Roberta Travia, Università “Mediterranea” Reggio Calabria

Sommario: 1. La legge sulla regolamentazione delle unioni civili e disciplina delle convivenze. – 2. La convivenza atipica. – 3. I nuovi contratti di convivenza. -4. Il regime dei beni e degli acquisti. -5. Nullità del contratto di convivenza e recesso. – 6. Conclusioni.

1. La legge sulla regolamentazione delle unioni civili e disciplina delle convivenze.

La famosa L. 20 maggio 2016, n. 76, nota come “legge Cirinnà” si, occupa di disciplinare la convivenza tra due persone.

Sudetta legge ha suscitato molteplici dubbi sin dal principio.

La legge Cirinnà è composta di un unico articolo: dal 36° comma al 65° dell’art. 1 viene disciplinata la convivenza; nei primi 35 commi viene disciplinato l’istituto dell’unione civile che riguarda solo persone dello stesso sesso.

In realtà, la convivenza aveva già ricevuto in passato più di un riconoscimento a livello legislativo, ma mai in un testo normativo specificamente dedicato a tale fenomeno, bensì in singole disposizioni di legge, già richiamate, e volte a disciplinare detto rapporto con le stesse norme o con norme analoghe a quelle relative all’ unione fondata sul matrimonio, e ciò a dimostrazione che al nostro legislatore non era sfuggita, neppure in passato, la rilevanza sociale di tale fenomeno.

In particolare, il comma 36 dell’art. 1 fornisce la definizione di conviventi di fatto: “si intendono per ‘conviventi di fatto’ due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.

Si può affermare che lo scopo è di fissare i presupposti per definire l’istituto giuridico della convivenza, il deficit di tale definizione è di non riuscire a racchiudere tutte le possibili fattispecie di convivenza che nella realtà possono venirsi a creare.

La sua applicazione, pertanto, risulta particolarmente ristretta.

Vediamo i presupposti.

Innanzitutto è richiesto che entrambi i conviventi siano maggiorenni, perciò se anche uno solo dei conviventi risulta essere minorenne non può trovare applicazione la disciplina di cui alla L. n. 76/2016.

La convivenza, inoltre, deve fondarsi su legami affettivi di coppia e che i conviventi non siano legati da rapporti di parentela, affinità o adozione.

Sul punto, c’è da evidenziare che la norma in commento non pone, in realtà, limiti al grado del rapporto di parentela e/o affinità rilevante; come per esempio avviene con l’istituto del matrimonio di cui all’art 87 C.c..

Infine, l’ultimo requisito è che i conviventi non siano già legati da matrimonio o da unione civile.

Il comma 57 specifica che “in presenza di un vincolo matrimoniale o di una unione civile, nonché dal successivo comma 59, secondo il quale il contratto di convivenza si risolve per “matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona” si avrà nullità insanabile del contratto di convivenza.

Si evidenza che la disciplina in commento non trova applicazione neanche in caso rapporti di convivenza tra soggetti di cui uno o entrambi siano separati dai rispettivi coniugi, non sussistendo il presupposto della inesistenza del legame di matrimonio o unione civile di cui comma 36.

Bisogna sottolineare, inoltre, che il comma 36 non prevede tra gli elementi costitutivi della convivenza la coabitazione o la comune residenza anagrafica; per il comma 36 sono conviventi di fatto due persone unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza, morale e materiale, circostanza che potrebbe verificarsi anche a prescindere da una coabitazione stabile, si pensi ai soggetti che per ragioni di lavoro vivano in Comuni differenti per poi ritrovarsi e “coabitare” nei fine settimana o in alcuni periodi dell’anno o ai soggetti che pur coabitando per la maggior parte dell’anno, per le ragioni più svariate, decidano di mantenere residenze anagrafiche distinte.

Pertanto, si può osservare come, il rapporto di convivenza così come delineato dalla L. n. 76/2016, è un rapporto di “fatto” che sussiste al solo verificarsi dei presupposti indicati dal comma 36.

Sul punto la L. n. 76/2016 ha preferito non “istituzionalizzare” il rapporto di convivenza, valorizzando quello che è il comportamento, di fatto, tenuto dai conviventi.

Ovviamente questa scelta, se condivisibile in quanto coerente con la scelta fatta dai conviventi, i quali hanno scelto la mera convivenza in quanto non hanno inteso sottostare agli adempimenti formali tipici del rapporto di matrimonio o di unione civile, ha anche il suo “risvolto” negativo, perché la mancanza di atti costitutivi con relative loro registrazioni e/o pubblicazioni, potrebbe rendere non agevole la dimostrazione dell’esistenza del rapporto di convivenza.

Tale problema, invero, è stato affrontato dalla L. n.76/2016, all’art. 1 , comma 37, che a riguardo prescrive che, fermo restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4 e di cui all’art. 13, comma 1, lett. b), del regolamento di cui al D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223.

Perciò, ai sensi della L. n. 76/2016, il documento che attesta legalmente la convivenza è la certificazione anagrafica che deve essere rilasciata, su richiesta dell’interessato, dall’ufficio di anagrafe ai sensi dell’art. 33, D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223.

La scelta fatta dal legislatore di affidare la pubblicità del rapporto di convivenza ai registri dell’Anagrafe, desta però, più di una perplessità, in quanto la funzione primaria di questo ente, è quella di documentare il “movimento” della popolazione ed in particolare le sue variazioni numeriche.

Sarebbe stato più logico, affidare questa pubblicità, ai registri dello Stato Civile, la cui funzione, invece, è proprio quella di registrare atti e fatti giudici incidenti sullo status delle persone.

Va, comunque, ribadito, che l’iscrizione anagrafica di cui al comma 37 non ha efficacia costitutiva del rapporto di convivenza, che è e rimane un rapporto di fatto.

