di Fabrizio Di Marzio 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Il diritto è relazione. – 3. Fatti e contratti. 4. Invalidità ed esecuzione. – 5. Contratti senza accordo. – 6. Contatti sociali. – 7. Contratti politici. – 8. Onore e cortesia. – 9. Promessa e interesse.

1. Questo contributo descrive l’appropriazione da parte del diritto di settori in linea di principio esterni alla legge positiva. 

Il diritto riconosce a ogni soggetto coinvolto in una relazione giuridica uno spazio di libertà che coordina con lo spazio di libertà degli altri. L’espressione ‘rapporto giuridico’ indica in via generale le relazioni umane che sono rilevanti il diritto, a cui dunque sono ricollegati effetti giuridici. Eppure vi sono rapporti umani che si avvicinano ma non arrivano a soddisfare il modello giuridico preconfezionato. 

Un caso molto evidente è dato dai rapporti che i giuristi descrivono come contrattuali di fatto. Si tratta di relazioni associative o di scambio che si originano da atti che, secondo il diritto positivo, sarebbero contratti invalidi o incompleti, inidonei a funzionare da base del rapporto. 

Come ha mostrato in Italia l’esperienza del ‘contratto di governo’, conosciamo contratti destinati a rapporti politici, in via di principio estranei al diritto. 

Vi sono inoltre contratti in cui le parti eseguono prestazioni oggetto di promesse, ma escludendo espressamente la vincolatività giuridica. Così capita per i cosiddetti patti tra gentiluomini. 

Vi sono poi rapporti in cui non si compongono interessi, anche se si eseguono condotte che assomigliano a prestazioni. Questo capita nei rapporti che, sempre i giuristi, catalogano come rapporti di cortesia. Gradatamente il mondo del diritto sfuma nel mondo del non-diritto.

2. – Il diritto disciplina azioni, ma qualsiasi azione contenuta negli effetti nella sola sfera del soggetto agente non è rilevante per il diritto; conta soltanto l’azione che produce effetti giuridici per i terzi. Il diritto è sempre relazione. Troviamo il diritto nel coordinamento tra i soggetti della relazione, in cui l’azione dell’uno produce conseguenze per l’altro. La funzione essenziale del diritto è di disciplinare, tra le innumerevoli relazioni sociali, i rapporti in cui si affermano interessi economici politici morali che hanno importanza giuridica. La disciplina è coordinamento; il coordinamento si realizza attraverso l’imposizione di vincoli all’agire di ciascuno a tutela della sfera privata dell’altro.

Per raccogliere in ordine questo universo di fatti i giuristi hanno elaborato il concetto di rapporto giuridico. Con questa espressione si allude alla relazione umana rilevante per il diritto. Si concorda che il contrassegno della giuridicità sia nella sanzionabilità (in senso ampio e lato) della relazione, ossia della predisposizione di conseguenze giuridiche per i soggetti coinvolti nel rapporto. Nell’ordinamento giuridico dello Stato la sanzionabilità è resa evidente dalla sottoposizione del rapporto, perciò giuridico, alle conseguenze previste dal diritto statuale. L’istituzione Stato-giudice presiede al governo delle relazioni giuridiche, e può contribuire all’individuazione, tra tutti i rapporti umani, dei rapporti giuridici. Così, rispetto al diritto organizzato dallo Stato la distinzione tra norme giuridiche e morale è data dall’esistenza solo per le prime di una procedura di applicazione affidata all’autorità.

L’espressione è presente nel diritto positivo: basti pensare al rapporto contrattuale: ossia al rapporto economico stabilito da un contratto (art. 1321 cod. civ.). Le relazioni umane assoggettate a regole giuridiche spesso si coordinano in una vera e propria disciplina: come l’obbligazione o appunto il contratto, che dànno luogo al rapporto obbligatorio tra debitore e creditore e al rapporto contrattuale tra i contraenti. 

Per aversi un rapporto giuridico è necessario che nella relazione si organizzino almeno due situazioni giuridiche soggettive, anche appartenenti al medesimo soggetto. Normalmente tali situazioni fanno capo a soggetti diversi come, nel rapporto obbligatorio, al creditore da un lato e al debitore dall’altro; a volte tuttavia le situazioni soggettive si riferiscono a un medesimo soggetto di diritto. Si parla, al proposito, di rapporto giuridico unisoggettivo: così è nella confusione, che ricorre quando le qualità di creditore e di debitore – due distinte situazioni soggettive – confluiscono nella stessa persona, con l’effetto della estinzione dell’obbligazione (art. 1253 cod. civ.).

Tradizionalmente si pensa che per aversi un rapporto giuridico le posizioni debbano essere contrapposte ed esprimere da un lato poteri e dall’altro doveri. Il rapporto si instaurerebbe tra una posizione attiva (essenzialmente, di diritto soggettivo) e una passiva (essenzialmente, di obbligo). Proprio questo capita nell’obbligazione, che lega il credito al debito, rendendo ciascuna di queste posizioni sensata rispetto all’altra. In un libro che ha fortemente influenzato la cultura giuridica italiana del Novecento, scrive Santoro-Passarelli «Il rapporto giuridico indica, si può dire commisura, la rispettiva posizione di potere di una persona e di dovere di un’altra persona o delle altre persone: potere e dovere stabiliti dall’ordinamento giuridico a tutela di un interesse. Precisamente, per effetto del rapporto giuridico e della concessione di un potere di volontà al soggetto attivo del rapporto, all’interesse di questo soggetto viene subordinato l’interesse del soggetto o dei soggetti passivi».

In realtà l’idea del rapporto giuridico non è separabile dall’idea di collaborazione. In realtà non esistono rapporti giuridici in cui un soggetto ricopre una posizione di esclusivo potere verso un altro che ricopre una posizione di esclusivo dovere. Nell’esempio del rapporto obbligatorio, sia il creditore che il debitore devono collaborare secondo buona fede (art. 1175 cod. civ.); sono dunque reciprocamente obbligati ad un comportamento morale, improntato a correttezza. Più in generale, proprio sull’idea di collaborazione può trovare legittimazione la figura del rapporto giuridico, che descriverebbe la relazione giuridica complessa in cui si coordinano in vario modo più posizioni soggettive. Ciò è reso oggi evidente, nella Costituzione, dall’art. 2, secondo cui tutti sono tenuti al rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà. 

