SOMMARIO: 1.La parzialità della previsione interdittiva dell’art.2127 c.c.- 2. Il divieto di interposizione.-3.La triangolazione vietata e le sanzioni.- 4.L’appalto lecito- 5. La somministrazione di lavoro nel susseguirsi degli interventi normativi (Pacchetto Treu, Decreto Biagi, Jobs Act, Decreto Dignità).
1.La parzialità della previsione interdittiva dell’art.2127 c.c.
L’art. 2127 c.c. può essere considerato, sia pure in una prospettiva “parziale”, la disposizione introduttiva, nell’ordinamento giuslavoristico, del divieto generale di interposizione nelle prestazioni di manodopera. Infatti, l’articolo in questione, disciplinante il cd. “cottimo collettivo autonomo”, quale figura specifica di somministrazione di lavoro altrui[1], rinviene la sua parzialità sia nel fatto che si riferisce solo ai casi in cui l’interposto sia dipendente del committente – oltre che datore di lavoro della manodopera ingaggiata[2] – e sia nella mancanza di una previsione sanzionatoria specifica, aggiuntiva rispetto ai tradizionali rimedi civilistici, prevedendo un rimedio per la sola parte di rapporto già eseguita, ma non per il futuro (art. 2127, comma 2 c.c.). Nello specifico il cottimo collettivo si ha quando un gruppo (squadra) di lavoratori, rappresentato da un proprio capo( caposquadra), assume unitariamente l’obbligo di una determinata prestazione di lavoro e viene retribuito globalmente avendo riguardo al rendimento di tutto il gruppo[3]. Questo tipo di cottimo è subordinato quando il gruppo di cottimisti tratta direttamente con il datore di lavoro; è autonomo quando sussiste l’intermediazione del caposquadra nella trattativa con il datore di lavoro e l’intermediario è, al contempo, sia l’organizzatore della squadra e per essa datore di lavoro, sia dipendente del datore di lavoro imprenditore.
In verità, bisogna sottolineare che, già nel 1949, il legislatore reprimeva la fattispecie della mediazione di manodopera, accomunata dal legislatore del 1960 a quella dell’interposizione, e che dall’art. 2115 c.c., sia pur riferito agli obblighi di carattere previdenziale, era già possibile desumere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato dissimulato per mezzo di espedienti negoziali all’uopo congegnati. Già prima dell’entrata in vigore della l. n. 1369/1960, l’art. 2127 c.c. ha anticipato la sottolineatura del “favor” mostrato dall’ordinamento giuridico nei confronti del contratto di lavoro subordinato (ex art. 2094 c.c.) quale forma “tipica” di acquisizione di prestazioni lavorative e, al tempo stesso, il principio di “trasparenza”[4] e di “effettività”[5], nell’individuazione dell’effettivo beneficiario delle prestazioni stesse. La previsione dell’art. 2127 c.c. ha concretato l’embrionale misura con cui il legislatore reagisce al sospetto di illiceità attraverso la quale guarda al fenomeno dell’interposizione reale, laddove il contratto di lavoro tra lavoratore ed interposto[6] sembra voluto proprio per evitare la costituzione del rapporto con l’imprenditore interponente. Quest’ultimo acquisisce, così, forza lavoro per mezzo di un terzo, che assume le obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro per trasferire gli effetti economici dell’attività di lavoro al committente. L’“incompleto” riconoscimento legislativo del divieto di interposizione operato con l’art. 2127 c.c. – ed “esteso” con la legge del 1960 – comporta una prima intrusione del legislatore nella sfera organizzativa del datore di lavoro, che rinviene una successiva giustificazione costituzionale nell’art. 41 della Carta fondamentale relativo ai limiti legali della libertà di iniziativa economica, intesa anche come libertà di scelta delle modalità d’esercizio e “dimensionali” dell’impresa[7] .
2. Il divieto di interposizione
Il fenomeno dell’intermediazione e dell’interposizione nel rapporto di lavoro è stato a lungo disciplinato dall’art. 2127 c.c. nonché dalla L. n. 1369/1960[8] .
Nello specifico, con la disciplina codicistica, il legislatore ha inteso intervenire al fine di imporre un divieto “interpositorio” assoluto nelle prestazioni di lavoro, limitatamente all’ambito del lavoro a cottimo, impedendo all’imprenditore di “affidare a propri dipendenti lavori a cottimo da eseguirsi da prestatori di lavoro assunti e retribuiti direttamente dai dipendenti medesimi” sancendo, peraltro, che “l’imprenditore risponde direttamente, nei confronti dei prestatori di lavoro assunti dal proprio dipendente, degli obblighi derivanti dai contratti di lavoro da essi stipulati”.
Il divieto contenuto nell’art. 2127 cod. civ., che faceva salvi comunque gli effetti del contratto dell’interposto, nel corso degli anni, non venne ritenuto più in grado di fornire una tutela veramente efficace contro lo sfruttamento di manodopera.
Nella consapevolezza del limite insito in una disciplina riguardante esclusivamente la fattispecie dell’interposizione reale nel cottimo, il legislatore ritenne necessario un nuovo intervento finalizzato alla prevenzione e alla repressione di altre forme “subdole” di interposizione. L’ intervento si concretizzò con l’entrata in vigore della nota L. 23/10/1960 n. 1369, provvedimento normativo di carattere più generale che, tra l’altro, inaspriva il regime sanzionatorio relativo al fenomeno vietato dal già citato art. 2127 c.c.