L’iscrizione anagrafica ha puramente valenza accertativa di un rapporto in essere.

Ne deriva che potrebbe sussistere un rapporto di convivenza, soggetto alla disciplina di cui alla legge in commento, anche laddove non sia possibile ottenere la suddetta iscrizione anagrafica, come nel caso, sopra esaminato, dei conviventi non coabitanti in maniera stabile o che mantengano, comunque, la loro residenza anagrafica in luoghi diversi.

Rimarrà, ovviamente, per questi soggetti, proprio perché non potranno ottenere la certificazione anagrafica di cui al comma 37, il problema della dimostrazione della sussistenza del loro rapporto.

2. La convivenza atipica.

La convivenza in passato era considerata un rapporto atipico, una volta tipizzato con la normativa in commento ci si chiede se possano rientrare nella previsione legislativa tutte le altre forme di convivenza che non possiedono i requisiti specifici richiesti dalla legge.

Difatti se si può discutere della perdurante rilevanza sociale e giuridica di una convivenza atipica, l’effetto sarà che potranno continuare a considerarsi del tutto leciti e meritevoli di tutela, come in precedenza, anche eventuali contratti regolatori degli aspetti patrimoniali di una convivenza atipica, e privi di taluno dei requisiti richiesti dalla nuova legge, per quelli regolatori degli aspetti patrimoniali della convivenza tipica.

L’ opinione prevalente, va nella direzione della perdurante rilevanza giuridica di una convivenza more uxorio irrispettosa dei requisiti previsti dalla nuova normativa. Conclusione coerente con l’impianto letterale della legge.

Analizziamo le singole problematiche.

Innanzitutto per ciò che concerne il requisito della forma: il contratto di convivenza deve avvenire con atto pubblico o scrittura privata autenticata (art. 1, comma 51) per i contratti di convivenza “tipica”, e teoricamente non imposto per i contratti di convivenza “atipica”.

Inoltre, l’art. 1 ai commi da 37 a 67 descrive i fattori costitutivi del nuovo istituto giuridico della convivenza, per far dipendere dalla ricorrenza di questi ultimi la conseguenza giuridica derivante dalla nascita di tale tipologia di rapporto; come ad esempio in caso di separazione.

La norma ha, perciò, funzione strumentale e non valore assiologico, descrivendo una fattispecie astratta e i suoi fattori costitutivi esclusivamente per far dipendere dalla ricorrenza di questi ultimi l’innesco della nuova disciplina.

Questo sta a significare che, il deficit di qualcuno di essi si riflette in negativo sul trattamento premiale nel senso che, ad esempio, cessata la convivenza e sussistendo lo stato di bisogno, potrà aver diritto agli alimenti ai sensi dell’art. 1, comma 65, solo il convivente che sia stato parte di un rapporto caratterizzato dai requisiti previsti dal cit. art. 1, comma 36.

Secondariamente e da un punto di vista logico, il solo fatto che sia introdotta una disciplina per regolamentare una situazione di fatto, in precedenza già di per sé meritevole di tutela giuridica, non può comportare la perdita sic et simpliciter di una simile rilevanza se le condizioni di fatto che l’avevano giustificata restano immutate. Pertanto, se prima della nuova legge, una convivenza more uxorio tra due soggetti di cui, uno separato giudizialmente, ma non divorziato, era comunque considerata espressione di formazione sociale rilevante ex art. 2 Cost., e il relativo giudizio di meritevolezza si concludeva in senso positivo, non si vede come tale valutazione possa oggi venire ribaltata solo perché, ai limitati fini dell’innesco della nuova disciplina, si richiede, tra l’altro, la libertà di stato matrimoniale.

Per di più, la norma che impone questo requisito, non può certo dirsi incorporante un divieto implicito di dar vita a convivenze che ne siano prive: un divieto del genere non si può evincere da una disposizione così strutturata quando si tratta di poteri di libertà rilevanti costituzionalmente, fondativi di una formazione sociale idonea allo sviluppo della personalità umana.

Del resto, e per venire ad uno degli elementi costitutivi della fattispecie ‘convivenza tipica’, senza del quale quest’ultima non è configurabile, e cioè alla dichiarazione anagrafica, le ragioni per le quali i conviventi potrebbero astenersi dall’effettuarla, possono essere le più varie e tutte meritevoli di apprezzamento, quale, ad esempio, l’esigenza di riserbo connessa a particolari vicende personali.

Si pensi ad una persona esposta politicamente.

In questi casi si stenta a credere che quel rapporto, sino ad oggi meritevole di, seppur limitata, tutela giuridica in quanto idoneo allo sviluppo della personalità umana, perda ora ogni rilevanza per il diritto.

Ulteriori conferme si ricavano allargando il discorso sul terreno delle altre forme di convivenza da ritenersi escluse dall’area operativa della nuova legge.

L’art. 1 al comma 36 si riferisce, quindi, solo a quelle convivenze che si caratterizzano per la presenza di legami affettivi di coppia escludendo tutti i tipi di rapporto non motivati o non fondati su tale presupposto.

Il nostro ordinamento giuridico lascia, pertanto, all’autonomia privata la regolamentazione di altre tipologie di convivenza non rientrati nella legislazione in commento; questo avviene soprattutto quando la convivenza non è ufficializzata nelle forme volute dalla legge con la dichiarazione anagrafica, o, più in generale, quando manca uno dei requisiti previsti dall’art. 1, comma 36, ma nonostante ciò meritevole di tutela dell’autonomia privata.

La nuova legge dirige la sua attenzione solo alla convivenza paraconiugale.

Ma, l’esistenza di un variegato atteggiarsi sociale del fenomeno della convivenza, non può essere precluso all’autonomia privata di dar vita, nell’ambito di queste altre forme di convivenza, ad un regolamento contrattuale dei loro rapporti.

