cui all’art. 416-bis c.p.
Tuttavia, la riforma del 2009 ha cambiato il comma 3 dell’art. 628 c.p. introducendo tre nuove circostanze aggravanti ai numeri 3-bis, 3-ter e 3-quater. La finalità del legislatore è stata proprio quella di estendere la tutela prevista dall’ordinamento in favore dei consociati in relazione a dei reati che sono tali da provocare un particolare allarme sociale. In sintesi, sono state estese delle circostanze aggravanti ai luoghi di privata dimora e/o alle pertinenze di essi, come pure alle attività rientranti nella quotidianità dei singoli individui.
In più, l’art. 7, comma 2, Decreto Legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni dalla Legge 15 ottobre 2013, n. 113, ha introdotto una ulteriore specifica aggravante (di cui all’art. 628 c.p. comma 3, numero 3-quinquies) che ricorre se il fatto è commesso nei confronti di persona ultrasessantacinquenne. Lo scopo del legislatore penale, perseguito proprio da questa ultima e specifica aggravante, è stato quello di garantire una maggiore tutela penale nei confronti di tutti quei soggetti che hanno una minore capacità di difesa nei confronti dei rapinatori.
In tema di aggravanti, gli ermellini (Cassazione penale, sezione unite, sentenza 11 febbraio 2009, n. 5941) hanno precisato che “in tema di rapina, la locuzione impiegata nell’ultima delle ipotesi previste dall’art. 628, comma terzo, n. 1 , c.p. esprime un concetto di pluralità che sussiste anche nel caso di due soggetti soltanto”.
Inoltre, ritengo applicabile e quindi configurabile all’interno del delitto de quo anche la circostanza attenuante del danno di speciale tenuità (art. 62 n. 4, c.p.). Pertanto, affermo che la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p. possa essere applicabile per la rapina solo se l’oggetto della stessa abbia un valore economico di trascurabile entità, che va enucleato dalla qualità dell’oggetto stesso.
Infine, il quarto ed ultimo comma dell’art. 628 c.p. (introdotto ed aggiunto dall’art. 3 , comma 27, lett. b), della L. 15 luglio 2009, n. 94) stabilisce che “le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall’articolo 98 concorrenti con le aggravanti di cui al terzo comma, numeri 3, 3 bis , 3 ter e 3 quater, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti”.
Per di più, la rapina è un reato complesso ai sensi e per gli effetti dell’art. 84 c.p., che assorbe i reati di furto e di minaccia (o percosse). Di conseguenza, i due delitti che ne integrano la fattispecie sono legati da un nesso teleologico. Tuttavia, escludo che altri reati commessi in occasione di una rapina, quali il sequestro di persona, la resistenza a pubblico ufficiale o la violazione di domicilio, possano venire assorbiti nella rapina ai sensi e per gli effetti dell’art. 84 c.p.
Per la fattispecie incriminatrice presa in commento, il tentativo è sicuramente ammissibile nel delitto di rapina sia propria che impropria. In sintesi, per la configurabilità del delitto di tentata rapina, è sufficiente che l’attività del soggetto agente sia potenzialmente idonea a produrre l’impossessamento della cosa mobile altrui, mediante violenza o minaccia e che la direzione univoca degli atti, desumibile da qualsiasi elemento di prova, renda manifesta la volontà di conseguire l’intento criminoso. Oltre a ciò, sussiste il tentativo di rapina impropria allorquando il soggetto attivo del reato, dopo aver compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della cosa altrui che si sono arrestati in itinere per cause indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità.
Sempre in tema di tentata rapina, si può correttamente affermare che la non punibilità dell’agente per inesistenza dell’oggetto può aversi solo quando l’inesistenza sia assoluta, cioè quando manchi ogni possibilità che in quel contesto di tempo la cosa possa trovarsi in un luogo specifico e non, piuttosto, quando essa sia puramente temporanea ed accidentale (in tal senso, Cassazione penale, sezione II, sentenza 22 gennaio 2009, n. 3189).
In riferimento ai rapporti con altri reati, il delitto di rapina si differenzia da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni per l’elemento intenzionale. Infatti, nella rapina l’agente mira a conseguire un ingiusto profitto, con la coscienza che quanto pretende non gli è dovuto, mentre nell’esercizio arbitrario egli agisce nella ragionevole opinione di esercitare un diritto con la coscienza che la pretesa sia ragionevolmente fondata.
Ancora in riferimento ai rapporti con altri reati c’è da affermare che il delitto di rapina, ad avviso di chi scrive, assorbe in sé soltanto quel minimo di violenza che si concreta nelle percosse. Di conseguenza, quando la vis compulsiva impiegata dal soggetto agente supera questo limite, il rapinatore è chiamato a rispondere anche dell’autonomo reato di lesioni personali (art. 582 c.p.) aggravato dalla connessione teleologica con quello di rapina.
Solo per fare un esempio l’impossessamento, da parte di un aggressore, del portafoglio della vittima mentre quest’ultima viene duramente picchiata con pugni e calci da ulteriori aggressori configura gli estremi oggettivi e soggettivi del delitto di rapina, aggravato dalla presenza di più persone riunite in modo tale da intimidire ulteriormente la vittima e dissuaderla dal reagire all’azione violenta. Quanto al reato di lesioni di cui sopra, aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 2 c.p. perché finalizzato alla commissione del reato di rapina, appare evidente che la condotta degli aggressori è idonea ad integrare gli estremi del reato di lesioni personali (art. 582 c.p.), atteso che il reato di rapina può assorbire soltanto quel minimo di violenza alla persona necessario a consentire l’impossessamento del bene. Pertanto, nell’ipotesi prospettata dallo scrivente, la vittima è stata oggetto di violenza fisica ulteriore non necessaria e, di conseguenza, il reato di lesioni personali non può in alcun modo essere assorbito in quello della rapina.
