Diritto internazionale umanitario – Crimini di guerra – immunità giurisdizionale degli Stati. [1]

  1. – Premesse. Il diritto penale umanitario ha molti sinonimi. Quelli che ricorrono con maggiore frequenza sono “diritto umanitario di guerra” e “diritto internazionale umanitario”: il primo svela la più antica connotazione di questa peculiare branca dell’ordinamento giuridico, mettendo in evidenza che si tratta di norme che si applicano nel contesto di conflitti bellici e che si propongono di arginare la violenza che è ad essi coessenziale, onde impedire che essa, muovendosi al di fuori di ogni regola e misura, frantumi e devasti tutti i principi di umanità e civiltà; il secondo (diritto internazionale umanitario) ne mette in risalto l’ulteriore connotato, evidenziando come le sue componenti siano costituite da norme e principi che si sono progressivamente irradiati nell’ambito del consorzio umano, sganciandosi dalle singole realtà territoriali ed elevandosi a disciplina universale, da applicarsi in ogni luogo ed a prescindere dalle contingenti leggi dei singoli ordinamenti; e quindi anche nelle ipotesi – che la storia ha sempre registrato e di cui la seconda guerra mondiale ha fornito una terribile ed indimenticabile testimonianza – in cui il diritto positivo di tali ordinamenti ne prescriva o consenta la più plateale e radicale delle violazioni.

Tali norme e principi sono, pertanto, memento e monito per chiunque, con un messaggio di esemplare chiarezza. Sappiano gli Stati ed i dittatori di ogni dove che saranno puniti ove abbiano violato, comandato o permesso di violare le norme a presidio dei principi che fondano e definiscono l’umana convivenza. E saranno puniti anche coloro che abbiano dato esecuzione a tali ordini, per la ragione che si tratta di ordini che: recano l’indelebile stigma di violare i fondamenti della umanità; sono per tale ragione manifestamente criminosi; e non dovevano essere eseguiti.

Per lungo tempo si è ritenuto che la violazione di queste norme di diritto internazionale umanitario generasse soltanto la responsabilità dei singoli individui che se ne fossero resi responsabili. Ciò che nel corso del tempo è mutato è solo l’area entro cui poteva delinearsi tale responsabilità individuale, che si è progressivamente ampliata e affrancata dall’antico assunto che la voleva circoscritta ai soli soggetti in posizione di elevato comando.

L’evolversi della coscienza comune, quindi, ha fatto sì che aumentasse il novero dei soggetti responsabili, scendendo lungo la catena della gerarchia e chiamando a rispondere anche coloro che avevano eseguito gli ordini. E ciò proprio per la natura e la gravità dei crimini, che, contrastando con le basi essenziali di ogni consorzio umano, fuoriescono della legittima competenza di ogni autorità di comando e, ove ne venga ordinata o consentita la realizzazione, hanno un carattere di tale manifesta criminosità da imporre, a carico di ciascun soggetto, l’obbligo di non darvi esecuzione.

Rimaneva però fermo il principio che in nessun caso fosse possibile citare in giudizio, per vederne accertata la responsabilità civile, gli Stati cui appartenevano gli autori di tali crimini. In particolare, si riteneva che l’ordinamento internazionale fosse improntato al principio della immunità giurisdizionale degli Stati, ai sensi del quale non poteva consentirsi che uno Stato fosse chiamato a rispondere di fronte ai tribunali di un altro Stato per i crimini commessi dai suoi organi militari.

Il principio iniziò a delinearsi, con progressivo suo rafforzamento, sin dalla remota formazione degli Stati nazionali e venne sin dalle sue prime applicazioni considerato come una essenziale componente della sovranità, per effetto della quale, essendo gli Stati tutti ugualmente sovrani, era impossibile che uno Stato fosse portato dinanzi ai tribunali di altro Stato per rispondere di atti posti in essere nell’estrinsecazione diretta ed immediata della sovranità (e iure imperii).

  1. – L’immunità giurisdizionale degli Stati: l’orientamento della Corte di Cassazione (sentenza n. 5044 del 2004). Facciamo un salto ed arriviamo ai nostri giorni e nel nostro Paese, per soffermarci sulla fondamentale sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione il 1° marzo 2004 (sentenza n. 5044), in cui si è affermato che l’obbligo di rispettare i diritti inviolabili della persona umana costituisce un fondamentale pilastro dell’ordinamento internazionale e che esso ha progressivamente intaccato la portata e l’ambito di altri principi ai quali tale ordinamento si è tradizionalmente ispirato, quale quello del rispetto delle reciproche sovranità e del riconoscimento dell’immunità statale dalla giurisdizione civile.