La conclusione è, perciò, nel senso che continua a sopravvivere come fenomeno sociale non riprovato dall’ordinamento e idoneo allo sviluppo della personalità umana la convivenza more uxorio non esattamente ripetitiva degli elementi del nuovo modello e che continuerà ad essere regolata nei modi e nelle forme che, si è visto prima, il diritto vivente ha sino ad ora espresso.

Quindi accanto al contratto tipico di convivenza residua, tutt’ora, uno spazio autonomo in cui può operare un contratto atipico, pur esso regolatore dei rapporti patrimoniali della convivenza, seppur scollegato dalla disciplina apprestata per il primo.

Situazione che si verifica, o specificamente e principalmente quando la convivenza non è ufficializzata nelle forme volute dalla legge con la dichiarazione anagrafica, o, più in generale, quando manca uno dei requisiti previsti dall’art. 1, comma 36.

In conclusione, è possibili sostenere l’impossibilità di stipulare il contratto cui si collega la disciplina prevista dall’art. 1, commi 50-63, in assenza dei requisiti richiesti dalla legge, ma non l’impedimento alla stipula di un accordo che, seppur estraneo alla nuova disciplina, costituisca, come in passato, espressione lecita e meritevole di tutela dell’autonomia privata.

3. I nuovi contratti di convivenza.

Con l’entrata in vigore della legge sulle convivenze si credeva che venisse colmato un grande vuoto legislativo.

Purtroppo così non è stato; al contrario sono sorte molteplici problematiche irrisolte.

La legge n. 76/2016, prima di tutto, riconosce espressamente ai conviventi la facoltà di stipulare contratti di convivenza.

Il legislatore, si è più che altro, interessato della tipizzazione dei contratti di convivenza, di cui già ampiamente si parla in dottrina e giurisprudenza, nonché a limitarne la portata statuendo che lo stesso possa avere ad oggetto rapporti patrimoniali, senza fornire risposta alcuna, alle problematiche evidenziate da dottrina e giurisprudenza, nel corso degli anni in cui il fenomeno, della convivenza di fatto, si è sviluppato.

Con riguardo alle novità, in merito alle convivenze di fatto, tra le facoltà che la L. n. 76/2016 riconosce espressamente ai conviventi vi è quella di stipulare contratti di convivenza.

In particolare, al comma 50 dell’art. 1 viene statuita la possibilità di disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla vita in comune dei conviventi con la sottoscrizione di un vero e proprio contratto di convivenza.

In passato si ricorreva all’art. 1322, comma 2, c.c. perché si trattava di un contratto volto a perseguire interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

Si evidenzia che, comunque, la legge Cirinnà disciplina solo ed esclusivamente i rapporti patrimoniali tra conviventi, restando esclusa la disciplina dei rapporti personali o successori.

Ad esempio non sarà possibile disciplinare, con il contratto di convivenza, i rapporti strettamente personali, che attengono alla sfera dei diritti individuali e che non possono costituire oggetto di negozi giuridici, nonché i rapporti successori.

Nel nostro ordinamento infatti vige il divieto dei patti successori e si può disporre dei propri beni solo con il testamento.

L’art. 458 c.c., infatti, stabilisce che “è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione”.

Nonostante queste lacune, la disciplina apprestata con la nuova legge è invece, più che esaustiva con riguardo a forma, condizione di opponibilità, contenuto, natura di actus legitimus, nonché conseguenza delle sue patologie, genetiche e funzionali.

Ai sensi dell’art. 1 comma 53, il contratto di convivenza può contenere: l’indicazione della residenza; le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune; modalità di ripartizione delle spese; prevedere l’obbligo a carico di uno e di entrambi i conviventi di prestazioni di fare o di dare.

L’obbligo di contribuire alle spese non trova fondamento nella legge, resta sempre una facoltà dei conviventi disciplinare tale aspetto.

Con riguardo alla disposizione in commento, che ricalca nella sua formulazione la disposizione dell’art. 143 c.c. dettata per i coniugi, ci si è chiesti se, nel fissare le modalità di contribuzione di ciascun convivente, debba necessariamente essere rispettato il principio di proporzionalità, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo, così come vale per i coniugi i quali, secondo l’opinione prevalente, non potrebbero derogare al principio di proporzionalità fissato dall’art. 143 c.c., in relazione a quanto anche disposto dal successivo art. 160 c.c..

Si ritiene al riguardo che i conviventi non siano tenuti al rispetto del principio di proporzionalità nel fissare i rispettivi obblighi di contribuzione alle necessità della vita comune, potendo gli stessi disciplinare come meglio credono le modalità di partecipazione ai bisogni comuni.

Per i coniugi, infatti, il criterio di contribuzione deriva direttamente dalla legge, ed i coniugi non possono derogare, pattiziamente ai diritti e doveri fissati dalla legge (art. 160 c.c.).

Per i conviventi nessun obbligo di contribuzione discende dalla legge; tutto è rimesso alla volontà delle parti, volontà da esprimere in un contratto di convivenza, con piena libertà, per gli stessi di disciplinare i reciproci rapporti nel modo considerato più opportuno.

Solo nell’ipotesi di prestazione d’opera all’interno dell’impresa familiare – previsto al comma 46 – ed in caso di cessazione della convivenza – di cui al comma 65 – la legge riconosce i diritti dei conviventi rispettivamente sul lavoro svolto e sugli alimenti.

Il comma 53 prevede, anche, che il contratto di convivenza può contenere la disciplina relativa al regime patrimoniale della comunione dei beni; in tale caso, saranno oggetto della comunione gli acquisti effettuati da due conviventi insieme o separatamente durante la convivenza e troveranno applicazione le norme dettate nella sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile.

