Il Decreto Sicurezza: questioni di costituzionalità

Gianclaudio Festa

 1. Premessa – 2. La normativa di settore – 3. Il sistema di accoglienza italiano – 3.1. La protezione umanitaria ed il Decreto Sicurezza – 3.2. Le criticità del Decreto Sicurezza alla luce delle competenze regionali sancite dalla Costituzione – 3.2.1 La violazione del principio di leale collaborazione fra Stato e Regioni – 3.2.2 Le altre possibili violazioni – 4. Conclusioni.

1. Premessa

Il diritto, se non si radica e contestualizza nella realtà che lo circonda, rimane inefficace. Per questo il legislatore, quando interviene per modificare o introdurre precetti e sanzioni, deve farlo tenendo conto dell’evoluzione della società.

Lo stesso deve fare un giurista, leggendo un nuovo testo normativo nel contesto di appartenenza. Più delicato è il contesto storico e socio-politico, più questa lettura si deve fare attenta e obiettiva.

Il diritto all’immigrazione è proprio uno dei principali argomenti di dibattito di questo periodo, e risente particolarmente dei più recenti cambiamenti del contesto nazionale e internazionale.

Non sono rari i punti di scontro tra le esigenze di ordine e sicurezza pubblica e controllo dei flussi migratori da una parte, e le necessità di integrazione degli stranieri e accoglienza dei richiedenti asilo dall’altra.[1]

Quella che segue è l’analisi di alcuni profili del Decreto-legge del 4 ottobre 2018 n. 113, convertito con modificazioni con Legge del 1 dicembre 2018 n. 132, recante “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’Interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’Amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata” (meglio noto come “Decreto Sicurezza”), il quale ha modificato, tra le altre, la disciplina del diritto di asilo, sollevando non pochi dubbi di legittimità costituzionale sul panorama legislativo che ne deriva.

2. La normativa di settore

Il Testo Unico sull’immigrazione, Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286, introduce la disciplina sull’ingresso nel territorio nazionale e sul sistema di accoglienza.

L’ingresso in Italia è possibile previa esibizione di passaporto o altro documento di viaggio equivalente, assieme al visto di ingresso (per turismo, lavoro, studio o famiglia).

Tali visti possono essere rilasciati da autorità diplomatiche di altri Stati con i quali l’Italia ha ratificato accordi, o in base a norme comunitarie, e hanno valenza fino a tre mesi. Per soggiorni di durata maggiore è necessario un permesso di soggiorno (c.d. di lunga durata) che riporti la medesima motivazione del visto.

Qualora queste procedure non vengano rispettate, perché l’ingresso in Italia avviene senza i documenti sopra indicati o la permanenza si protragga oltre la scadenza indicata dagli stessi, lo straniero si trova nella condizione di irregolare. In quanto tale, e salvo i casi espressamente indicati dalla legge, lo straniero viene respinto alla frontiera o, se già entrato nel territorio nazionale, espulso a mezzo di provvedimento prefettizio (salvo non debba essere identificato, nel qual caso viene trattenuto in un centro per l’immigrazione). Spetta alle forze di polizia il compito di eseguire il provvedimento di espulsione.

Tuttavia, in presenza di determinati requisiti, lo straniero può chiedere asilo, oppure può venire considerato rifugiato o essere soggetto a protezione sussidiaria.

Lo status di rifugiato è previsto dalla Convenzione ONU del 28 luglio 1951 (c.d. Convenzione di Ginevra), e indica l’individuo che, per ragioni politiche, economiche o sociali è costretto ad abbandonare la propria patria per cercare rifugio all’estero[2].

Tale definizione è stata ampliata in più occasioni.

Un protocollo aggiuntivo adottato a New York il 31 gennaio 1967 ha esteso la nozione anche al soggetto che si trovi fuori dal proprio Paese e, temendo di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, non possa o non voglia avvalersi della protezione del proprio paese di appartenenza.

In secondo luogo, una nozione più ampia è stata proposta dalla Convenzione che regola aspetti specifici della questione dei rifugiati in Africa, adottata nel 1969 dall’Organizzazione per l’Unità Africana (oggi Unione Africana) e dalla Convenzione sullo status di rifugiati negli Stati Arabi, adottata dalla Lega degli stati arabi nel 1994.