Nemmeno sul piano strettamente tecnico si potrebbe limitare il rapporto giuridico allo schema diritto-obbligo. In questo modo si escluderebbero dal novero dei rapporti giuridici altre relazioni certamente giuridiche, e pur sempre fondate su posizioni contrapposte, ma diverse dalla prima: come quella tra potestà (potere di fare qualcosa) e soggezione (la condizione di chi è tenuto a subire quell’azione). 

Così condizionante è l’idea di relazione che si crede anche di poter definire come rapporti i collegamenti tra soggetti e cose. Secondo vecchie idee nei diritti reali il rapporto si instaurerebbe tra il titolare del diritto e il bene: tra il proprietario, o l’usufruttuario, e la cosa oggetto di diritto. Si precisa che si tratterebbe in realtà pur sempre di rapporti giuridici tra soggetti, ma mediati dalle cose. Così il diritto di proprietà, che verte sulla cosa, esprimerebbe poteri che il proprietario avrebbe rispetto alla generalità dei consociati. Tuttavia l’essenza del rapporto giuridico si coglie soltanto nella connessione tra diverse situazioni giuridiche correlate; mentre l’idea di rapporto riferito o cose o mediato da cose e riferito a un soggetto determinato (il proprietario) rispetto all’indistinta collettività (che deve astenersi dal turbare il pacifico esercizio del diritto) diventa vaga e poco utile anche a fini esclusivamente classificatori. 

Lo stesso vale per l’idea, sempre tradizionale, del rapporto giuridico tra soggetto di diritto e ordinamento (statuale), e dunque tra soggetto e legge positiva, che anziché descrivere una effettiva relazione sottolinea la soggezione dell’agente all’ordinamento giuridico dello Stato. Per evitare equivoci è dunque preferibile usare l’espressione rapporto giuridico soltanto per le relazioni giuridiche tra soggetti (o, più precisamente, tra situazioni soggettive). 

3. – I giuristi sono posti davanti all’evidenza dei limiti del diritto legislativo ogni qual volta assistono a una relazione umana che, come si dice, è socialmente ed economicamente rilevante e che dunque richiede un trattamento giuridico ma che, nello stesso tempo, per qualche varia ragione non è sussumibile in nessuno dei modelli giuridici messi a disposizione dal diritto positivo ed è dunque ignorata dall’ordinamento statuale. 

Di solito queste figure si manifestano nei dintorni del modello: vi si avvicinano, ma non vi si fanno riassorbire. La vicinanza alla fattispecie legale rende ancora più evidente l’importanza di queste relazioni sociali per il diritto. Segnala la giuridicità della relazione e insieme l’imperfezione del modello: e dunque l’incapacità del diritto legale di disciplinare quanto occorre. Da qui la reazione dei giuristi, impegnati ad espandere il territorio della giuridicità e a colmare le lacune che si aprono nella legge. La vicinanza al modello legale favorisce l’uso di etichettare quelle relazioni con il termine della figura legale e l’aggiunta della natura fattuale del rapporto: amministratore di fatto; contabile di fatto; separazione personale di fatto. In queste espressioni è messa in opera la strategia di ampliamento dell’area domestica della giuridicità a fenomeni alieni. La strategia è di richiamare il rapporto al modello, per indicare una vicinanza che legittima un tentativo di inclusione. Lo strumento concettuale adoperato è sempre il rapporto giuridico. 

Alcune di queste figure sono parallele a contratti tipizzati di natura associativa o se si preferisce comunitaria: come l’associazione o la società di fatto e il rapporto lavorativo di fatto. Per ipotesi del genere in passato è stata proposta la qualificazione di contratti di fatto. L’espressione vuole alludere a fattispecie assimilabili al contratto ma da esso diverse, perché costituite da non da atti giuridici ma da fatti materiali. Ciò che conta, tuttavia è l’attività esecutiva; il rapporto che si instaura tra le parti e da cui dipendono gli effetti giuridici. Ecco perché, piuttosto che discorrere di contratti di fatto, appare maggiormente appropriato riferirsi ai rapporti di fatto assimilabili al contratto: e dunque a rapporti contrattuali di fatto. L’espressionevuol dire di rapporti giuridici fondati su fatti vicini ad atti contrattuali ma non su veri e propri contratti. Dall’esame del rapporto si giunge all’evidenza di un atto che le stabilisce (contratto) in contrasto con regole di validità oppure carente di qualche requisito che definisce il modello legale positivo (la fattispecie astratta). Si giunge pertanto all’evidenza di un non-contratto, inidoneo a fondare il rapporto come rapporto contrattuale. 

Tuttavia una o più parti del rapporto hanno eseguito egualmente le rispettive prestazioni, e hanno attivato la relazione che, a questo punto, richiede una disciplina giuridica. Infatti, fino a quando le parti si erano limitate a comporre un contratto imperfetto e dunque invalido erano restate nell’orbita del diritto positivo esponendosi al mancato riconoscimento dell’atto, ossia al nulla di fatto. Ma, realizzando la prestazione come per dare esecuzione al contratto mal riuscito, hanno sollevato il problema del riconoscimento giuridico della relazione in quanto tale, in autonomia rispetto alla stessa idea di atto.

La separatezza in cui stanno rapporto di fatto e contratto ha suscitato la critica e il sospetto verso la categoria dei rapporti contrattuali di fatto. Nella prospettiva positivista, si è sostenuto che in realtà vi è sempre un contratto, anche se nullo, di cui la legge salva gli effetti dell’esecuzione già avvenuta. Ma nell’espressione è stata spesso ravvisata l’inclinazione ideologica ad espandere oltre misura il dominio del contratto a discapito di fenomeni giuridici diversamente rilevanti. Si presenta così il problema se la tecnica del contratto sia l’unica concessa all’autonomia dei privati o se questa possa realizzarsi anche attraverso tecniche diverse, che lascino uno spazio adeguato alla semplice rilevanza giuridica del fatto esecutivo: alla relazione socialmente rilevante come fonte idonea di obbligazione. Anche perché, come spesso si ricorda, l’espressione rapporti contrattuali – ossia fondati su un atto – ma di fatto è intrinsecamente contraddittoria. 