Ivi, la scelta del regime patrimoniale della comunione dei beni va fatta con il contratto di convivenza.

Non si esclude però che possa essere stipulato un contratto di convivenza il cui unico contenuto sia proprio la scelta del regime della comunione dei beni.

Il contratto di convivenza dovrà essere trasmesso in copia a cura del Notaio rogante all’anagrafe entro i 10 giorni successivi alla sua stipulazione, ciò ai fini dell’opponibilità ai terzi.

Il regime patrimoniale della comunione dei beni scelto nel contratto di convivenza, può essere revocato in qualunque momento della convivenza con un nuovo contratto avente la stessa forma del contratto originario e deve seguire le stesse formalità di pubblicità.

Circa la scelta della disciplina da seguire, ai fini della regolamentazione dei propri rapporti patrimoniale, le alternative per i conviventi sono soltanto due: la disciplina ordinaria che vale per ogni persona che non risulti coniugata o unita civilmente, in base alla quale l’acquirente diviene unico titolare dei beni che acquista; ovvero il regime della comunione dei beni, che richiede una scelta specifica espressa in un contratto di convivenza.

Deve escludersi, invece, la possibilità di accedere ad altri regimi patrimoniali previsti invece per i coniugi o gli uniti civilmente, quali la comunione convenzionale o la separazione dei beni.

Deve escludersi anche la possibilità di stipulare un fondo patrimoniale; il comma 53 infatti richiama solo le norme della Sezione III Capo VI titolo VI del Libro primo del codice civile.

La situazione che abbiamo definito come “disciplina ordinaria” non costituisce per i conviventi il regime di “separazione dei beni”, in quanto istituto applicabile solo ai coniugi o agli uniti civilmente.

Pertanto quando il comma 54 parla di “modifica” del regime scelto nel contratto di convivenza in realtà più che di una modifica si tratta di una revoca della scelta fatta con ritorno a quella che è la disciplina ordinaria applicabile a qualsiasi soggetto che non sia coniugato o unito civilmente.

In definitiva, se si condivide l’idea secondo cui l’art. 1, comma 53, ha un contenuto più ampio di quello apparente e non restringe la capacità regolatrice dell’autonomia privata, il contratto di convivenza potrà contenere, in aggiunta, tutte le clausole che siano, in un modo, o nell’altro, in grado di regolamentare i rapporti patrimoniali, comprese quelle con le quali si pattuisca il pagamento di una somma di danaro al momento della cessazione della convivenza, anche apponendo condizioni riflettenti la modalità della sua cessazione, così diversamente statuendo a seconda che cessi per volontà concorde, o unilaterale.

Il contenuto di un contratto di convivenza, così come disciplinato all’art. 1, comma 53, L. n. 76/2016, non ha carattere tassativo; la norma si limita ad individuare alcuni aspetti che il contratto può contenere, senza escludere che le parti possano disciplinare autonomamente altri aspetti fondamentali del rapporto.

Per ciò che concerne l’ipotesi della cessazione della convivenza viene esclusivamente previsto al comma 56 che “il contratto di convivenza non può essere sottoposto a condizione o termine”.

Tale disposto non restringe la capacità regolatrice dell’autonomia privata, il contratto di convivenza potrà contenere, in aggiunta, tutte le clausole che siano in grado di regolamentare i rapporti patrimoniali, quindi anche quelle con le quali si pattuisca il

Tali clausole possono essere previste nel contratto di convivenza sempre che non operino nel senso di sottoporlo a termini o condizioni, in tal caso si intenderebbero come non apposte.

È fatto, inoltre, divieto dei patti successori; mentre si ritiene lecita la pattuizione di concludere un contratto di assicurazione sulla vita a favore del convivente, trattandosi di un contratto a favore di terzi, che non contrasta col divieto dei patti successori.

Stesso discorso in caso di costituzione di una rendita vitalizia, o di un vitalizio alimentare, ai sensi dell’art. 1875 cod. civ.

Il comma 51 stabilisce la forma del contratto di convivenza, delle sue modifiche e della sua risoluzione; è stabilita, a pena di nullità, la forma scritta, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un Notaio o da un Avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico.

Sia l’atto pubblico che la scrittura privata autenticata costituiscono titolo esecutivo; in altri termini, il contratto di convivenza con forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, consente l’attivazione immediata della procedura di esecuzione forzata in caso di mancato adempimento da parte di uno dei conviventi degli obblighi assunti.

La scelta della forma del contratto di convivenza (atto pubblico o scrittura privata) dipende dal contenuto dello stesso.

Ai sensi del comma 52, per l’opponibilità ai terzi del contratto di convivenza, il Notaio che ha ricevuto l’atto in forma pubblica ovvero il Notaio o l’avvocato che ne hanno autenticato la sottoscrizione debbono provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli artt. 5 e 7 del regolamento di cui al D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223.

dispone l’art. 1, comma 52, L. n. 76/2016.

Stante il tenore letterale della norma, che parla di iscrizione “ai fini dell’opponibilità ai terzi”, deve ritenersi che la pubblicità prescritta da detta norma abbia natura di “pubblicità dichiarativa”.

L’iscrizione all’anagrafe rende, pertanto, il contratto di convivenza opponibile ai terzi, limitatamente, peraltro, a quelle pattuizioni per le quali tale opponibilità sia funzionale alla realizzazione degli interessi perseguiti.

Ad esempio tale opponibilità appare funzionale alla scelta del regime patrimoniale della comunione dei beni che, ai sensi del comma 53, lett. c), può essere contenuta nel contratto di convivenza.

Ovviamente non ha senso parlare di opponibilità ai terzi con riguardo a pattuizioni e/o indicazioni per le quali non si pone tale esigenza, come nel caso dell’indicazione della residenza, che pure, a norma del comma 53, lett. a), può essere contenuta nel contratto di convivenza.

