Roberta Travia
“Il grado di civiltà di uno Stato si misura dal grado di civiltà delle sue prigioni”
Voltaire
SOMMARIO: 1. – INTRODUZIONE 2. – IL CARCERE: UNA REALTA’ SCONOSCIUTA 3. – I DIRITTI DEI DETENUTI
- -INTRODUZIONE
In Italia ampie fasce della popolazione subiscono la violazione dei diritti umani a causa dell’inadeguatezza del sistema normativo e delle scelte politiche sbagliate.
Uno dei temi prioritari, per Governo e Parlamento italiano, è assicurare condizioni dignitose e rispettose dei diritti umani nelle carceri e risolvere il problema attuale del sovraffollamento, incompatibile con l’obbligo internazionale di garantire condizioni di detenzione rispettose della dignità umana e con il diritto di tutti a non essere sottoposti a pene o trattamenti disumani.
Tale questione rientra in un tema di grande respiro riguardante il rapporto tendenzialmente conflittuale tra diritti dell’uomo e diritto penale, quest’ultimo inteso nella sua accezione più ampia e dunque comprendente sia il diritto penale sostanziale che il diritto processuale ed il diritto penitenziario.
Quella dell’emergenza carceri è una questione annosa ed attuale che porta a porsi alcuni quesiti: come si vive negli istituti di pena? Quali diritti vengono riconosciuti ai detenuti?
In questo breve saggio si proverà a dare risposta a tali domande affrontando la tematica relativa alla tutela delle persone recluse e ai problemi connessi a tale condizione, problemi mai stati definitivamente risolti.
- – IL CARCERE: UNA REALTA’ SCONOSCIUTA
Per la maggioranza delle persone il carcere è un universo sconosciuto.
L’idea di carcere e la sua funzione, supposta, di risocializzazione creano nella mente umana una paura che a sua volta genera un meccanismo di rimozione. Da qui la necessità di provare a spiegare “cos’è il carcere”.
Il sistema carcerario, nel corso dei secoli, è mutato passando da un carcere punitivo, basato su torture e umiliazioni, ad uno rieducativo, che pone al centro del trattamento il detenuto, attraverso il suo graduale recupero e reinserimento nella società.
In origine, dunque, nasce come istituzione priva di libertà e di diritti, un luogo di espiazione in cui il recluso assiste alla propria morte psichica e civile, dove predomina la violenza, torture e supplizi sono all’ordine del giorno, un’istituzione dove la disumanità prende il posto dell’umanità.
Con l’Illuminismo si registra una profonda rivoluzione nell’istituzione penitenziaria in quanto si rifiuta il principio punitivo della pena adottando quello basato sulla rieducazione e sull’umanizzazione, teso al rispetto della condizione personale del reo. Inoltre, si introduce il principio della certezza della pena, favorendo l’applicazione di una visione giurisprudenziale basata sulla legalità.
Secondo questa prospettiva, la funzione principale della detenzione doveva essere quella di correggere il comportamento del detenuto, non attraverso la punizione, ma riabilitandolo, riclassificandolo socialmente e aiutandolo a reinserirsi nella società.
I detenuti venivano suddivisi in base alla gravità del reato commesso, e le pene modificate tenendo conto dei risultati, dei progressi e delle ricadute degli. Il criminale diventa oggetto di studio, al fine di comprendere le motivazioni che lo hanno spinto ad agire, attraverso l’analisi dei fattori psicologici e ambientali dell’accusato, da cui dipenderà la scelta della pena più adeguata per correggerlo.
Il carcere, dunque, assume una funzione di correzione e trasformazione degli individui, come testimonia il fatto che i detenuti dovevano lavorare, percependo anche un salario, un modo per dar valore al lavoro svolto. Lo scopo era quello di far acquisire loro la voglia di fare, indirizzandoli ad una vita pura e laboriosa, cercando di insegnare loro a reintegrarsi nella società civile.
In Italia, una svolta rilevante si ebbe, nel 1786, con l’emanazione della Riforma della legislazione criminale, passata alla storia come Codice leopoldino; tuttavia è solo nel 1850, con il codice Zanardelli, che si inizia a parlare di rieducazione e reinserimento sociale.
Nel 1931 viene approvato il Regolamento per gli Istituti di prevenzione e di pena, il c.d. Codice Rocco, che rende il lavoro, le pratiche religiose e l’istruzione obbligatori per i detenuti, al fine del riadattamento degli stessi in società, con l’introduzione del lavoro remunerato quale mezzo per il reinserimento sociale.
