Di Francescarosa Coscarella e Francesca Artese
Indice
• Prefazione
• Il delitto di peculato ex art 314 c.p.
• Peculato d’uso
• Peculato telefonico
• Peculato in capo all’albergatore
• Interpretazione autentica comma 1-ter dell’articolo 4 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23
• Note e riferimenti bibliografici
Prefazione
Il Legislatore ha riconosciuto ai reati contro la Pubblica Amministrazione un ruolo centrale all’interno della architettura del Codice Penale, collocandoli nel Libro II, Titolo II c.p., ovvero immediatamente dopo i delitti contro la personalità dello Stato.
Sebbene possa apparire paradossale, i reati contro la Pubblica Amministrazione trovano spazio addirittura prima di quelli contro la persona (omicidio, istigazione al suicidio) e di quelli contro il patrimonio (estorsione, rapina).
Il bene giuridico tutelato dai reati contro la Pubblica Amministrazione, è rappresentato dall’ ‘interesse della collettività ad una gestione della “cosa pubblica” sana, trasparente ed improntata ai principi di legalità, imparzialità e buon andamento. Il suo fondamento trova ispirazione in distinte disposizioni di rango costituzionale ed in particolare nell’articolo 54 Cost., secondo il quale ogni cittadino cui sono affidate funzioni pubbliche ha il dovere morale di agire ed adempiere a tali funzioni con “disciplina” ed “onore”, nel rispetto assoluto della legge e nell’interesse pubblico.
I delitti contro la P.A puniscono, pertanto, tutti i comportamenti lesivi dei principi di imparzialità, trasparenza e buon andamento che ispirano e caratterizzano l’agire amministrativo.
La prima distinzione che possiamo operare tra i reati contro la Pubblica Amministrazione, riguarda la tipologia di soggetto attivo del reato, ed invero, il Titolo II del codice penale prevede due distinti Capi all’interno dei quali sono raggruppati:
- delitti commessi dai pubblici ufficiali e dagli incaricati di pubblico servizio;
- delitti commessi privati cittadini.
In primo luogo, il Legislatore punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando dei poteri che gli vengono riconosciuti dalla legge e dalla funzione, commette un sopruso nei confronti del cittadino e della collettività.
In secondo luogo, il codice penale punisce il privato cittadino che, con il proprio comportamento, intralci il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio nell’assolvimento dei propri compiti.
Tra i Reati contro la Pubblica Amministrazione commessi dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio che sono disciplinati dal Libro II, Titolo II, Capo I del codice penale, il Peculato è il reato commesso dal pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio (quindi reato proprio), che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria. La pena prevista è la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi punito con la reclusione da quattro anni a dieci anni e sei mesi. (art. 314 c.p.).
Capitolo 1
Il delitto di peculato ex art. 314 c.p.
Il delitto di peculato è descritto dall’art. 314 c.p. che al primo comma recita: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi.”
Occorre preliminarmente valutare la natura di tale reato e i beni giuridici protetti dalla norma incriminatrice: trattasi di un reato contro la pubblica amministrazione, per cui in primo luogo la norma è diretta a tutelare il buon andamento e l’imparzialità della P.A., in particolare sotto il profilo del regolare funzionamento e del prestigio della stessa.
Tuttavia, secondo l’orientamento più recente, il reato di peculato risulta posto a presidio di un ulteriore bene: quello dell’integrità patrimoniale della amministrazione, purchè le cose oggetto di peculato abbiano un valore economico rilevante e rilevabile.
Ci troveremmo dinanzi, quindi, ad un reato pluri-offensivo eventuale per la cui configurabilità è sufficiente accertare la lesione di uno dei due beni giuridici protetti, come affermato anche dalle Sezioni Unite nel 2013 al fine di garantire una adeguata area di operatività alla fattispecie. Trattasi, inoltre, di un reato proprio istantaneo, la cui fattispecie base penalmente rilevante è senza dubbio quella dell’appropriazione indebita ex art. 646 c.p., a cui si aggiunge la qualifica soggettiva peculiare di pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio che determina la modifica del titolo in peculato dove la condotta si consuma nel tempo e nel luogo in cui si verifica l’appropriazione del denaro o della cosa mobile, in cui l’appropriazione implica una dipendenza funzionale del possesso dall’esercizio della pubblica funzione o della prestazione del pubblico servizio.