Per tali disposizioni e/o indicazioni appare più corretto parlare di iscrizione del contratto all’Anagrafe ai fini della sua conoscibilità più che ai fini della sua opponibilità ai terzi.

Il Ministero degli interni, intervenendo sul punto, ha precisato che la registrazione del contratto di convivenza costituisce un adempimento nuovo, che l’ordinamento ha configurato quale base giuridica dell’opponibilità del contratto ai terzi e che in particolare l’ufficiale di anagrafe del Comune di residenza dei conviventi, ricevuta copia del contratto di convivenza trasmessa dal professionista, dovrà tempestivamente procedere a registrare nella scheda di famiglia dei conviventi oltre che nelle schede individuali, la data ed il luogo di stipula, la data e gli estremi della comunicazione da parte del professionista nonché ad assicurare la conservazione agli atti dell’ufficio della copia del contratto.

La disposizione in materia di forma, pur a fronte delle, appena esposte criticità, possiede, se non altro, l’unico pregio di porsi in controtendenza rispetto alla china, presa da una parte della dottrina, anche di quella più recente, circa la possibilità di desumere la conclusione di un contratto di convivenza dal comportamento dei partners, «come espressione di una loro concorde volontà attuosa».

In altri termini, secondo la teoria qui criticata, la semplice instaurazione di una convivenza more uxorio dovrebbe indurre a ritenere l’esistenza di un accordo implicito diretto, quanto meno, alla prestazione della contribuzione reciproca, se non alla ripartizione in misura uguale degli incrementi di ricchezza accumulati durante il ménage.

Quanto alle concrete possibilità di stipula di un contratto di convivenza non è poi del tutto convincente, e non sono mancati dubbi interpretativi, in merito alla possibilità, anche per i conviventi “non registrati”, di stipulare o meno un contratto di convivenza. In relazione a tale questione sono state prospettate due diverse soluzioni.

Per un verso è stato ipotizzato che il contratto di convivenza può essere stipulato solo da conviventi “registrati”, ossia iscritti tra le famiglie anagrafiche ai sensi dell’art. 4, D.P.R. n. 223/1989, come richiamato dal comma 37.

Tale soluzione è sostenuta, per ovvia coerenza, da chi ritiene la disciplina della L. n. 76/2016 (compresa quindi la disposizione del comma 50) applicabile solo ai conviventi il cui rapporto sia accertabile ai sensi del comma 37.

È, inoltre sostenuta anche da chi, pur considerando applicabile la disciplina dettata nei commi da 38 a 49 anche ai conviventi “non registrati”, ritiene per questi ultimi non possibile la stipula di un contratto di convivenza ex comma 50, in quanto vi sarebbe una stretta correlazione tra il comma 37, il comma 50 suddetto ed il successivo comma 52 il quale stabilisce che, ai fini dell’opponibilità ai terzi del contratto di convivenza, il Notaio che ha ricevuto l’atto in forma pubblica ovvero il Notaio o l’avvocato che ne hanno autenticato la sottoscrizione debbono provvedere a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe.

L’iscrizione del contratto di convivenza presupporrebbe la già avvenuta registrazione “anagrafica” della convivenza ai sensi del comma 37.

I conviventi “non registrati” non potrebbero, pertanto stipulare un contratto di convivenza ex comma 50, in quanto lo stesso non potrebbe a sua volta essere registrato presso i registri dell’Anagrafe; essi potrebbero, tutt’al più, stipulare contratti di convivenza “atipici”, non iscrivibili all’Anagrafe e non opponibili a terzi, ma con valenza puramente “interna” limitata ai rapporti tra conviventi.

Per altro verso, altra, e minoritaria dottrina, sostiene che, il contratto di convivenza può essere stipulato da tutti i conviventi che siano tali a mente del comma 36, e pertanto anche dai conviventi “non registrati” ossia che non siano iscritti tra le famiglie anagrafiche ai sensi dell’art. 4, D.P.R. n. 223/1989, come nel caso di conviventi che abbiano mantenuto diverse residenze anagrafiche.

4. Il regime dei beni e degli acquisti.

La legge Cirinnà, precisamente alla lett. c) del comma 53 e del successivo comma 54 dell’art. 1, disciplina il regime patrimoniale dei beni e degli acquisti operati in corso di convivenza.

Innanzitutto, è di tutta evidenza che la suddetta disposizione non prevede una elencazione delle varie tipologie di regime patrimoniale, però il comma 54 prevede la “possibilità” di modificare il regime scelto nel contratto di convivenza.

Sul punto, si sottolinea che la norma discorre di “possibilità” e non di “dovere” per le parti di scegliere il regime della comunione dei beni, pertanto viene da considerare che se non è fatto cenno nel contratto del regime, i conviventi opteranno per un contratto come per dire “senza regime”.

Pertanto, il regime di comunione legale solo a condizione che ciò sia stato espressamente pattuito nel contratto di convivenza redatto nei modi e nelle forme descritti dalla legge.

Detto ciò, non si possono non evidenziare i vuoti della legge in commento.

Innanzitutto, per ciò che concerne il sistema pubblicitario del contratto sul regime patrimoniale: il terzo non potrà in nessun caso venire a conoscenza della proprietà del bene, ovvero se risulta essere di proprietà esclusiva del suo dante causa/debitore piuttosto che in contitolarità con il convivente.

Non basta, ai fini della conoscibilità verso i terzi del regime della comunione dei beni, la trasmissione della copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe del contratto, si può dire che la sola ipotesi di sicura conoscibilità della comunione legale sarebbe la tempestiva trascrizione nei pubblici registri dell’acquisto di un bene, facendola ricadere nella comunione con il convivente.

Come detto, in ogni caso “Il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può essere modificato in qualunque momento nel corso della convivenza con le modalità di cui al comma 51”.

