Di Tito Lucrezio Rizzo
È generalmente noto che se un comportamento è ritenuto riprovevole o contrastante con i valori assunti come essenziali dalla collettività il Legislatore lo configura come reato, poiché ne consegue l’efficacia deterrente che suole riconoscersi ai massimi livelli nella sanzione penale.
Se viceversa il comportamento non desta particolare allarme sociale, può apparire sufficiente la sanzione amministrativa, ferma restando – ovviamente – l’eventualità di una contestuale responsabilità civile e/o disciplinare.
Circoscrivendo il discorso alla relazione tra sanzione penale e sanzione amministrativa, ricordiamo che a seguito della” depenalizzazione” di vari reati minori (1), venuta incontro all’evoluzione del comune sentire ed alla necessità di perseguire con maggiore celerità ed efficacia i crimini più pericolosi per l’ordinato vivere civile, alcuni illeciti non costituiscono più reato.
La tutela dell’individuo contro l’onnipotenza dello Stato, risale alla “Magna Charta Libertatum” del 1215 e, più specificamente in campo criminale, ha trovato alta espressione nel principio del “Nullum crimen,nulla poena sine lege”, elaborato in Germania dal fondatore della scienza moderna del diritto penale, Anselmo Feuerbach (1775-1833).
Principio questo, poi recepito dal Codice penale francese del 1810, adottato l’anno seguente nel Regno d’Italia, e nel 1812 nel Regno di Napoli, per arrivare nel 1848 allo Statuto Albertino, che così recitava: “La libertà individuale è guarentita. Niuno può essere arrestato o tratto in giudizio, se non nei casi previsti dalla legge e nelle forme che essa prescrive”.
Del pari il codice Zanardelli sanciva che: “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite” (art.1).
L’art. 2 di tale codice così proseguiva: “Nessuno può essere punito per un fatto che secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisca reato, e, se vi sia stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori siano diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato”.
La “ratio” dell’art. 2 c.p., espressivo del “favor rei”, si ricava dalla relazione al progetto definitivo del codice Zanardelli, dove si legge: “Ove si applicasse l’antica legge più severa, si renderebbe la medesima operativa oltre i limiti del suo impero, e quelli fissati dalla nuova legge per tutto quanto eccedesse la sanzione di quest’ultima, con l’ingiusto risultato di gravare la mano sul colpevole oltre la misura
ormai dal legislatore riconosciuta sufficiente alla repressione e persecuzione di quel dato reato. Se poi si applicasse la nuova legge più severa, si renderebbe questa retroattiva per tutto quell’eccesso di rigore non sanzionato dalla legge vigente al tempo del commesso reato, e si incorrerebbe nell’ingiustizia di infliggere una pena superiore alla minacciata in quel tempo; cioè eccedente limiti entro i quali, al momento del fatto, lo Stato si era imposto di circoscrivere il magistero punitivo”.
Il codice Rocco, tuttora vigente, mantenne nella formulazione degli artt. 1 e 2 c.p.- sostanzialmente restando inalterato anche l’impianto lessicale del precedente codice Zanardelli – princìpi in parte analoghi a quelli contenuti dal richiamato art. 26 dello Statuto, così recitando: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza, se non nei casi previsti dalla legge”. Ad ulteriore tutela dell’individuo “in bonam partem” interviene altresì l’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale, che vieta l’analogia in campo penale, per evitare un’indebita estensione di norme punitive a casi non espressamente contemplati.
Tutto quanto si è ritenuto fino ad ora utile di premettere, serve a far luce su alcune residue incongruenze dovute all’incompleta applicazione dell’invocato principio del “favor rei”, paradossalmente proprio a quelle sanzioni amministrative che già di per sé sono rivelatrici di una politica di minor rigore punitivo, rispetto alle “sorelle maggiori” operanti in materia penale.
Una prima innovazione venne introdotta dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, che in sede di riordino del sistema penale, provvide ad introdurre il principio di legalità anche per le sanzioni amministrative, disponendo all’art. 1: “Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative, se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni amministrative, si applicano soltanto nei casi e per i tempi in
esse considerati”.
Per un’incomprensibile “svista”, il Legislatore ha purtroppo preso in considerazione solo l’aspetto della irretroattività di una nuova norma incriminatrice, tralasciando quello altrettanto rilevante di una nuova norma che abroghi o riduca la portata di una sanzione amministrativa già esistente.