All’indomani della redazione del codice penale Rocco viene approvato il
Nuovo Regolamento per gli Istituti di prevenzione e pena, il quale ne delinea le caratteristiche principali.
La legge 354 del 26 aprile 1975 applica il principio sancito dall’art. 27 della nostra costituzione, ai sensi del quale «La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte»; affrontando proprio il problema dell’umanizzazione del trattamento negli istituti penitenziari e della finalizzazione della pena tesa al recupero sociale dei detenuti, fornendo loro un percorso tale da garantire una vasta gamma di attività di trattamento mirate alla rieducazione e al reinserimento sociale degli stessi.
Una svolta importante si ha con il decreto Ministeriale del 4 Maggio 1977 che segna l’inizio di una nuova fase nella storia delle carceri italiane, con la creazione degli istituti di massima sicurezza affidati esclusivamente alle forze dell’ordine, il cui obiettivo era garantire la sicurezza, l’ordine e la disciplina.
Uno dei provvedimenti più innovativi fu la c.d “legge Gozzini”, in materia di Ordinamento Penitenziario, il cui obiettivo principale era quello di fare in modo che l’esecuzione di pena tendesse a favorire «il graduale reinserimento del soggetto nella società, attraverso un allargamento delle possibilità di accesso alle misure alternative alla detenzione, con la previsione di determinati meccanismi che incentivassero la partecipazione e la collaborazione attiva del detenuto all’opera di trattamento, cosi come già anticipato dalla normativa del’75, ma soprattutto con la predisposizione di strumenti tendenti a favorire il reinserimento fin dal momento iniziale dell’esecuzione». Introduce, quindi, le misure alternative, tra cui i permessi premio, forniti come ricompensa per comportamenti adeguati. Inoltre, prevede un intervento legislativo limitato, con lo scopo di disciplinare la massima sicurezza, abrogando l’articolo 90 dell’Ordinamento penitenziario, sostituendolo con l’articolo 41 bis per gli esponenti della criminalità organizzata, che stabilisce il regime di sorveglianza speciale per i condannati e imputati qualora la condotta lo richiedesse.
In altri termini, da un lato potenzia la gamma di operatività delle misure alternative e, più in generale, dei benefici penitenziari, secondo una logica che esprime inequivocabilmente una volontà politica di contenere le istanze di tipo strettamente custodiale. Dall’altro lato, adducendo esigenze di sicurezza, legalizza la forma della “sorveglianza particolare”, sottraendola all’arbitrio dell’amministrazione penitenziaria e, quindi, sotto questo punto di vista, mosso anche da preoccupazioni di tipo garantista.
E’ proprio con la l. 663/1986 che fa ingresso, nell’ordinamento penitenziario, il termine “criminalità organizzata”.
La legge Gozzini, infatti, introduce nella legge penitenziaria l’art. 47ter, disciplinante il nuovo istituto della detenzione domiciliare che si configura come una modalità di esecuzione extracarceraria, la cui introduzione risponde all’esigenza di evitare la carcerazione a coloro che si trovino in condizioni tali da poter risentire gravemente della permanenza in carcere, sia sul piano fisico sia su quello psicologico.
Sennonché il 2° comma dello stesso art. 47-ter, nel quadro dei presupposti ostativi alla concessione del beneficio, prevede che la misura della detenzione domiciliare non possa essere concessa “quando è accertata l’attualità di collegamenti del condannato con la criminalità organizzata o di una scelta di criminalità“.
Questa disposizione ha suscitato qualche perplessità, in particolare, per le difficoltà scaturenti dall’individuazione dei collegamenti tra detenuto e criminalità organizzata. Tuttavia, tale connessione, secondo una possibile interpretazione, attribuirebbe al Tribunale di sorveglianza una possibilità di valutazione della “pericolosità” del soggetto che altrimenti non avrebbe.