Ne deriva che la norma consuetudinaria di diritto internazionale generalmente riconosciuta – che impone agli Stati l’obbligo di astenersi dall’esercitare il potere giurisdizionale nei confronti degli Stati stranieri per gli atti “iure imperii” – non ha valore assoluto ed incondizionato, ma va contemperata con il principio, progressivamente radicatosi nell’ordinamento internazionale, del primato assoluto dei valori fondamentali della libertà e dignità della persona umana.

In altri termini, allo Stato straniero non è accordata un’immunità totale dalla giurisdizione civile di altro Stato: questa recede in presenza di fatti di tale gravità da configurarsi quali crimini contro l’umanità i quali, per il fatto di offendere quei valori universali di rispetto della dignità umana che, trascendendo gli interessi delle singole comunità statali, costituiscono inviolabile patrimonio del consorzio umano, segnano il punto di rottura dell’esercizio tollerabile della sovranità.

Il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte ha trovato riscontro e condivisione in numerose pronunce degli organi giudiziari militari[2], nelle quali la questione della responsabilità civile degli Stati sovrani è stata affrontata con ampia e puntuale argomentazione e che hanno trovato ulteriore avallo nella decisione pronunciata dalla Corte di Cassazione il 21 ottobre 2008 (sentenza n. 1263).

Ha infatti ribadito la Cassazione che la norma internazionale di tutela dei diritti umani fondamentali prevale sulla norma consuetudinaria che ha dato corpo alla immunità degli Stati in ragione di due fattori: è norma di grado più elevato con carattere sovraordinato; ha assunto, anche nell’ordinamento internazionale, il ruolo di principio fondamentale, per il suo contenuto e per i fondamentali valori affidati alla sua protezione.

  1. – L’immunità giurisdizionale degli Stati: l’orientamento della Corte internazionale di giustizia. Lo Stato tedesco ha ritenuto che le decisioni degli organi giudiziari italiani violassero le sue prerogative di sovranità ed ha chiesto alla Corte internazionale di giustizia[3] di dichiarare la responsabilità dello Stato italiano per non aver rispettato, con le pronunce emesse dai propri organi giurisdizionali, la norma internazionale sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile di altri Stati.

Per la Corte internazionale di giustizia (sentenza del 3 febbraio 2012), l’Italia ha violato il diritto internazionale attraverso le pronunce emesse dai suoi organi giurisdizionali, che hanno negato l’immunità della Germania nell’azione di risarcimento proposta in relazione ai gravissimi crimini commessi dagli organi del Reich tra il 1943 e il 1945.

La Corte internazionale di giustizia ha in primo luogo sottolineato che non le si chiedeva di stabilire se costituissero o meno gravi crimini internazionali gli atti posti a fondamento della responsabilità civile dello Stato tedesco; l’oggetto della sua pronuncia concerneva soltanto il punto se i tribunali italiani fossero o no obbligati a riconoscere la immunità da giurisdizione dello Stato tedesco; e se l’obbligo fosse cogente anche in relazione a crimini commessi nel territorio dello Stato italiano: cioè dello Stato che intende far valere, dinanzi ai suoi tribunali, la responsabilità dello Stato estero (territorial tort principle).

In primo luogo la Corte ha stabilito che nel diritto internazionale consuetudinario è tuttora valida ed efficace la regola per la quale l’immunità dalla giurisdizione opera anche quando i fatti illeciti siano stati commessi nel territorio dello Stato del foro; e che quindi non se ne potesse predicare la inefficacia sulla base del “territorial tort principle”.

Indi la Corte si è chiesta se la deroga all’immunità potesse essere giustificata dalla natura del crimine; e quindi dovesse soccombere nel caso in cui lo Stato estero si fosse reso responsabile, tramite i suoi organi, di gravissime violazioni delle norme sui conflitti armati.

Nell’affrontare la questione la Corte sottolinea come vi sia qualcosa di incongruo nell’approccio che fa dipendere la immunità dalla gravità del crimine, perché in tale costrutto si dà vita ad un meccanismo in cui l’immunità può essere negata sulla base della abile costruzione dell’accusa e del fatto che in essa vengano dedotti gravi crimini contro l’umanità.

Ad ogni modo la Corte esclude recisamente che si sia formata la deroga invocata dallo Stato italiano e ritiene che la pratica in uso presso la quasi totalità degli Stati non supporti in alcun modo il principio secondo cui l’immunità viene meno in presenza di gravi violazione dei diritti umani o del diritto che disciplina i conflitti armati.

Infine la Corte si sofferma sull’argomento che fa discendere la deroga all’immunità dalla natura di jus cogens delle norme poste a protezione e garanzia dei fondamentali diritti umani; argomento in cui si sottolinea che l’immunità non ha natura di jus cogens e di conseguenza essa deva soccombere ogni volta che sia in conflitto con norme e principi che abbiano natura inderogabile.