La vicenda dei rapporti contrattuali di fatto è molto istruttiva per chi voglia interrogarsi sulle dinamiche del diritto come ordine della società perché consente di comprendere quanto il lavoro dei giuristi sia essenziale per la riconduzione a razionalità del diritto di fonte legislativa. Nel primo capitolo ho ricordato che Hayek ha insistito molto sull’idea del diritto come ordine spontaneo della società, composto certamente dal diritto artificiale creato dal legislatore, ma soprattutto da regole sociali di condotta comunque seguite dalle persone (prassi e consuetudini); ed ha descritto il diritto come un ordine incrementato dal lavoro costante dei giudici e razionalizzato dalla riflessione dei giuristi. I rapporti di fatto socialmente rilevanti scaturiti da contratti invalidi costituiscono un primo importante esempio di questa ricostruzione del fenomeno che chiamiamo diritto.

4. – Il contratto è l’accordo che costituisce un rapporto patrimoniale o ne modifica uno preesistente. Una volta concluso l’accordo, le parti dànno esecuzione al contratto. Se l’accordo è invalido, non produce di regola effetti; l’attività esecutiva realizzata non si regge più sul vincolo contrattuale, e si espone ad essere rimossa attraverso la restituzione di quanto indebitamente percepito (art. 2033 cod. civ.). Può però accadere che, sul piano dei rapporti sociali, l’esecuzione del contratto invalido non incontri un rimedio soddisfacente nella ripetizione dell’indebito. Ciò si verifica tutte le volte in cui nella vita pratica il rapporto assume una importanza autonoma rispetto all’atto contrattuale, tale da giustificare una considerazione del rapporto a prescindere dal contratto e da far escludere come adeguato il rimedio della ripetizione di indebito, che ha la funzione di rimuovere gli effetti nel frattempo prodottisi in conseguenza dell’esecuzione della prestazione. In questi casi, manca un atto giuridico vero e proprio: un contratto concluso tra le parti idoneo a generare gli impegni pattuiti. Osserviamo tuttavia un rapporto, una relazione significativa tra le parti, che non è sorretta dall’atto ma si svolge comunque nella realtà.

Il codice civile ne prende atto in un caso particolarmente significativo per le persone: il rapporto di lavoro derivante da contratto invalido (art. 2126). Poiché il contratto è illegale, il codice ne stabilisce l’invalidità, ma poiché il rapporto si è svolto nei fatti, quella invalidità (nullità o annullamento) del contratto non produce effetti giuridici per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione. Poiché il lavoratore ha svolto la prestazione, si ritiene che abbia comunque diritto alla controprestazione, a prescindere dalla invalidità del contratto. L’unico limite è nella forma più grave di invalidità prevista dalla legge: la nullità dovuta a illiceità (come nel caso di un rapporto di lavoro in un’organizzazione criminale). Questa forma di invalidità è incompatibile con la sopravvivenza di qualsiasi effetto residuale. Tuttavia se la nullità del contratto per illiceità derivi da violazione di norme a protezione del lavoratore, è pur sempre dovuta la retribuzione per l’attività lavorativa svolta. Poiché la nullità del contratto dipende dalla violazione di norme imperative a tutela del lavoratore, le conseguenze dell’invalidità non possono pregiudicarne la posizione, si prevede pertanto la conservazione del diritto alla retribuzione: ossia del fondamentale diritto previsto per il lavoratore. 

In queste regole il rapporto di lavoro si libera notevolmente dai condizionamenti del contratto di lavoro che di solito lo fonda e produce effetti giuridici autonomi, dovuti al semplice fatto che il lavoro è stato eseguito. Questi effetti dipendono non da un contratto ma da un fatto: la prestazione svolta. Accanto al contratto di lavoro si pone il rapporto contrattuale di fatto, ossia un rapporto giuridico parallelo al corrispondente contratto. Gli effetti del contratto sono più ampi di quello del rapporto di fatto: sia per estensione sia perché il rapporto di fatto produce effetti solo nei limiti in cui si è realizzato e non condiziona le condotte future dei soggetti coinvolti; tra le due figure non si crea una sovrapposizione e ciascuna conserva la sua ragion d’essere.

Non dissimilmente la disposizione sulla società di capitali nulla ma iscritta al registro delle imprese (art. 2332 cod. civ.) valorizza lo svolgimento in concreto dell’attività sociale, ed attribuisce rilevanza a questo fatto, ricollegandovi un certo numero di limitati effetti. Lo stesso si ritiene che avvenga per la società di persone in cui il contratto è invalido ma l’attività societaria è stata effettuata. 

In queste evenienze si staglia il rapporto, distante dall’atto inidoneo a generarlo. È il rapporto in se stesso, e non l’atto, a porre il problema della disciplina giuridica. La disciplina giuridica dell’atto è presa in considerazione in mancanza di meglio; ma la rilevanza autonoma del rapporto pone il problema di scoprire regole che ne soddisfino le esigenze. Così nel codice civile le regole dei rapporti di fatto possono esser lette come deroghe all’irrilevanza del contratto invalido, ma in realtà vengono individuate sulla falsariga del rapporto costituito: difficile da intercettare per il diritto legale, ma meritevole di tutela secondo il diritto in senso stretto: il diritto spontaneo. 

Ecco che il diritto legale si evolve per corrispondere a equilibri del diritto spontaneo, e così si appropria di aree ulteriori, prima ignorate. Questo sviluppo del diritto positivo, esteso ai rapporti di fatto, è armonico all’aggiornamento complessivo del diritto privato. Nel codice civile la società (commerciale) e il lavoro (subordinato) sono considerati già come rapporti. La società è prodotta dal contratto associativo, ma una volta costituita opera ed è disciplinata come organizzazione. Sempre nel codice civile il lavoro assume la dimensione della relazione continuativa, e il diritto positivo disciplina l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione d’impresa. Per conseguenza, nello stesso diritto positivo le regole su società e lavoro di fatto sono elaborate sulla falsariga degli effetti dell’atto sul rapporto legalmente costituito dallo stesso diritto positivo. Le disposizioni del codice paralizzano in tutto o in parte le conseguenze del mancato riconoscimento del contratto di comunità (associazione, società, lavoro) invalido nel mondo del diritto. In questo modo consentono al rapporto di svolgersi come se quegli effetti, in realtà inibiti nella prospettiva del contratto ma non anche del rapporto, si realizzassero egualmente. Si realizzano ma si ingenerano dal rapporto stesso, a prescindere dall’atto. Il riferimento all’atto è funzionale al richiamo di effetti che, nei casi in esame, non potrebbero scaturirvi.