Pertanto, il limite ex art. 47-ter 2° comma subordinerebbe la concessione della detenzione domiciliare a valutazioni ulteriori rispetto alla mera constatazione dell’appartenenza del soggetto alle categorie indicate dalla norma, e della ricorrenza delle altre condizioni oggettive, visto che la norma in questione non assegna al Tribunale di sorveglianza lo spazio di discrezionalità, che è previsto, invece, in relazione alle altre misure. Il fatto è che il margine di discrezionalità che così si delinea potrebbe risultare troppo ampio, per la scarsa determinatezza dei parametri indicati, in pregiudizio del principio di legalità. Inoltre, tenendo presente la ratio dell’istituto (scopo umanitario-assistenziale), appare contraddittorio l’atteggiamento del legislatore che subordina finalità di carattere prettamente umanitario a necessità di tutela dell’ordine pubblico. Non solo: l’istituto, così configurato, sembra non rispondere neppure ai principi di rieducazione ex art. 27 3° comma Cost. e di uguaglianza ex art. 3 Cost. A questo proposito, una parte della dottrina aveva proposto una interpretazione riduttiva della portata della norma, tale da ridimensionare sostanzialmente gli aspetti di frizione con i principi della Costituzione. Secondo la tesi avanzata, il limite ex art. 47-ter 2° comma avrebbe dovuto essere applicato solamente agli autori dei reati di cui all’art. 416 e 416-bis c.p. La Corte di Cassazione, tuttavia, non ha aderito ad una simile interpretazione, sottolineando come l’accertamento della condizione ostativa in questione “non deve necessariamente derivare dall’esistenza di una sentenza passata in giudicato, ma può essere desunto da ogni altro elemento, purchè obiettivamente certo e significativo, e quindi anche da una comunicazione giudiziaria“.
Tali misure detentive hanno inciso negativamente sulle condizioni di vita dei detenuti, incrementando il sovraffollamento in carcere, per via del quale l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti Umani per aver violato l’art. 3 della Convenzione del 1950: «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Così, l’opinione pubblica si è soffermata sulle condizioni inumane dei detenuti, sulla dignità della persona piuttosto che sulla colpa del reo.
Nonostante le varie riforme, ancora oggi esistono situazioni di violenza e di abbandono che scatenano la protesta dei detenuti, che vogliono far valere i propri diritti, evidenziando come il carcere, pur con l’intento di rieducare e di reintegrare il reo nella società, produce malessere, devianza ed etichetta l’individuo delinquente, favorendone spesso l’esclusione dalla società.
- – I DIRITTI DEI DETENUTI
Al detenuto, quale essere umano, spettano gli stessi diritti delle persone libere, nella misura in cui l’esercizio di essi non si riveli incompatibile con le esigenze della vita carceraria.
Si può affermare, in conseguenza, che nella giurisprudenza costituzionale la posizione del recluso acquista rilievo sotto una duplice prospettiva: da una parte, come meritevole di protezione giuridica rispetto a tutti quei diritti non condizionati o indipendenti dalla situazione di carcerato, dall’altra, nella stessa sfera giuridica condizionata dallo status di detenuto e dalle necessità di esecuzione della pena, come punto di riferimento di garanzie minime non sopprimibili, se si vuole evitare che le pene degradino a trattamenti contrari al senso di umanità.
Fondamentale è che colui che sconta una pena non perda tutti i suoi diritti, ma subisca solo quelle limitazioni che sono necessarie per assicurare l’esecuzione della pena; questo principio ha costituito poi la base su cui sono poggiati concreti riconoscimenti, come quello del diritto al riposo annuale retribuito in caso di prestazione di lavoro a favore dell’amministrazione penitenziaria.
Si sviluppa così una coscienza dei diritti dei detenuti e della loro tutela, per cui il carcere non deve essere luogo di sopraffazione o di degradazione della personalità, ma luogo in cui persone scontano una pena legalmente inflitta.
Da qui sono state emanate una serie di pronunce costituzionali volte a rendere effettiva in misura adeguata la tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti.
Come già precisato, la sanzione detentiva comporta una limitazione, ma non privazione, dei diritti di libertà della persona; anche durante l’esecuzione di una misura limitativa della libertà, la dignità della persona dev’essere protetta.
L’art 3 della Convenzione Europea, nello stabilire il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche, la cui applicazione non può che avere ad oggetto ogni maltrattamento che si estrinsechi in un trattamento inumano. Da una visione generale questa previsione, benché abbia ad oggetto il diritto fondamentale ad un trattamento che non neghi la dignità dell’uomo, non risulta tra i parametri maggiormente usati nei ricorsi alla Corte di Strasburgo. Ciò è dovuto al fatto che è presumibile escludere quasi completamente l’adozione da parte degli Stati europei, dato il grado di civiltà raggiunto, delle misure vietate dalla norma in questione. Inoltre, è indubbio che una condanna fondata sull’art. 3 costituisca, per lo Stato, una nota assai negativa per la propria reputazione a livello internazionale: anche per questo motivo la Corte procede con cautela alle sentenze di condanna. Tuttavia, la previsione secca e concisa della norma ha permesso un’ampia interpretazione del suo contenuto, al punto da poter ricondurre al suo interno violazioni di diverso genere.