L’assunzione di lavoratori inviati a svolgere la prestazione alle dipendenze di altri soggetti è un’antica e nota prassi datoriale, volta a liberare i datori di lavoro dalla propria responsabilità giuridica ed economica nei confronti dei lavoratori direttamente utilizzati, scaricandola su altri soggetti, intermediari o interposti (fittizi datori di lavoro), sì da potersi assicurare manodopera aggiuntiva in maniera meno costosa e più flessibile.
Tale fenomeno, spesso ricordato con l’espressione francese marchandage du travail, era definito nel linguaggio del legislatore del 1960 come interposizione o intermediazione o appalto di mere prestazioni di lavoro[9]. La legge n. 1369 del 1960 pertanto mirava a reprimere il fenomeno dilagante dell’intermediazione e dell’interposizione nelle prestazioni di lavoro disciplinando l’impiego di manodopera negli appalti di opere e di servizi così disponendo: “E’ vietato all’imprenditore di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono. E’ altresì vietato all’imprenditore di affidare ad intermediari, siano questi dipendenti, terzi o società anche se cooperative, lavori da eseguirsi a cottimo da prestatori di opere assunti e retribuiti da tali intermediari”. La ratio di tali divieti è da rinvenirsi nello scopo precipuo di identificare con assoluta chiarezza il soggetto responsabile rispetto al trattamento normativo ed economico del prestatore di lavoro ed agli obblighi di natura assistenziale e previdenziale in ossequio ad un fondamentale principio accolto dal nostro ordinamento giuridico ovvero quello della identità tra datore di lavoro e utilizzatore.
La nuova legge prevedeva invece strumenti più incisivi, sia per l’accertamento dell’interposizione – si pensi alla presunzione contenuta nel terzo comma dell’art. 1 della legge – sia sotto il profilo sanzionatorio, poiché l’interponente doveva assicurare al lavoratore non più il rispetto del contratto stipulato con l’interposto, ma tutte le condizioni di un ordinario contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. L’accertamento dell’interposizione nato dalla nuova legge è stato sempre governato dal principio di effettività: gli effetti del contratto di lavoro dovevano essere posti a carico dell’imprenditore che aveva effettivamente utilizzato le prestazioni (Cass. n. 1264/1982).
E’ alquanto evidente quali fossero le ragioni per cui, in un sistema economico-produttivo di tipo prevalentemente manifatturiero, il ricorso all’appalto di opere o servizi era normalmente inserito nel ciclo produttivo dell’impresa industriale; l’opportunità di impiego di lavoratori non direttamente assunti, infatti, garantiva all’imprenditore-utilizzatore un costo del lavoro notevolmente più basso oltre che la possibilità di “contenere” la dimensione aziendale e, dunque, di profittare del relativo regime normativo. Tra l’altro, il fenomeno dell’intermediazione ed interposizione nel rapporto di lavoro si manifesta sotto forme giuridiche diverse: si va dalla fornitura o c.d. somministrazione della forza lavoro, all’interposizione nel cottimo, all’appalto e al subappalto di manodopera.
L’interposizione di prestazioni lavorative è ancora un fenomeno attuale, per quanto abbia una consistenza socio-economica certamente diversa da quella attuale nel 1960. Come è noto, costituisce ormai una fattispecie legittima in taluni casi, come la somministrazione o il distacco, che proprio con il d. lgs. 276/2003 hanno finalmente conosciuto una specifica disciplina normativa[10]..Indubbiamente oggi nell’ordinamento esistono norme generali e principi giuridici che non rendono più necessaria la vigenza di una normativa apposita di tutela dei lavoratori. Precisamente, l’art. 2094 e l’art. 1655 cod. civ. (quest’ultimo, integrato dal secondo comma dell’art. 29, d. lgs. 276/2003) delineano con sufficiente esaustività il campo di legittimità dell’appalto legittimo[11].
3.La triangolazione vietata e le sanzioni
Il fenomeno della dissociazione tra titolarità formale del rapporto di lavoro ed utilizzazione della prestazione si è contraddistinto per una evoluzione peculiare. La giurisprudenza ha estrinsecato l’apparato di tutele che l’ordinamento ha voluto approntare a difesa dei lavoratori, attraverso la individuazione concreta dei casi di interposizione e la conseguente applicazione del regime sanzionatorio disposto dalla legge n. 1369/1960. Quest’ultima, nell’ideale continuazione e rafforzamento del divieto già previsto dall’art.2127 c.c., vietava, all’articolo 1, la realizzazione del rapporto “triangolare” in cui un committente, imprenditore o non imprenditore, si rivolge ad un altro soggetto, il c.d. interposto, per richiedere la fornitura di un certo numero di lavoratori assunti e retribuiti direttamente da quest’ultimo, ma operanti nell’orbita e alle reali dipendenze del primo[12].
L’interposto, nel linguaggio comune spesso detto “caporale”, pur assumendo direttamente le vesti di datore di lavoro, era un mero intermediario che, privo di garanzie di solidità economico-finanziaria, lucrava in guisa parassitaria sull’attività interpositoria, spesso facendo pagare un prezzo anche ai lavoratori.