A livello più generale, viceversa, nell’interpretazione dell’art. 1 della citata legge n. 689/81, la costante giurisprudenza della Suprema Corte (1) e del Consiglio di Stato ha ritenuto di respingere la tesi che per le sanzioni amministrative, potesse trovare compiuta recezione la regola del favor rei(2)
In conseguenza di siffatta interpretazione limitativa, è venuta a radicarsi acriticamente la tesi giurisprudenziale giusta la quale l’illecito amministrativo resta comunque disciplinato alla legge del tempo del suo verificarsi, con la conseguenza dell’ inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole, pure in presenza della fattispecie di illeciti amministrativi derivanti dalla depenalizzazione di pregressi reati. Va da sé che in tal caso si verifica un effetto paradosso: se un dato comportamento, già configurato come reato, in virtù di una legge penale successiva più favorevole, cessa dall’essere tale, viene meno la correlata pena; se, viceversa, il medesimo comportamento sin dall’origine, o in seguito a depenalizzazione per il suo minore disvalore sociale viene configurato come illecito amministrativo, detto comportamento dovrà continuare – incredibilmente- ad essere perseguito.
Detto impianto interpretativo collide con la logica e con il comune sentimento della giustizia, intesa in senso formale e non sostanziale.
La ragione di tale restrittività esegetica è stata fornita dalla Cassazione, in quanto per le norme di carattere sanzionatorio, non è ammessa l’applicazione analogica (art. 14 preleggi) e, quindi, non si dovrebbero (data la specialità della materia) applicare analogicamente i commi 2 e 3 dell’art. 2 del codice penale.
Un barlume di luce – purtroppo limitato alla materia tributaria- ha spinto il Legislatore a cambiare indirizzo a 360 gradi, per cui con l’art. 1 della L. 7 novembre 2000 n. 326, è stato introdotto nel testo unico delle leggi valutarie un nuovo art. 23-bis, il quale così testualmente recita: “Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile, salvo che la sanzione sia stata irrogata con provvedimento definitivo… Se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo”.
Note:
1) Cass. civ., sez. lav., 17 agosto 1998, n. 8074, ne Il Cons. Stato 1999, II, 40. Per più ampi riferimenti giurisprudenziali cfr. D. Bezzi, Illeciti e sanzioni amministrative, Feltrinelli, Milano 2000, 9 ss.
2) Cons. Stato, V sez., 29 aprile 2000, n. 2544, ne Il Cons. Stato 2000, I, 1060.
Sono acriticamente rimaste fuori da questa logica inversione di tendenza molte altre materie, come la circolazione stradale, la sanità , la previdenza, il commercio etc…. , con una conseguente disarmonia ordinamentale
In un secondo momento, la L. 21 novembre 2000, n. 342, contenente il collegato fiscale alla Finanziaria del 2000, ha fornito un’interpretazione “autentica” del D.P.R. di riferimento, così precisando: “L’art.1 del D.P.R. 10 novembre 1997, n. 442, concernente l’opzione e la revoca di regimi di determinazione dell’imposta o di regimi contabili, si intende applicabile anche ai comportamenti concludenti tenuti dal contribuente anteriormente alla data di entrata in vigore del citato decreto n. 442 del 1997 “.
I nuovi orientamenti legislativi sono stati naturalmente recepiti anche dalla giurisprudenza, per cui la Sezione tributaria della Corte di Cassazione con sentenza n. 5931/01, ha chiarito-tra l’altro- che il cosiddetto Statuto del contribuente, è uno strumento di garanzia del contribuente medesimo e quindi, mentre serve ad arginare il potere dell’Erario nei confronti del soggetto più debole del rapporto di imposta, non può ostacolare l’approvazione di disposizioni che siano a favore del contribuente medesimo, che si risolvano eventualmente in un’ulteriore autolimitazione del potere legislativo: in tale ottica andava letta l’evocata L. 21 novembre 2000, n. 342.
