Di Vincenzo Santoro
Premesse. Accade sempre più spesso che il reato di estorsione, nel contesto di condotte preordinate alla realizzazione di una pretesa giuridicamente fondata e corrispondente ad un diritto soggettivo munito di azione, venga a sovrapporsi a quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone. E di solito gli argomenti utilizzati per escludere il secondo e ravvisare il primo fanno perno su due fondamentali assunti:
- nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la minaccia e la violenza non sono fini a se stesse, ma sono strettamente connesse alla condotta dell’agente, diretta a far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pongono come elementi accidentali; di conseguenza esse non possono mai assumere, in sé o per le modalità esecutive, la fisionomia di atti sproporzionati e gratuiti (nel caso di specie la violenza era consistita in lesioni personali causate con un bisturi);
- in tali casi, e cioè quando la minaccia si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria e di tale sistematica pervicacia da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un diritto, la coartazione dell’altrui volontà risulta finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dall’ingiustizia. Sicchè la minaccia o la violenza, in sé preordinate all’esercizio di un diritto e quindi a finalità non ingiuste, vengono ad assumere una connotazione ricattatoria che le colloca all’interno della fattispecie delittuosa della estorsione (Cass., sentenza n. 00172 del 2007; Cass. Sez. Il, 12.7.2002 n. 29015).
Il ragionamento seguito dalla Corte di Cassazione è quindi ben delineato nei suoi percorsi essenziali e da esso discende che il reato di cui all’articolo 393 del codice penale, punito a querela di parte, richiede come suo indispensabile requisito costitutivo la necessità che la minaccia e la violenza siano “proporzionate” rispetto alla pretesa che si intenda realizzare; siano, in altri termini, provviste di quella componente coattiva che è necessaria e sufficiente per realizzare il diritto del soggetto agente. Se la violenza o la minaccia vanno oltre tale misura, esse cessano di essere gli strumenti al servizio della pretesa che si vuole realizzare ed esprimono una offensività gratuita, non più ancillare rispetto al diritto che si intende far valere. Da tali premesse, che di per sé collocano la condotta al di fuori dello schema del reato di “ragion fattasi”, si dipana la conclusione per la quale nelle predette evenienze va ravvisato il reato di estorsione. E ciò per la fondamentale ragione che la violenza e la minaccia, per la esorbitante fisionomia che hanno assunto, colorano di obiettiva ingiustizia il profitto perseguito e fanno declinare in secondo piano la circostanza che il medesimo corrispondeva ad una pretesa giuridicamente fondata e munita di tutela giurisdizionale.
Già da queste poche battute iniziali emerge come la argomentazione della Suprema Corte registri un passaggio non del tutto pacifico, in applicazione del quale si arriva alla singolare conseguenza di ravvisare il reato di estorsione in fatti di minaccia o violenza intesi a realizzare un profitto obiettivamente giusto. E questo, a prescindere da come si configuri lo spazio di efficacia del reato di esercizio arbitrario, stride con il chiaro schema descrittivo del reato di estorsione, che reclama la ineludibile realizzazione di un “ingiusto profitto con altrui danno” e richiede, al pari del reato di esercizio arbitrario, l’impiego di violenza o minaccia. Inoltre, il ragionamento della Cassazione sembra muovere dalla premessa che i due reati di cui sopra esauriscano l’ambito entro cui vanno collocati i fatti di impiego di minaccia e violenza per realizzare finalità di profitto; sicchè si configurerà il meno grave reato di esercizio arbitrario se la coazione è strumentale, con connotati di proporzionalità, alla finalità di realizzare una pretesa munita di tutela giurisdizionale (profitto giusto); mentre scatterà la più grave fattispecie della estorsione se la coazione miri a realizzare un profitto non giusto, oppure si contrassegni per forme e modalità sproporzionate, che in quanto tali non possono considerarsi come strettamente connesse alla condotta diretta a far valere il preteso diritto.
In generale sul reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza alle persone. Per capirne di più conviene soffermarsi, sia pure per sommi capi, sul reato di esercizio arbitrario, allo scopo di delinearne gli essenziali ingredienti.
Solitamente si afferma che il predetto delitto si caratterizza rispetto a quello di estorsione per il fatto che la violenza o minaccia sono esercitate soltanto per far valere un diritto esistente ed azionabile dinanzi ad un giudice (per tutti, Cass. Sez. V, 9.11.2005 n. 44292). Con il corollario che tale delitto non ricorre allorché il titolo della pretesa si fondi su un negozio illecito, e quindi nullo ex art. 1343 c.c., come tale non provvisto di tutela giudiziaria.
In tale prospettiva è frequente l’esempio di chi, consegnato del denaro per l’acquisto di sostanza stupefacente, anche ad uso personale, e non ricevuta tale sostanza, recuperi la somma pagata a mezzo di violenza o minaccia; oppure quello di chi impieghi violenza o minaccia per ottenere il corrispettivo di prestazione sessuali mercenarie. In tali casi è non solo esclusa la proponibilità dell’azione davanti al giudice civile ma è anche esclusa la “soluti retentio” in caso di adempimento (cfr. in termini Cass. pen. Sez. 2, 30.10.2003, n. 41453, El Khattari in Riv. pen. 2004/522)[1].
Non vi è dubbio che, nella esclusiva prospettiva applicativa del reato di cui all’articolo 393 c.p., l’orientamento sopra delineato sia fondato e sia il risultato di una condivisibile analisi della norma incriminatrice. Ciò che va, per contro, verificato è se sia altrettanto corretto l’assunto secondo cui, escluso il reato di esercizio arbitrario, il fatto storico integri sempre ed inevitabilmente il reato di estorsione. Ma su questo punto torneremo in seguito e per il momento proseguiamo con l’esame del reato di cui all’articolo 393 del codice penale e fissiamo i punti essenziali.