Il momento in cui il regime patrimoniale tra i conviventi inizia a produrre i suoi effetti è dato dalla data certa di costituzione del contratto di convivenza o dalla sua modifica. Il regime patrimoniale tra i conviventi ha efficacia, quindi, dalla stipula del contratto di convivenza e non dalla mera convivenza.

Mentre, per ciò che riguarda il termine in cui il regime patrimoniale tra i conviventi non produce più alcun effetto sono:

1- dallo scioglimento del contratto di convivenza concordato o unilaterale, nel momento in cui “la risoluzione viene redatta nelle forme di cui al comma 51”;

2- dal matrimonio o unione civile tra i conviventi stessi o tra un convivente ed altra persona, quindi nel momento in cui avvengono tali eventi;

3- dall’avvenimento delle cause descritte dall’art. 191 c.c. saranno applicate le regole per ogni singola causa di scioglimento della comunione legale.

Appare necessario, in questo contesto evidenziare la superfluità di quanto contenuto all’interno dell’attuale comma 60 dell’art. 1, L. n° 76/2016, in quanto non risulta di alcuna utilità.

Stabilire che «Qualora il contratto di convivenza preveda, a norma del comma 53, lettera c), il regime patrimoniale della comunione dei beni, la sua risoluzione determina lo scioglimento della comunione medesima e si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile» significa esprimere una cosa talmente ovvia, da rendere, appunto, inutile la su descritta disposizione.

Altra criticità contenuta nella novella legislativa e che merita di essere qui richiamata è quanto affermato nell’ ultimo passo del comma 60, nella parte in cui si afferma «Resta in ogni caso ferma la competenza del notaio per gli atti di trasferimento di diritti reali immobiliari comunque discendenti dal contratto di convivenza».

Affermare ciò significa stabilire una cosa gravemente errata, posto che nel nostro ordinamento risulta ancora vigente l’art. 1350 c.c., che non impone l’atto notarile per la validità di un trasferimento immobiliare.

Qualora, il fine sia, piuttosto, di precisare che l’unica forma valida alla trascrizione del titolo negoziale, sui pubblici registri immobiliari ex art. 2657 c.c., è quella dell’atto pubblico, unitamente alla scrittura privata autenticata o verificata, si afferma dunque un principio notorio.

5. Nullità del contratto di convivenza e recesso.

Il comma 57 della legge Cirinnà prevede una serie di ipotesi, cause insanabili, di nullità del contratto di convivenza.

Tali ipotesi di nullità del contratto di convivenza possono essere fatte valere da chiunque ne abbia interesse, alla presenza di determinati requisiti.

Innanzitutto, in presenza di una unione civile ovvero da contratto di convivenza; poi, in caso di violazione del comma 36; nonché, in caso di stipula del contratto di convivenza da parte di un minore di età, di un interdetto o in caso di condanna di uno dei conviventi per delitto grave (es. omicidio o tentato omicidio dell’altro coniuge).

Il fattore comune è costituito dal matrimonio e dall’unione civile, ma i rapporti di parentela, affinità e adozione, che pur sono evocati nel comma 36 tra i vincoli ostativi alla tipizzazione della convivenza rilevante per legge, non compaiono nella lett. a) del comma 57 come causa di nullità.

Viceversa, in quest’ultimo compare un nuovo vincolo ragione di nullità e cioè l’esistenza di un altro contratto di convivenza.

Contemporaneamente però la lett. b) prevede, quale causa di nullità, la violazione del comma 36 così, tra l’altro, richiamando sostanzialmente tutte le ipotesi lì previste ostative alla qualificazione del rapporto come convivenza di fatto, compresi quindi i vincoli di parentela, affinità e adozione.

Questo sistema utilizzato dal legislatore impone di valutare come parzialmente inutile la previsione specifica della lett. a) laddove considera ragione di nullità la presenza di un vincolo matrimoniale, o derivante da un’ unione civile perché il richiamo che la successiva lett. b) fa alla violazione del comma 36 nella sua interezza la rende superflua; ciò nonostante il giudizio di inutilità non investe l’intera previsione restando valida, la parte in cui si richiama anche il vincolo derivante da un preesistente contratto di convivenza, ignorato dal comma 36.

Si precisa che nonostante il comma 36 enuncia tra i vincoli ostativi al contratto di convivenza i rapporti di parentela, affinità e adozione, questi non costituiscono causa di nullità dello stesso contratto.

Mentre, è causa di nullità il contratto la sussistenza di un altro contratto di convivenza; così come avviene per il matrimonio.

Non solo.

Il contratto risulta nulla quando difettano i requisiti essenziali previsti per la sua stipula, cioè: la maggiore età, la stabilità del rapporto, i legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale.

Non presenta particolari problemi l’analisi del primo, del secondo e dell’ultimo requisito perché tutti e tre possono essere comprovati da congrua certificazione anagrafica, compreso il requisito della stabilita`, attestato dalla dichiarazione anagrafica.

Problematica appare invece, la previsione del terzo requisito e cioè l’esistenza di legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale che certamente nessun atto amministrativo è in grado di comprovare, ma che contemporaneamente apre alla questione della possibile declaratoria di nullità di contratti stipulati in contemplazione di una convivenza non paraconiugale. Tuttavia la dichiarazione anagrafica di convivenza incorpora anche il riconoscimento dell’esistenza di un rapporto contrassegnato dai suddetti legami affettivi e di mutuo sostegno dato che la dichiarazione riguarda la convivenza paraconiugale prevista dall’art. 1, comma 36, di cui quei legami costituiscono contrassegno imprescindibile; si tratterebbe allora della sconfessione di un dato autodichiarato, in grado di produrre effetti nel solo caso si dicesse sussistente una simulazione (assoluta o relativa) che peraltro richiederebbe l’accordo.