La norma proibiva quindi sia la fornitura di manodopera (c.d. somministrazione di lavoro altrui) reclutata dall’assuntore interposto ed impiegata sotto la direzione dell’imprenditore interponente, sia il vero e proprio assalto di manodopera utilizzata dall’interponente sotto la direzione dello stesso appaltatore interposto. Si trattava del c.d. pseudo appalto, espressione con la quale si intendeva sottolineare la natura fittizia ed insieme fraudolenta del c.d. appalto di manodopera, il cui elemento discriminante rispetto agli appalti effettivi era rappresentato dal fatto che si era in presenza di una fornitura al committente di mere prestazioni di lavoro, senza che esistesse né un’organizzazione propria di quest’ultimo, né una gestione di impresa a proprio rischio, secondo quanto invece richiesto dall’art.1655 c.c. e dall’art.3,l.n.1369/1960[13] .
La fattispecie vietata e il divieto, generalizzato e rigido, era accompagnato da sanzioni sul piano sia civile sia penale (artt.1, comma 5, e 2). La sanzione civile, in particolare, stabiliva che, eliminato lo schermo formale dell’interposto, i lavoratori fossero considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dirette di chi ne avesse effettivamente utilizzato le prestazioni; in questo modo il legislatore tutelava gli interessi individuali, personali (es. salute) e patrimoniali (es. garanzia dei crediti di lavoro) del lavoratore coinvolto nella fattispecie interpositoria, ricollocando tutte le responsabilità in capo al c.d. datore di lavoro effettivo. Con la sanzione penale di natura contravvenzionale, si garantiva l’interesse pubblico al rispetto delle norme protettive poste a tutela del lavoro subordinato.
Per tali ragioni la dottrina giuslavoristica maggioritaria ha sempre attribuito alla disciplina in questione carattere sanzionatorio, fondato sull’applicazione automatica delle conseguenze stabilite dalla legge all’accertamento della deviazione dal modello legale. Altra parte della dottrina, invece, le cui analisi sembrano aver acquistato maggior peso nell’attuale quadro normativo, ha interpretato la legge 1369/1960 come una disciplina esplicativa del principio di subordinazione sancito dall’art. 2094 cod. civ., per cui l’indagine del giudice avrebbe avuto come oggetto “l’accertamento” di chi sia stato nel caso concreto il “vero datore”. C’è ancora da dire che, a causa di una formulazione legislativa che avrebbe potuto ingenerare legittimi dubbi, la Suprema Corte a Sezioni Unite ha affermato che il divieto di interposizione non si riferiva solamente al momento della stipula contrattuale, ma anche al momento successivo, della esecuzione del contratto di appalto (Cass. 851/1997).
4. L’appalto lecito
Accanto alla fattispecie vietata dell’interposizione fittizia, la legge del 1960 disciplinava altresì quella dell’appalto lecito, in cui l’appaltatore non si limita a conferire al committente la sola mano d’opera, ma apporta – nel rispetto dello schema di appalto delineato dall’art.1655 cod. civ. – un complessivo servizio o un’opera compiuta, mediante impiego di propria organizzazione di mezzi, strumenti e personale gestita a proprio rischio[14] .
Gli appalti leciti erano distinti tra appalti esterni all’impresa ed estranei al suo normale ciclo produttivo, regolati dal diritto comune, e gli appalti interni, cioè quelli inerenti al normale ciclo produttivo dell’impresa committente[15]. Con riferimento a quest’ultimi, l’art. 3, l. n.1369 del 1960 disponeva la responsabilità solidale tra appaltante e appaltatore nei confronti dei lavoratori dipendenti da quest’ultimo, ai fini sia dell’applicazione di un trattamento economico e normativo non inferiore a quello spettante ai lavoratori dipendenti dal primo, sia dell’adempimento degli obblighi assistenziali e previdenziali. In sostanza, il legislatore perseguiva l’obiettivo di estendere ai dipendenti delle imprese appaltatrici i trattamenti più favorevoli previsti dai contratti collettivi applicati all’impresa committente, c.d. uniformità di trattamento.
Molto interessante era la norma contenuta nell’art. 3 della legge, per la quale gli imprenditori negli appalti da eseguirsi all’interno delle aziende, con organizzazione e gestione propria dell’appaltatore, erano tenuti in solido con quest’ultimo a “corrispondere ai lavoratori da esso dipendenti un trattamento minimo inderogabile retributivo e ad assicurare un trattamento normativo, non inferiore a quello spettante ai lavoratori da loro dipendenti”. La norma era significativa non solo perché la parità di trattamento veniva tutelata anche nei riguardi dei trattamenti normativi, ma anche perché tale forma di tutela veniva posta a carico del committente di un appalto che era legittimo.
La giurisprudenza, per un certo tempo, ha utilizzato come spartiacque tra le due fattispecie (lecita e illecita) l’apporto di strutture materiali (attrezzature, impianti, macchine) da parte dell’appaltatore, in assenza del quale la fornitura finiva con l’essere limitata al solo personale e scivolava, quindi, nell’illiceità. In seguito, il progressivo affermarsi di appalti di servizi “smaterializzati”, cioè a basso impiego di strutture materiali o, comunque, con prevalente apporto del fattore lavoro (si pensi ai servizi informatici o a quelli di pulizia), ha indotto a valorizzare, come scriminante di liceità, la circostanza che l’appaltatore “organizzasse” i fattori produttivi e “dirigesse” i lavoratori impiegati[16].