Per la Corte non esiste l’invocato conflitto in quanto i due principi ruotano in differenti ambiti. La regola sull’immunità ha carattere procedurale ed è preordinata a stabilire se i Giudici di uno Stato possano o no esercitare la loro giurisdizione rispetto ad uno Stato estero, senza alcun rapporto con la duplice questione se e quanto grave sia la violazione per la quale è invocata la responsabilità dello Stato e quando la medesima sia stata commessa.

  1. – Le immediate reazioni alla decisione della Corte internazionale. Si è da taluni messo subito in rilievo come la raffinata costruzione della Corte si muova in un contesto segnato da vischiosità di concetti e principi e non tenga in adeguata considerazione la recente pratica internazionale, che invoca e pretende il massimo di tutela giudiziaria nel caso di gravi crimini contro i diritti umani, specie quando commessi da organi di uno Stato estero nel Paese che rivendica la giurisdizione.

Un ruolo essenziale è svolto dal diritto internazionale umanitario, consacrato nelle convenzioni di Ginevra del 1949, e dal progressivo intensificarsi della tutela giudiziaria legata alle sue violazioni. Negli ultimi due decenni questa tendenza si è manifestata in modo particolarmente incisivo nel campo della responsabilità penale individuale degli autori delle violazioni, generando la istituzione di diversi tribunali internazionali per accertare e giudicare tali crimini, in processi che hanno coinvolti Capi di Stato e personalità di governo.

Sicchè diviene ineludibile il seguente interrogativo. Come è possibile affermare la responsabilità penale e civile di soggetti che rappresentano, in quanto suoi organi, uno Stato e nel contempo escludere la responsabilità civile e risarcitoria di quest’ultimo nei confronti del Paese cui appartengono le vittime?

Eppure è questo lo scenario che si è venuto a delineare. I responsabili degli efferati ed atroci crimini di guerra sono chiamati a rispondere penalmente delle azioni commesse e nei loro confronti è pacificamente esperibile l’azione di risarcimento del danno, con costituzione di parte civile delle persone offese o di chi sia subentrato nella loro posizione. I soldati rispondono penalmente e civilmente. E rispondono civilmente per avere eseguito azioni belliche quali organi dello Stato di appartenenza ed in attuazione di scellerati e dettagliati piani di sterminio e distruzione. Ma sono solo loro a rispondere penalmente e civilmente, quasi avessero agito in piena autonomia e senza alcun collegamento con gli ordini e le direttive ricevute.

Sembra, insomma, che la decisione della Corte internazionale sia viziata da un approccio in cui la ragione degli Stati sovrani lascia privi di difesa e di adeguata tutela tutti gli individui coinvolti nei gravi crimini: in primo luogo coloro che hanno visto distrutta la loro esistenza sotto il fuoco di una violenza fuori di ogni regola e misura; indi coloro che hanno vissuto l’intera vita nella aspettativa di una giustizia che riconoscesse le loro sofferenze e vi ponesse, nei limiti dell’umanamente possibile, rimedio e conforto; ed infine, occorre dirlo, coloro che, a tanti anni di distanza dagli efferati crimini, sono chiamati ad affrontarne le conseguenze da soli, in un processo in cui è invocata anche la loro responsabilità civile e che paradossalmente non coinvolge, come concorrente responsabile civile, quello Stato per conto e su ordine del quale essi hanno operato e devastato.

Nella sua ricca ed argomentata dissenting opinion il giudice Cancado Trindade, componente della Corte internazionale, ben evidenzia come “I crimini di guerra, i crimini contro la pace ed i crimini contro l’umanità sono commessi in modo pianificato ed organizzato e per ciò sono crimini che coinvolgono una responsabilità collettiva. Questi crimini fanno affidamento sulle risorse dello Stato e per ciò essi sono crimini di Stato. Per questo è necessario che vi sia una responsabilità congiunta: la responsabilità internazionale dello Stato e la responsabilità penale degli individui.  Nessuno Stato può, né mai gli è stato consentito, invocare la sovranità per ridurre in schiavitù o sterminare essere umani ed evitare le proprie responsabilità trincerandosi dietro lo scudo dell’immunità. Non vi è immunità per così gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, per crimini di guerra e contro l’umanità. L’immunità non è mai stata concepita per simili iniquità”.

