Roberta Travia, Università “Mediterranea” Reggio Calabria

Il primo centro di interessi, insorto a seguito del riconoscimento e dell’applicazione dei diritti umani, è costituito dalla richiesta fondamentale di conoscere quale sia l’effettiva consistenza di tali diritti, quale sia il loro spessore di validità nell’ambito della coscienza giuridica e come questi diritti prendano o meno forma nella realtà. Oggi i diritti umani dovrebbero essere attribuiti a tutti gli uomini indistintamente e perfino a coloro che ne ignorano il nome o che ne disconoscano il merito.

La difficile storia dei diritti umani affonda le sue fragili radici nella notte dei tempi, vista la facilità con la quale è agevole sradicarle nella pratica, ma soprattutto nell’umana percezione nonché sensibilità.  La lunga storia dei diritti umani comincia con l’idea di libertà e si afferma con l’idea di uguaglianza. Il termine libertà è da intendersi come integrità morale per come, medesimamente al  campo dei diritti, debba intendersi per la vita l’integrità fisica; libertà è dunque da intendersi come capacità di autodeterminarsi ed auto realizzarsi. Il diritto alla vita ed il diritto di libertà risultano legati inscindibilmente l’un l’altro; non ha pertanto senso che un uomo nasca libero per poi non avere diritto alla propria libertà di scegliere come vivere la sua stessa vita. Altro caposaldo indissolubile dai precedenti diritti è quello relativo alla sicurezza personale, di poterla godere e di vederla riconosciuta e tutelata non solo sul piano legislativo ma ancor più su un piano intimo e naturale: quello della giustizia universale che assicuri dunque una tutela giusta e non solo una giusta tutela.

A partire dal dopoguerra prende abbrivio una silenziosa e profonda rivoluzione nell’ambito dei diritti umani. L’orrore della guerra, la portata della gravità dell’olocausto e la volontà di poter costruire un futuro diverso producono una volontà di cogente cambiamento nella concezione del diritto, che trasforma gradatamente la cultura giuridica e le istituzioni internazionali.

La nuova cultura dei diritti spinge gli esseri umani a dotarsi di alcuni attributi essenziali che siano inviolabili ed universali, che uno stato non possa avere il diritto di annientare parte della sua popolazione e che dunque la sovranità statale non possa più essere assoluta ed assolutista: i diritti divengono dunque sempre più incapsulati dal monopolio dell’ordine giuridico da parte dello Stato-nazione.

Sulla base della visione nata in questi anni si riuscì a rifondare il diritto internazionale, mediante la creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che è stata istituita il 26 giugno 1945 e la cui Assemblea ha approvato la Dichiarazione Universale dei diritti umani, firmata a Parigi il 10 dicembre 1948.

Si inizia, da adesso, a rispolverare un concetto fino a prima sottovalutato: il “giusnaturalismo”. Con la nascita di questo nuovo modo di vedere le cose si iniziò a concepire l’essere umano nello “stato di natura” come originariamente dotato di alcuni diritti. In realtà si è trattato di una scelta oculata e mirata, nata dalla consapevolezza che solo in questo modo si potessero evitare gli errori ed i conseguenti orrori di un passato non molto lontano. La Dichiarazione universale, rappresenta pertanto un punto cruciale di diverse concezioni, ma è soprattutto la risultante della cultura politica americana della prima metà del novecento, che, a partire dalla politica internazionalistica di Wilson, arriva a svilupparsi nella visione democratica adottata in seguito da Roosvelt e che trovava la sua ragion d’essere nelle quattro libertà: di espressione, di religione, libertà dal bisogno e libertà dalla paura che dovrebbero spettare ad ogni essere umano in quanto tale.

E così nella “Carta Atlantica” sottoscritta il 14 agosto 1941, con la quale si intese concordare sul futuro assetto del mondo, sulla fine delle dittature e delle guerre di conquista, sull’autodeterminazione dei popoli e sulla risoluzione delle controversie internazionali utilizzando la diplomazia piuttosto che la guerra, sul disarmo degli aggressori e sulla cooperazione di tutte le nazioni per un generale benessere sociale ed economico si esprime la speranza che tutti gli uomini, in tutti i paesi, possano vivere la loro vita liberi dal timore e dal bisogno.