L’esigenza garantista era, infatti, salvaguardata dalla circostanza che l’appaltatore fornisse un quid pluris rispetto alla mera fornitura di personale e che il valore aggiunto fosse rappresentato dall’organizzazione del servizio, dall’apporto di know how e dalla direzione dei lavoratori: tutti elementi di carattere immateriale, però, sintomatici di un apporto imprenditoriale e non di una mera intermediazione di personale[17].Nella prima fase di tale processo ha assunto estrema rilevanza proprio la nozione di know how, quale bene immateriale capace di caratterizzare in modo decisivo le qualità di imprenditore e di legittimo appaltatore. Ed è proprio utilizzando la formidabile leva del know how che la giurisprudenza ha assestato alla legge 1369/1960 lo sconvolgimento interpretativo più consistente di tutta la sua vigenza, ribaltando il giudizio sulla presunzione contenuta nel terzo comma dell’art. 1 della legge, degradata a presunzione semplice in presenza di effettivo apporto di know how da parte dell’appaltatore[18]. Il revirement, se tale è possibile definirlo, è stato imposto dalla diffusione del fenomeno dell’informatizzazione delle aziende, soprattutto quelle di credito. La società di informatica progettavano ed elaboravano software di gestione complessi e provvedevano poi ad implementarli sugli hardware dei clienti. Pertanto, nella loro attività, utilizzavano “macchine e attrezzature fornite dall’appaltante”. Tuttavia, non era certo possibile dubitare della legittimità di tali appalti di servizi. La diffusione del decentramento produttivo ha quindi accelerato la riconsiderazione degli strumenti di indagine, necessari all’accertamento dell’appalto legittimo, ed ha anticipato i tempi rispetto al quadro normativo attuale[19]. Successivamente, con il d.lgs. n. 276 del 2003, il legislatore ha ritenuto di dilatare la fattispecie lecita e di attenuare i vincoli in precedenza previsti, così da consentire alle imprese di fruire di una leva competitiva rilevante. L’art. 29, comma 1, del c.d. Decreto Biagi ha chiarito che, fermo restando il fattore selettivo di liceità costituito dal rischio di impresa a carico dell’appaltatore, l’organizzazione di mezzi può essere sostituita – specie negli appalti in cui è prevalente o esclusivo l’apporto del fattore lavoro – “dall’esercizio da parte dell’appaltatore del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto”. Per cui, in tale tipologia di appalti, il solo esercizio dei poteri datoriali nei confronti dei lavoratori costituisce un quid pluris legittimante, pur in assenza di un apporto di strumentazione; di contro, l’appalto è da considerarsi simulato se i lavoratori sono diretti e coordinati dal committente[20].
L’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003 (versione originaria), elimina la discussa distinzione tra appalti “interni” ed appalti esterni. Mantiene invece il regime di responsabilità solidale tra committente ed appaltatore solo per gli appalti di servizi, escludendo gli appalti di opere, ai quali tale regime viene esteso con il decreto correttivo n. 251 del 2004[21].
Sempre nel 2003 si è inoltre abrogata la previsione del comma 3 dell’art.1 della legge n. 1369 del 1960, secondo cui quando la proprietà dei capitali, delle macchine e delle attrezzature impiegate nell’appalto era del committente-appaltante (anche se l’appaltatore versava un compenso per l’utilizzo), l’appalto veniva considerato con presunzione assoluta, un illecito. Oggi, viceversa, è consentito che capitali, macchine e attrezzature di proprietà dell’appaltante siano noleggiate dall’appaltatore per l’esecuzione del contratto, purché naturalmente quest’ultimo risulti essere l’organizzatore dei fattori produttivi. Più precisamente, il legislatore ha esplicitamente enunciato che negli appalti labour intensive l’organizzazione dei mezzi necessari può anche risultare dalla mera organizzazione del lavoro.
È opportuno evidenziare, comunque, che la più recente normativa non prevede più neppure l’obbligo di parità di trattamento dei lavoratori impiegati dall’appaltatore rispetto a quelli dipendenti dal committente, presente nell’abrogata legge n. 1369 del 1960 (art.3). Pertanto, la convenienza di ricorrere all’appalto potrebbe rinvenirsi nel minor costo del lavoro derivante dall’applicazione da parte dell’impresa appaltatrice di un contratto collettivo meno oneroso, appartenente a diverso settore merceologico. Si confermava, invece, la tutela del lavoratore sul piano dell’obbligazione solidale sussistente (salvo diversa disposizione dei contratti collettivi) entro il limite dei due anni dalla cessazione dell’appalto, tra il committente-imprenditore e l’appaltatore, finalizzata a garantire ai lavoratori i trattamenti retributivi e contributivi.