Il reato consiste nel fatto di chi, essendo titolare di una pretesa munita di tutela giurisdizionale[2], realizzi l’oggetto della tutela apprestatagli dall’ordinamento giuridico per il tramite di un contegno di minaccia e violenza; cioè a dire sostituisca la sua condotta di violenza o minaccia allo specifico e rituale strumento di tutela giudiziale e consegua in tal modo esattamente quell’obiettivo che avrebbe realizzato nel caso in cui si fosse rivolto al giudice ed avesse ottenuto un provvedimento di lui favorevole.
Ai fini della configurabilità del reato in esame occorre, quindi, che l’agente agisca, cioè usi minaccia e violenza, al fine (dolo specifico) di esercitare il diritto vantato, a prescindere se sul punto vi sia o no una controversia, giudiziale o di fatto, e bastando solo che tale diritto sia contrastato dal soggetto passivo del rapporto giuridico.
Per quanto concerne le forme di realizzazione del reato, non sembrano esservi dubbi sul fatto che trovino applicazione le regole generali sul concorso di persone nel reato e che di conseguenza la fattispecie in esame possa configurarsi anche nella ipotesi in cui l’autore della violenza o della minaccia sia un soggetto diverso dal titolare del diritto, purchè il predetto agisca in un contesto di concorso con il titolare e per conto del titolare. [3]
La Giurisprudenza ha avuto modo di affrontare questo aspetto in relazione alle ipotesi in cui il titolare del diritto, debitamente provvisto di tutela giurisdizionale, incarichi un terzo per la esazione del credito e concordi con quest’ultimo modalità di riscossione basate sull’impiego di violenza e minaccia. In merito si è precisato (Sez. 2, Sentenza n. 48000 del 2004) che ricorre il più grave delitto di estorsione allorquando il terzo “non si limiti ad una negotiorum gestio, bensì agisca anche, e soprattutto, per il perseguimento dei propri autonomi interessi illeciti. In tal caso l’esattore non si prefigge il mero scopo di coadiuvare il creditore a farsi ragione da se medesimo, bensì mira a conseguire il corrispettivo di un accordo illecito attraverso l’esazione del credito.”. In tale ipotesi, si sostiene, deve ritenersi configurabile il delitto di estorsione, per la determinante ragione che il terzo opera in funzione del consapevole conseguimento di un profitto ingiusto.
Sempre in tale ottica si è aggiunto che “ricorre il reato di estorsione, e non già di violenza privata o esercizio arbitrario delle proprie ragioni, nel costringere, mediante violenza o minaccia, altra persona a soddisfare un debito nei confronti di terzi, essendo ingiusto, in quanto connesso ad azione intimidatoria, il profitto che ne ricava, direttamente, l’autore e sussistendo altresì il danno per la vittima, costretta a versare denaro nelle mani di un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, senza alcuna garanzia di effetto liberatorio. Il mandante di tale operazione, titolare del credito, risponde del medesimo reato a titolo di concorso morale”, Cass., sent. 05.05.1998 n. 5193).[4]
Ciò che comunque interessa è il rovescio delle situazioni sopra esaminate. E cioè quelle in cui il terzo agisca di concerto con il titolare del diritto, senza alcun tornaconto personale ed al solo scopo di realizzare la pretesa, munita di tutela giudiziale, di cui quest’ultimo è portatore. In tali casi, infatti, non sussiste alcuna ragione per non ravvisare la fattispecie del concorso nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
La violenza e la minaccia nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Possiamo ora affrontare il punto essenziale di queste riflessioni e conviene farlo muovendo da una recente sentenza (Sez. 6, Sentenza n. 41365 del 28/10/2010 – dep. 23/11/2010 – Rv. 248736) in cui si è ancora una volta ribadito che integra il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 393 cod. pen.), la condotta minacciosa che si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un preteso diritto, con la conseguenza che la coartazione dell’altrui volontà assume “ex se” i caratteri dell’ingiustizia, facendoli refluire sul profitto e trasformandosi in una condotta estorsiva.[5] Sottolinea la Suprema Corte che nel caso di specie le intimidazioni alle quali la persona offesa era stata sottoposta ad opera dell’intermediario avevano assunto livelli sproporzionati rispetto al limite ragionevolmente consentito perché possa restarsi nell’alveo del reato di esercizio arbitrario; limite che, si prosegue, a tutta evidenza non può essere travalicato non solo dal titolare del preteso diritto, ma anche dai terzi ai quali quest’ultimo abbia eventualmente fatto ricorso per l’esazione del suo credito. [6]
La medesima argomentazione compare nella sentenza n. 22721 (Sez. 6) del 21/06/2010 (dep. 07/09/2010, Rv. 248169), dove si ha modo di puntualizzare che “non e’ certo la semplice intenzione di far valere un proprio diritto a far trasmigrare il fatto dalla figura della estorsione a quella dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Poichè l’elemento essenziale di entrambe i reati e’ dato dalla violenza o dalla minaccia, il problema, nel caso di soggetto che vanti un proprio diritto che sia possibile far valere davanti alla autorità giudiziaria, e’ quello di verificare, ai fini della distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione, il grado di gravità della condotta violenta o minacciosa. Si rimane indubbiamente nell’ambito della estorsione ove venga esercitata una violenza gratuita e sproporzionata rispetto al fine (Sez. 2, Sentenza n. 35610 del 27/06/2007 Cc. – dep. 26/09/2007, Rv. 237992), ovvero se si eserciti una minaccia che non lasci possibilità’ di scelta alla vittima.”