Per completezza argomentativa, il peculato si distacca, e specifica, nettamente dalla figura di appropriazione indebita non tanto per il soggetto espropriato del bene e per la natura di quest’ultimo, atteso il riferimento normativo alla “altruità” del bene oggetto materiale del peculato, quanto piuttosto: a) per la particolare qualifica del soggetto attivo; b) per il bene giuridico tutelato e per le modalità di aggressione del bene giuridico costituita dallo sfruttamento del rapporto tra agente pubblico e cosa. Se nell’appropriazione indebita il bene giuridico è di sicura natura economico patrimoniale, nel peculato la collocazione e la severità della sanzione impongono chiaramente il, ribadito, riferimento alla tutela del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 97 Cost (Cass Pen sez VI n 14402).
Per entrare nel vivo del discorso, occorre soffermarci sulla struttura della fattispecie criminosa la quale si caratterizza per la sussistenza di due elementi costitutivi fondamentali: la condotta di espropriazione del bene dal legittimo proprietario e la condotta di impropriazione di quel medesimo bene con l’instaurazione di una nuova signoria sul fatto. Fondamentale è dunque, il possesso o la disponibilità del denaro o di altra cosa mobile altrui da parte del soggetto attivo del reato. Per possesso occorre rifarsi ad una nozione allargata che ricomprenda, dunque, sia la disponibilità materiale che quella propriamente giuridica.
Tale possesso è fondamentale che risulti anteriore alla commissione del reato, in effetti, il peculato si configura allorché intervenga la cd. interversio possessionis: il pubblico ufficiale che ha nella sua disponibilità quella res di proprietà della pubblica amministrazione, finisce per comportarsi nell’utilizzo della stessa uti dominus, ovvero come se ne fosse il proprietario, disponendo ad libitum di quella res ben al di là di quelle che sono le corrispondenti destinazioni funzionali. Proprio questo peculiare elemento permette di distinguere il peculato dalla truffa aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 9 c.p. che fa riferimento al reato commesso con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione ovvero ad un pubblico servizio.
Ad avviso della Cassazione, infatti, l’elemento discretivo va individuato nelle modalità di possesso del denaro o della cosa mobile altrui, oggetto di appropriazione. Nel caso dell’art. 314 c.p. il pubblico ufficiale è già in possesso della res per ragioni di ufficio o servizio, nella truffa, invece, il soggetto attivo non avendo questo possesso, se lo procura fraudolentemente, tramite artifizi o raggiri.
Capitolo 2
Peculato d’uso
L’ulteriore elemento fondamentale che emerge dalla lettura del primo comma è quello della relazione funzionale tra il possesso e l’esercizio della pubblica funzione che, ad avviso della Corte, non deve avere un carattere di mera occasionalità.
Il reato si intende integrato anche nel caso in cui il danno patrimoniale sia di lieve entità, dal momento che la condotta tipica è costituita dall’appropriazione stessa
Tuttavia, nel procedere con l’analisi della norma, occorre ricordare che tale formulazione attuale risulta così delineatasi a seguito della riforma del 1990. Antecedentemente a tale intervento legislativo, ci si trovava di fronte una fattispecie che puniva a titolo di peculato, con la stessa cornice edittale, due condotte differenti: l’appropriazione e la distrazione.