5. – L’idea dei rapporti contrattuali di fatto aiuta a comprendere fenomeni sociali avvicinabili al contratto ma difficilmente classificabili tra i rapporti fondati su accordi, e dunque tra i rapporti contrattuali secondo la definizione dell’art. 1321 cod. civ. L’incompletezza della fattispecie è data, più che dalla mancanza di un accordo, dalla mancanza del procedimento canonico per realizzare l’intesa: la formulazione di una proposta a cui segue un’accettazione. Il codice civile prende atto del fitto dialogo delle parti che negoziano il contratto (artt. 1337 ss.), ne scandisce le fasi nella proposta e nell’accettazione, stabilisce l’accordo nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte (art. 1326). Nei contratti senza accordo manca tutto questo. Manca pertanto non il consenso delle parti, ma il consenso disciplinato nel codice civile, necessario per aversi un contratto secondo il diritto statuale. 

Nella società contemporanea l’idea di contratto fondata sull’accordo delle parti come prodotto da proposta e accettazione non appare facilmente applicabile a tutti quei casi in cui la diffusione seriale di beni e servizi sul mercato avviene attraverso meccanismi di distribuzione automatica. I comportamenti di prelevamento della merce dagli scaffali di un supermercato, l’acquisto del biglietto dell’autobus o del treno da una macchina, l’acquisto telematico, si presentano come comportamenti significativi per il diritto ma difficilmente sussumibili nello schema legale del contratto. In tutti questi casi un soggetto utilizza direttamente servizi offerti al pubblico, eseguendo una prestazione oppure appropriandosi di un bene altrui. Da queste condotte esecutive scaturiscono effetti obbligatori pur mancando una preventiva proposta contrattuale. È questa la differenza rispetto alla conclusione del contratto che avviene (anziché attraverso l’accettazione della proposta che è stata ricevuta dal destinatario) per mezzo dell’esecuzione della prestazione (art. 1327 cod. civ.). Nei rapporti contrattuali di fatto si hanno pur sempre scambi, ma in assenza di proposta ed accettazione; e che perciò appaiono avvenire senza un previo accordo. 

Assistiamo al trionfo dello scambio, ma fatichiamo a ravvisarvi la legittimazione dell’accordo. In questi casi, diversi da quelli considerati nel paragrafo precedente, non si ha un atto invalido ma un atto mancato: un contratto senza accordo. Ma potremmo immaginare un contratto senza accordo? Scrive Irti «Il declino dell’accordo – derivante dalla crisi della parola e del dialogo – dissolve il contratto nella combinazione di due atti unilaterali: atti leciti, dell’esporre e del preferire, richiedenti soltanto la riferibilità ad un autore e la naturale capacità di intendere e di volere. Le parti dello scambio assumono decisioni, che nascono e restano separate: esse non si fondono né si disperdono nella sintesi dell’accordo. L’atto dell’esporre e l’atto del preferire, rifiutando la mediazione dialogica della parola, non escono dall’originaria unilateralità».

Certamente ricercare in queste pratiche indizi di un accordo fondato sul dialogo è arduo. Andando più a fondo, potremmo dubitare di essere al cospetto di veri e propri atti giuridici unilaterali, piuttosto che davanti a semplici fatti materiali. Ma attribuire ai gesti dell’esporre e del preferire il significato della proposta contrattuale e dell’accettazione, come pure fanno i giuristi, non sarebbe una finzione. Il sospetto che non si abbia un vero e proprio contratto deriva dall’idea tradizionale di contratto, sorta nel diritto spontaneo ed accolta nel diritto positivo. È un’idea insoddisfacente all’esito dell’evoluzione del diritto spontaneo nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, in cui si è affermata la dinamica della distribuzione di massa di beni e servizi. In questi settori della contrattazione l’idea di contratto si è trasformata nella sensibilità sociale. Tutti pensano di acquistare qualcosa quando sottoscrivono moduli, prelevano merce nel supermercato o scelgono beni in un sito informatico. Nessuno contratta, e nemmeno parla; ma l’idea condivisa di compiere acquisti è più che sufficiente perché si abbiano contratti. Si sottoscrive un modulo prestampato; si inserisce il denaro in un distributore di carburante; si clicca la scritta «acquista ora» sul sito di Amazon: sempre nella convinzione di fare un acquisto, e nella consapevolezza di seguire una regola sulla conclusione del contratto. 

L’impressione di trovarci di fronte a qualcosa di molto diverso da un contratto è data dall’idea legale di contratto, accolta nel codice civile, che non è l’unica idea giuridica di contratto. 

6. – Oltre ai casi di rapporti ricondotti a taluni contratti invalidi o gravemente incompleti, nell’ambito dei rapporti contrattuali di fatto si collocano anche rapporti giuridici diversi dal contratto non soltanto perché non costituiti su un preventivo accordo dialogico ma anche perché neppure consistono nella esecuzione di una attività assimilabile alla prestazione contrattuale, come è il pagamento di un servizio attraverso l’introduzione del denaro in una cassa automatica. Sono, queste, relazioni fondate su di un semplice contatto sociale, tuttavia rilevante per il diritto nei limiti della responsabilità a cui si espongono le parti del rapporto. Si ritiene che questa responsabilità sia di natura contrattuale. Per conseguenza, l’attività del prestatore è valutata secondo i criteri di diligente esecuzione della prestazione stabiliti per il debitore nel rapporto obbligatorio (art. 1176 cod. civ.). Pur non venendo in questione un contratto, ma un fatto di relazione, sono richiamate alcune regole del contratto.