Al comma 59, invece, sono fissate le cause di recesso, che può avvenire per volontà unilaterale o di entrambi dei conviventi, oppure per morte di uno dei conviventi.

In caso di recesso unilaterale, il convivente che decidere di recedere dal contratto è tenuto ad osservare il principio della buona fede e si applica il principio di affidamento contrattuale; nell’ipotesi in cui non vengono osservati predetti principi,  sarà tenuto al risarcimento del danno.

Il recesso, sia unilaterale che consensuale, deve avvenire con atto scritto con le forme previste dal comma 51 (atto pubblico, o scrittura privata autenticata); nella ipotesi in cui nel contratto di convivenza era stabilito come regime patrimoniale la comunione dei beni, la risoluzione del contratto ne determina lo scioglimento e troveranno applicazione, in quanto compatibili, le disposizioni del codice civile in materia di comunione legale tra coniugi.

Sempre nella prospettazione della patologia del rapporto, il legislatore della nuova legge n° 76/2016, disciplina la risoluzione del contratto di convivenza, dedicando a questo tema, oltre all’inciso del comma 51 che ne riconosce la portata generale assoggettandolo altresì alla stessa forma degli atti di perfezionamento del contratto e di quelli di sua successiva modificazione, i commi dal 59 al 63, il primo di elencazione delle quattro cause di risoluzione, gli altri quattro per fissarne la disciplina.

L’istituto in commento è un istituto fortemente aperto all’autonomia privata, tanto da prevedere tra le cause di risoluzione, oltre al successivo matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed un’altra persona comma 59, lett. c) e la morte di uno dei due conviventi [comma 5, lett. d)], non solo l’accordo tra le parti [comma 59, lettera a)], ma anche il recesso unilaterale da parte di uno qualsiasi dei due conviventi [comma 59, lettera b)].

La circostanza che ciascuno dei due conviventi possa sciogliersi ad nutum da tale contratto si pone in contrasto non solo con la norma generale di diritto comune dei contratti in materia di vincolatività tra le parti del contratto stesso (l’art. 1372 cod. civ.), ma anche, con le regole in tema di matrimonio e di unioni civili.

Sembra tuttavia che questa diversità di disciplina sia stata valutata e consapevolmente voluta dal legislatore, allo scopo di permettere che, attraverso il recesso unilaterale possibile in ogni momento, la convivenza torni, limitatamente al contratto eventualmente stipulato entro i limiti dei commi 50 ss., una “unione libera”.

Inoltre, l’istituto della risoluzione del contratto di convivenza, nonostante il termine impiegato, assume connotati nettamente più simili al divorzio (nel matrimonio) ed allo scioglimento (nell’unione civile), piuttosto che alle risoluzioni per inadempimento, per oggettiva impossibilità sopravvenuta e per eccessiva onerosità sopravvenuta proprie del diritto comune dei contratti (artt. 1453 – 1469 cod. civ.).

6. CONCLUSIONI

Appare utile, al termine di questo saggio, evidenziare pregi e criticità del nuovo testo normativo, con riguardo alla parte in cui è contenuta la disciplina delle convivenze, che con questa legge sono state, per la prima volta disciplinate all’interno di un unico testo normativo, dedicato al tema, essendo, la materia sempre oggetto di disciplina frammentaria, e oggetto di interesse, perlopiù, da parte di dottrina e giurisprudenza.

La disciplina delle convivenze registrate disciplinata nei commi dal 36 al 65, dell’art. 1 della L. n. 76/2016 appare, come rilevato da alcuni commentatori prima ancora della definitiva pubblicazione della legge, una disciplina poco attenta, tesa più a codificare a livello legislativo l’acquis giurisprudenziale esistente, che a delineare organicamente un nuovo istituto giuridico.

L’unico sforzo organico appare, in tale contesto, quello di disciplinare il nuovo contratto di convivenza ai sensi dei commi dal 50 al 64, dell’art. 1 della legge, allo scopo di aprire all’autonomia privata nella direzione di un regime di tipo lato sensu familiare, ispirato, come si è ormai ampiamente constatato, più alla logica delle convenzioni matrimoniali del libro primo piuttosto che ai contratti del libro quarto del codice civile.

Qualche vantaggio è stato acquisito, difatti la tutela oggi prevista, per le convivenze rientranti nella definizione emergente dal combinato disposto dei commi 36 e 37, dai commi 38 ss. e dal comma 65, cristallizza una produzione giurisprudenziale, non consolidata e comunque, fino a prima della predisposizione della nuova legge, sempre a rischio di ripensamenti o ridimensionamenti, creando pertanto una maggiore certezza per i membri della coppia e, talora, anche per i terzi interessati.

Pertanto la nuova legge, se da un lato doverosamente colma una lacuna non più tollerabile, dall’altro opera in maniera troppo spesso frammentaria e, soprattutto, incoerente.

Infatti, in un Paese a democrazia liberale avanzata, rispettoso di tutte le sensibilità e le culture ed al passo con i tempi, si dovrebbe riconoscere al cittadino il diritto di scegliere, nell’organizzare la propria esistenza, tra il matrimonio, con la sua disciplina pubblicistica inderogabile, la semplice convivenza di fatto ovvero la convivenza regolata da un apposito patto: in tutti i casi, però, senza distinguere tra coppie eterosessuali ed omosessuali.

Peraltro, a non voler accogliere questa interpretazione evolutiva della famiglia dell’art. 29 Cost., sarebbe stata necessaria una disciplina ponderata delle unioni civili e non di mero rinvio a molte disposizioni sul vincolo coniugale, che ha condotto solo ad una brutta copia del matrimonio: la legge, là dove ha voluto differenziare i due istituti, ha creato solo problemi o soluzioni contraddittorie, come in tema di fedeltà, cognome, adozione e cessazione del rapporto.