Il legislatore della riforma, circoscrive la fattispecie alla sola condotta appropriativa, espungendo, quindi, dall’area del penalmente rilevante, la condotta del pubblico ufficiale che non si sia appropriato a titolo personale di un bene della P.A. bensì, semplicemente, abbia preso quel bene e l’abbia destinato al soddisfacimento di altre finalità pubblicistiche. L’intento perseguito dal legislatore è stato quello di garantire il rispetto del principio costituzionale di proporzionalità: un trattamento sanzionatorio così severo risultava, quindi, adeguato solo laddove si fosse ricorso alla modalità realizzativa caratterizzata da un maggiore disvalore sociale, ovvero quella espropriativa.
Dal punto di vista soggettivo non si pongono peculiari problemi, la fattispecie del primo comma è punita a titolo di dolo generico, data l’assenza di elementi normativi che connotino l’ipotesi in termini soggettivi specifici.
In realtà il legislatore della riforma ha operato un ulteriore modifica, aggiungendo un secondo comma all’art. 314 c.p. che recita: “Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita”.
Tale fattispecie viene definita come peculato d’uso e si caratterizza per il mero sfruttamento temporaneo della cosa. Rispetto a questa si richiede, al contrario del primo comma, un dolo specifico consistente nella finalità di utilizzare temporaneamente la cosa sottratta. Dal punto di vista oggettivo, invece, non è necessaria, quindi, la fuoriuscita del bene dalla sfera del proprietario, bensì che l’agente si comporti nei confronti della cosa in modo oggettivamente e soggettivamente provvisorio uti dominus, perseguendo utilità economico patrimoniali proprie dello stesso soggetto agente e restituendo successivamente il bene utilizzato.
In altri termini integra invece il reato di peculato e non quello di peculato d’uso, la condotta del pubblico agente che faccia un uso continuativo e sistematico dell’autovettura di servizio per finalità attinenti alla vita privata, tale da sottrarla alla sfera di appartenenza della pubblica amministrazione (Cass Pen sez VI n 1243).
Integra, invece, peculato la condotta dell’esercente l’apparecchio di gioco lecito che, nella sua veste di incaricato di pubblico servizio, non versi al concessionario la parte dei proventi dedicata al pagamento dell’imposta (Sez Unite 69087/2021).
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Capitolo 3
Peculato telefonico
Un caso specifico che ha destato il sorgere di un dibattito in dottrina e giurisprudenza, è quello dell’utilizzo del telefono d’ufficio per uso privato, meglio noto come peculato telefonico.
Diversi gli orientamenti che si sono delineati in merito: in alcune sentenze si riconduce l’uso illegittimo del telefono all’ipotesi del peculato d’uso ex art. 314 secondo comma c.p., dato l’utilizzo deviato dell’apparecchio telefonico affidato alla disponibilità dell’agente e l’esercizio del possesso a fini propri per un periodo di breve durata. Secondo un altro orientamento la condotta rientra, invece, nel peculato comune, dato l’utilizzo non del telefono in quanto tale bensì dell’utenza telefonica, dotata di valore economico e quindi equiparata alla cosa mobile ex art. 314 primo comma c.p.
La questione è stata risolta dalle Sezioni Unite nel 2013 che hanno qualificato l’ipotesi in esame come peculato d’uso. La Corte inizia il suo iter motivazionale smontando la tesi prospettata: dunque le energie non possono tecnicamente essere oggetto di appropriazione, infatti non preesistono all’uso dell’apparecchio ma sono prodotte dalla sua stessa attivazione. Inoltre tali energie sono caratterizzate dalla propagazione, per cui non è possibile procedere ad un loro concreto immagazzinamento.