Anche nella sentenza n. 28539 del 14/04/2010 (dep. 20/07/2010, Rv. 247882) si ribadiscono i concetti sopra indicati. Si afferma che integra il reato di estorsione (art. 629 cod. pen.) – e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni – la condotta di colui che consegni effetti cambiari rimasti insoluti ad esponenti di organizzazioni mafiose, i quali, avvalendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo, minaccino il debitore per indurlo all’adempimento, in quanto, allorché la minaccia si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio (preteso) diritto, la coartazione dell’altrui volontà assume ex se i caratteri dell’ingiustizia, con la conseguenza che, in tal caso, anche la minaccia tesa a far valere quel diritto si trasforma in una condotta estorsiva. [7]
Non occorre eccessivo sforzo per rendersi conto di come siano ampiamente fondate buona parte delle argomentazioni per ultime indicate; ed esattamente di quelle che pongono in rilievo la ontologica incompatibilità tra il ricorso all’intervento sussidiario di elementi della criminalità organizzata e la fisiologica dimensione in cui si muove il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
La questione che si pone, però, va oltre tale ambito ed è definibile in questi stringati termini. Ammesso che sia sempre possibile individuare la violenza (o minaccia) “proporzionata” alla finalità di realizzare il diritto di cui si è titolari, può condividersi l’assunto che una dose maggiore di violenza o minaccia faccia trasmigrare il fatto sotto il grave reato di estorsione? E nel rispondere a tale quesito è bene fare i conti con l’ipotesi tipica e ordinaria: cioè quella di un soggetto che, vantando un credito munito di tutela giudiziaria, usi una violenza eccessiva (ad esempio procuri lesioni gravi) per ottenere dal debitore il pagamento di quello che gli è dovuto. Siamo in tali casi inevitabilmente nell’ambito della estorsione? Cioè di un reato che richiede, si ribadisce, l’estremo delle realizzazione di un ingiusto profitto? Oppure si è ancora nel quadro dell’esercizio delle proprie ragioni?
Affrontiamo la questione in primo luogo con riguardo alla minaccia. La norma incriminatrice parla di “minaccia alla persona” e non contiene alcun indizio testuale per il quale possa sostenersi che la minaccia debba essere connotata da “proporzionalità” rispetto alla pretesa fatta valere. Si parla solo di uso di minaccia alla persona.
Già questo dato rende poco persuasivo l’indirizzo secondo cui la minaccia grave, per esempio la minaccia di morte, fuoriesca dell’ambito della norma incriminatrice in esame e faccia trasmigrare il fatto, colorando di ingiustizia il profitto che si intende realizzare, sotto il reato di estorsione.
Non solo. Vi è nella norma incriminatrice un indizio normativo di tenore opposto; ed esattamente quello riscontrabile nell’ultimo comma dell’articolo 393 c.p., che prevede una circostanza aggravante ordinaria per l’ipotesi che “la minaccia alle persone è commessa con armi”. Ed è appena il caso di rilevare come la minaccia con armi, per il fondamentale disposto di cui all’articolo 612, comma 2, C.p., sia normativamente equiparata alla minaccia grave (riferimento all’articolo 339 C.p).
Quindi è la stessa norma incriminatrice che, espressamente contemplando la minaccia con armi come aggravante ordinaria, rende evidente e pacifico che anche in tal caso si ravvisa il reato speciale di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Adesso passiamo ad esaminare l’ipotesi dell’uso della violenza. Anche in questo caso la norma incriminatrice non specifica alcunché in ordine alla intensità e tipologia della violenza. Ed anche in questo caso è sempre la stessa norma incriminatrice che prevede una circostanza ad affetto ordinario nella ipotesi in cui “la violenza è commessa con armi”.
Ancora una volta abbiamo la chiara dimostrazione che la “gravità” della violenza (appunto con armi) non impedisce, di per sé, la configurabilità del reato di esercizio arbitrario e dà luogo solo ad una sua fattispecie aggravata.
Il punto, però, merita ulteriori riflessioni, proprio con riguardo all’ipotesi, dotata di notevole consenso giurisprudenziale, che il reato di cui all’articolo 393 c.p. richieda come suo imprescindibile elemento costitutivo l’impiego di una violenza “proporzionata” alla realizzazione della pretesa vantata.
In questa prospettiva viene subito in rilievo un dato normativo; ed esattamente quello contenuto nell’articolo 581 cpv. del codice penale, che rappresenta una sorta di norma di sbarramento, sia in positivo che in negativo, in ordine a quale sia la precisa tipologia di violenza che trova collocazione esclusivamente all’interno di tutte quelle norme incriminatrici che prevedono reati in cui è richiesto l’uso della violenza. La norma in questione è molto chiara e per essa l’unica forma di violenza che esaurisce la sua rilevanza nell’ambito delle predette norme incriminatrice è quella che non vada oltre le percosse. Il che ha il senso di dire che tutte le volte che la violenza superi il grado di intensità delle percosse, e quindi si estrinsechi sotto forma di lesioni o violenza omicida, essa andrà ad integrare, in concorso formale con il reato di cui sia elemento costitutivo, gli ulteriori reati di lesione personale o di omicidio.