Infine, un ulteriore processo estensivo si è avuto sul piano operativo, anche tramite l’azione dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), che ha considerato come rifugiati anche i gruppi di persone che varcano una frontiera internazionale in fuga da conflitti o da mutamenti socio-politici che hanno fatto venire meno la protezione nei propri paesi d’origine.

L’ordinamento italiano, aderendo alla Convenzione di Ginevra, ratificata nel 1954, ha riconosciuto lo status di rifugiato, in seguito regolato anche da fonti europee.

Viene considerato tale anche l’apolide che, per le stesse ragioni sopra indicate, non può rientrare nel territorio in cui aveva precedentemente la dimora abituale.

È poi prevista dalle norme internazionali la protezione sussidiaria, di cui possono beneficiare i cittadini stranieri che, pur in assenza dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiati (o della capacità di dimostrarne l’esistenza), sarebbero messi in pericolo da un rientro nel loro paese d’origine. In caso di afflusso massiccio e ingente, può essere poi riconosciuta una protezione temporanea.

La differenza tra le due fattispecie di rifugiato e avente diritto alla protezione sussidiaria verte su una serie di parametri soggettivi e oggettivi, legati alla storia personale del richiedente, ai motivi che lo portano a compiere la richiesta e al paese di provenienza. In entrambi i casi, valutare l’idoneità dello straniero a una delle misure di tutela spetta alle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale.

Un sistema di asilo, di matrice europea ma recepito nella legislazione nazionale, si affianca ai meccanismi appena descritti.

Infatti, l’Unione Europea è impegnata a realizzare una politica condivisa sull’asilo dagli Stati che la compongono, specie in materia amministrativa[3], per garantire misure di protezione per i rifugiati elevate e il più possibile uniformi tra i vari stati.

La base normativa è da rinvenirsi nell’art. 78 del Trattato di Lisbona che, prevede una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento.

Il legislatore italiano ha sistematicamente provveduto a recepire le direttive europee:

– il Decreto Legislativo n. 18 del 2014 ha recepito la c.d. Direttiva Qualifiche (95 del 2011), che indica i requisiti necessari per accedere alla protezione internazionale e le ricadute concrete di tale status (protezione dall’espulsione, diritto al permesso di soggiorno); tale Decreto modifica il Decreto Legislativo n. 251 del 2007, che a sua volta attuava la “prima” Direttiva Qualifiche (83 del 2004);

– il Decreto Legislativo n. 142 del 2015, con le successive modificazioni ed integrazioni, ha recepito sia la c.d. Direttiva Procedure (32 del 2013), sia la nuova Direttiva Accoglienza (33 del 2013), recanti, rispettivamente, le procedure di esame delle domande di protezione internazionale, e le modalità di accoglienza dei richiedenti.

Per agevolare il pieno inserimento nella società dei rifugiati, nel settembre 2017 è stato presentato il primo Piano nazionale di integrazione. Esso prevede che coloro ai quali è riconosciuta una protezione internazionale in cambio si impegnino a studiare la lingua italiana, condividere i valori della Costituzione italiana, rispettare le leggi, partecipare alla vita economica, sociale e culturale del territorio in cui vivono.

Numerosi sono gli esempi di percorsi di inclusione, ossia ambiti in cui intervenire per creare un dialogo tra il rifugiato e il territorio che lo accoglie, come la formazione linguistica, il ricongiungimento familiare, il dialogo interreligioso, l’accesso all’assistenza sanitaria, all’alloggio e all’istruzione, la formazione e valorizzazione delle capacità, l’informazione e l’orientamento ai servizi, la prevenzione ed il contrasto alle discriminazioni ed infine i processi di partecipazione e cittadinanza attiva.

Anche in tema di rimpatri esiste una disciplina comunitaria, la c.d. Direttiva Rimpatri (115 del 2008), affinché gli stati gestiscano di concerto tra loro i flussi migratori irregolari, collaborando nelle operazioni di rimpatrio.