Ed è sempre il giudice Trindade a sottolineare come sia inammissibile collocare la questione della immunità in uno spazio di assoluta astrattezza e come sia doveroso collegarla con i drammatici fatti che hanno dato origine al contenzioso, soprattutto quando  lo Stato citato in giudizio abbia riconosciuto la propria responsabilità per tali fatti e quando sia imperiosa e sorretta da forte consenso l’istanza di non lasciare le vittime, tutte e ciascuna di esse, prive di adeguata e completa tutela. Ed è questo, sottolinea il giudice Trindade, il dominante imperativo che promana dalla contemporanea dottrina di diritto internazionale e dalle tante istituzioni sorte a difesa dei diritti umani in ogni parte del mondo, che con voce forte e unitaria pongono l’accento sulla necessità di tutela e riparazione e lasciano soccombere l’antico dogma della immunità degli Stati.

La Corte doveva quindi evitare l’angusto ed inadeguato l’approccio basato esclusivamente sulla pratica delle relazioni tra gli Stati. Siffatta pratica non esaurisce l’ambito del diritto consuetudinario, in cui trovano significativa collocazione i fatti, le istituzioni e le opinioni che hanno segnato le progressive tappe di maturazione del complessivo compendio di tutela dei diritti umani e del correlativo diritto penale-internazionale umanitario.

In questo più ampio contesto, connotato dalle innovative acquisizione della dottrina del diritto internazionale penale, non può più esserci spazio per uno scudo procedurale che, fondato sulla staticità di antichi dogmi, produca l’effetto di impedire che si accertino tutte le responsabilità per le atrocità commesse nel corso di conflitti armati o di sanguinari conflitti interni e renda vana la diffusa aspettativa che esse non abbiano più a ripetersi, in nessuna parte del mondo.

  1. – L’esecuzione della sentenza della Corte internazionale. La norma consuetudinaria accertata dalla Corte internazionale può quindi essere così formulata: «uno Stato è immune dalla giurisdizione di un altro Stato per fatti commessi dalle proprie forze armate sul territorio dello Stato del foro nel contesto di un conflitto armato, ancorché tali fatti siano qualificabili come crimini internazionali».

L’ipoteca è pesante e la corte di cassazione non può in alcun modo prescinderne. Prende quindi atto della decisione del giudice internazionale ed afferma che la deroga all’immunità, affermata nelle pregresse sentenze, pur avendo rappresentato <<un tentativo dettato da esigenze di affermazione di principi di civiltà giuridica>> non è stata, o non è stata ancora, fornita della necessaria condivisione e non può pertanto essere portata ad ulteriore applicazione.

Viene quindi affermata la prevalenza delle regola della immunità, che vale per tutti gli atti iure imperii, crimini di guerra inclusi, dovendosi prendere atto, si ribadisce, che l’opposto principio non ha trovato accoglimento presso la <<Comunità internazionale, della quale la Corte dell’Aja è il massimo momento di sintesi giurisdizionale>>.[4]

Anche il nostro legislatore prende atto della pronuncia della Corte internazionale di giustizia e vi si conforma, adottando nel 2013 la legge n. 5, a mezzo della quale prescrive ai giudici di dichiarare il difetto di giurisdizione nei giudizi civili in corso nei confronti dello Stato tedesco e introduce i meccanismi procedurali per la revocazione delle sentenze, irrevocabili, con le quali il predetto Stato era stato condannato al risarcimento dei danni.

  1. L’intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 238 del 22 ottobre 2014). La vicenda non è però conclusa. Poco dopo l’entrata in vigore della legge n. 5 del 2013, il tribunale di Firenze esprime dei dubbi sulla costituzionalità dell’assetto normativo che consegue alla decisione del giudice internazionale e si rivolge alla Corte costituzionale, con quattro identiche ordinanze di rimessione, tre delle quali sono state decise con la sentenza n. 238 del 22 ottobre 2014, mentre la quarta è stata decisa dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 30 del 2015.

Il nucleo essenziale dei dubbi di costituzionalità prospettati dal giudice di Firenze si radica nell’articolo 10, primo comma, Cost: cioè quel veicolo normativo attraverso il quale penetrano nell’ordinamento italiano, collocandosi sul medesimo piano delle norme costituzionali, le norme internazionali consuetudinarie.

Rileva il giudice che, conformemente a quanto accade con riguardo alle norme della Unione Europea, non è ammissibile che filtrino nell’ordinamento italiano, e vi facciano validamente parte, norme in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o che ledano i diritti inalienabili della persona umana (c.d. teoria dei controlimiti).[5]

Il rilievo colpisce nel segno e la Corte costituzionale ne mutua le argomentazioni essenziali, sviluppandole con rigorosa consequenzialità ed avendo cura di non contestare la intensità e la portata della norma consuetudinaria sull’immunità degli Stati.[6]

Oggetto della verifica di legittimità costituzionale è quindi la validità ed efficacia nell’ordinamento interno della norma internazionale sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati, così come interpretata dalla Corte internazionale di giustizia.