Il criterio normativo sopra indicato si applica a tutte i reati basati sull’uso della violenza, compreso il reato di estorsione, che sul punto specifico ha la stessa materialità del reato di esercizio arbitrario e rispetto al quale non si è mai dubitato che, ove la violenza che ne abbia contrassegnato la realizzazione sia andata oltre le percosse, il suddetto reato di estorsione concorrerà con l’ulteriore reato di lesione personale o, eventualmente, di omicidio.[8]
I corollari che si traggono da quanto sopra affermato, con riguardo al reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, possono essere così sintetizzati: la violenza che si esaurisce nel predetto reato è solo quella che non vada oltre le percosse; la violenza che si sia profilata in termini di maggiore lesività non impedisce il configurarsi del reato di esercizio arbitrario e produce l’unico effetto di dare vita all’ulteriore reato di lesione personale (nelle sue diverse manifestazioni) o di omicidio, in concorso formale con il primo reato; le predette conclusioni valgono sia quando il profitto realizzato sia giusto e munito di azione (concorso tra lesione ed esercizio arbitraria) sia quando il profitto sia ingiusto (estorsione e lesione). In entrambi i casi, la violenza “eccessiva” non impedisce la configurabilità del reato che ha come base l’impiego della violenza e dà vita solo ad un ulteriore reato in concorso formale.
Contenuto e ruolo del profitto nelle diverse norme incriminatrici. Sta di fatto, comunque, che per la unanime giurisprudenza della Suprema Corte il reato di ragion fattasi cede il posto a quello di estorsione nelle ipotesi di violenza o minaccia “sproporzionate”; e ciò in quanto i connotati della violenza e della minaccia “colorano” di ingiustizia il profitto realizzato.
Quest’ultimo argomento, essenziale per l’inquadramento del fatto come estorsione, non sembra persuasivo. Non sembra, più esattamente, convincente la tesi che la intensità e misura della violenza si ripercuotano sulla intrinseca natura del profitto e lo trasformino da profitto giusto, ed addirittura munito di tutela giudiziaria, in profitto ingiusto.
Sappiano che per consolidato orientamento il profitto ha carattere di ingiustizia in primo luogo nel caso in cui non sia contrassegnato dal potere di farlo valere in giudizio; ed in secondo luogo nel caso in cui non sussista alcuna possibilità, giuridicamente tutelata, di opporsi alla pretesa della controparte di trattenere ciò che è stato a lei spontaneamente corrisposto (al riguardo è frequente l’esempio, a comprova di un profitto “indirettamente” tutelato, di colui che abbia trattenuto quanto spontaneamente consegnato in adempimento di una obbligazione naturale).
Uno dei principali effetti di tale orientamento, puntuale simmetrico negativo dell’assunto che sia “giusto” solo il profitto tutelato direttamente o indirettamente dall’ordinamento, ha modo di manifestarsi nel contesto degli atti di acquisto di sostanze stupefacenti. Si afferma, infatti, che, essendo il contratto di cessione di droga nullo per illiceità della causa e non potendo sorgere dalla sua stipulazione alcuna pretesa tutelata dall’ordinamento, nessun dubbio può esservi sul carattere ingiusto del profitto perseguito da chi, dopo aver constatato che colui al quale ha consegnato i soldi non intende dargli la pattuita sostanza stupefacente, con violenza o minaccia recuperi esattamente i soldi consegnati. In particolare si sottolinea che in tali casi: a) si configura un contratto con causa illecita per contrarietà al buon costume; b) si delinea per tale ragione la irripetibilità della prestazione eventualmente eseguita; c) non è possibile invocare la tutela indiretta predisposta dall’art. 2035 cod. civile (soluti retentio). La conclusione che ne deriva è che in tal evenienze si riscontra il reato di estorsione.[9]
E’ difficile sottrarsi ad un senso di profonda perplessità. E si tratta di perplessità che hanno un raggio di azione ben più ampio di quello che contrassegna le ipotesi considerate per ultimo, cioè quelle in cui il profitto realizzata sia ricollegato ad un contratto con causa contraria al buon costume.
Proviamo a spiegarne la ragione, partendo proprio dai contratti illeciti di cui si è detto sopra. Qui siamo in presenza di un contratto che è contrario al buon costume per entrambi i contraenti; e dove non di rado è possibile distinguere tra i contraenti, tutti parti del contratto illecito, ed individuarne taluni in cui sia più marcato e più ampio il profilo di peculiare illiceità. Non ci vuole molto sforzo per comprendere che chi dà dei soldi per avere droga da usare personalmente commette, nel contesto di un contratto comunque contrario al buon costume, un fatto che è decisamente meno grave di chi si proponga come venditore della sostanza stupefacente oggetto del contratto. Costui, infatti, oltre a prendere parte ad un contratto contrario al buon costume, commette il grave reato di cessione di sostanze stupefacenti. Non può sfuggire come l’opzione per la quale risponde di estorsione l’acquirente che con violenza e minaccia si riprenda il denaro consegnato al fornitore inadempiente produca un effetto paradossale: e cioè quello di trasformare in vittima della estorsione, in relazione ai soldi ricevuti per la sua illecita attività, lo spacciatore di droga. E’ davvero difficile scorgere l’ingiusto profitto in tali casi e comprendere in cosa consista il correlativo danno ingiusto subito; e del pari si rivela del tutto inappagante la prospettiva seguita dalla Corte di Cassazione, che muove dalla premessa della esistenza o meno di legittima tutela civilistica e ne trapianta gli approdi nel contesto della esegesi della fattispecie della estorsione. E la difficoltà si percepisce non appena si pensi all’ipotesi che lo spacciatore, presunta vittima di una estorsione, si costituisca parte civile nel processo penale per tale reato. Sembra evidente che siffatta eventualità debba considerarsi inammissibile, in quanto diversamente si verrebbe a conferire il crisma della legittimità al presunto danno da lui subito e si arriverebbe al paradosso di obbligare l’acquirente, proprio perché qualificato come responsabile di estorsione, di restituire allo spacciatore i soldi che aveva consegnato per avere la droga e che si era ripresi con violenza perché la droga non gli era stata consegnata. Paradosso che si viene a determinare proprio in ragione della premessa da cui si dipana il tutto: e cioè l’assunto che in tali evenienze sia configurabile un reato di estorsione.