La Direttiva stabilisce espressamente che se non vi è motivo di ritenere che ciò che possa compromettere la finalità della procedura di rimpatrio, si dovrebbe preferire il rimpatrio volontario al rimpatrio forzato […] Al fine di promuovere il rimpatrio volontario, gli Stati membri dovrebbero prevedere maggiore assistenza e consulenza al rimpatrio e sfruttare al meglio le relative possibilità di finanziamento offerte dal Fondo europeo per i rimpatri.

Il testo normativo contiene anche l’indicazione degli ambiti e delle modalità di applicazione del rimpatrio volontario assistito, detto RVA, con particolare attenzione che sia garantito su tutto il territorio nazionale e che siano tutelati i diritti e la dignità del rifugiato.

Il favor della Direttiva nei confronti di tale tipo di rimpatrio si evince anche dall’invito, rivolto agli Stati membri, a stanziare maggiori risorse per l’assistenza dei migranti e per la diffusione di una capillare informazione sulla misura del RVA, per la formazione di operatori sociali a livello locale e per la realizzazione di azioni propedeutiche alle attività di rimpatrio, come la creazione di una rete di segnalazione sul territorio per intercettare i potenziali migranti di ritorno.

Il Decreto-legge n. 89 del 23 giugno 2011, successivamente convertito dalla Legge n. 129 del 2 agosto 2011, per recepire tale Direttiva inseriva l’articolo 14 ter al Testo Unico sull’Immigrazione. Tale articolo prevede l’attuazione di programmi di RVA da parte del Ministero dell’Interno, anche in collaborazione con organizzazioni internazionali e enti assistenziali. La Legge n. 189 del 30 luglio 2002, c.d. Bossi-Fini, che considerava gli irregolari presenti sul territorio nazionale esclusivamente passibili di espulsione immediata tramite rimpatrio forzato, è stata così mitigata da questo recepimento, che ha esteso agli stranieri irregolari che già si trovano in Italia tale normativa.

Per dare attuazione all’articolo 14 ter, il Decreto del Ministro dell’Interno del 27 ottobre 2011, fissa le Linee Guida per l’attuazione dei programmi di RVA, stabilendo anche con quali modalità gli stranieri vi vadano ammessi e i criteri per individuare le organizzazioni e gli enti con cui collaborare.

Come ulteriore incentivo, è stata prevista una gestione informatica di tali programmi, per agevolare il dialogo tra istituzioni[4]. Questa gestione è affidata al Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno, cui spetta il compito di pianificare le attività e coordinare le procedure di attuazione, mentre la gestione ordinaria delle richieste di adesione ai programmi di RVA è affidata a Prefetture e Questure.

Il Decreto Ministeriale indica poi all’articolo 3 le verifiche da effettuare per ciascuno straniero, e all’articolo 4 individua i criteri in base ai quali stabilire la priorità di ammissione ai programmi. L’articolo 5 elenca gli istituti della cui collaborazione il Ministero si può avvalere: a fianco di regioni ed enti locali, troviamo organizzazioni internazionali e intergovernative e associazioni con esperienza in materia. 

3. Il sistema di accoglienza italiano

Come già illustrato in precedenza, spetta agli enti locali, in quanto maggiormente consapevoli delle difficoltà presenti sul territorio e nell’ottica del decentramento voluta dalla Costituzione, agire per la tutela di rifugiati e richiedenti asilo.

È stato realizzato un Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (in breve, SPRAR) che connette tra loro gli enti locali intenzionati a realizzare progetti di accoglienza sul territorio, ai quali il Ministero dell’Interno mette a disposizione un Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. I contributi vengono assegnati agli enti che presentino progetti, in base ad appositi bandi, e sono valutati da una Commissione composta da rappresentanti ministeriali, un rappresentante per le regioni, uno per le province, uno per i comuni, e uno per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.

Il sistema integrato di accoglienza formulato in sede di Conferenza unificata Stato-Regioni, nel luglio del 2014, si sviluppa su tre passaggi: l’identificazione dello straniero irregolare in uno degli hot spot di Lampedusa, Pozzallo, Trapani e Taranto; l’immediata accoglienza presso uno dei gli appositi centri; il successivo trasferimento in un centro della rete SPRAR.