Le Sezioni Unite ricorrono, così, ad una nozione di appropriazione ampia, comprensiva anche dell’uso indebito della cosa, connotato dall’eccedenza dei limiti del titolo in virtù del quale l’agente lo detiene. In questo caso, infatti, la condotta non si traduce nella stabile inversione del dominio ma integra solo la violazione del titolo del possesso. L’agente distrae il bene dalla sua destinazione pubblicistica utilizzandolo a fini personali per un periodo di breve durata, restituendo in un secondo momento il telefono e riconducendolo alla sua stessa destinazione normale. Dal punto di vista della offensività la condotta dovrà, pertanto, superare la soglia del penalmente rilevante e realizzare una effettiva lesione al bene tutelato in termini di apprezzabile danno al patrimonio della P.A. o di terzi e di lesione concreta alla funzionalità dell’ufficio, fatto salvo l’uso occasionale dell’utenza pubblica che può portare all’esclusione del reato per assenza di offensività o della punibilità per speciale tenuità ex art. 131 bis c.p., alla stregua di un giudizio che, alla luce della pluri-offensività alternativa della fattispecie, deve valutare non solo la tenuità del nocumento economico ma anche l’irrilevante pregnanza del vulnus alla funzione amministrativa.
La questione si è posta in termini analoghi in merito all’utilizzo della connessione Internet tramite computer per finalità private. Nel 2013 la Cassazione riprende la tesi delle Sezioni Unite configurando la responsabilità dell’imputato per peculato d’uso e prevedendo la “restituzione” dell’apparecchio alla destinazione propria nel momento in cui ne cessa l’uso. Tuttavia, nel caso in cui sia stipulato un contratto forfettario o una tariffa “tutto compreso”, secondo un indirizzo interpretativo, mancherebbe l’offensività della condotta ed il pregiudizio per la P.A. trattandosi di abbonamenti che non prevedono alcuna maggiorazione di costi in base al numero di files o di immagini scaricate.
Non da ultimo, pone la problematica dell’uso delle auto pubbliche. Secondo la Cassazione qualora l’imputato proceda ad un uso occasionale, di brevissima durata, giustificato da ragioni di urgenza quali ad esempio delle gravi esigenze familiari, senza che vi sia un apprezzabile pregiudizio per la P.A. non è ravvisabile l’integrazione del reato di peculato d’uso. Diverso sarà il caso, invece, della condotta di un appartenente alle forze di polizia che utilizza l’auto di servizio destinata al pattugliamento del territorio per consumare in essa una prestazione sessuale con una prostituta: sarà integrato in tal caso il delitto di peculato d’uso. (1)
Capitolo 4
Peculato in capo all’albergatore
L’evoluzione giurisprudenziale in tema di delitto di peculato ha interessato, infine, anche la configurabilità del peculato in capo all’albergatore, questione che ha suscitato notevole interesse in quanto viene attribuito, al gestore della struttura ricettiva, la qualifica di responsabile di pagamento dell’imposta di soggiorno con conseguente diritto di rivalsa sui soggetti passivi.
Occorre premettere che, secondo il tradizionale orientamento giurisprudenziale, il gestore di una struttura ricettiva assumeva – quanto all’incasso e al successivo versamento dell’imposta di soggiorno corrisposta dagli ospiti – la qualifica pubblicistica di agente contabile, ciò che consentiva di ritenere integrato in capo all’agente il maneggio di denaro pubblico (poiché incaricato di pubblico servizio), come tale destinato al successivo versamento nelle casse della pubblica amministrazione locale, sicché il mancato trasferimento di quelle somme nel patrimonio della pubblica amministrazione nel termine sancito dalla normativa di settore configurava il delitto di peculato ex art. 314 c.p. (2) .
In seguito all’entrata in vigore del c.d. decreto rilancio , che ha mutato la qualifica del gestore di struttura ricettiva da agente contabile a responsabile di imposta, la condotta di chi trattenga il denaro ricevuto dai clienti a titolo di imposta di soggiorno non è più suscettibile di configurare il delitto di peculato, poiché il titolare della struttura risponde dell’obbligo di versamento con denaro proprio e quindi non maneggia più denaro altrui connotato dalla vocazione pubblicistica; viene invece prevista, per l’inadempimento tributario, l’applicazione di sanzioni amministrative (3).
Da tale modifica, ne è derivata la configurazione come illecito tributario, dell’omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno facendo venir meno la possibilità di configurare il reato di ci all’art. 314 c.p. per fatti avvenuti dopo l’entrata in vigore della norma.