L’equivoco ruolo del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Tutto diventa, ci sembra, più coerente se si rimedita su tale premessa, per il tramite di una argomentazione che chiama in causa proprio il ruolo svolto nel sistema del diritto penale dal reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza e minaccia alle persone.
Si tratta di una fattispecie incriminatrice per più versi discutibile e fonte di profonde distorsioni. E’ discutibile, e fuori dal nostro tempo, l’idea che meriti una così blando trattamento sanzionatorio il fatto di usare violenza e minaccia per realizzare un preteso diritto. E sembra molto più appropriato lasciare tale ipotesi alle norme che sanzionano i fatti di violenza e minaccia per costringere taluno a fare od omettere determinati comportamenti, con l’aggiunta di una circostanza attenuante in ragione della finalità che contrassegna la condotta.
Gli inconvenienti che accompagnano la suddetta norma incriminatrice, però, non si limitano alla discutibilità della sua esistenza e vanno ben oltre. Si è prima accennato agli effetti distorsioni che sono conseguiti dalla sua pratica applicazione e proviamo ora a verificare in cosa consistano.
Se si ha riguardo alla giurisprudenza in ordine al discrimine tra esercizio arbitrario ed estorsione non si tarderà a comprendere come la linea di confine passi esattamente dal ruolo svolto dalla norma incriminatrice dell’esercizio arbitrario; ed in particolare dal concetto di giusto profitto che ne contrassegna la ragione d’essere.
In altri termini lo schema del ragionamento sembra essere il seguente: se la pretesa mira a realizzare un profitto corrispondente ad una pretesa munita di tutela giudiziaria, ricorre il reato di esercizio arbitrario; se la pretesa concerne un profitto non munito di azione giudiziaria, si sconfina nel campo della estorsione ove il profitto venga conseguito con violenza e minaccia; ricorre ugualmente la estorsione se la pretesa, in sé munita di tutela giudiziaria, venga realizzata per il tramite di comportamenti di minaccia o violenza “sproporzionati” rispetto alla fisionomia ed entità della pretesa.
Viene così a delinearsi il peculiare ruolo svolto nel sistema e nella prassi giudiziaria dalla norma sulla ragion fattasi, divenuta una sorta di codice genetico del profitto giusto e da cui ha tratto origine la tralatizia idea che abbia connotati di ingiustizia il profitto che non sia provvista di diretta o indiretta tutela giuridica. Siffatto assunto non sembra fondato. E ciò per la determinante ragione che in esso si trascurano tutte quelle ipotesi intermedie in cui il profitto realizzato, pur non riconducibile ad una situazione giuridica munita di azione giudiziaria, non ha comunque i tipici connotati del profitto ingiusto e ad esso non corrisponde, quale puntuale conseguenza della sua realizzazione, alcun danno con carattere di ingiustizia.
In realtà il punto di partenza deve essere proprio il reato di estorsione, fondato sull’inscindibile binomio “ingiusto profitto con altrui danno”. Ed è proprio questa endiadi, con riguardo alle ipotesi in cui il profitto abbia carattere patrimoniale, a richiedere che la sua valutazione in termini di “giustizia o ingiustizia” avvenga sulla base del determinante riferimento alla intrinseca natura del correlativo danno. Certo è noto ed indiscusso come possano darsi della situazioni in cui il profitto possa avere contenuto non patrimoniale. Ma a noi interessa, per comprenderne meglio i connotati di ingiustizia, il caso che il profitto abbia contenuto patrimoniale; e sia quindi il naturale risvolto dell’identico danno patrimoniale subito dalla vittima del reato. Sicchè sarà necessario, per stabilire se ricorra o meno il profitto ingiusto, avere riguardo anche all’intrinseco contenuto del correlativo danno, in modo da poter riscontrare se l’ingiusto incremento patrimoniale che taluno abbia realizzato trovi causa, diretta ed immediata, nell’ingiusto depauperamento patrimoniale subito da talaltro. Ed è evidente che in tali casi, cioè di profitto di natura patrimoniale, le chiavi per definire il concetto di ingiustizia debbono valere per entrambi le componenti dell’endiadi profitto-danno.
Proviamo a tirare le conclusioni, in una prospettiva che abbia carattere di generalità e non riguardi solo la ipotesi dei contratti con causa contraria al buon costume.