Un’ipotesi classica e dibattuta è quella delle trattative, in cui le parti collaborano nella negoziazione di un contratto eventuale e futuro, reciprocamente vincolate dall’obbligo legale della correttezza e lealtà (art. 1337 cod. civ.). Alcuni giuristi ritengono che i negoziatori, benché realizzino semplici condotte materiali e non abbiano concluso un contratto, siano esposti alle regole della responsabilità contrattuale (anziché extracontrattuale). Se infatti manca la previa conclusione di un contratto, è tuttavia presente un fatto sociale regolato da una obbligazione legale di buona fede. Quel fatto sociale è ritenuto assimilabile alla fonte contrattuale.

Si prospettava poi il caso dell’esecuzione del rapporto tra medico del servizio sanitario nazionale e paziente. Il rapporto contrattuale intercorre tra quest’ultimo e l’azienda ospedaliera, ma in giurisprudenza si era consolidato l’indirizzo sulla natura contrattuale della responsabilità anche del medico, ancorché tra costui e il paziente intercorresse semplicemente una relazione sociale qualificata dal dovere di prestazione: un contatto sociale. L’art. 7 della l. n. 24 del 2017 ha stabilito il titolo di responsabilità richiamando l’art. 2043 cod. civ., riconducendo la condotta del medito alla disciplina dei fatti illeciti. Ha così negato rilevanza al contatto sociale. Ma non è accaduto lo stesso per casi similari. Per i danni occorsi agli alunni di scuole pubbliche la giurisprudenza ritiene che, accanto alla responsabilità della struttura scolastica discendente dal contratto stipulato dalla stessa con i genitori degli alunni, sia prospettabile una responsabilità sempre contrattuale in capo agli insegnati che abbiano tenuto condotte negligenti nello svolgimento del lavoro. Ciò pur non sussistendo tra insegnanti e genitori degli alunni nessun rapporto contrattuale, ma soltanto un contatto sociale che il diritto assorbe e disciplina secondo le regole di responsabilità del contratto. 

In tutti questi casi apprezziamo rapporti eseguiti nella prospettiva della giuridicità; tuttavia il diritto positivo è incapace di darne atto. Lo schema produttivo di quel diritto, e soprattutto la tecnica della fattispecie, non cattura gli effetti di relazioni classificabili sicuramente e a pieno titolo come giuridiche e tuttavia non compatibili con le fattispecie di riferimento. I giuristi prendono atto di questi casi e ricostruiscono il diritto spontaneo. Le corti rinvengono effetti di natura contrattuale in determinate relazioni sociali che, secondo le tradizionali classificazioni giuridiche, sarebbero invece soltanto fatti. A volte, come nel caso della responsabilità da attività sanitaria, il legislatore non è d’accordo, e crea una regola diversa, per fini di politica del diritto. 

Ma, in generale, l’esigenza di accordare protezione alle situazioni che sorgono da quelle relazioni e la struttura stessa di quelle relazioni, in cui una parte è tenuta a una prestazione da eseguire a vantaggio dell’altra facilitano i giuristi nel rinvio allo schema dell’obbligazione fondata su un accordo che invece manca. 

7. – Il contratto è chiamato in causa anche quando non si tratta di disciplinare giuridicamente rapporti ma di concludere accordi, tuttavia al di fuori dell’ordinamento giuridico. Nel secolo scorso i giuristi tedeschi hanno elaborato la figura del Koalitionsvertrag: del contratto di coalizione tra partiti politici. Per il diritto il contratto sancisce un accordo economico; invece qui l’idea del contratto è adoperata nell’ambito della politica e definisce intese su interessi non economici ma politici. La figura prende atto di un fenomeno sociale: l’azione politica organizzata, secondo il modello dell’intesa contrattuale, attraverso la pattuizione di coalizioni elettorali e post-elettorali. Le prime finalizzate al coordinamento dell’azione volta ad ottenere il consenso degli elettori; le seconde all’amministrazione di quel consenso nelle istituzioni: sia nello svolgimento dell’attività di governo sia nel funzionamento del parlamento. In questo fenomeno – inseribile in quello più ampio che, con le parole di Bobbio, possiamo indicare come della ‘democrazia contrattata’ – l’intesa politica si realizza sul terreno dello scambio interessato, proprio del contratto giuridico.

Potremmo pensare che i contratti politici non siano anche contratti nella prospettiva giuridica, poiché nel diritto privato l’esecuzione dell’impegno contrattuale è rafforzata dall’intervento del giudice e dalle regole sull’inadempimento degli obblighi assunti e sulle conseguenti responsabilità. Tuttavia la presenza del giudice testimonia soltanto l’affermazione della legge statale sul contratto civile, che è tale prima e a prescindere dal suo riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico ufficiale. In altri termini, l’idea del contratto come necessariamente sottoposto alla legge positiva dipende dalla concezione statuale del diritto, per cui la regola privata può valere solo in quanto riconosciuta dalla legge e solo nei limiti in cui è accolta nell’ordinamento statuale. In realtà, quella regola può valere solo a quelle condizioni nell’ordinamento positivo dello Stato; fuori di esso può valere anche a prescindere da quelle condizioni. Anche in mancanza del riconoscimento del diritto positivo i privati possono confezionare regole pattizie e vincolarsi al loro rispetto. I contratti politici si adeguano pienamente alla concettualità insita nell’idea di contratto.

Queste conclusioni sono rafforzate dall’esame del Contratto per il governo del cambiamento concluso in Italia nel maggio del 2018 tra M5S e Lega. Formazione forma e causa di quel contratto politico si adeguano strettamente alle caratteristiche corrispondenti del contratto di diritto privato, in modo da inserirsi quasi integralmente nella categoria, se non fosse per l’incoercibilità del vincolo tramite il ricorso al giudice.

La formazione si è svolta in una lunga e serrata trattativa, in cui le parti hanno mediato le rispettive e contrapposte posizioni ideologiche e politiche per raggiungere punti di compromesso utili a definire un programma comune di governo. La trattativa su contrapposti interessi politici ha distanziato notevolmente questo contratto dal resto dei contratti politici, fondati su una base ideologica comune, e allo stesso tempo ha avvicinato il Contratto di governo al contratto di diritto privato, in cui interessi (non politici ma economici) inizialmente contrapposti si compongono in un’intesa fondata sulla corrispettività delle prestazioni. L’ipotesi di intesa è stata sottoposta al vaglio degli iscritti alle contrapposte compagini politiche, in modo da essere legittimata da una preliminare approvazione. L’impegno finale è stato redatto e sottoscritto dai rappresentanti delle parti come si fa in una scrittura privata autenticata dal notaio (il cui ruolo è stato pubblicamente chiamato in causa dalle parti). La funzione (causa) del contratto è dichiarata nell’intesa sull’azione di governo, a cui le parti si impegnano in sede esecutiva e parlamentare.