3.1 Il sistema di protezione umanitaria ed il Decreto Sicurezza

Negli anni, un sistema di protezione interno si è affiancato a quello di matrice europea, e prima del c.d. Decreto Sicurezza il Testo Unico sull’Immigrazione prevedeva all’articolo 5 comma 6 la possibilità di concedere il permesso di soggiorno per seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. La norma si mostra così applicabile a una rosa più ampia di casi, per offrire una tutela più completa, e, benché questi “seri motivi” non siano definiti, generalmente si è ritenuto includessero anche problematiche soggettive quali l’età avanzata o l’integrità psico-fisica del richiedente.

Inoltre, la Corte di Cassazione riconosce la protezione internazionale anche quando vi sia un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (Cass. n. 4455/2018).

Questo dunque il panorama legislativo in cui è stato inserito il Decreto-legge del 4 ottobre 2018 n. 113, convertito con modificazioni con Legge del 1 dicembre 2018 n. 132, recante “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’Interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’Amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata” (c.d.  “Decreto Sicurezza”).

All’articolo 1, una serie di ipotesi specifiche sostituisce i “motivi umanitari” generici previsti nella previgente nozione di permesso di soggiorno per motivi umanitari. Alcuni sono preesistenti al Decreto Sicurezza, come i motivi di protezione sociale e le violenze domestiche (rispettivamente articoli 18 e 18 bis del TU Immigrazione), altri introdotti dallo stesso, come il permesso di soggiorno per cure mediche (articolo 19 comma 2), per calamità (articolo 20 bis), in caso di straniero che denunci lo sfruttamento lavorativo (22 comma 12 quater) o per atti di particolare valore civile (42 bis).

Anche la disciplina relativa allo SPRAR viene modificata: al suo posto, viene istituito il Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati (SIPROIMI). Per attuare la nuova disciplina, il Decreto del Ministero dell’Interno del 20 novembre 2018 ha approvato lo Schema di capitolato di gara di appalto, riguardante la fornitura di beni e servizi per la gestione e il funzionamento dei centri di prima accoglienza, e successivamente il Decreto attuativo del Ministero dell’Interno del 22 gennaio 2019 ha approvato i progetti per i nuovi SIPROIMI.

La nuova normativa esclude i richiedenti asilo e minori accompagnati dall’assistenza fornita dagli enti locali, che invece, possono accogliere (anche) i titolari di permesso di soggiorno (per i motivi sopra indicati nel nuovo Decreto Sicurezza) qualora non accedano a sistemi di protezione dedicati, mentre per il coordinamento di questi servizi è stato attivato dal Ministero dell’Interno “un servizio centrale di informazione, promozione, consulenza, monitoraggio e supporto tecnico agli enti locali che prestano i servizi di accoglienza”[5]. Il servizio centrale è affidato, con apposita convenzione, all’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI).

3.2. Le criticità del Decreto Sicurezza alla luce delle competenze regionali sancite dalla Costituzione

Il Decreto Sicurezza, abolendo all’articolo 1 l’istituto della protezione umanitaria, rende inapplicabili, di conseguenza, le leggi regionali di accoglienza, assistenza o integrazione, le quali includono fra i loro beneficiari i destinatari di tale forma di protezione.

Questi condizionamenti sull’autonomia legislativa e amministrativa regionale si scontrano con i principi costituzionali che tutelano le Regioni e gli enti locali e che saranno di seguito indicati.

3.2.1 La violazione del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni

Un primo aspetto di incostituzionalità del nuovo assetto normativo è da ravvisare nella violazione del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni in ambito di competenze concorrenti, che deve, in ogni caso, permeare di sé i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie[6].

In base a tale principio, derivante dagli articoli 5 e 120 della Costituzione, le modifiche in tutte le materie dove competenza statale e locale sono connesse, devono essere prese di concerto tra Stato e Regioni[7], e tra Regioni e Istituzioni Europee[8].

E dunque, anche in materia di assistenza ai migranti l’apporto delle Regioni dovrebbe essere necessario e imprescindibile.