In tempi più recenti la Cassazione Civile, sez. tributaria, con sentenza 24/01/2013 n° 1656 (3), ha affermato il principio che in ogni stato e grado del giudizio, anche d’ufficio, il giudice tributario può applicare un regime sanzionatorio più favorevole al contribuente, quando la legge in vigore al momento dell’accertamento e quelle successive, prevedano sanzioni di diversa entità(4)
La suprema Magistratura ha altresì chiarito, sulla scia di un affermato orientamento giurisprudenziale, la rilevabilità anche d’ufficio del favor rei, in ogni stato e grado del giudizio, a meno che non sia divenuto definitivo il provvedimento impugnato.
La logica della legislazione e della giurisprudenza tributaria, non ricorre più –ad esempio- nel campo della circolazione stradale, dove citiamo -a titolo di esempio- la sentenza 3 giugno 2010, n. 3497 della Sezione VI del Consiglio di Stato, in merito alla sanzione amministrativa della decurtazione di 20 punti dalla patente di guida di un automobilista per eccesso di velocità, occorso in data 21 luglio 2003, mentre con successiva normativa era stata disposta la decurtazione dimezzata per le patenti rilasciate dal 1 ottobre 2013. Ove fosse stato applicato il favor rei invocato dall’interessato, avrebbe dovuto comminarsi la sanzione più mite sopraggiunta; tuttavia i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto non estensibile retroattivamente detto principio, evocando a tal fine la giurisprudenza della Corte costituzionale (5), la quale aveva ritenuto che l’interpretazione rigoristica fosse conforme ai principi dell’ordinamento costituzionale, in quanto in materia di sanzioni amministrative non era dato rinvenire, in caso di successione di leggi nel tempo, un vincolo imposto al Legislatore nel senso dell’applicazione della legge posteriore più favorevole. Rientrava nella discrezionalità del Legislatore medesimo- secondo la Consulta- e nel rispetto del limite della ragionevolezza, modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore(era quest’ultimo il caso delle sanzioni tributarie) a seconda delle materie oggetto di disciplina.
Note:
3) Cfr. Altalex,, 29.05. 2013. Nota di M. E. Bagnato
4) In dettaglio: la Suprema Corte ha precisato che: “costituisce ius receptum il principio secondo cui, in forza dello ius superveniens più favorevole – correlatale anche allo Statuto del contribuente – può affermarsi che, in tema di sanzioni tributarie, alla abrogazione del principio di ultrattività delle disposizioni sanzionatorie è subentrato il principio del favor rei nella sua duplice prospettazione: nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che secondo la legge posteriore non costituisce violazione punibile; se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa si applica la legge più favorevole
5) Cfr. tra le altre, ordinanza n. 140/2002
Un’ulteriore materia assai controversa, maggiormente nota al vasto pubblico più per le polemiche politiche che ne sono derivate, che per la “peculiarità“ del suo singolare impianto tecnico-giuridico, è quella del D. Lvo 31 dicembre 2012, n. 235(6), meglio nota come Legge Severino, giusta la quale –ex art.1 – non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per associazione a delinquere, associazione di tipo mafioso, sequestro di persona, reati con finalità di terrorismo; per reati contro la Pubblica Amministrazione, quali peculato, corruzione, concussione; o, in ultimo, per reati dolosi per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni.
Le medesime condizioni ricorrono, ex art.4, per l’incandidabilità alla carica di membro del Parlamento europeo spettante all’Italia; nonché, ex art.6, per l’assunzione e lo svolgimento di incarichi di governo nazionale.
Per l’incandidabilità alle cariche elettive regionali (art.7)ed a quelle degli altri Enti locali territoriali(art.10)- vale a dire Comuni, Province e Circoscrizioni- il Legislatore sceglie un elenco in gran parte simile a quello fornito all’art.1, comunque ancorando nuovamente la preclusione in parola ad una sentenza definitiva.
Il “cambio di registro” rispetto alle norme di riferimento concernenti il Parlamento nazionale, avviene però con l’art.8 in tema di Sospensione e decadenza di diritto per incandidabilità per le cariche regionali, ed al successivo art.11 per gli amministratori locali, in quanto nelle more processuali dell’accertamento definitivo dei reati indicati all’art.7, tutti gli appartenenti a dette categorie restano sospesi in una sorta di limbo, a far data già dalla prima sentenza di condanna, ancorché impugnabile.