L’obbligo solidale vincola il committente anche verso ciascuno degli eventuali subappaltatori. Oggi il patrimonio del committente è direttamente aggredibile senza attendere l’infruttuosa preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori, come previsto dalla l. n.49/2017, che ha abrogato tale precedente limite. Invero, la disciplina della responsabilità solidale del committente nei confronti dei dipendenti dell’appaltatore è andata incontro a ripetuti interventi legislativi, l’ultimo dei quali è costituito dal decreto abrogativo n. 25/2017 che, accogliendo le indicazioni della Corte costituzionale[22], è intervenuto sotto i due distinti profili dell’abrogazione delle regole processuali di recente introdotte con le riforme del 2012 e dell’eliminazione della facoltà di deroga al regime della solidarietà negli appalti ad opera dell’autonomia collettiva. Sostanzialmente, la normativa ha abrogato la disposizione che precedentemente prevedeva la possibilità, per i contratti collettivi, di derogare alla disposizione sulla responsabilità solidale individuando in alternativa metodi e procedure di controllo e verifica della regolarità complessiva degli appalti[23].
L’appalto ritenuto non genuino, cioè privo dei requisiti di cui all’art.29, comma 1, è punito con la stessa sanzione (depenalizzata dal d.lgs. n. 8/2016) della somministrazione non autorizzata (art.18).
Così come avviene per l’ipotesi di somministrazione illecita, il lavoratore può chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze del committente che ne abbia utilizzato effettivamente la prestazione (art.29, comma 3 bis e 3 ter)[24].
Va altresì considerata la reintroduzione del reato contravvenzionale di somministrazione fraudolenta, avvenuta a tre anni di distanza dall’abrogazione dell’art. 28, D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 che lo disciplinava precedentemente. Ed invero l’art. 2, comma 1-bis, D.L. n. 87/2018, convertito dalla legge n. 96/2018, ha reintrodotto nell’ordinamento giuridico, dal 12 agosto 2018, il suddetto reato collocandolo nel nuovo art. 38-bis, D.Lgs. n. 81/2015, ferme restando le sanzioni di cui all’art. 18, D.Lgs. n. 276/2003. Tale modifica è importante per il fatto che il reato di somministrazione fraudolenta si può realizzare innanzitutto a fronte dell’utilizzo illecito dello schema dell’appalto. È il caso che si verifica, ad esempio, allorché un’azienda, per ridurre i costi, licenzia il proprio personale facendolo assumere da un’altra azienda (che magari applica un contratto collettivo meno oneroso e che può eventualmente fruire anche di esoneri o sgravi contributivi) che a sua volta, mediante lo schema formale dell’appalto, lo somministra all’originario datore di lavoro creando così una lesione ai diritti dei lavoratori coinvolti Le conseguenze a carico dei contravventori, in tal caso, saranno evidentemente di maggiore gravità. Difatti il legislatore ha previsto, in aggiunta alle sanzioni ( come detto, depenalizzate) contemplate per la fattispecie dell’appalto illecito, l’ulteriore pena dell’ammenda di euro 20 per ogni lavoratore impiegato e per ogni giorno di lavoro.
5. La somministrazione di lavoro nel susseguirsi degli interventi normativi (Pacchetto Treu, Decreto Biagi, Jobs Act, Decreto Dignità).
Nel corso degli anni 90 il divieto posto dalla l.n.1369/1960 venne ritenuto troppo rigido e soprattutto poco idoneo a governare le trasformazioni intercorse nel mercato del lavoro e nelle organizzazioni produttive. A livello comunitario, in quasi tutti i Paesi europei, era stata da lungo tempo ammessa la c.d. somministrazione di manodopera direttamente assunta da agenzie specializzate, ed inviata a prestare la propria attività presso imprese utilizzatrici verso corrispettivo.
Così la legge 24 giugno 1997, n.196(c.d.Pacchetto Treu) aveva introdotto anche in Italia l’istituto del lavoro interinale (denominato dal legislatore fornitura di lavoro temporaneo), consistente nella relazione trilaterale in base alla quale un’agenzia intermediatrice (o impresa fornitrice) inviava temporaneamente un lavoratore da essa stessa assunto presso un terzo (utilizzatore), per effettuare una prestazione di lavoro a disposizione di quest’ultimo. La disciplina del 1997 imponeva un elevato grado di rigidità sia per l’esercizio dell’attività di fornitura, sia per il ricorso al lavoro interinale. Pertanto, quest’ultimo si collocava in una posizione di eccezione rispetto al generale divieto di interposizione nell’esecuzione di mere prestazioni di lavoro sancito dallo stesso art.1, l. n.1369 del 1960.
Dopo più di 40 anni dalla sua entrata in vigore, la legge del 1960 veniva abrogata dal d. lgs. n. 276 del 10 settembre 2003. Il c.d. Decreto Biagiintroduceva una nuova disciplina della somministrazione di lavoro in sostituzione della precedente in materia di lavoro interinale, che veniva parimenti abrogata (art.85, d.lgs. n. 276/2003). Il decreto ha consentito alle agenzie autorizzate l’esercizio di tutte le attività di somministrazione oltre allo svolgimento delle attività d’intermediazione, ricerca e selezione di personale e ricollocazione professionale. In tal modo è stato eliminato l’obbligo di esclusività imposto in precedenza rispettivamente alle imprese di fornitura e agli altri soggetti privati autorizzati o abilitati a svolgere attività di collocamento.