Il principio, pertanto, impone ad ogni Stato di accertare che le condizioni dei detenuti siano compatibili con il rispetto della dignità umana; inoltre sono tenuti ad erogare un’efficace assistenza medica, poiché la Convenzione impone di garantire la salute del detenuto e sottolinea che si ha violazione dell’art. 3 ogni qualvolta non siano prestate le adeguate cure.
Sono due i criteri che bisogna considerare al fine di stabilire se si sia in presenza di trattamento inumano: la condizione del detenuto e la qualità delle cure prestate.
Tutelare la salute dei detenuti in maniera paritaria rispetto alla popolazione generale è un obbligo che discende dai principi costituzionali e da quelli espressi da norme sovranazionali, posto che la garanzia della salute psico-fisica rappresenta uno dei presupposti essenziali di qualunque trattamento rieducativo del condannato.
Il trattamento penitenziario deve rispondere ai bisogni della personalità del condannato, garantendo istruzione, lavoro e attività culturali religiose e ricreative.
I diritti che maggiormente rilevano nello stato di detenzione sono il diritto alla salute, il diritto a conservare rapporti con i familiari, il diritto a professare la propria religione e il diritto allo studio.
Il diritto all’istruzione integra, come quello alla salute, il nucleo sostanziale irrinunciabile della dignità umana. Per tale motivo esso non può essere negato o eccessivamente limitato al detenuto, che deve poter completare gli studi universitari, anche senza ottenere il permesso di allontanarsi, poiché tale condizionamento assoluto implicherebbe la totale perdita del diritto.
L’educazione è un diritto inviolabile di ogni cittadino, senza alcuna discriminazione e, dunque, un diritto anche per coloro i quali siano in condizione di privazione della libertà. I percorsi d’istruzione, l’educazione, le attività culturali, oltre ad essere diritti fondamentali, hanno un effetto positivo sui detenuti perché contribuiscono a migliorare l’immagine di sé e delle proprie capacità.
La formazione in carcere deve essere preordinata alla preparazione di figure professionali richieste dal mercato del lavoro, poiché esso costituisce uno dei presupposti principali del reinserimento sociale ed accresce l’autostima, la gratificazione e la responsabilizzazione del detenuto.
Tra l’altro, la recente legge n. 67/2014 di delega al Governo, sulla riforma del sistema sanzionatorio e di pene detentive non carcerarie, attribuisce un ruolo primario al “lavoro di utilità sociale”, inteso come “prestazione non retribuita, in favore della collettività, quale pena alternativa al carcere, da svolgere, in ogni caso, con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato e prevede che la durata giornaliera della prestazione non possa comunque superare le otto ore”. Occorre evidenziare come, comunque, l’esito positivo del percorso rieducativo dipenderà in buona parte dal sistema penale, perché raramente il recupero del soggetto potrà avvenire all’interno di un contesto ingiusto e inefficiente.
L’esecuzione della pena deve, però, mirare alla rieducazione del soggetto e questa, a sua volta, non può prescindere dalla gratificazione personale, vuoi come diritto allo studio, vuoi come interessi lavorativi che possono mettere in evidenza le qualità del detenuto. Ed è pertanto che, solo attraverso piccole soddisfazioni, la persona potrà maturare un processo di pentimento verso il comportamento precedente.
La protezione dei diritti inviolabili della persona, anche se reclusa, oltre ad essere manifestazione del principio di umanizzazione della pena e della pari dignità costituisce il mezzo più idoneo per tendere al reinserimento sociale del detenuto. Il carcere è una formazione sociale, ed in quanto tale, luogo nel quale la persona svolge la sua personalità, sicché durante l’esecuzione della pena il detenuto conserva quell’insieme di diritti fondamentali, sebbene con i limiti derivanti dalle finalità proprie della restrizione della libertà personale.