A giustificazione della retroattività della legge in discorso, taluni esegeti hanno affermato che la decadenza è una sanzione amministrativa e non penale; ma anche volendola così caratterizzare, non può essere disatteso il principio enunciato in via generale dall’art.25, 2°c, cost., giusta il quale nessuno può essere punito se non in base ad una legge antecedente al fatto commesso(7).
Che il principio di tassatività, e quindi di non retroattività, riguardi anche il campo amministrativo, può evincersi altresì dal successivo 3 c., che testualmente recita: “Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”. Dato che le misure di sicurezza sono sanzioni amministrative(8), bisognerebbe argomentare che la guarentigia costituzionale valga solo per esse, e non pure per le altre sanzioni aventi la medesima natura amministrativa.
Ove ciò non bastasse, va rammentato che la legge Severino deve ottemperare a quanto disposto in via generale dall’articolo 11 delle Disposizioni preliminari alla legge in generale, che testualmente recita: «La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo».
Osserviamo pertanto in linea di principio che il noto divieto di analogia, ove non si voglia restare ancorati a quello che è stato definito “gretto formalismo”, mira a tutelare l’individuo da restrizioni non testuali e non a privarlo della estensione di guarentigie previste in suo favore in campo penale o amministrativo.
Note:
6) Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità- c.d. Legge Severino, in G.U. n. 3 del 4.01 2013 –
7) Per un commento esaustivo dell’art.25 cost. cfr. M.D’ Amico, G. Arconzo, ad vocem, ne La Costituzione italiana, Commento agli artt.1-54, UTET, 2007
8) A. Rocco evidenziò che mentre le pene sono mezzi repressivi, le misure di sicurezza sono mezzi preventivi della criminalità, e non si ricollegano al sistema di diritto penale, ma a quello di diritto amministrativo. Così A. Tesauro, “Misure di sicurezza”, in Enciclopedia italiana
In conclusione, ricordando l’antica affermazione dei giuristi classici “Ubi eadem ratio, ibi eadem dispositio”, ci sia consentito proporre che, nelle more di una riforma legislativa che il Parlamento dovrebbe operare estendendo il “favor rei” a tutti gli illeciti amministrativi indistintamente, nell’immediato la giurisprudenza possa efficacemente colmare la lacuna, estendendo analogicamente anche ad altri settori il “favor rei” introdotto in materia valutaria e fiscale .
F.P. Sisto, Presidente della commissione Affari costituzionali della Camera (9), affermò nel 2013 : «L’ incandidabilità che altro è se non una misura punitivo-afflittiva? La Corte ci dice che queste sanzioni possono essere chiamate come vogliono, amministrative o penali, ma non possono mai essere retroattive».
Del pari il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, in merito alla irretroattività delle sanzioni amministrative, ebbe così a chiarire(10):”Anche per le sanzioni amministrative la retroattività è preclusa dall’art 1 della legge 689/81″ […]Ancor di più dopo la legge sulla responsabilità degli enti, la 231/2001, la quale dispone, all’art 2, che le sanzioni amministrative debbano essere espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto. Se questa garanzia vale per le società a maggiore ragione vale per gli individui. E con questo il discorso dovrebbe esser chiuso. O meglio, dovrebbe essere riaperto con un’interpretazione autentica della legge o con una pronunzia della Corte Costituzionale”.
Nella sua Relazione sull’attività del 2014, il presidente della Corte costituzionale, A. Criscuolo, volle affrontare espressamente anche il tema delle sanzioni amministrative, suscitando vivo interesse anche per le possibili ricadute “politiche”, dato che investiva l’incandidabilità dell’ex premier Berlusconi.
«Tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo- affermò con chiarezza il Criscuolo- devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto, e quindi anche al cosiddetto “favor rei”.