Ciò che la corte afferma al riguardo è semplice e lineare: quella norma consuetudinaria, per il suo intrinseco contenuto e la efficacia rispetto a ogni atto iure imperii, è in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione italiana e per tale ragione viene ad attivarsi quel “controlimite” che ne impedisce l’ingresso nel sistema giuridico italiano.

In coerente sviluppo di tale asserzione, in primo luogo viene dichiarata la incostituzionalità della legge italiana n. 5 del 2013, per effetto della quale i giudici italiani erano vincolati al rispetto della pronuncia della Corte internazionale di giustizia del 2012.

Indi si dichiara la incostituzionalità della legge 17 agosto 1957, n. 848, che dà esecuzione allo Statuto delle Nazioni unite, nella parte in cui, con l’art. 94, obbliga il giudice italiano ad adeguarsi alle pronunce della Corte internazionale.

Per ultimo, il giudice delle leggi si occupa del complesso normativo che, per effetto della combinazione dell’articolo 10, primo comma, della Costituzione con la norma consuetudinaria sulla immunità, era penetrato nell’ordinamento italiano. In tale contesto la Corte, in raccordo alle due statuizioni di illegittimità costituzionale, afferma che la norma consuetudinaria che entra nell’ordinamento italiano è soltanto quella che residua alla epurazione effettuata dai “controlimiti”.

In altri termini, la norma consuetudinaria internazionale sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati che si deve ritenere effettivamente “entrata” nell’ordinamento italiano è quella che non viola il controlimite costituzionale; una norma, dunque, che, pur riconoscendo tendenzialmente  l’immunità degli Stati per gli atti iure imperii, disconosce tale immunità, rendendola non operante, in presenza di atti quali la deportazione, i lavori forzati, gli eccidi riconosciuti come crimini contro l’umanità e perciò come atti lesivi dei diritti inviolabili e della dignità stessa della persona umana (art. 24 Cost., letto congiuntamente all’art. 2 Cost.).

Il tutto in una prospettiva di effettività della tutela dei diritti inviolabili, posto che  <<al riconoscimento della titolarità di diritti non può non accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere innanzi ad un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale»: pertanto, «l’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti (…) è essa stessa il contenuto di un diritto, protetto dagli articoli 24 e 113 della Costituzione e da annoverarsi tra quelli inviolabili e caratterizzanti lo stato democratico di diritto» (sentenza n. 26 del 1999, nonché n. 120 del 2014, n. 386 del 2004 e n. 29 del 2003). Né è contestabile che il diritto al giudice ed a una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti inviolabili è sicuramente tra i grandi principi di civiltà giuridica in ogni sistema democratico del nostro tempo>>.

  1. – Gli effetti della sentenza della Corte costituzionale. Rimane da chiedersi come possa essere implementata la decisione della Corte costituzionale e quali siano gli effetti che essa è in grado di produrre all’interno dell’ordinamento italiano, con particolare riguardo agli organi giudiziari ed alle parti dei procedimenti giudiziali.

La questione è in realtà molto complessa e delicata e ne è chiara la ragione: la radicale contrapposizione[7] tra dictum della Corte costituzionale italiana e dictum della Corte penale internazionale proietta i sui effetti nell’ambito di ogni singolo procedimento giudiziale  e pone il giudice di fronte alla alternativa se violare la costituzione e non ottemperare alla sentenza del Giudice delle leggi o violare la decisione della Corte internazionale di giustizia e commettere un illecito internazionale, di cui risponderà lo Stato italiano nell’ambito e secondo le dinamiche delle relazioni internazionali.

Si spiega quindi la ragione per la quale parte della dottrina si è posta la questione se la sentenza della Corte costituzionale vincoli o meno i nostri giudici ad applicare i principi di diritto in essa affermati[8]. E quindi , si sottolinea, a compiere un atto che è in contrasto con la norma di diritto internazionale sulla immunità degli Stati e che, nell’ambito internazionale, verrà inevitabilmente a profilarsi, almeno nell’immediato, come un illecito internazionale: illecito che si realizzerà nel momento in cui un giudice italiano, a fronte della pretesa risarcitoria fatta valere da una vittima o da un suo discendente, esplicitamente o implicitamente negherà alla Germania l’immunità dalla giurisdizione, portando avanti il proprio procedimento.

Si potrebbe infatti ipotizzare che la sentenza della Corte costituzionale si limiti ad autorizzare i giudici italiani a negare l’immunità alla Germania, ma non valga a imporre loro quest’unica soluzione, sicché essi sarebbero liberi di decidere se adeguarsi alla sentenza costituzionale del 2014 oppure alla sentenza internazionale del 2012; e dunque dichiarare, o meno, l’immunità della Germania. E ciò anche in ragione della perdurante vigenza del nostro ordinamento, per effetto della legge 23 marzo 1958, n. 411 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea per il regolamento pacifico delle controversie, firmata a Strasburgo il 29 aprile 1957), che contiene (art. 39) una norma analoga a quella dell’art. 94 dello Statuto delle nazioni unite, ai sensi della quale «ciascuna Alta parte contraente si conformerà al decreto della Corte internazionale di giustizia […] in ogni controversia nella quale è parte».