In primo luogo, e per quanto sforzi si facciano, appare difficile condividere l’assunto che il profitto corrispondente ad una pretesa “giustiziabile” divenga ingiusto, e causa del reato di estorsione, nelle ipotesi che si usi una violenza “sproporzionata”. Anche a non considerare quanto si è già detto circa il ruolo della violenza e della minaccia nel reato di esercizio arbitrario, appare ragionevole concludere che in tali ipotesi si può al più escludere la configurabilità del reato di cui al 393 del codice penale. Ma questo non può comportare che si passi automaticamente alla estorsione. Il profitto realizzato non ha e non assume carattere ingiusto e di conseguenza manca uno degli elementi essenziali del reato di estorsione. Ed il profitto non è ingiusto per la duplice e concomitante ragione che corrisponde ad una pretesa in sé giuridicamente tutelata e ad esso consegue, nella correlativa sfera giuridica del soggetto passivo, un decremento patrimoniale che non costituisce alcun danno ingiusto. Sicchè diventa logico e coerente concludere nel senso che in tali ipotesi, attesa la mancanza del requisito della ingiustizia del profitto e non integrandosi, a condividere l’indirizzo seguito dalla suprema Corte, il reato di esercizio arbitrario (per la violenza “sproporzionata”), troverà applicazione la norma che prevede il reato di violenza privata, previsto dall’articolo 610 e punito con la reclusione fino a quattro anni. E questo per la risolutiva ragione che, con violenza o minaccia, si è costretto taluno a consegnare una somma di denaro o comunque a fare o omettere “qualche cosa”. [10]
Le conclusioni non mutano se si prende in esame l’ipotesi dei contratti con causa contraria al buon costume; o ipotesi connotati da peculiarità analoghe. Le conclusioni non cambiano perché, si ribadisce, il punto di partenza non deve essere quello di stabilire se il profitto realizzato abbia o no riscontro in una situazione giuridica munita di tutela giudiziaria; e quindi se si sia o non in presenza di un fatto astrattamente riconducibile, ove ne sussistano gli ulteriori requisiti, nella norma di cui all’articolo 393 c.p..
Quello che occorre verificare è se in tali casi ricorrano o no l’ingiusto profitto ed il correlativo danno; cioè gli ingredienti essenziali del reato di estorsione. E in tale prospettiva non può sfuggire come tale requisito di ingiustizia sia carente. Il denaro prelevato con violenza da colui che lo aveva consegnato per avere della droga, non ricevuta, non è mai legittimamente entrato nel patrimonio dello spacciatore. E questi non ha alcun diritto di trattenere quel denaro ed il fatto di averlo ricevuto configura, in aggiunta al contratto illecito, il reato di spaccio di sostanze stupefacenti. Le due posizioni di dare-avere sono entrambe connotate da illiceità per contrarietà al buon costume e per entrambe difetta ogni tipo di protezione giuridica, sia diretta che indiretta. Nessuna di esse integra una posizione legittima ed in relazione a nessuna di esse potrà invocarsi la speciale norma di cui all’esercizio arbitrario della proprie ragioni. Il profitto non è, quindi, corrispondente ad una pretesa munita di azione giudiziaria. Ciò non toglie, però, che non vi sono elementi per affermare che quel profitto sia intrinsecamente ingiusto, nel senso richiesto dalla norma che incrimina il reato di estorsione. In tali casi la violenza ha ripristinato la situazione che preesisteva all’esecuzione, sia pure parziale, del contratto con causa illecita: l’acquirente recupera i suoi soldi; lo spacciatore restituisce ciò che non aveva alcun diritto di ricevere e trattenere. Il fatto che ciò sia accaduto con violenza e minaccia altro effetto non avrà che quello di dare vita al reato di violenza privata.
Si può, quindi, comprendere come sia proprio il reato di violenza privata a fare da cerniera tra le ipotesi in cui ricorre il meno grave reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quelle in cui si delinea il più grave reato di estorsione. Entrambe queste fattispecie incriminatrici hanno carattere di specialità rispetto al reato di violenza privata. E la loro concreta applicazione dipenderà dalla esistenza o meno di una pretesa azionabile (esercizio arbitrario) e dalla sussistenza di un profitto-danno con connotati di ingiustizia (estorsione). Con la conseguenza che si configurerà il reato di violenza privata quando, fermo restando il fatto di violenza o minaccia costrittiva, il profitto realizzato non trovi riscontro in una situazione giuridica munita di tutela giudiziaria e non abbia determinato né un ingiusto arricchimento né un ingiusto impoverimento. Sarà compito del giudice valutare tutti i profili che contrassegnano la concreta vicenda di vita e stabilire se, nel peculiare rapporto che viene ad instaurarsi tra le posizioni dei soggetti del reato, sia o no riscontrabile l’ingiusto arricchimento. Non ci nascondiamo che un compito del genere possa richiedere un notevole sforzo interpretativo, di certo superiore a quello che viene richiesto nel quadro della impostazione tradizionale, che assume come faro la norma sull’esercizio arbitrario delle proprie ragioni e che lascia sconfinare nella estorsione le ipotesi in cui il profitto realizzato con violenza o minaccia alle persone non trovi collocazione nella fattispecie della ragion fattasi.
Infine una ulteriore notazione. Si è già detto di come la norma sull’esercizio arbitrario delle proprie ragione abbia inciso nella pratica applicabilità del reato di estorsione. E si è anche dato atto delle obiettive difficoltà che si sono frapposte ad applicare tale norma nella ipotesi in cui la realizzazione del credito “giustiziabile” sia affidata ad esponenti della malavita organizzata, dove il rischio di avallare la costruzione di una giustizia da “antistato” ha fatto da volano per interpretazioni restrittive. Preoccupazioni condivisibili e del tutto da sottoscrivere. Non così per gli effetti che ne sono derivati, che hanno inciso, ampliandolo a dismisura, sul reato di estorsione e sul concetto di ingiusto profitto. Credo che l’unica soluzione a tale coacervo di rischi ed inconvenienti sia quella di togliere di mezzo l’antistorica fattispecie di “ragion fattasi”; e restituire la disputa sull’ingiusto profitto al campo naturale dell’estorsione da un lato e della violenza privata dall’altro.