Lo status di detenuto non può portare, dunque, all’annullamento dei diritti inalienabili, ma deve preservare il diritto all’identità e all’integrità psicofisica, il diritto alla salute, il diritto allo studio e il diritto a svolgere un’attività lavorativa e, per quanto compatibile con lo stato di reclusione, il diritto alla riservatezza, alle relazioni personali e affettive.
Il nostro Ordinamento penitenziario (O.P.), nel rispetto dei principi e dei diritti costituzionalmente garantiti, assegna grande rilevanza al mantenimento delle relazioni familiari. La famiglia è presente nell’ordinamento penitenziario come “soggetto verso cui il detenuto ha diritto di rapportarsi”. Essa è considerata come risorsa nel percorso di reinserimento sociale del reo ed inserita tra gli elementi del trattamento individuale. Durante il periodo detentivo i rapporti con la famiglia svolgono un importante supporto al percorso rieducativo del reo, e influiscono in modo incisivo sull’eventuale esito del reinserimento nella società. Infatti, l’incontro frequente con i familiari, il ricevere da loro lettere o altra comunicazione, è un elemento rassicurante per il detenuto, che riduce il senso di abbandono e lo induce a ritenere transitoria la sua situazione, tenendo vive le sue aspettative di vita futura. Peraltro, la negazione del diritto al mantenimento delle relazioni familiari si porrebbe in contrasto con il senso d’umanità che deve presidiare l’esecuzione delle pene detentive (art.27, comma III, Cost.).
In altri termini, il trattamento carcerario deve rispettare i connotati costituzionalmente inderogabili dell’esecuzione penale e non può comprimere quel minimo di libertà del detenuto perché la tutela della dignità umana si può ottenere solo attraverso il pieno riconoscimento dei diritti fondamentali, intesi come insieme di libertà e di diritti.
Dopo aver chiarito il punto fondamentale della titolarità, in capo ai detenuti, di tutti i diritti fondamentali previsti dalla Costituzione, si deve riprendere il terzo comma dell’art. 27 della Costituzione il quale si ricollega sia all’art. 3 CEDU, che vieta la tortura e le pene che consistano in trattamenti inumani e degradanti, sia ad un precetto simile contenuto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, oggi inclusa nel Trattato di Lisbona.
La “disumanità” della pena deve ritenersi in contrasto con il rispetto della dignità umana e non può essere in alcun caso né ammessa né tollerata.
La prescrizione di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. deve essere intesa in senso unitario, posto che “un trattamento penale ispirato a criteri di umanità è necessario presupposto per un’azione rieducativa del condannato”. Lo stato di sconforto determinato da condizioni carcerarie inumane costituisce un ostacolo al processo di risocializzazione del detenuto perché la pena finisce per apparire non la giusta conseguenza della sua condotta illecita, ma una vendetta dell’autorità, che non si limita a sottrarlo della libertà personale, ma lo umilia privandolo delle condizioni minime di vita dignitosa a cui ogni essere umano ha diritto.
La Corte di Strasburgo, nella nota sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013, ha ritenuto che le condizioni di sovraffollamento carcerario, rilevate negli istituti di pena italiani, provocano una situazione di sofferenza nei detenuti, che va ben oltre il naturale disagio di chi non dispone più della sua libertà personale.
Poiché per persona s’intende l’unione inscindibile di corpo e spirito, ogni situazione di estrema costrizione fisica, di mancanza di beni essenziali per una vita decente, si converte in una lesione della dignità. Non c’è violenza peggiore di quella che costringe a rinunciare al proprio pudore, alla propria igiene, alla propria esistenza individuale, perché in queste condizioni la persona viene privata di se stessa, ridotta a numero e portata a nutrire sentimenti di rivalsa e di disprezzo verso la società.
Il riconoscimento dei diritti fondamentali, connessi al trattamento penitenziario, certamente evidenzia i progressi compiuti rispetto al 1931. Tuttavia la loro effettività è tutt’oggi ridimensionata dalla scarsità di fondi, strumenti, spazi, attrezzature, dalla condizione di sovraffollamento delle carceri italiane, che comprime ed a volte cancella tali diritti.