Nemmeno sarebbe difficile scorgere diverse conseguenze giuridiche dell’accordo sanzionabili nel diritto privato. Se infatti iscritti a uno dei partiti o parlamentari di uno dei partiti non rispettassero le obbligazioni politiche assunte dai rispettivi partiti nel contratto, potrebbero essere espulsi dalla compagine sulla base dell’argomento della violazione dell’impegno contrattuale.

Nei contratti politici la dimensione giuridica sfiora la politica. Il potente paradigma del contratto esorbita i confini del diritto positivo ed è reclamato per disciplinare, secondo la sua logica, interessi non economici ma politici. In questo segnare un confine del diritto positivo, addita nuove direzioni alla giuridicità. 

8. – L’accesso al mondo del diritto non è l’effetto automatico di un impegno vincolante. Gli autori di promesse reciproche può decidere di vincolarsi, concludendo un contratto oppure possono escludere che quell’impegno abbia valore giuridico. Normalmente, chi conclude un contratto corrispettivo, e segue uno dei modelli della tradizione (vendita permuta mutuo locazione deposito e così via) o uno dei modelli socialmente tipici (leasing franchising factoring ecc.) intende vincolarsi in senso giuridico, e avrebbe molti problemi a convincere un giudice del contrario. È ragionevole presumere che le parti del contratto si rendano conto che l’utilizzo dello schema tipico implichi le conseguenze giuridiche a quello connesse. Nell’assumere l’impegno ciascuno rispetta le regole del diritto spontaneo e legale sulla conclusione dei contratti. Non può dirsi lo stesso se il contratto non è sussumibile in uno schema legale e non è stipulato in modo formale e si tratta invece di un contratto atipico (sconosciuto alla classificazione della legge), privo di una forma specifica (e per lo più concluso in forma orale) o senza corrispettivo (e perciò gratuito). In questi casi l’impegno si allontana dalla logica dello scambio interessato, preso in considerazione dal diritto. Perciò non è detto che chi contrae l’impegno lo faccia rispetto al diritto. Non è detto, cioè, che egli abbia inteso obbligarsi in senso giuridico. Qui la presunzione non può ragionevolmente operare, e trova spazio e plausibilità la dichiarazione di volersi obbligare, ma non giuridicamente. In questi casi possiamo apprezzare la volontà di sottoporsi a un ordinamento diverso non solo dall’ordinamento positivo, ma anche dall’ordinamento giuridico in generale (comprensivo delle norme di semplice condotta). Il diritto non è chiamato in causa dalla semplice promessa, in aggiunta il promittente deve nutrire un intento di obbligarsi giuridicamente. «Si vuol semplicemente dire che il promittente deve intendere di obbligarsi sul piano giuridico, di sottoporsi comunque alla relativa coazione (in senso generico), e non di obbligarsi sul piano sociale o morale. È questa una distinzione che anche il profano intende e pratica senza sottigliezze».

Vi sono dunque rapporti contrattuali che, a differenza dei contratti politici, sono estranei al diritto. Ve ne sono alcuni che per di più si reclamano estranei al diritto. In questi casi non solo non potrebbe presumersi un intento di obbligarsi giuridicamente, ma è facile rintracciare nella trama dell’accordo l’intendo opposto: di non obbligarsi giuridicamente. L’ipotesi classica è il gentlemen’s agreement. L’accordo fra gentiluomini può essere definito come un accordo fra soggetti che si ritengono appartenenti a un insieme sociale caratterizzato dalla spiccata sensibilità verso determinati valori quali l’onore, la correttezza, la buona fede, il rispetto della parola data. Il patto è stipulato in nome di tali valori e la coazione all’adempimento non deriva dalla vincolatività giuridica, che le parti invece escludono, ma dall’adesione a tali valori e dalla perdita di prestigio all’interno del gruppo scaturente dalla violazione del patto. L’espressione si è formata agli inizi del secolo scorso, per descrivere gli accordi d’affari stipulati sull’onore tra membri della business community. Quella comunità è retta da regole specifiche, parallele alle regole giuridiche. Nel quarto capitolo abbiamo visto che le regole morali possono essere richiamate nel diritto positivo, per operarvi. In comunità come quella del mondo degli affari, l’etica economica è costitutiva dell’ordinamento che regge quella comunità. Gli appartenenti possono anche decidere di attivare il loro contratto esclusivamente nell’ordinamento di quella ristretta comunità, escludendo la vincolatività dell’impegno in senso giuridico. L’esclusione dal diritto si manifesta con la manifestazione, implicita o esplicita, di un intento giuridico negativo. 

Nei sistemi di common law sono considerati elementi caratterizzanti del gentlemen’s agreement l’esclusione dell’intention to create legal relationship e la forma non scritta dell’accordo. Va precisato che mentre secondo una opinione per realizzare un contratto sono sufficienti l’accordo, la causa e/o una forma determinata (deed), per altra più diffusa opinione è altresì necessaria l’effettiva volontà delle parti di vincolarsi giuridicamente. In mancanza di questo ulteriore requisito, l’accordo non può essere qualificato contratto e, ricorrendone i presupposti, può essere qualificato come patto d’onore. L’oralità del gentlemen’s agreement è un dato di realtà, socialmente e statisticamente apprezzabile, ma non necessario. Un accordo scritto nel quale sia espressa la chiara volontà delle parti di non vincolarsi sul piano giuridico ma (solo) sul piano sociale o morale, ossia nel quale le parti esprimono un intento giuridico negativo, per opinione pacifica non è un contratto ma un gentlemen’s agreement. Dunque, elemento necessario, ma anche sufficiente per integrare la figura è la volontà delle parti di escludere l’accordo dal mondo giuridico.