[1] Sul punto, Sez. 6, Sentenza n. 2460 del 16/10/1990 (dep. 23/02/1991 ) Rv. 186472 , per la quale “In tema di estorsione, il profitto deve ritenersi ingiusto allorché sia fondato su una pretesa non tutelata dall’ordinamento giuridico ne’ in via diretta – quando, cioè, si riconosce al suo titolare il potere di farla valere in giudizio – ne’ in via indiretta – quando, pur negandosi il potere di agire, si accordi il diritto di ritenere quanto spontaneamente sia stato adempiuto, come nel caso delle obbligazioni naturali menzionate nell’art. 2034 cod. Civ.. Ne consegue, pertanto, che, essendo il contratto di cessione di droga nullo per illiceità della causa e non potendo sorgere dalla sua stipulazione alcuna pretesa tutelata dall’ordinamento, nessun dubbio può esservi sul carattere ingiusto del profitto perseguito da chi, con minacce e percosse, costringa un’altra persona a farsi consegnare una certa somma quale prezzo della droga consegnatale, e quindi sulla piena sussistenza di questo elemento costitutivo del delitto di cui all’art. 629 cod. pen., non potendosi, peraltro, invocare la tutela indiretta predisposta dall’art. 2035 cod. Civ., con il riconoscimento della “soluti retentio”, trattandosi di norma che fa riferimento ad un atto contrario al buon costume, e non, come nel caso di specie, ad un atto contrario a norme imperative, secondo la distinzione contenuta nell’art. 1343 cod. Civ..
Negli stessi termini, Cass. Sez. IV, 21.10.1999, n. 13037, ove si legge che “per la restituzione di denaro consegnato per l’acquisto di droga, non è possibile instaurare vertenza giudiziaria. Il contratto relativo ha causa illecita per contrarietà al buon costume (art. 1343 cod. civ.), e, in quanto tale, ai sensi dell’art. 2035 dello stesso codice, comporta la irripetibilità di prestazione eventualmente eseguita nell’ambito del contratto (nel caso di specie la dazione del denaro). La nozione di buon costume comprende in via generale tutti quei principi e tutte quelle esigenze etiche della coscienza morale collettiva che costituiscono la morale sociale, a cui i consociati, complessivamente, uniformano i propri comportamenti, in un determinato contesto storico. Orbene non c’è dubbio che il consumo della droga allo stato sia avvertito come contrario alla morale sociale. L’eliminazione, sulla spinta referendaria, del rilievo penale dell’uso personale della droga, non costituisce controindicazione rispetto al principio enunciato. Ciò per due ragioni di fondo: il diritto penale non esaurisce la tutela di tutti i valori della morale sociale; dall’intero impianto legislativo del DPR 309-’90 si evince chiaramente che il legislatore individua nell’uso degli stupefacenti grave disvalore sociale. Si conferma dunque che non è possibile rivolgersi al giudice per ottenere la restituzione di denaro consegnato per l’acquisto di droga e l’assenza di tutela della pretesa nell’ordinamento integra la nozione di ingiusto profitto dell’art. 629 c.p.
Torneremo in seguito su questo fondamentale passaggio argomentativo, rispetto al quale va sin d’ora evidenziato come esso sia basato su un assunto non del tutto condivisibile: e cioè che il profitto sia ingiusto tutte le volte che non ne sia possibile la puntuale realizzazione per il tramite degli strumenti di tutela giudiziaria.
[2] Non è molto chiaro se ed in che misura la configurabilità del reato in esame richieda l’indispensabile ed oggetto presupposto del diritto “azionabile”; oppure se assuma rilievo nell’ambito della norma incriminatrice anche la ipotesi in cui il soggetto, per errore, sia convinto che il preteso diritto abbia tutela giurisdizionale e gli possa essere riconosciuto dall’autorità giudiziaria. In alcune sentenza si pone l’accento sulla indispensabile ed oggettiva esistenza di una pretesa “azionabile”; in dottrina si è del parere che la norma comprenda anche le ipotesi di ragionevole convincimento della esistenza di una siffatta pretesa, per i riflessi che in tal modo si generano sul dolo del reato, ed in particolare sulla coscienza della “giustezza” del profitto perseguito. Quest’ultima tesi sembra preferibile, anche se va precisata nel senso che l’errore del soggetto non deve concernere la disciplina giuridica del preteso diritto (per esempio, convincimento che per i negozi a causa illecita sia possibile ripetere ciò che è stato corrisposto) ma deve riguardare una situazione di fatto che, ove sussistente, darebbe vita ad una situazione soggettiva munita di tutela giudiziaria. Di interesse la sentenza 12329 del 04/03/2010Ud. (dep. 29/03/2010 ) Rv. 247228, ove si legge che “Ai fini della sussistenza del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (in luogo di quello di estorsione) occorre che l’agente sia soggettivamente – pur se erroneamente – convinto dell’esistenza del proprio diritto, e che detto diritto riceva astrattamente tutela giurisdizionale. Con la ulteriore specificazione che il convincimento di esercitare un diritto, proprio del reato p. e p. ex art. 393 c.p., rileva – ancorché erroneo – solo se ricade sull’esistenza del diritto medesimo, non già sulla sua azionabilità in sede giurisdizionale.
[3] La questione potrebbe assumere rilievo anche in relazione alla norma di cui all’articolo 117 del codice penale, che prevede la ipotesi in cui il titolo del reato concorsuale muti in ragione dei rapporti tra soggetto attivo e soggetto passivo. E cioè in relazione alle ipotesi, certo rare, in cui taluno concorra in un fatto percepito come estorsivo ed in realtà definibile, proprio per la qualifica di altro concorrente e per la peculiare natura del profitto realizzato, come esercizio arbitrario delle proprie (in questo caso del concorrente istigatore) ragioni.