È stato confermato il principio secondo il quale l’attività di somministrazione può essere svolta solo ed esclusivamente da soggetti autorizzati, ai quali è richiesto il possesso di requisiti di professionalità ed affidabilità. Un altro aspetto importante della nuova disciplina è costituito dalla previsione della somministrazione a tempo indeterminato (c.d staff leasing) ammessa solo per talune causali specificamente individuate accanto alla somministrazione a tempo determinato. L’istituto si caratterizza oltre che per il coinvolgimento di tre parti (c.d. fenomeno della triangolazione), somministratore, lavoratore e utilizzatore, anche per la presenza di due contratti. Accanto al contratto commerciale di somministrazione tra agenzia e utilizzatore (a termine o a tempo indeterminato) si colloca il contratto di lavoro subordinato tra agenzia e lavoratore.
La disciplina è stata poi oggetto di diversi interventi che si sono succeduti dal 2011 al 2015, che via via hanno ridotto le originarie rigidità normative[25].
Con il d.l. n. 34/2014, conv. in l. n. 78/2014, c.d.Jobs Act atto I, il Governo Renzi intervenendo sul d.l. n. 276 del 2003 (art. 20,comma 4) ha palesato un deciso favore per la somministrazione di lavoro, enfatizzandone il legame con il contratto a termine e, di lì a poco, con il d.lgs. n. 81/2015, attuativo della l.n. 183/2014, c.d. Jobs Act atto II, entrato in vigore il 25 giugno 2015, ne ha organicamente riscritto la disciplina con contestuale espressa abrogazione delle norme che regolavano la materia, salvo che per le disposizioni concernenti i soggetti autorizzati, per i quali resta in vigore la normativa di cui al titolo II del d.lgs.n. 276/2003.
La disciplina oggi in vigore prevede, nel caso di somministrazione a tempo indeterminato, la previsione di una clausola legale di contingentamento, la quale stabilisce che il numero dei lavoratori somministrati con contratto di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato non possa eccedere il 20% del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore al 1° gennaio dell’anno di stipula del contratto. Per la somministrazione a tempo determinato, invece, si è in presenza di un duplice limite cui è soggetta la forza lavoro dell’utilizzatore: uno complessivo del 30% (dato dalla sommatoria di contratti a termine e contratti di somministrazione a tempo indeterminato) e quello del 20% per il solo contratto di lavoro a tempo determinato. L’art. 32 del d.lgs. n. 81/2015 prevede poi specifici divieti di ricorso al contratto di somministrazione. Non è mai consentita la somministrazione per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi (di cui agli artt. 281 ss. d.lgs. n.81/2008); presso unità produttive nelle quali si sia preceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi degli artt. 4 e 24, l. 23 luglio 1991, n.223, che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione, salvo che il contratto sia concluso per provvedere alla sostituzione di lavoratori assenti o abbia una durata iniziale non superiore a tre mesi. Analogamente, il divieto di ricorso alla somministrazione opera presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione.
Tre anni dopo, perseguendo l’intento opposto di limitare il ricorso al contratto di somministrazione a tempo determinato, la legge n. 96/2018 (c.d. Decreto Dignità) ha esteso al contratto di somministrazione a termine tutte le nuove limitazioni causali e di durata introdotte per il contratto a tempo determinato. Risulta così esteso alla somministrazione a tempo determinato il limite di 24 mesi, raggiunto anche per effetto di una successione di contratti conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale e indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro[26] .Con il decreto Dignità[27] la somministrazione di lavoro fraudolenta torna ad essere una fattispecie penalmente rilevante. Il nuovo art. 38-bis, D.Lgs. n. 81/2015 (introdotto dall’art. 2, comma 1-bis, D.L. n. 87/2018, convertito dalla legge n. 96/2018) definisce “somministrazione fraudolenta” la somministrazione di lavoro che “è posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore”.L’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la circolare n. 3 del 2019, ha spiegato come accertare la sussistenza del reato, illustrandone le caratteristiche, il regime sanzionatorio applicabile e le modalità di estinzione agevolata. Autore del reato può essere sia il somministratore non autorizzato dal Ministero del lavoro, sia l’Agenzia per il lavoro autorizzata e iscritta all’Albo. Inoltre, l’INL ha evidenziato che la somministrazione fraudolenta può realizzarsi anche nell’ambito di operazioni di distacco del personale e di appalto illecito.
[1] M.T.CARINCI, La fornitura di lavoro altrui. Interposizione. Comando. Lavoro temporaneo. Lavoro negli appalti. Commento all’art.2127 cod.civ., in Commentario al Codice Civile, diretto da P.SCHLESINGER,Giuffrè,Milano,2000.
[2]M. RUDAN, L’interposizione nelle prestazioni di lavoro e la nuova disciplina degli appalti di opere e di servizi, RTDPC, 1961, pp. 844 ss.
[3] G. De Simone, Impresa di gruppo e rapporti di lavoro, Milano, 1990, 204.
[4] G.De Simone, Titolarità del rapporto di lavoro e regole di trasparenza, Giuffrè, Milano, 1995, pp. 68- 69.
[5] O.Mazzotta, Rapporti interpositori e contratto di lavoro, Giuffrè, Milano, 1979, pp. 267 ss.
[6]E.LORIGA, La disciplina giuridica del lavoro in appalto, Milano, 1965, p. 131.
[7] L.Mariucci , Il lavoro decentrato: discipline legislative e contrattuali, Franco Angeli, Milano, 1979, pp. 157 ss.