Dal fronte opposto potrebbe però rilevarsi che il filtro dei controlimiti valga anche in tali casi e che per esso debba negarsi l’attuazione nell’ordinamento interno di “decreti della corte internazionale di giustizia” che siano in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione italiana. Ed in tale prospettiva rilevare che la sentenza della Corte costituzionale, protesa a tutelare i fondamentali diritti umani e i percorsi processuali per farne accertare le violazioni e ottenere le prescritte forme di ristoro e compensazione, non lascia spazio, una volta che sussistano i presupposti che rendono recessiva la immunità, a valutazioni sulla applicabilità o meno dei principi da essa affermati.

Pare, in conclusione, che lo schema sia definibile nei seguenti termini: la sentenza della Corte rimuove l’immunità solo nel caso in cui la responsabilità dello Stato estero sia invocata in relazione a crimini di guerra e contro l’umanità; l’unico margine di manovra che si delinea ha a che fare con la appropriata qualificazione dell’illecito in tale termini, posto che pare pacifico che l’immunità continui a essere parte dell’ordine internazionale e non venga meno in presenza di qualsivoglia fatto illecito ma solo di quelli che presentino i connotati dei crimini di guerra e contro la umanità, per consuetudine internazionale imprescrittibili; la qualificazione dell’illecito è una vicenda processuale e riguarda i soggetti del processo ed in ultima analisi i giudici, i quali dovranno stabilire se quel particolare illecito abbia o no la forza di far venire meno la immunità.

Quest’ultimo punto richiama alla memoria il rilievo che la Corte di Giustizia muove alla tesi per la quale la immunità recede in presenza di gravi crimini. Rilievo con il quale si sottolinea che l’immunità, proprio in quanto impedisce il coinvolgimento nel processo, esiste a priori e non può essere negata o riconosciuta a processo concluso e quando si sia stabilita la reale gravità dell’illecito.

Il rilievo ha una indubbia plausibilità ed è ben comprensibile nella prospettiva che assegna alla immunità la funzione di impedire in modo assoluto che alcuni soggetti siano chiamati in giudizio.

Esso, però e nei nostri tempi, si risolve in una sorta di circolo vizioso, in quanto, ascrivendo alla immunità il potere di impedire il processo e non curandosi per nulla della gravità del crimine, perpetua e rende perenne l’immunità delle origini ed impedisce che si affermino istanze che vogliono ridimensionarla ed escluderla per alcuni atti.

Ci sembra quindi che tale rilievo non possa impedire che lo spirito ed il sentire della comunità internazionale sviluppino e consolidino il principio che l’immunità soccomba di fronte a crimini che offendono le basi essenziali di tale comunità.

Se il rilievo fosse davvero così paralizzante come sembra ritenere la Corte, saremmo ancora in presenza di una immunità giurisdizionale assoluta e congelata nella fisionomia che aveva in origine, quando impediva ogni coinvolgimento di Stati esteri dinanzi ai giudici di altri Stati e a prescindere se l’atto in questione fosse iure imperii o iure gestionis. In realtà è andata diversamente e da tempo non vi è immunità rispetto ad atti di diritto privato che siano riconducili ad uno Stato. Ed è innegabile che per giungere a questo risultato vi sia stato un momento in cui l’esperienza giudiziaria e processuale ha individuato il corretto ed appropriato strumento per riplasmare la immunità da processo ed escluderla per gli atti iure gestionis; tali atti, allo stesso modo di quanto accade nel discriminare le varie tipologie e gravità dei crimini, avranno pur richiesto sforzi ed impegni di appropriata qualificazione e conosciuto contrasti dialettici in merito alla loro intrinseca natura. Con la fisiologica possibilità che l’ipotesi di partenza (atto iure gestionis o crimine contro la umanità) venisse ridimensionata nel corso del processo e l’immunità negata all’inizio riemergesse in un secondo momento, nella appropriata forma della declinatoria di difetto di giurisdizione.

Insomma, per concludere, ci sembra che la nuova norma consuetudinaria, sulla tutela dei diritti umani, abbia ridotto l’ambito di efficacia della immunità[9], correlandola agli iure imperii che non consistano in crimini di guerra o crimini contro l’umanità. Ove l’atto iure imperii consista in tali crimini, l’immunità cede il posto alla responsabilità dello Stato di appartenenza degli autori di tali fatti.