L’intento giuridico negativo segna un limite all’operatività del diritto privato deciso dalle parti del contratto. Al contrario di quanto normalmente accade, le parti non affidano il contratto alla protezione del diritto, realizzando un’intesa che possa essere riconosciuta valida secondo le regole giuridiche (art. 1322 cod. civ.) ma lo sottraggono intenzionalmente alla tutela giuridica, per affidarlo alla tutela di un ordinamento extra-giuridico.

Accanto ai contratti con intento giuridico negativo stanno i rapporti di cortesia. I giuristi parlano di atto, rapporto o prestazione di cortesia con riferimento a una vasta e indefinita gamma di relazioni che la convivenza civile produce in una determinata società nello svolgersi del corso storico. Queste relazioni si declinano non semplicemente all’insegna della gratuità, ma più marcatamente di un vero e proprio disinteresse patrimoniale. Il linguaggio giuridico condiziona la descrizione di fenomeni che pure non vorrebbero appartenere al mondo del diritto: lo testimoniano i termini adoperati dai giuristi: atto, rapporto, prestazione di cortesia, oltre all’aggettivo ‘gratuito’. Il linguaggio giuridico rende con difficoltà l’idea dello spontaneo svolgersi della socialità nella relazione umana al di fuori della preoccupazione economica, e dunque della caratterizzazione patrimoniale. Come se il diritto rimanesse perplesso di fronte a ciò che gli accade a fianco. E infatti, se potrebbe lasciare perplessi che il diritto si occupi del non-diritto, perplessità ancora maggiore può suscitare l’esistenza stessa del non-diritto: di isole di non-diritto nel vasto mare della relazione sociale. Tanto più di questi tempi, dove la complessità sociale si manifesta soprattutto nella giuridificazione progressiva e includente di tutte le forme e gli stili di vita: di pressoché ogni modo della personalità, e dove come abbiamo accennato il rapporto sociale e persino politico tende a una progressiva contrattualizzazione.

La teoria e la prassi giuridica si occupano delle relazioni di cortesia e cercano di tracciare i confini tra diritto e non-diritto. In questo interrogarsi emerge la difficoltà di stabilire separazioni nette. La questione sollevata dalle relazioni di cortesia è a quali condizioni il rapporto sociale lambisca la rilevanza non solo giuridica, ma specificamente contrattuale. 

La relazione cortese si manifesta nella vita quotidiana più minuta: come accade per la promessa fatta all’amico: di dargli un passaggio in automobile; o di andare a teatro; o a una persona anziana: di aiutarla ad attraversare la strada, e così via. Pur essendo presente in molti casi una relazione sociale intensiva (rapporti familiari di parentela o di amicizia), la cortesia può rivolgersi anche a sconosciuti. Il contesto minimo e sufficiente di queste relazioni è quello delle condotte educate. 

Spesso si riconducono queste tipologie di relazioni sociali nell’ambito delle prestazioni solidaristiche, rinvenendone il fondamento nell’art. 2 della Costituzione; oppure nell’ambito del buon comportamento sociale. Ma il richiamo alla doverosità dell’adempimento, contenuto nell’art. 2 Cost., urta con la sostanza delle relazioni cortesi, che non toccano il terreno dei diritti inviolabili e dei doveri inderogabili di solidarietà. 

La forza di attrazione del diritto rispetto al non-diritto si scopre pienamente nei casi in cui la relazione cortese si sovrappone a una precisa tipologia contrattuale (mutuo di cortesia, comodato di cortesia, deposito di cortesia, ecc.). La sovrapposizione si sviluppa, in questi casi, in un inserimento: si discorre pertanto di contratto con causa gratuita e di motivo di cortesia. L’opinione è consolidata; il dubbio che solleva è dato dalla sopravvalutazione dell’atto rispetto al rapporto. La relazione di cortesia non si sviluppa in effetti da un patto preliminare ma si coglie nel rapporto sociale. Esaminare l’atto cortese isolandolo dal flusso relazionale in cui si origina ed inserendolo in uno schema contrattuale astrattamente compatibile è un’operazione poco convincente. Secondo il modello della fattispecie (il tipo contrattuale compatibile con la specifica relazione cortese) e seguendo il processo della sussunzione del fatto concreto nel modello, si ottiene di sussumere nel diritto il non-diritto. 

Resta il dato che i protagonisti del rapporto seguono uno schema rilevante per il diritto. Quando invece le relazioni cortesi non ricalcano contratti tipizzati in cui, come abbiamo detto, è possibile presumere l’intendo giuridico di obbligarsi; ma il fenomeno sfugge alla tipizzazione e si manifesta nel regno della irrilevanza patrimoniale, il diritto si disinteressa di questo rapporto, facendo posto al non-diritto. Il disinteresse si dichiara in valutazioni positive (si valorizza il c.d. intento giuridico negativo, come nei patti d’onore) ovvero in valutazioni negative (immeritevolezza degli interessi sottesi al rapporto: art. 1322 cod. civ.). 

Una differenza chiarificatrice è tracciata per il contratto di trasporto dall’art. 414 cod. nav., dedicato al trasporto amichevole. In questa disposizione il diritto positivo distingue il trasporto cortese dal trasporto gratuito; e dispone sulla responsabilità per danni subiti dal beneficiario della prestazione. Trasporto cortese è riservato all’autostoppista; trasporto gratuito è riservato dal datore di lavoro al lavoratore, perché giunga sul luogo della prestazione. A differenza che nel secondo, nel primo il vettore cortese non soddisfa a un suo proprio interesse. La prestazione non è dunque semplicemente gratuita ma è disinteressata e animata da cortesia: non è, in senso rigoroso, una prestazione. Il disinteresse all’attività da parte dell’agente manifesta un intento altruistico in senso lato, e coglie il senso della relazione. Nel rapporto di cortesia l’agente è disinteressato all’eventuale arricchimento del beneficiario. Ciò segna il limite tra relazione cortese e atto giuridico di liberalità (teso all’arricchimento del destinatario). La relazione cortese può determinare un arricchimento del destinatario, ma tale arricchimento non è nel proposito ultimo dell’agente. L’irrilevanza giuridica della relazione determina la non vincolatività della promessa, che non impegna il promittente.