[4] La conclusione della corresponsabilità del titolare del diritto nel ravvisato reato di estorsione sembra davvero eccessiva. Il fatto che non vi sia adeguata quietanza liberatoria, a prescindere che non sono rari i casi in cui questa potrebbe non avere ragione di sussistere, sembra un dato formale che dovrebbe cedere di fronte alla acquisita prova che il terzo ha agito per conto del titolare del diritto e per realizzare la pretesa corrispondente all’oggetto del predetto diritto. Altro è il discorso sulla eventuale cointeressenza del terzo, in relazione alle eventualità che sia stato concordato un suo compenso per il buon esito del suo intervento. E qui il discorso strettamente tecnico cede il passo alla riflessione sugli inquietanti scenari che vengono ad aprirsi nel caso dovesse opinarsi che l’eventuale compenso non valga ad escludere, attesa la finalità di ottenere ciò che è dovuto, il reato di esercizio arbitrario. E sono proprio questi scenari che hanno indotto la cassazione ad escludere il reato di esercizio arbitrario, e ravvisare l’estorsione, in tutte quelle evenienze in cui il titolare del diritto si affidi ad esponenti della criminalità organizzata per realizzare la sua pretesa.
[5] In applicazione di tale principio, la S.C. ha ravvisato il delitto di estorsione nelle reiterate minacce di morte rivolte dall’imputato alla persona offesa, per indurla alla restituzione di un credito vantato da terzi.
[6] Ed è innegabile, conclude la sentenza, che il rivolgersi, come nel caso in esame, a forme di giustizia alternativa di chiara matrice delinquenziale non si presta a qualificazioni del fatto in chiave di mero esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Ecco un eloquente abbozzo di quell’inquietante scenario di cui si parlava prima, dove è evidente come la ratio decidendi sia fortemente segnata dalla preoccupazione di aprire una strada che, per la esigua pena che comporta e per la condizione di procedibilità che richiede, espone al concreto rischio che la criminalità organizzata venga a delinearsi come “giustizia alternativa” e con possibilità di reclami o contro tutela pari a zero. Difficile ipotizzare una vittima così coraggiosa che, subita la minaccia per la forte caratura criminale degli autori, trovi poi la forza di presentare querela contro i medesimi.
[7] La vicenda è interessante perche il giudice di merito aveva ritenuto che uno degli episodi in contestazione fosse sussumibile nel paradigma dell’art. 393 c.p., posto che le minacce e la violenza in danno della persona offesa erano intese a realizzare una pretesa giuridicamente fondata, quale il pagamento delle cambiali. La Suprema Corte reagisce con vigore a tale ordine di idee, sostenendo che costituisca vistosa contraddizione in termini, che si traduce in insanabile antinomia sul piano concettuale, ipotizzare una fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni posta in essere mediante l’uso di violenze o minacce delegate ad esponenti di organizzazioni mafiose che si avvalgano della forza intimidatrice del vincolo associativo. È evidente, si prosegue, che l’opzione in favore di forme di tutela alternative a quelle prestate dall’ordinamento giuridico, e dunque a metodi antitetici a quelli di legge, faccia, per ciò solo, perdere carattere di giustezza alla relativa, sottostante, pretesa collocandola in alveo contrario alla legalità, siccome affidata a strumenti di persuasione o coazione che costituiscono di per sè illecito e che si collocano nel c.d. antistato, ossia un contesto organizzato delinquenziale capace di assicurare, in termini brevi, con l’ineluttabile forza di persuasione del metodo mafioso, l’immediato soddisfacimento del credito. Inoltre si rileva come la soluzione del giudice del merito, se avallata, avrebbe persino profili di paradosso, finendo – indirettamente – con il dare il crisma della legalità, con la configurazione dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, peraltro perseguibile a querela dell’offeso, ad opzioni in favore delle forme alternative di tutela offerte dalla criminalità organizzata. Indi si conclude rilevando come la soluzione praticata dal giudice di merito sia comunque errata sul piano giuridico. E ciò per la determinante ragione che per giurisprudenza costante il criterio discretivo tra le ipotesi di reato dell’estorsione e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia alla persona consiste non tanto nella materialità del fatto, che può anche essere identica, quanto per l’elemento intenzionale, che nell’estorsione è caratterizzato, diversamente dall’altro reato, dalla coscienza dell’agente che quanto egli pretende non gli è dovuto. Inoltre, si prosegue, quando la minaccia si estrinseca in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio (preteso) diritto, allora la coartazione dell’altrui volontà assume ex se i caratteri dell’ingiustizia, con la conseguenza che, in situazioni del genere, anche la minaccia tesa a far valere quel diritto si trasforma in una condotta estorsiva.
[8] Per tutti, Cassazione 26 novembre 2003, CED 227617. Per completezza di esposizione si rileva che esistono norme incriminatrici in cui la violenza, qualunque forma abbia assunto, esaurisce la propria rilevanza nell’ambito delle medesime. Le più note sono quelle che prevedono i reati militari di insubordinazione con violenza e violenza contro inferiore, in cui, stante la norma di cui all’articolo 43 del codice penale militare di pace, si prevedono varie fattispecie criminose in relazione alla intensità che la violenza abbia assunto (maltrattamenti, percosse, lesioni ed omicidio) e ciascuna delle predette norme incriminatrici esaurisce la rilevanza penale della violenza ed impedisce la applicazione delle ulteriori norme che prevedono i distinti reati di lesione personale ed omicidio.
[9] Cass. Sez. IV, 21.10.1999, n. 13037
[10] Per l’applicazione di tale norma incriminatrice, con riguardo alle obbligazioni naturali e debiti di gioco in particolare, cfr Mantovani, Diritto Penale, Delitti contro il patrimonio, seconda edizione, Cedam, 2002, naturali ed ai depp.47 e 180.