Sembra che sia questo il novum sostanziale, per effetto del quale la comunità internazionale esige che i gravi crimini contro l’umanità siano puniti e che a risponderne debba essere anche lo Stato per conto del quale essi sono stati commessi. Si è quindi in presenza di una nuova norma consuetudinaria, in cui sostanza e processo coesistono, per la intuitiva ragione che solo il processo assicura il ristoro di un diritto violato e della cui violazione sia mancata la spontanea riparazione.

Sicché appare inevitabile, anche se ci vorrà del tempo, che la norma sulla immunità recepisca la duplice natura, sostanziale e processuale, della norma a tutela dei diritti umani ed assuma la conformazione che è necessaria per assicurarne la pratica attuazione.

Può però apprezzarsi lo sforzo dei giudici italiani e della Corte costituzionale, che con plurime decisioni hanno recepito ed espresso il mutamento verificatesi nell’ordine giuridico internazionale, che attualmente vede al suo vertice i diritti umani ed al quale deve conformarsi il principio della immunità internazionale.[10] Ed è, infine, poco pertinente il rilievo che, profilandosi la deroga alla immunità in relazione, sovente, ai crimini di guerra, c’è il rischio che i trattati di pace servano a poco e che si inneschino estenuanti e lunghi contenziosi. C’è infatti un rovescio della medaglia, molto più coerente con l’attuale sentire della comunità internazionale e che funge da pesante ipoteca nella malaugurata ipotesi di un conflitto bellico o comunque di un conflitto armato: i conflitti armati hanno delle regole e non possono risolversi in atti di devastazione di quei valori su cui si fonda la comunità delle genti.

Luglio 2019

di Vincenzo Santoro

 

[1] Il presente lavoro costituisce ampliamento ed integrazione della relazione svolta nel convegno su “Ri/costruire un diritto internazionale universale: conquiste passate, sfide future, in mare, sulla terra e nei porti”, svoltosi a Matera, il 14 giugno 2019, nella Sala convegno palazzo Lanfranchi.

[2] Tra le quali, a solo titolo esemplificativo, si segnalano la sentenza per l’eccidio di Civitella in Val di Chiana, pronunciata dal Tribunale militare di La Spezia il 10 ottobre 2006 (n. 42/2006) e quella per l’eccidio di Vallucciole, pronunciata dal Tribunale militare di Verona il 6 luglio 2011 (n. 43/2011).

[3] La Corte Internazionale di Giustizia è l’Organo giurisdizionale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, elencato tra gli organi principali nell’art. 7, par. 1 della Carta dell’ONU. Ha sede all’Aia ed ha due competenze principali: competenza contenziosa, relativa alla soluzione di controversie internazionali e competenza consultiva, per la formulazione di pareri richiesti dagli organi a ciò autorizzati.

[4] Cassazione, sez. I pen. Sent. 30 maggio 2012, n. 32139 (nota come sentenza Albers); vi fa immediato seguito  una nuova pronuncia delle sezioni unite civili in sede di regolamento di  giurisdizione, che si conforma alla pronuncia della Corte dell’Aja e dichiara il difetto di giurisdizione del giudice italiano nei confronti della Germania, convenuta in una diversa causa di risarcimento dei danni conseguenti alla detenzione, alle torture subite e alla sua successiva uccisione di un cittadino italiano da parte del criminale nazista Priebke nell’eccidio delle Fosse Ardeatine (Cass., sez. un. civ., sent. 21 febbraio 2013, n. 4284)

[5] In merito si veda la fondamentale sentenza del giudice delle leggi n. 232 del 1989.

[6] Secondo un’impostazione forse prevalente, ma perlopiù tralatizia, l’immunità dello Stato è prevista da una regola in rapporto alla quale si sono in passato formate – e potranno in futuro formarsi – “eccezioni”, cioè regole di segno opposto. Nel corso della storia si è infatti passati da un’immunità assoluta – e perlopiù concepita in termini assiomatici, ossia come regola deducibile dalla norma “strutturale” della sovrana uguaglianza degli Stati – a un’immunità relativa, limitata agli acta iure imperii.