Nell’ambito della relazione cortese può derivare un danno: all’agente, a terzi o al beneficiario. Come abbiamo appena visto, qui il diritto riprende parola, poiché si tratta di stabilire eventuali diritti al risarcimento. Se è soddisfatta la fattispecie del fatto illecito, può sorgere una obbligazione risarcitoria (art. 2043 ss. cod. civ.). Se a subire il sinistro è l’agente (che si offre di chiamare il medico all’amico raggiungendolo in automobile), la spontaneità dell’esecuzione esclude che il beneficiario possa essere tenuto al risarcimento del danno autoinfertosi dall’agente. La relazione cortese resta irrilevante per il diritto. Circa il danno subito dal beneficiario della cortesia, come nel sinistro avvenuto nel trasporto amichevole (caso del c.d. terzo trasportato), l’agente è tenuto al risarcimento del danno. L’obbligazione risarcitoria lega i protagonisti della relazione cortese, tuttavia l’effetto giuridico del risarcimento non deriva dalla relazione ma dall’autonoma rilevanza giuridica del fatto dannoso. 

9. – Tanto i rapporti d’onore che le relazioni di cortesia sono caratterizzati dalla presenza dell’intento giuridico negativo: della comune volontà di non obbligarsi giuridicamente. C’è però una grande differenza. Se si considerano gli interessi perseguiti dalle parti dell’accordo, si può constatare che mentre nel gentlemen’s agreement esse sono spinte da interessi confliggenti, perché egoistici e lucrativi, invece nella relazione di cortesia esse sono mosse da interessi concorrenti, non egoistici e convergenti sul piano della convenienza sociale o della solidarietà. Mentre il rapporto cortese dimostra la sua distanza dal diritto perché è indifferente all’interesse, invece il patto d’onore dimostra la sua vicinanza al diritto perché è determinato dall’interesse. 

Una regola fondamentale del rapporto obbligatorio dispone infatti che la prestazione del debitore può essere legittimamente pretesa dal creditore non per il semplice fatto che è stata oggetto di una promessa, ma perché il creditore nutre un concreto interesse, anche non patrimoniale, all’esecuzione della prestazione. I giuristi si trovano a volte perplessi sulla possibilità che abbia importanza anche un interesse non patrimoniale, ma non dubitano della necessità che il sacrificio imposto al debitore sia funzionale a soddisfare un interesse del creditore. Nella realizzazione di quell’interesse è riposto il senso del sacrificio, le la ragione della tutela del creditore.

Ma la distinzione non è così netta da abbracciare tutte le evenienze che si presentano all’interprete. Da sola, infatti, non basta a distinguere la relazione amichevole dal gentlemen’s agreement con causa donativa. Occorre aggiungere, pertanto, un’altra osservazione: a differenza di quanto accade per il gentlemen’s agreement – sempre munito di una rilevanza economica apprezzabile – nella relazione cortese sono dedotte prestazioni non patrimoniali (e spesso nemmeno patrimonializzabili), oppure di valore economico se non simbolico, sostanzialmente irrisorio. È il costume sociale nel cui ambito si svolgono le relazioni di cortesia che ne segna le caratteristiche, ed esse sono integrate anche dalla inesistenza o dalla esiguità economica della prestazione: che può arrecare un vantaggio patrimoniale al beneficiario, ma che non determina mai un impoverimento apprezzabile in capo all’agente.

Se focalizziamo l’attenzione sul terreno comune su cui si collocano le due figure possiamo notare un’altra differenza. Il patto d’onore presuppone un contesto sociale definito da valori condivisi dalle parti; il patto è stretto in nome di quei valori; la violazione del patto è violazione di quei valori; tale inottemperanza cagiona la squalifica dell’inadempiente in seno al gruppo, e determinate sanzioni extragiuridiche. La relazione cortese non presuppone uno specifico contesto di riferimento ma soltanto la dinamica dei rapporti civili; il rispetto della promessa cortese esprime un comportamento normale di convenienza sociale, l’inadempimento un comportamento altrettanto normale. Può apparire sconveniente e maleducato, ma non disonesto e non immorale. Mentre la prestazione dedotta nel gentlemen’s agreement – in quanto, se non giuridicamente, socialmente sanzionabile – è produttiva di affidamento in capo al beneficiario, invece la prestazione dedotta nell’accordo cortese – in quanto neppure socialmente sanzionabile – è improduttiva di qualsiasi affidamento. Mentre nel gentlemen’s agreement le parti sono animate da un intento giuridico negativo, nell’accordo cortese esse sono animate da un intento negativo non solo sul piano giuridico ma anche sul piano sociale, perché non si limitano ad escludere la vincolatività giuridica del patto ma anche la sua vincolatività sociale. 

Eppure assistiamo ad accordi, in cui si fissano prestazioni che una parte deve ed esegue verso l’altra. La deontologia di una comunità ristretta, quella in cui opera il patto d’onore, si sovrappone al diritto, che è rifiutato nel suo ruolo di criterio per decidere sulle azioni. Il disinteresse e la semplice gentilezza possono invitare alla promessa e all’esecuzione dell’impegno in assenza di qualsiasi contesto di regole sufficientemente determinato, e secondo il temperamento di chi fa la promessa. 

Sta qui la distanza più grande tra impegno giuridico e impegno non giuridico. Questa distanza è data dalla mancanza di un interesse nell’eseguire la prestazione cortese. E infatti i dubbi sollevati dai rapporti di cortesia sorgono quando si segue lo schema di un contratto tipizzato e, più in generale, ogni volta che una promessa del genere può soddisfare interessi economici, e quindi giuridici, del beneficiario: come la promessa di custodire una cosa. In casi del genere, per la presenza di un interesse a ricevere la prestazione, sembra necessario considerare – anche in ragione dell’affidamento in al modo generato – la rilevanza giuridica (contrattuale) della relazione di cortesia.

Il diritto disciplina esclusivamente interessi. Nelle relazioni di cortesia manca di solito l’oggetto stesso da sottoporre a una disciplina di diritto. Chi esegue la prestazione cortese non coltiva interessi, ma segue il suo temperamento, e questo capita spesso anche a chi la riceve. 

Proprio sul terreno apparentemente più affidabile, il terreno del contratto, il diritto è rifiutato e negato o semplicemente ignorato. La promessa non giuridica (ma deontologica sociale morale) conquista uno spazio libero dal diritto, e restituisce il diritto all’interno dei suoi confini.