Di contro, non solo per la normativa in esame non è stata richiesta una cooperazione fin dalla fase di consultazione, necessaria per rendere edotto il governo delle posizioni assunte sul tema a livello locale, ma neanche in sede di formazione secondaria. Una soluzione più accettabile sarebbe stata una regolamentazione transitoria, integrativa e concertata, vista la delicatezza del tema e le inevitabili ripercussioni sul tessuto sociale.

Come si è poi detto, il Decreto Sicurezza, modificando il previgente sistema di protezione e istituendo il SIPROIMI, ne ha precluso l’accesso ai richiedenti asilo e ai minori che li accompagnano, e che invece verranno affidati ai Centri di prima accoglienza secondo l’articolo 9 del Decreto Legislativo 142/2015.

La Circolare del Ministero dell’Interno n. 83774 chiarisce l’oggetto e le finalità della riforma: “…la nuova cornice delineata muove dall’esigenza di segnare una netta differenziazione tra gli investimenti in termini di accoglienza e integrazione da destinare a coloro che hanno titolo definitivo a permanere sul territorio nazionale rispetto ai servizi di prima accoglienza e assistenza, da erogare a coloro che sono in temporanea attesa della definizione della loro posizione giuridica.

Pertanto, il sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) assume la nuova connotazione di Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati (SIPROIMI), nel quale vengono assicurate le iniziative di orientamento e quei servizi “integrati” che agevolano l’inclusione sociale e il superamento della fase di assistenza, per conseguire una effettiva autonomia personale. Per le stesse finalità di integrazione sociale, coloro che hanno ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale potranno essere coinvolti nello svolgimento di attività di utilità sociale (articolo 12). Di conseguenza, ai richiedenti asilo – che, peraltro, non saranno più iscritti nell’anagrafe dei residenti (articolo 13) – vengono dedicate le strutture di prima accoglienza (CARA e CAS), all’interno delle quali permangono, come nel passato, fino alla definizione del loro status”.

Si può vedere come il sistema sia stato radicalmente riformato, e come lo Stato si sia inoltre riservato la competenza in materia.

Due sono pertanto i motivi di incostituzionalità che è possibile rilevare, sul piano legislativo (articolo 117, commi 3 e 4 della Costituzione) e su quello amministrativo (articolo 118 della Costituzione).

L’intervento finanziario stabilito dal Decreto Sicurezza non è finalizzato a programmare i flussi di ingresso degli stranieri, né esso è esclusivamente connesso al soggiorno degli stessi, dato che, per espressa ammissione della circolare, esso è diretto a promuovere “l’inclusione sociale e il superamento della fase di assistenza”, tipiche attività rientranti nelle competenze residuali regionali.

Ma anche qualora le attività del Fondo ricadessero in parte nella competenza statale e in parte in quella regionale, la nuova normativa in materia sarebbe nondimeno costituzionalmente illegittima in violazione del principio di leale collaborazione.

 3.2.2 Le altre possibili violazioni costituzionali

L’abolizione dell’istituto della protezione umanitaria, costringendo le Regioni a una integrale revisione del sistema di accoglienza senza averne preso in considerazione il loro punto di vista, va inoltre a violare l’articolo 10 comma 3 della Costituzione. Il nuovo dettato normativo infatti ostacola la concreta attuazione del diritto costituzionale di asilo, impedendo alle regioni di effettuare prestazioni che pur rientrerebbero nella loro competenza per materia ai sensi dell’articolo 117.

Infatti, costituisce violazione di competenza non solo la norma statale che lo regolamenta in materia regionale, ma anche la norma statale che imponga alle Regioni di non compiere atti a cui sarebbero costituzionalmente tenute[9].

L’articolo 117 comma 2 della Costituzione assegna allo Stato la competenza esclusiva in tema di asilo e condizione giuridica dello straniero, ed è dunque all’autorità centrale che spetta di stabilire l’ambito delle competenze regionali. Ma l’articolo 10 comma 3 costituisce un limite che non può essere arbitrariamente ignorato dal legislatore statale, e l’articolo 117, comma 3 e 4, assegna alle regioni il compito di concretizzare tale diritto.

Risulta poi violato l’articolo 3 della Costituzione, in quanto si crea una discriminazione inammissibile tra soggetti che necessitano di assistenza, costringendo le Regioni ad attuare tale discriminazione nel proprio operato quotidiano.