[7] Per alcuni autori (TANZI, “Immunità dello Stato e crimini internazionali tra consuetudine e bilanciamento: note critiche a margine della sentenza della Corte internazionale di giustizia del 3 febbraio 2012”, in La Comunità internazionale, 2012, p. 203 ss.) la decisione della Consulta rappresenta un contributo all’indebolimento della legalità internazionale e dei suoi presidi giurisdizionali, compresi quelli dediti alla tutela dei diritti fondamentali, così da dar vita ad «sistemico sostegno alla tendenza a comportamenti unilateralistici di potenze di più alto calibro» e persino ad un incoraggiamento alle «riserve dei paesi islamici» miranti a far salva «la Sharia» contro i diritti dell’uomo. Per altri, la sentenza, in controtempo rispetto a un Governo che si qualificherebbe come campione della legalità «su svariati fronti», dovrebbe destare «grandissima preoccupazione», perché ha per effetto «quello di propugnare… la anarchia assoluta». Una pronuncia, si sottolinea, in cui si pretende che «il diritto di sovranità prevalga su tutto», e che nello stesso tempo comprime elitariamente la sovranità popolare, avendo il popolo italiano in qualche modo concorso con gli altri alla formazione della norma generale che la Corte ha respinto. Con la sua decisione, si conclude, la Corte costituzionale esclude una norma comune alle umane genti «in nome di un interesse nazionale» (Giancarlo GUARINO, Corte costituzionale e Diritto internazionale: il ritorno dell’estoppel?, in Corte costituzionale on line).

 

[8] Per tale rilievo si veda, Elisabetta Lamarque, “La corte costituzionale ha voluto dimostrare di sapere anche mordere”, in Questione Giustizia, 1/2015, p. 76 e seguenti.

[9] Sembra quindi che il limite alla immunità sia un effetto della maturata consapevolezza che alcuni crimini siano intollerabili e sia intollerabili ogni scudo processuale che ne impedisca l’accertamento e la adeguata e completa sanzione. Sotto questo aspetto non è escluso che si ponga un problema di retroattività: è vero che la funzione specifica della immunità è quella di impedire il processo nei confronti di un soggetto e che di conseguenza è al momento del processo che occorre guardare per stabilire se vi sia e quando sia consistente la immunità. Vale tale principio anche nel caso in cui l’immunità perda spessore per effetto del mutato giudizio della comunità internazionale sul significato offensivo di alcuni crimini, cui si affianca il giudizio che essi sono imprescrittibili e per essi non può esservi immunità? Oppure si è in presenza di qualcosa che evoca la modifica in peius delle norme incriminatrici, visto che prima del compiuto delinearsi della nuova norma consuetudinaria in molti casi i crimini non erano imprescrittibili e di certo l’immunità era sussistente. Sicchè potrebbe ipotizzarsi che il nuovo ordine internazionale, che vede l’immunità recessiva rispetto alla tutela dei diritti umani, abbia una data di nascita e si applichi solo a fatti che siano successivi a tale data. Questione molto complessa, che merita un corposo approfondimento, ben al di là di queste poche e generiche osservazioni.

[10] Per Lorenzo Gradoni, la sentenza n. 238 della Corte costituzionale potrà incidere positivamente anche sull’evolversi del ruolo della Corte internazionale di giustizia, che ora è “ufficialmente” coinvolta nella rete di rapporti intersistemici «Solange», attraverso cui transitano non solo “moniti”, ma anche decisioni di temporanea chiusura, senza le quali tali moniti perderebbero credibilità e significato, cfr. Gradoni, Un giudizio mostruoso. Quarta istantanea della sentenza 238/2014 della Corte costituzionale italiana,  in Sidiblog, blog della società di diritto internazionale e dell’Unione europea, dicembre, 15, 2014). Nel frattempo è intervenuta una pronuncia del Tribunale di Firenze (sez. II, sentenza 2469 del 2015), con la quale i giudici italiani si sono conformati alla sentenza della corte costituzionale, negando la immunità dello stato tedesco e condannando la Germania al risarcimento dei danni.

Dal canto suo lo Stato tedesco, facendo leva sulle clausole del trattato di pace, ha chiamato lo Stato italiano in man leva. Tale chiamata in man leva trova la sua, anche se poco plausibile, giustificazione nell’Accordo stipulato a Bonn il 2 giugno 1961 <<per il regolamento d’alcune questioni di carattere patrimoniale, economico e finanziario>>, reso esecutivo con il D.P.R. 14 aprile 1962, n. 1263, con il quale il Governo Italiano ha dichiarato <<che sono definite tutte le rivendicazioni …… di persone fisiche e giuridiche italiane ….. derivanti da diritti o ragioni sorti nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945>>, assumendo l’impegno a tenere <<indenne la Repubblica Federale di Germania da ogni eventuale azione o altra pretesa legale>>;. In merito è stato più volte rilevato che alla luce del D.P.R. 6 ottobre 1963 n. 2043 (Regole per la ripartizione della somma versata dal Governo della Repubblica Federale di Germania) che il suddetto Accordo concerne e si propone di definire solo le questioni economiche pendenti; pertanto, in conformità a quanto più volte statuito dai giudici della Corte militare d’Appello e dalla Corte di Cassazione, è da escludere che l’Accordo del 1961 possa applicarsi a controversie, quali quelle dedotte nel presente processo, non ancora pendenti e neanche iniziate alla data della stipulazione della Convenzione tra i due Stati