Se, dunque, per i fatti successivi all’entrata in vigore del decreto rilancio è incontroversa la rilevanza soltanto amministrativa del mancato pagamento, si è assistito a una disputa ermeneutica circa la possibilità di ritenere depenalizzato il c.d. peculato dell’albergatore anche per i fatti pregressi.
L’orientamento granitico sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità, avversato da una parte della giurisprudenza di merito e dalla dottrina prevalente ha optato per la perdurante rilevanza penale – ai sensi dell’art. 314 cit. – della condotta appropriativa, in applicazione del noto criterio “strutturale” secondo il quale si assiste a una reale modifica mediata della norma incriminatrice rilevante ai sensi dell’art. 2 co. 2 c.p. (abolitio criminis) soltanto quando il legislatore abbia modificato una norma extrapenale integrativa del precetto (4).
Sul punto, come sostenuto in dottrina, possono dirsi norme realmente integratrici ai fini della successione mediata le sole norme definitorie e quelle richiamate da una norma penale in bianco, non invece le norme di rilievo indiretto in quanto comunque “evocate” da elementi normativi della fattispecie astratta (5).
La qualifica di agente contabile (esclusa per il futuro) sarebbe rimasta in capo al soggetto agente per i fatti pregressi, poiché la norma modificativa (art. 180 del decreto rilancio) incide solo in via indiretta sulla fattispecie astratta, non essendo regolata la predetta qualifica né da una norma definitoria né da una norma integratrice richiamata dalla fattispecie criminosa (6).
Si è assistito, all’esito di alcune vicende giudiziarie che vedevano coinvolti imputati per fatti di peculato consumati prima del 19 maggio 2020, a prospettazioni di incostituzionalità della norma nella parte in cui non escludeva il rilievo penale di quelle condotte pregresse.
Dette censure di incostituzionalità, a parere di chi scrive, non coglievano nel segno, tenuto conto che gli strumenti adottabili dal legislatore a tale scopo sarebbero stati in astratto due: o il legislatore avrebbe potuto espressamente prevedere la retroattività della norma che ha attribuito la qualifica di responsabile di imposta in capo al gestore della struttura ricettiva, o egli avrebbe potuto prevedere l’irrilevanza penale delle condotte astrattamente configuranti il menzionato delitto di peculato, laddove compiute dall’albergatore.
Se la prima scelta rientra nella esclusiva discrezionalità del legislatore, non potendo l’organo giurisdizionale invadere questo ambito riservato di competenza, la seconda scelta avrebbe plausibilmente rischiato di porsi essa stessa in attrito con i principi fondamentali nella misura in cui avrebbe disegnato un perimetro di impunità ad personam, poiché destinato a operare specificamente per la figura del gestore di struttura ricettiva a fronte di un delitto (il peculato) di perdurante vigenza e a fronte della sussistenza in capo al gestore (per i fatti pregressi) della qualifica pubblicistica.
Tutti i menzionati dubbi esegetici sono stati sopiti, in tale scenario, dall’art. 5 quinquies del d.l. 146/2021, introdotto in sede di conversione dalla legge n.215/2021.
La norma, salutata con favore dai primi commentatori, ha infatti reso applicabile la qualifica di responsabile di imposta dell’albergatore ai «casi verificatisi prima del 19 maggio 2020» (7).
Questa scelta ha certamente il merito di ricondurre a equità, anche sul piano temporale, le prescrizioni normative applicabili ai gestori delle strutture ricettive quanto al loro dovere di far confluire nel patrimonio comunale l’imposta di soggiorno, eliminando fastidiose disparità di trattamento derivanti da sfumature lessicali e da sofisticati criteri ermeneutici che, pur nella loro innegabile rilevanza dogmatica, appaiono inafferrabili nel pratico svolgersi della vita imprenditoriale; il rischio cioè (ormai debitamente fugato) sarebbe stato quello di innescare la ritrosia al trattamento rieducativo in capo a chi avesse commesso un fatto di peculato di tale specie e si fosse visto attingere da sanzione penale, a fronte di condotte sostanzialmente analoghe (si tratta pur sempre di mancato versamento di denaro derivante dall’incasso dell’imposta di soggiorno) compiute da altri dopo l’entrata in vigore del decreto rilancio, che invece sfuggono alla pretesa punitiva.