[8] M.T.Carinci, Utilizzazione e acquisizione indiretta del lavoro. Somministrazione e distacco, appalto e subappalto, trasferimento d’azienda e di ramo: diritto del lavoro e nuove forme di organizzazione, Giappichelli, Torino, 2008, p. 19.
[9] g.benedetti, Profili civilistici dell’interposizione nel rapporto di lavoro, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1965, pp. 1505 ss .
[10] Si veda Cassazione civile, Sez. Lavoro, sentenza n. 7743 del 7 giugno 2000: La dissociazione fra il soggetto che ha proceduto all’assunzione del lavoratore e l’effettivo beneficiario della prestazione (fattispecie cosiddetta di distacco o comando), in forza del principio generale che si desume dall’art. 2127 c.c. e dalla L. n. 1369 del 1960 — che esclude che un imprenditore possa inserire a tutti gli effetti un proprio dipendente nell’organizzazione di altro imprenditore senza che il secondo assuma la veste di datore di lavoro —, è consentito soltanto a condizione che continui ad operare, sul piano funzionale, la causa del contratto di lavoro in corso con il distaccante, sì che il distacco realizzi uno specifico interesse imprenditoriale che consenta di qualificare il distacco medesimo quale atto organizzativo dell’impresa che lo dispone, così determinando una mera modifica delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa ed il conseguente carattere non definitivo del distacco stesso.
[11] R.DE LUCA TAMAJO, Metamorfosi dell’impresa e nuova disciplina del mercato dell’interposizione,RIDL,2003,I,p.167.
[12] A.TURSI, Il contributo dei giuslavoristi al dibattito sulla riforma del mercato del lavoro: note critiche in tema di fornitura di lavoro e lavoro a termine, in RIDL,2000,I,p.462.
[13] Si veda Cass., S.U., 19 ottobre 1990, n. 10183: Qualora il comune affidi in appalto a società privata la gestione di un centro elettronico (nella specie, per l’elaborazione di dati anagrafici, elettorali e finanziari, nonché in materia di paghe, stipendi e vaccinazioni), e detta società utilizzi locali, attrezzature, elaboratori e programmi del comune medesimo, senza un proprio apporto patrimoniale, nemmeno in termini di beni immateriali, si verifica violazione del divieto d’interposizione nelle prestazioni lavorative, di cui all’art. 1 l. 23 ottobre 1960 n. 1369, in considerazione della presunzione (assoluta) di appalto di mero lavoro, fissata dal 3° comma di detta norma, nonché dell’applicabilità della norma stessa, ai sensi del successivo 4° comma, anche agli enti pubblici, inclusi quelli non economici (in relazione ad attività di contenuto imprenditoriale, pur se rientranti nelle loro finalità pubblicistiche istituzionali); la predetta violazione implica nullità di contratto, per contrasto con disposizione imperativa (art. 1418 c. c.), e, quindi, può essere dedotta anche dal comune, per essere liberato dagli impegni assunti ed ottenere la restituzione dei corrispettivi già versati (salva restando l’esperibilità, da parte della società appaltatrice, dell’azione generale di arricchimento, ove ne ricorrano le prescritte condizioni).
[14] O.MAZZOTTA , Art. 2127, Interposizione ed appalto, in O. CAGNASSO – A. VALLEBONA, Dell’impresa e del lavoro, Artt. 2118 -2187, Commentario del codice civile diretto da E. GABRIELLI, Utet.
[15] AA.VV., Problemi di interpretazione e di applicazione della legislazione sulla disciplina degli appalti di opere e di servizi, Giuffrè, Milano, 1963, pp. 11 ss; R.RIVERSO, Appalti, processo e azioni (l’art.29 D.LGS.n.27672003), in LG,2014,853
[16] P.TOSI, Le nuove tendenze del diritto del lavoro nel terziario, DLRI,1991,p.613; P.ICHINO,La disciplina della segmentazione del processo produttivo e dei suoi effetti sul diritto del lavoro,DLRI,1999,p.203.
[17] Si veda Cass 11 maggio 1994, n. 4585, in Lav. giur., 1994, 1083 : “In tema d’interposizione nelle prestazioni di lavoro, l’utilizzazione da parte dell’appaltatore di capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante dà luogo ad una presunzione legale assoluta di sussistenza della fattispecie (pseudoappalto) vietata dall’art. 1, comma 1, della legge n. 1369 del 1960 solo quando detto conferimento di mezzi sia di rilevanza tale da rendere del tutto marginale ed accessorio l’apporto dell’appaltatore. La sussistenza (o no) della modestia di tale apporto (sulla quale riposa l’indicata presunzione iuris et de iure deve essere accertata in concreto dal giudice, alla stregua dell’oggetto e del contenuto intrinseco dell’appalto; con la conseguenza che (nonostante la fornitura di macchine ed attrezzature da parte dell’appaltante) l’anzidetta presunzione legale assoluta non è configurabile ove risulti un rilevante apporto dell’appaltatore, mediante il conferimento di capitale (diverso da quello impiegato in retribuzioni ed in genere per sostenere il costo del lavoro), know how, software e, in genere, beni immateriali, aventi rilievo preminente nell’economia dell’appalto”.