Tuttavia, se le  Dichiarazioni dei Diritti Umani dell’Organizzazione degli Stati Americani e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, entrambe deliberate nel 1948 non sono riuscite a diventare l’embrione di una costituzione universale, quale ambivano ad essere, esse segnano tuttavia l’affermazione di principi tendenzialmente universali che troveranno il necessario radicamento in diversi ambiti. Nei loro preamboli erano presentate come “la più alta aspirazione dell’uomo”, come “un ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le nazioni”, ossia come un ideale e un’aspirazione che attendevano riconoscimento e protezione attraverso una loro generalizzazione, internazionalizzazione e, soprattutto, positivizzazione  giuridica. Nello stesso senso, la carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea riconosce anche che valori indivisibili ed universali della dignità dell’essere umano, della libertà, dell’eguaglianza e della solidarietà come base dei diritti che dichiara.

Dalla punizione dei criminali di guerra nazisti, giudicati dal Tribunale militare internazionale di Norimberga,  si è aperta la strada all’idea che la sovranità statale non potesse estendersi fino a garantire l’impunità a dittatori sanguinari anche per crimini contro l’umanità: di qui la non facile costruzione di un diritto penale internazionale, che ha consentito l’istituzione  della  Corte Penale Internazionale con sede a L’Aja. Il superamento della concezione plenipotenziaria del legislatore rappresenta le fondamenta del costituzionalismo per come lo conosciamo oggi. Viene pertanto ad affermarsi una certa rigidità delle costituzioni, sovraordinate alle leggi ordinarie, ed invero l’introduzione delle corti costituzionali rappresenta lo strumento attraverso cui le costituzioni delimitano il potere delle maggioranze, per via della funzione di controllo cui sono chiamate.

Queste garanzie dei diritti fondamentali sono caratteristiche delle costituzioni adottate dai paesi che in Europa hanno raggiunto la democrazia dopo la caduta di regimi totalitari o autoritari. Ma soprattutto i principi del costituzionalismo si affermano progressivamente a livello sopranazionale.

Dal secondo dopoguerra si assiste ad una profonda rivisitazione della legislazione tesa a disciplinare, in modo più stringente e con caratteri da tutti riconosciuti e riconoscibili, l’universalità dei diritti umani. Infatti, per come può comprendersi dal denso studio avanzato da Antonio Cassese, la realizzazione dei diritti umani nel mondo contemporaneo viene paragonata ai fenomeni naturalistici che si producono in spazi di tempo fuggevoli ed impercettibili alla vita dei singoli individui , e sarebbero misurabili attraverso intere generazioni. Certo, ammette Cassese, a differenza dei fenomeni naturali, la realizzazione dei diritti non si dispiega da sé, ma richiede la partecipazione attiva di un numero sempre più elevato di persone. Sulla base di quanto appena evidenziato vengono pertanto a svilupparsi ed a disciplinarsi concetti riguardanti l’uguaglianza di tutti gli esseri umani partendo dal punto di vista di ciò che è loro diritto ricevere dalla società e dagli altri, non si può pertanto distinguere – in tema di diritti fondamentali – tra cittadino e straniero, uomo e donna, bianco e nero, credente e non.

Riguardo la dignità della persona umana, per come ha avanzato Kant, significa che “l’uomo non può essere trattato dall’uomo come semplice mezzo per soddisfare gli interessi degli altri, ma deve essere trattato sempre anche come un fine fosse pure il più malvagio degli uomini, perché il rispetto che gli è dovuto in quanto uomo non gli può essere tolto neanche se con i suoi atti se ne rende indegno”. Ed è per questo che la dignità umana viene considerata un qualcosa di congenito e inalienabile che appartiene a tutti gli essere umani e che impedisce la sua coseificazione e si materializza attraverso la capacità di autodeterminazione che gli individui possiedono mediante la ragione.

D’altro canto, se i diritti umani sono, fino ad un certo punto, una realtà dal punto di vista giuridico, non si può dire che essi lo siano dal punto di vista della vita comune e che cioè influenzino concretamente l’agire dei soggetti, dei popoli e degli organismi attraverso cui questi si governano. 