Sono centinaia i detenuti che hanno scelto di togliersi la vita in carcere negli ultimi anni a causa del sovraffollamento che rende insostenibile la vita all’ interno di celle sempre più anguste: in esse mancano spazi di movimento, intimità, persino l’ossigeno, e questo spinge i detenuti a pensare che uccidersi sia l’unico modo per liberarsi del fardello di una detenzione che, invece, dovrebbe rieducare; il nostro sistema penitenziario imprigiona, punisce e non riabilita. Eppure in uno Stato democratico gli istituti di pena non dovrebbero essere luoghi in cui si decide di morire, bensì strutture da cui rinascere scegliendo una strada diversa, probabilmente.
Con il decreto-legge 23 dicembre 2013 n. 146 “Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria” si è cercato di risolvere questo problema. Viene introdotto un pacchetto di misure che operano su distinti piani, con l’obiettivo di diminuire il numero delle persone all’interno dell’istituto carcerario, attraverso misure dirette ad incidere sia sui flussi di ingresso in carcere, sia su quelli di uscita, ad esempio estendendo la possibilità di accesso al servizio civile.
Determinate misure sono indispensabili, anche per adeguarsi alla sentenza c.d Torreggiani della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che impone l’adozione di misure per risolvere il problema del sovraffollamento.
Si propone il rafforzamento degli strumenti di tutela dei diritti dei detenuti, con l’istituzione del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute, ed è previsto un procedimento giurisdizionale davanti al magistrato di sorveglianza per tutelare i propri diritti.
Il Garante dei diritti dei detenuti o difensore civico è un organo di garanzia che, in ambito penitenziario, ha funzioni di tutela delle persone private o limitate della libertà personale. I Garanti ricevono segnalazioni sul mancato rispetto della normativa penitenziaria, sui diritti dei detenuti eventualmente violati o parzialmente attuati e si rivolgono all’autorità competente per chiedere chiarimenti o spiegazioni, sollecitando gli adempimenti o le azioni necessarie. Il loro operato si differenzia, per natura e funzione, da quello degli organi di ispezione amministrativa interna e della stessa magistratura di sorveglianza. I Garanti possono effettuare colloqui con i detenuti e possono visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione, secondo quanto disposto dagli artt. 18 e 67 dell’ordinamento penitenziario (previsti dalla legge n. 14/2009).
Il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, aveva fortemente sostenuto l’istituzione di un Garante dei diritti dei detenuti, ma ci sono voluti alcuni anni perché, oltre alle positive esperienze di alcune regioni, venisse eletta la figura a livello nazionale, realizzando così l’istituzione di una funzione di garanzia e osservazione della complessa faccenda sulla privazione della libertà personale, prevista dalla Legge n. 10 del 2014. La nomina del Garante nazionale è un’importantissima tappa nella generale fase di riflessione sull’esecuzione penale, poiché questi si occuperà di tutte le forme di privazione della libertà, dalla custodia nei luoghi di polizia alla permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione, ai trattamenti sanitari obbligatori, in particolare nelle residenze di esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche.
Di recente, è stato approvato il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario, attuativo della delega contenuta nella legge del 23 giugno 2017 n.103 per la sistemazione della materia penitenziaria, puntando sulla semplificazione del procedimento di sorveglianza e la tutela dei diritti di difesa, sulla rivisitazione delle condizioni di accesso alle misure alternative, sulla introduzione di strumenti di giustizia riparativa, sull’incremento del lavoro interno ed esterno al carcere, sulla valorizzazione del volontariato, sulla maggiore sensibilità verso le categorie di detenuti in condizioni di debolezza e sul riconoscimento del diritto all’affettività.
È doverosa una revisione globale del processo penale per avviarci alla risoluzione del problema del sovraffollamento. Il numero di processi penali pendenti è enorme e il ricorso alla custodia cautelare cresce continuamente. Sarebbe, quindi, opportuno ridurre l’afflusso nelle carceri, ma anche strutturare i penitenziari con programmi mirati a rieducare il detenuto.
Giunti a questo punto della disamina, è possibile asserire che i detenuti nelle carceri italiane abbiano “pari dignità sociale” rispetto agli altri cittadini? Certamente no; di fronte a questa situazione disastrosa è evidente come sia ancora molta la strada che dovrà essere percorsa, sul piano normativo, per dare un carattere di tutela giurisdizionale ai diritti sociali che attengono al trattamento rieducativo. La stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 279 del 2013 aveva affermato che “non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine a tale grave problema”.
In ogni caso, il miglioramento delle condizioni materiali delle carceri italiane sembra la via principale per avviarsi a risolvere il problema.
Non resta che sperare in un cambiamento.