V. Maiello, Ordinario di diritto penale all’Università di Napoli Federico II, sulla medesima falsariga recentemente ha così chiarito(11) :”«La legge, con i meccanismi di sospensione e di incompatibilità da essa configurati, mi pare sia il frutto di un’onda emotiva che era particolarmente forte quando il testo è stato approvato, inserendosi di fatto in un contesto di complessivo inasprimento delle pene […]Dopo di che, però, sulla legge Severino probabilmente andrebbe fatta una riflessione un po’ più ampia che deve tenere conto del fatto che essa prevede una serie di sanzioni a cui non si può negare il carattere dell’ afflittività. Se dunque hanno una natura punitiva, è inevitabile che finiscano per essere attratte nell’ orbita delle garanzie che, secondo la Corte europea dei diritti dell’ uomo, vincolano il legislatore». Infatti- proseguì il giurista- «Secondo la Corte europea dei diritti dell’ uomo, tutte le sanzioni anche se qualificate non penali dal legislatore nazionale, che hanno un carattere di afflittività e marcano una natura punitiva, sono presidiate dalle garanzie tipiche della legalità: dalla irretroattività “in malam partem” (cioè sfavorevole) alla presunzione di non colpevolezza e così via».
P. Cerbo ,Professore di Diritto Amministrativo all’Università Cattolica di Piacenza, ha ricordato che non conta più tanto la definizione formale di una sanzione (cioè se sia penale od amministrativa), quanto la sua intrinseca natura afflittiva, perché debba invocarsi per tute indistintamente il noto principio di nulla poena sine lege(12)
Note:
9) Cfr. A Marini, “Retroattività, la mappa delle interpretazioni”, nel Sole 24 Ore, 21.08.2013
10) F. Grilli “La legge Severino non è retroattiva Lo dice anche il procuratore Nordio, ne Il Giornale.it,08/09/2013
11) N. Santonastaso, “Maiello (Federico II): niente sospensione automatica, norme da modificare”, ne Il Mattino16.03.2015
12) Cfr. P. Cerbo, “La sanzione in diritto amministrativo”, in questa Rivista, n5 del2015, p.1240 segg.
Di tutt’altro avviso è la voce del Consiglio di Stato, il quale con sentenza 06/02/2013, n. 695 della Sez. V, in tema di ineleggibilità di un candidato alle elezioni regionali del Molise, ricordò un precedente penale per abuso di ufficio accertato con sentenza definitiva nel 2001 a carico del ricorrente interessato. La nuova norma sull’ineleggibilità da quest’ultimo considerata sanzionatoria, ad avviso del Consiglio di Stato non era né di natura penale, né amministrativa, né punitiva in senso lato, e dunque in eventuale contrasto con il principio di irretroattività , ricavabile dalla Carta Costituzionale e dalle disposizioni della CEDU sull’irretroattività delle norme penali e, più in generale, dalle disposizioni sanzionatorie ed afflittive.
La nuova disposizione sull’ineleggibilità contemplava casi di non candidabilità che il Legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, aveva ritenuto di configurare in relazione al fatto che l’aspirante candidato avesse subito condanne in esito a determinate tipologie di reato caratterizzate da uno speciale disvalore.
Il fine primario perseguito- proseguì il Collegio- era quello di allontanare dallo svolgimento del rilevante munus pubblico i soggetti la cui radicale inidoneità fosse stata conclamata da irrevocabili pronunzie di giustizia.
In tale quadro, la condanna penale irrevocabile era presa in considerazione come mero presupposto oggettivo cui era ricollegato un giudizio di “indegnità morale” a ricoprire determinate cariche elettive: la condanna stessa era quindi configurata alla stregua di “requisito negativo” o “qualifica negativa” ai fini della capacità di partecipare alla competizione elettorale e di mantenere la carica(13).
Non era infine paventabile il profilo di irragionevolezza collegato alla mancata previsione- quanto alle elezioni regionali- di un limite temporale analogo a quello fissato con riferimento all’incandidabilità alla carica di parlamentare italiano ed europeo, posto che- argomentò il collegio giudicante-“ la diversità delle elezioni e delle cariche non consentono di sindacare l’apprezzamento discrezionale operato dal legislatore nel quadro di una disciplina complessivamente eterogenea, anche sul piano sostanziale, delle fattispecie de quibus.”
Quest’ultima osservazione ascrive al Legislatore ordinario una discrezionalità che, sfuggendo ad ogni riscontro logico-argomentativo da parte dell’interprete, sconfina nell’arbitrarietà vera e propria, risolvendosi nell’iniquità della normativa nel suo insieme, sotto molteplici profili, in primis quello della violazione dell’art.3 Cost.