CAPITOLO 5
Interpretazione autentica comma 1-ter dell’articolo 4 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23
Ciò che invece non aggrada è l’uso improprio della categoria dell’interpretazione autentica, che regge la rubrica della norma introdotta (“Interpretazione autentica del comma 1-ter dell’articolo 4 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23”).
L’interpretazione autentica è quello strumento normativo (una nuova disposizione) mediante il quale il legislatore interviene a chiarire il significato di un’altra disposizione che, intanto, non sia apparsa agevolmente comprensibile e abbia dato adito a dispute ermeneutiche.
Nel caso di specie sarebbe corretto riferirsi all’interpretazione autentica ove si rinvenisse nella norma di rilievo un frammento lessicale disciplinante i fatti pregressi o, comunque, il profilo cronologico, che, per la scarsa chiarezza, necessitasse di un intervento esplicativo da parte del legislatore. Così non è stato: non si rinviene nell’art. 4 co. 1 ter cit. (e neppure a monte nell’art. 180 co. 3 cit.) alcun riferimento dubbio alla regolazione dei fatti pregressi, sicché, in assenza di dubbi, non trova senso fornire un’interpretazione autentica, in quanto priva del proprio naturale oggetto.
L’introduzione della norma di “interpretazione autentica” nel d.l. 146/2021 possiede più la parvenza – per dirla con una nota espressione campana – della “pezza a colore”. Il legislatore, ritenendo erroneamente (poiché impedito dalle categorie penalistiche) di aver eliminato la rilevanza penale del peculato dell’albergatore sia per il futuro che per il passato, non si è espresso, al momento della redazione dell’art. 180 co. 3 del decreto rilancio, con riguardo ai fatti pregressi.
Successivamente, essendosi avveduto del caos interpretativo innescato – dovuto non tanto all’esistenza di una norma dubbia quanto alla mai sopita diatriba sul corretto uso del criterio strutturale tra gli interpreti – ha inteso risolverlo con l’introduzione di quella disposizione integrativa mancante nella normativa di riferimento, che prevedesse la retroattività della novella in deroga all’art. 11 delle Preleggi.
La norma che il legislatore appella “di interpretazione autentica” è nient’altro che una norma ordinaria che aggiunge, nel testo del d.l. 23/201, ciò che il legislatore aveva dimenticato di introdurre nell’art. 180 co. 3 d.l. 34/2020, vale a dire la retroattività della norma modificativa della qualifica soggettiva dell’albergatore, equiparando, così, le medesime condotte poste in essere dai gestori delle strutture ricettive anche prima della data del 19 maggio 2020.
Detto altrimenti, il legislatore ha espressamente assegnato valenza retroattiva alla disposizione più favorevole, che aveva attribuito all’operatore turistico la qualifica soggettiva di responsabile d’imposta (a fronte della previgente disciplina che lo investiva, quale agente contabile, del servizio pubblico di riscossione di detto tributo) e, al tempo stesso, alla disciplina sanzionatoria amministrativa correlata a tale mutata qualifica.
Note e riferimenti bibliografici
(1) Compendio Maior di Diritto Penale “Dike”
(2) Cass. sez. VI, 21 giugno 2019, n. 27707
(3) cfr. art. 180 co. 3, decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34
(4) Cass. sez. VI, 28 settembre 2020, n. 30227
(5) Sist. Pen., 5 ottobre 2020
(6) Giur. Pen., 2020
(7) Sist. Pen., 1° febbraio 2022