Inoltre, in tema di concorso di reati, il delitto di rapina (art. 628 c.p) può concorrere con il delitto di sequestro di persona (art. 605 c.p.) , allorché gli esecutori del primo delitto, all’unico fine di potersi allontanare più agevolmente dal luogo del delitto, privano taluno della libertà di locomozione (in tal senso si veda, Cassazione Penale, Sezione I, sentenza del 10 maggio 2001). Ancora nell’alveo di questo specifico contesto normativo e giurisprudenziale si inserisce la sentenza della Cassazione penale, sezione I, 12 agosto 2010, n. 31735 che afferma : “I reati di sequestro di persona, rapina e tentato omicidio possono concorrere tra loro non sussistendo alcun rapporto di consunzione o sussidiarietà tra gli stessi, attesa la diversità dei beni giuridici tutelati che, da un lato, non consente di ritenere assorbiti tra loro gli interessi tutelati dalle fattispecie di sequestro di persona e rapina e, dall’altro, esclude che tali ultime condotte costituiscano il necessario antefatto del delitto di tentato omicidio”.
Tuttavia, il reato di sequestro di persona è assorbito in quello di rapina aggravata previsto dall’art. 628, comma terzo, n. 2 c.p. solo quando la privazione della libertà personale abbia una durata limitata al tempo strettamente necessario all’esecuzione della rapina, ma non quando si protragga anche dopo la consumazione della stessa. (Cassazione penale, sezione II, sentenza 16 giugno 2009, n. 24837) Il predetto orientamento giurisprudenziale risulta essere rafforzato anche da una precedente sentenza della Cassazione penale, sezione II, 5 aprile 1991, n. 3698 che già a quell’epoca aveva risolto ogni dubbio interpretativo in riferimento ai rapporti fra le due fattispecie incriminatrici. Pertanto, con quest’ultima sentenza emessa nel lontano anno 1991, gli ermellini hanno stabilito che : “In tema di rapporti tra il delitto di rapina e quello di sequestro di persona, quando la privazione della libertà personale dell’offeso è limitata allo stretto necessario per consumare il delitto di cui all’art. 628 c.p., deve risconoscersi che il sequestro concreta una semplice modalità di esecuzione della rapina aggravata (art. 628, secondo capoverso, n. 2 c.p.), ma se la privazione della libertà personale precede o segue apprezzabilmente la condotta volta ad attuare la rapina o il relativo tentativo, si ha concorso tra tale reato ed il delitto di cui all’art. 605 c.p.”.
Infine, fra il delitto di rapina impropria e quello di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) esiste, certamente, il concorso formale eterogeneo nell’ipotesi in cui l’azione violenta posta in essere subito dopo la sottrazione della cosa venga rivolta nei confronti di agenti delle forze dell’ordine che sono prontamente intervenuti sul luogo del fatto. Orbene, ad avviso di chi scrive, pur essendo la violenza elemento costitutivo comune sia della rapina impropria sia della resistenza ad un pubblico ufficiale, non si può ritenere quest’ultimo reato assorbito nel primo. Ciò in quanto la violenza, quando venga esercitata nei confronti di un pubblico ufficiale o di un incaricato di un pubblico servizio, viola anche un interesse giuridico diverso consistente nel normale funzionamento e nel prestigio della Pubblica Amministrazione. Sulla base di queste ultime riflessioni, si può correttamente affermare che, in tal modo, si realizza un’ipotesi di concorso formale eterogeneo di reati, cioè di violazione di due differenti disposizioni della legge penale con un’unica azione.
Per completezza espositiva, restano da analizzare gli aspetti procedurali del reato de quo. L’autorità giudiziaria competente è il Tribunale monocratico (art. 33-ter c.p.p.) nel primo e secondo comma (rapina semplice) mentre, invece, è il Tribunale in composizione collegiale (art. 33-bis c.p.p.) nel terzo comma (rapina aggravata). Si tratta di un reato procedibile d’ufficio (art. 50 c.p.p.) dove viene prevista la celebrazione dell’udienza preliminare (art. 416 , 418 c.p.). Inoltre, l’arresto è obbligatorio in flagranza (art. 381 c.p.p.) ed il fermo di indiziato di delitto è anche consentito (art. 384 c.p.p.). Oltre a ciò, le misure cautelari personali in generale, così come quelle interdittive (art. 287 c.p.p.) e coercitive (art. 280 c.p.p.) possono essere consentite e, quindi, applicabili. Infatti, con le modifiche apportate all’art. 275 c.p.p. dall’art. 5 del d.l. n. 152 del 1991, convertito nella Legge n. 203 del 1991, si è introdotta, con riferimento a determinati gravi delitti, fra cui quello di rapina aggravata, una specie di presunzione di sussistenza di esigenze cautelari soddisfacibili soltanto con la misura coercitiva della custodia in carcere, stante la pericolosità dimostrata per il solo fatto della commissione di uno di questi. Oltre a ciò, possono essere consentite le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, proprio come mezzo di ricerca della prova ex art. 266 c.p.p. Da ultimo, il termine di prescrizione è di 10 anni per l’ipotesi di cui al primo comma e di 20 anni per l’ipotesi di cui al terzo comma.
In ultima analisi, la rapina deve essere considerato come un reato a vocazione plurioffensiva che è aggressivo non solo del patrimonio, ma anche della libertà di autodeterminazione e, quindi, anche dell’incolumità individuale altrui.
(Articolo giuridico a cura del Dott. Alessandro Amaolo)