Né va sottaciuto che il reato definito con sentenza di condanna, non può sortire ulteriori effetti negativi per effetto di una nuova legge che viene, di fatto, a costituire una sorta di pena infinita per chi ha già pagato il suo debito con la giustizia. Il ritenere che un condannato debba per sempre essere considerato una persona moralmente indegna, significa disconoscere l’efficacia rieducativa della sanzione sancita dalla stessa Costituzione.
Un filone rigoristico si conferma anche nella sentenza n. 24111 del 12 Novembre 2014 della Corte di Cassazione , giusta la quale è stato ribadito il principio che”Non è possibile applicare una normativa amministrativa, maggiormente garantista per l’interessato, sopravvenuta in corso di causa o in un momento successivo la commissione dell’illecito “
Note: “Alla luce della ratio della normativa come sopra individuata- argomentò il Collegio- non appare, invero, irragionevole la prevista incandidabilità di chi abbia riportato una condanna precedente all’entrata in vigore dello jus superveniens: costituisce, infatti, frutto di una scelta discrezionale del legislatore, certamente non irrazionale, l’aver attribuito all’elemento della condanna irrevocabile per determinati reati una rilevanza così intensa, sul piano del giudizio di indegnità morale del soggetto, da esigere, al fine del miglior perseguimento delle richiamate finalità di rilievo costituzionale della legge in esame- connesse ai valori dell’imparzialità, del buon andamento dell’amministrazione e del prestigio delle cariche elettive – l’incidenza negativa sulle procedure successive anche con riguardo alle sentenze di condanna anteriori alla data di entrata in vigore della legge stessa.:
In merito alla legge Severino, la Corte Costituzionale, con sentenza 20 ottobre 2015 n. 236 (14) , nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.11della medesima, in merito alla “Sospensione e decadenza di diritto degli amministratori locali in condizione di incandidabilità”, ha deciso sulla questione sollevata nel giudizio promosso dal Sindaco di Napoli contro il Ministero dell’Interno, per l’annullamento del decreto di sospensione dalla sua carica, per effetto di una condanna pronunziata in primo grado sul reato di abuso di ufficio.
Il TAR aveva sospeso provvisoriamente gli effetti del provvedimento impugnato, fino alla «ripresa» del giudizio cautelare successiva alla definizione della questione di legittimità costituzionale, disponendo altresì la sospensione del giudizio. Il TAR aveva evidenziato che la sospensione era stata decisa a seguito e per effetto di una condanna penale non definitiva, e non di una condanna irrevocabile, argomentando che «una lettura costituzionalmente orientata del dato normativo” non autorizzava l’interprete a presumere la sussistenza di una situazione di indegnità morale che legittimasse l’inibizione dell’accesso ad una carica pubblica o la sua perdita, in tale situazione.”
I dubbi di legittimità costituzionale dell’art.11 per violazione del divieto di retroattività, si fondavano su due presupposti: il primo era la «natura sanzionatoria dell’istituto della sospensione»; il secondo l’«efficacia retroattiva dell’istituto della sospensione dalla carica, applicato in presenza di una condanna penale non definitiva».
La discrezionalità del Legislatore , osservava ancora il TAR, «non può spingersi […] fino al punto di negare natura di vera e propria sanzione ad istituti tanto incisivi sull’esercizio di un diritto costituzionale, quale quello di accesso alle cariche pubbliche di cui all’art. 51 della Carta».
Vi era una «inderogabilità assoluta del principio di irretroattività nell’ambito di istituti e regimi in buona parte assimilabili alle sanzioni penali».
La Consulta , viceversa, ha ricordato che- anche in base alla propria pregressa giurisprudenza su norme di legge costituenti altrettanti precedenti della c.d. Legge Severino- andava escluso che le misure della incandidabilità, della decadenza e della sospensione avessero carattere sanzionatorio (15), dovendosi bensì ritenere conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento.
In sostanza il Legislatore, operando le proprie valutazioni discrezionali, aveva ritenuto che, in determinati casi, una condanna penale precludesse il mantenimento della carica, dando luogo alla decadenza o alla sospensione da essa, a seconda che la condanna fosse definitiva o non definitiva. La sospensione- proseguiva la Consulta- era una «misura sicuramente cautelare».