Con riguardo alla semplice convivenza, poi, è difficile convenire con il legislatore nel riconoscimento di diritti od obblighi reciproci.

Far derivare ex lege effetti giuridici da un semplice comportamento concreto, la convivenza, oltre che mettere a rischio diritti e interessi di terzi, significherebbe violare, per eccesso di tutela, il diritto dell’individuo di organizzare la propria vita in maniera del tutto libera e svincolata: non è pensabile di imporre un modello organizzativo di convivenza a chi, avendo ripudiato l’idea del matrimonio, desideri soltanto convivere, senza farne derivare necessariamente ed ipso iure diritti e obblighi. Peraltro, si possono configurare alcune eccezioni, legate alla tutela di soggetti terzi, al rispetto di normative sovranazionali o alla presenza di situazioni giuridiche tutelate: attribuzione della casa familiare o successione nel contratto di locazione, in caso di morte o cessazione della convivenza, in presenza di figli minori o disabili conviventi (fino alla maggiore età o all’indipendenza economica); diritto al ricongiungimento familiare del partner (con relazione stabile accertata), sia nei casi riguardanti cittadini extraeuropei soggiornanti in Italia, sia in relazione alle ipotesi che vedono protagonisti cittadini comunitari o italiani; diritto al risarcimento del danno per morte o lesione del convivente che provvedeva al mantenimento della famiglia, perché qui si può parlare di tutela di un’aspettativa legittima.

Tuttavia, è fondamentale dettare, in queste ipotesi, una disciplina identica per tutte le convivenze.

In ogni altro caso, dev’essere lasciata all’autonomia delle parti la possibilità di regolare i loro rapporti mediante un patto di convivenza liberamente disciplinato e sottoscritto, con la previsione di diritti e doveri: modalità di contribuzione alla necessità della vita in comune; messa in comunione ordinaria dei beni acquistati a titolo oneroso anche da uno solo dei conviventi; diritti ed obblighi di natura patrimoniale a favore dei contraenti alla cessazione della convivenza; possibilità di superare il divieto di patti successori, disponendo a favore del convivente nei limiti della quota di patrimonio disponibile. Inoltre possono essere previsti diritti e doveri di assistenza, informazione e misure di carattere sanitario e penitenziario.

Ciò che non è nella legge, in linea di principio, non è proibito, ma è rimesso alle leggi di portata generale ed all’interpretazione evolutiva della giurisprudenza, che proseguirà nella propria elaborazione e formazione di orientamenti per tutti gli aspetti non considerati, o considerati solo parzialmente, dalla L. n. 76/2106.

Al di fuori della nozione di convivenza posta dai citati commi 36 e 37, poi, l’interprete deve semplicemente astenersi, lasciando, come era prima per ogni convivenza, che le tutele siano forgiate e delimitate dalla giurisprudenza e dalla prassi anche negoziale, evitando di fare passi all’indietro non imposti dalla nuova legge.

Anche l’istituto centrale della riforma delle convivenze, data dalla previsione di un contratto destinato a disciplinare il regime patrimoniale della convivenza merita un giudizio positivo.

A patto che da tali norme l’interprete non derivi un divieto a contrario tutte le volte in cui si opera al di fuori della nozione di convivenza delineata nei commi 36 e 37 e, ancora di più, tutte le volte in cui i conviventi rientranti nella definizione dei due citati commi scelgano, per regolare i loro rapporti patrimoniali in quelle materie poste oltre i confini dello stesso comma 53 – al fine per esempio di definire ex ante (a tutela non solo di chi acquista il diritto di ricevere, che può contare su un minimo garantito, ma anche di colui che si impegna a dare, che può contare su un tetto massimo di spesa) le conseguenze patrimoniali in caso di cessazione della loro convivenza – di continuare ad operare secondo il diritto comune, con contratti interamente ed esclusivamente assoggettati alla disciplina di cui al libro quarto del codice civile, quale legge generale in materia.

La L. n. 76/2106, quindi, non è, con la sua disciplina leggera, uno statuto completo delle convivenze tra partners legati da rapporti affettivi di coppia, ma è soltanto la disciplina dei relativi profili istituzionali o, se si preferisce, paramatrimoniali.

Da ultimo, occorre segnalare che il legislatore trascura completamente un fenomeno sempre più frequente nella realtà sociale, segnata dalle difficoltà economiche del nostro tempo e dall’aumento dell’età media della popolazione.

Mi riferisco alle cosiddette “convivenze assistenziali”, dove la fonte di possibili rapporti giuridici, in assenza di previsioni normative, potrebbe essere solo un contratto atipico concluso a fini di assistenza reciproca: alimenti, diritti successori, possibili compartecipazioni agli acquisti, indicazione del convivente quale beneficiario dei contratti di prestazioni mediche o di prestazioni assistenziali.

Tuttavia, si rende necessaria una precisazione: vista la causa del contratto, sarebbe difficile ammetterne la cessazione per volontà unilaterale, senza la presenza di una giusta causa o, almeno, di un congruo periodo di preavviso.

L’altra faccia della medaglia, che in questo lavoro si è studiato, è l’esperienza francese.

Quest’ultima ci insegna come molti Pacs si trasformino in matrimonio.

Una giusta ed adeguata politica familiare che volesse soddisfare ampiamente le necessità sociali delle c.d. coppie di fatto non può sicuramente circoscriversi nel concedere loro un, per così dire, matrimonio ristretto, come lo è appunto il Pacs, che non definirebbe nessuna delle problematiche che vivono oggi le coppie in questione, ma sarebbe importante dare vita ad iniziative sociali a favore della famiglia, che tra le altre cose sarebbero opportune e necessarie già in base al dettato della nostra Costituzione.