I diritti umani sono dunque da un lato realtà, per altro verso mera utopia; sono insieme l’uno e l’altro, rappresentano infatti, nella loro forma più esemplificata, una legislazione che non ha trovato e non trova tuttora piena e soddisfacente applicazione. Si tratta pertanto di comprendere perché principi che sono ormai, sebbene a livello  teorico, patrimonio della cultura umana tutta e che vengono – almeno formalmente – riconosciuti ed accettati dalla quasi totalità degli stati come valori indiscussi, restino poi, de facto, in vaste aree del mondo quasi del tutto irrealizzati anche lì, dove hanno ricevuto la loro prima formulazione e sono con più forza radicati, realizzati solo in parte.

Tali diritti dovrebbero rappresentare una dimensione talmente basica di soddisfazione della dignità umana che la loro affermazione non può essere considerata come una nuova creazione, bensì la constatazione della realtà di alcuni attributi fondamentali degli esseri umani che sono loro pertinenti fin dal loro inizio sul pianeta terra.

L’uomo, per sua stessa natura, è caratterizzato dalla sua libertà ed è da ciò che si può rinvenire il perché abbia egli, nei tempi, lottato per la rivendicazione della libertà stessa e dei diritti che da essa ne derivano: libertà e diritto di coscienza, di credo religioso, di pensiero, libertà politica e sociale e perché rivendichi, in quanto condizioni essenziali per la sua stessa autonomia, la libertà dal bisogno, da intendersi come emancipazione da ogni forma di oppressione di qualsivoglia natura politica e/o sociale ed il conseguente diritto al cibo, alle cure e all’assistenza sanitaria.

Quanto scritto in precedenza è -in nuce- da escludere nelle forme di governo a carattere dittatoriale. Basti pensare a quanto accaduto in Argentina negli anni ‘70/’80, sotto il potere della Giunta Militare, si sono avute 30.000 sparizioni accertate, ma sarebbero molte di più. L’incertezza di questo dato è da rinvenirsi nelle modalità, a dir poco disumane, utilizzate dal regime del Gen. Videla. Gli squadristi inviati dal governo rapivano, e provvedevano a far sparire nel nulla, chiunque fosse solo sospettato di essere un pericolo per il regime stesso; è questa la vicenda che ha creato un nuovo tristemente noto termine con il quale, questi soggetti, saranno ricordati: “Desaparecidos”, ovvero gli scomparsi. Orbene, i metodi con i quali queste vittime venivano letteralmente inghiottite nei meandri dell’oblio erano, dopo che questa pratica fu accertatata e resa nota dai media al mondo, tra i più crudeli. Le vittime venivano infatti rapite di notte, prelevate direttamente nei letti delle loro case, caricati su un veicolo “fantasma”condotto dalla polizia segreta del governo e fatti sparire in fosse comuni o caricati su navi militari ed inabissati a largo dell’Oceano Atlantico.

Tutto ciò è assurdo se si considera che il patrimonio universale costituito dall’insieme dei diritti umani è pur sempre un prodotto storico ed è difficile ammettere che chi solo rappresenti una potenziale minaccia per il regime al potere possa essere così barbaramente e crudelmente azzerato,  ovvero annichilito. Questa pratica rappresentò, sia in quegli anni che negli anni successivi, la regola e non l’eccezione. La particolarità rispetto alle precedenti persecuzioni dittatoriali perpetrate nel mondo, risiedeva nel fatto che chi era al potere non era interessato all’identità del perseguitato, né e se avesse in qualche modo minacciato realmente il regime; bastava solo esser sospettati di rappresentare una minaccia, seppur marginale, per essere “prelevati” forzatamente, insieme ai propri congiunti, e fatti sparire senza possibilità di appello alcuno. Questo turbine di avvenimenti terrorizzò e spersonalizzò così tanto la popolazione che nessuno aveva il coraggio di parlare o, ancor peggio, denunciare i fatti. Il regime era riuscito, per la prima volta nella storia, a “spersonalizzare” ed annichilire totalmente la popolazione, l’individuo non è più “soggetto” ma appendice di quel sistema. Gli stessi desaparecidos divennero dunque le prime vittime di una moderna e spietata damnatio memoriae, le cui vittime rimarranno, viste le circostanze, per sempre ignote alla storia.

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