E infine, impedendo alle Regioni di fornire protezione a questi soggetti, risultano violati a cascata anche gli articoli 31, 32, 34 e 35 della Costituzione, in quanto il Decreto Sicurezza impedisce le prestazioni assistenziali derivanti da tali disposizioni.

4. Conclusioni

L’entrata in vigore del Decreto Sicurezza comporta alcune riflessioni conclusive, non soltanto sul piano strettamente giuridico.

Da un punto di vista sociale, infatti, l’abolizione dell’istituto della protezione umanitaria rende necessario un urgente ripensamento degli strumenti di accoglienza e assistenza, e una riorganizzazione delle strutture volte ad assolvere a questi compiti.

L’alto numero di soggetti coinvolti in questa manovra rende urgente questa riconversione, per ridurre il disagio già testimoniato dalle cronache di questi giorni.

Sotto il versante giuridico, è interessante notare l’ambiguità del legislatore statale, che ha avocato a sé le competenze in una materia che così capillarmente interessa le realtà locali, con peculiarità tali da rendere insoddisfacenti misure “dal centro”, in un momento in cui invece sotto altri versanti ha dimostrato una vera e propria spinta centrifuga.

Specie da un punto di vista fiscale, infatti, il governo ha mostrato il suo favor al modello federale, come dimostrano i disegni di legge in preparazione che vorrebbero ampliare i poteri delle Regioni nelle materie di loro competenza e aumentare le risorse per gestirle.

Questa cessione di sovranità mal si concilia con il principio di sovranità nazionale che permea il Decreto Sicurezza[10].

Appare difficilmente spiegabile come lo stesso legislatore che da anni è portavoce di un modello federale e di un aumento delle autonomie locali, vada a intaccare queste ultime proprio su tematiche di rilievo costituzionale. Una ambiguità che non può non sollevare dubbi sulla tenuta costituzionale della riforma.

[1] Cfr. al riguardo SANDULLI M.A., Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2017. Cfr. altresì, TRAVI A., Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2018.

[2] Cfr. ASTONE F., MANGANARO F., ROMANO TASSONE A., SAITTA F., Cittadinanza inclusiva e flussi migratori, Soveria Mannelli, 2009.  MIEDICIO M., Il fenomeno migratorio: una risorsa da valorizzare, in Federalismi n. 2 – 25/03/2019.

[3] Sotto questo profilo si cfr. SALTARI L., Amministrazioni nazionali in funzione comunitaria, Milano, 2007.

[4] Cfr. PONTIERI M.V., il Rimpatrio Volontario Assistito nel Sistema italiano, disponibile al link http://www.foroeuropa.it.

[5] Sul tema, cfr. COLLEVECCHIO M., Comuni ed immigrazione: prime riflessioni e criticità applicative del “Decreto sicurezza” per gli enti locali, 2019, disponibile sul sito www.federalismi.it e ALGOSTINO A., Il Decreto “sicurezza e immigrazione” (decreto legge n. 113 del 2018): estinzione del diritto di asilo, repressione del dissenso e diseguaglianza, 2018, disponibile sul sito www. costituzionalismo.it

[6] Cfr. Corte cost. 7 marzo 2008, n. 50.

[7] Cfr. Corte cost. 25 novembre 2016, n. 251.

[8] MANGANARO F., I rapporti giuridici internazionali degli enti locali, Torino 2006.

[9] Come indicato più volte dalla Corte costituzionale, da ultimo nella sentenza n. 251/2016: “le Regioni possono evocare parametri di legittimità diversi da quelli che sovrintendono al riparto di attribuzioni solo quando la violazione denunciata sia potenzialmente idonea a determinare una lesione delle attribuzioni costituzionali delle Regioni e queste abbiano sufficientemente motivato in ordine ai profili di una possibile ridondanza della predetta violazione sul riparto di competenze, assolvendo all’onere di operare la necessaria indicazione della specifica competenza regionale che ne risulterebbe offesa e delle ragioni di tale lesione”.

[10] Cfr. DE LUCIA L., Amministrazione transnazionale e ordinamento europeosaggio sul pluralismo amministrativo, Torino, 2009.