In ordine al problema della retroattività, il TAR aveva osservato che la candidatura era avvenuta nel 2011, e che dunque a mandato già in corso era intervenuta una nuova “causa ostativa” alla permanenza in carica (la condanna per abuso d’ufficio), introdotta con il d.lgs. n. 235 del 2012. Ma la Corte, negando la natura sanzionatoria, aggirava la questione dell’ irretroattività.
Note:
14) Depositata in Cancelleria il 19. 11. 2015.
15) Cfr. le sentenze n. 25 del 2002, n. 132 del 2001, n. 206 del 1999, n. 295, n. 184 e n. 118 del 1994. Anche la giurisprudenza comune aveva escluso che le conseguenze preclusive del mantenimento di determinate cariche pubbliche, derivanti dalle condanne penali in base al d.lgs. n. 235 del 2012 e alle disposizioni di legge che lo avevano preceduto, a partire dall’art. 15 della legge n. 55 del 1990, avessero carattere sanzionatorio: Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 27 maggio 2008, n. 13831; Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 21 aprile 2004, n. 7593; Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 2 febbraio 2002, n. 1362; Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 26 novembre 1998, n. 12014; Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 29 ottobre 2013, n. 5222; Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 6 febbraio 2013, n. 695.
Inoltre essa aveva argomentato che la permanenza in carica di chi fosse stato condannato anche in via non definitiva per determinati reati che offendevano la Pubblica Amministrazione” [poteva] comunque incidere sugli interessi costituzionali protetti dall’art. 97, secondo comma, Cost., che affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici in modo che siano garantiti il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, e dall’art. 54, secondo comma, Cost., che impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche «il dovere di adempierle con disciplina ed onore».
Sicché il bilanciamento dei valori coinvolti effettuato dal Legislatore “non si appalesa[va] irragionevole, essendo esso fondato essenzialmente sul sospetto di inquinamento o, quanto meno, di perdita dell’immagine degli apparati pubblici, che può derivare dalla permanenza in carica del consigliere eletto, che abbia riportato una condanna, anche se non definitiva, per i delitti indicati e sulla constatazione del venir meno di un requisito soggettivo essenziale per la permanenza dell’eletto nell’organo elettivo”».(16)
“Di fronte a una grave situazione di illegalità nella pubblica amministrazione- argomentava ancora la Corte costituzionale- infatti, non è irragionevole ritenere che una condanna (non definitiva) per determinati delitti (per quanto qui interessa, contro la pubblica amministrazione) susciti l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica, per evitare un “inquinamento” dell’amministrazione e per garantire «la “credibilità” dell’amministrazione presso il pubblico, cioè il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione, che può rischiare di essere incrinato dall’”ombra” gravante su di essa a causa dell’accusa da cui è colpita una persona attraverso la quale l’istituzione stessa opera» (17) . Tali esigenze sarebbero vanificate se l’applicazione delle norme in questione dovesse essere riferita soltanto ai mandati successivi alla loro entrata in vigore.”
Così come la condanna irrevocabile poteva giustificare la decadenza dal mandato in corso, per le stesse ragioni la condanna non definitiva poteva far sorgere l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente l’eletto da tale mandato, sicché si doveva concludere che la scelta operata dal Legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità non avesse superato i confini di un ragionevole bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco, secondo la Consulta.
Pertanto la medesima dichiarò infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235
Non possiamo esimerci dal notare conclusivamente, che ove anche si accettasse la natura di provvedimento cautelare per quello della sospensione dalla carica di amministratore locale, permangono due macroscopici rilievi critici:
1)L’evocata indegnità morale evocata dalla Consulta, così come dal Consiglio di Stato, dovrebbe vieppiù essere ostativa per i membri del Parlamento nazionale, come di quello europeo, essendo essi latori di istanze collettive di livello ben più alto rispetto a quelle di cui sono espressivi gli amministratori degli enti territoriali
2) la misura cautelare, nel caso di specie, sarebbe comunque anomala, in quanto non prevista tra quelle contemplate nell’elenco contenuto nella parte prima, libro quarto, del Codice di procedura penale, con doveroso carattere di tassatività e di esaustività.
Note:
16) V. al riguardo anche la sentenza n. 352 del 2008; nonché le sentenze n. 118 del 2013, n. 257 del 2010, n. 25 del 2002, n. 206 del 1999, n. 141 del 1996).
17) Viene testualmente richiamata al riguardo la sentenza n. 206 del 1999