[18] Si veda Cass. SS.UU. 10183/1990: In tema d’interposizione nelle prestazioni di lavoro, la mancanza dell’impiego, da parte dell’appaltatore, di mezzi di produzione forniti dall’appaltante comporta solo l’inconfigurabilità della presunzione legale assoluta dell’esistenza di uno pseudoappalto vietato ai sensi dell’art. 1, comma 1, della legge n. 1369 del 1960, ma non esclude, di per sè, l’esistenza (o no) di tale pseudoappalto, la quale dev’essere verificata in concreto.
[19] R.DE LUCA TAMAJO, Diritto del lavoro e decentramento produttivo in una prospettiva comparata: scenari e strumenti,RIDL,2007,I,p.3; A.PERULLI, Diritto del lavoro e decentramento produttivo in una prospettiva comparata: problemi e prospettive,RIDL,2007,p.29.
[20] Ex pluris (Cass., S.U., 19 ottobre 1990, n. 10183, cit.; Cass., sez. lav., 11 maggio 1994, n. 10183; Cass., sez. lav., 15 luglio 2009, n. 16488). In quest’ultima pronuncia la corta ha ribadito che : In tema d’interposizione nelle prestazioni di lavoro, l’utilizzazione da parte dell’appaltatore di capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante dà luogo ad una presunzione legale assoluta di sussistenza della fattispecie vietata dall’art. 1, primo comma, della legge n. 1369 del 1960 solo quando detto conferimento di mezzi sia di rilevanza tale da rendere del tutto marginale ed accessorio l’apporto dell’appaltatore. In assenza di tale presupposto, la configurabilità di detta fattispecie vietata può essere esclusa quando, nonostante la fornitura di macchine ed attrezzature (nella specie, informatiche) da parte dell’appaltante, sia verificabile un rilevante apporto da parte dell’appaltatore, mediante il conferimento di capitale (diverso da quello impiegato in retribuzioni ed in genere per sostenere il costo del lavoro), “know how”, “software” ed in genere beni immateriali, aventi rilievo preminente nell’economia dell’appalto. (Rigetta, App. Roma, 17/05/2005).
[21] L. FERLUGA, La tutela dei lavoratori e il regime della responsabilità solidale nel contratto di appalto alla luce delle recenti (e forse ultime) modifiche, VTDL, 2018, n. 2, 407; D. ZAVALLONI, Appalti, responsabilità solidale e decadenza nelle pronunce di merito, nota a App. Bologna 11 febbraio 2019, GLav., 2019, n. 12, 51; M.SFERLAZZA-V.VENDITTI, Responsabilità solidale negli appalti : la nuova disciplina,DPL,2014,318.
[22] Si veda Cort.Cost., nn. 28 e 27 del 2017: È dichiarata ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione – limitatamente alle parti indicate nel quesito – dell’art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, recante la disciplina della responsabilità solidale di committente (imprenditore o datore di lavoro), appaltatore ed eventuali subappaltatori per i crediti retributivi, previdenziali e assicurativi dei lavoratori impiegati negli appalti. Nessuna preclusione alla richiesta proviene dai divieti posti dall’art. 75, secondo comma, Cost., né da profili attinenti a disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente obbligato, tenuto anche conto che la normativa di risulta manterrebbe comunque intatta la sua specialità rispetto alla disciplina dell’art. 1676 cod. civ. Anche se formulato con la c.d. tecnica del ritaglio, il quesito risponde, altresì, ai necessari requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità, palesando una matrice razionalmente unitaria, poiché l’ablazione proposta riguarda la deroga al regime di responsabilità solidale consentita alla contrattazione collettiva nazionale e l’articolata disciplina processuale dell’azione esperibile dal lavoratore (con il previsto beneficium excussionis a favore del committente), sicché l’elettore è posto di fronte a una chiara alternativa, tra il mantenere in vita l’attuale disciplina e quella di depurarla degli anzidetti due corpi di disposizioni autonome (non connaturati o essenziali rispetto alla disciplina della solidarietà a tutela del lavoratore impiegato nell’appalto), lasciando intatta soltanto la disciplina sostanziale sulla responsabilità solidale di committente (imprenditore o datore di lavoro) e appaltatore e eventuali subappaltatori, comprensiva degli obblighi tributari e dell’azione di regresso del committente, in modo da ristabilire, sostanzialmente, il testo della norma come scritto dalla legge n. 296 del 2006 prima degli interventi novellatori recati dalla legge n. 92 del 2012. (Precedenti citati: sentenze n. 26 del 2011 e n. 28 del 2011, sulle richieste referendarie che utilizzano la c.d. tecnica del ritaglio).
[23] D.IZZI, Lavoro negli appalti e dumping salariale, Giappichelli, Torino,2018..
[24] E. Gragnoli, Interposizione illecita e appalto genuino, in E. Gragnoli- A. Perulli (a cura di), La riforma del mercato del lavoro e i nuovi modelli contrattuali, 2004, Padova, 411 e 418;L.FERLUGA, Somministrazione e appalto: la tutela dei lavoratori nel gioco delle convenienze, in VTDL n.1/2022; V.FILI’, Prime note sulla somministrazione di lavoro, in F. Carinci ( a cura di), Commento al d.lgs.15 giugno 2015,n.81:le tipologie contrattuali e lo jus variandi, ADAPT University Press-Labour Studies, e-Book series n.48,2015; M. MIRACOLINI, Sull’illegittimità dell’interposizione di manodopera: sviluppi giurisprudenziali e normativi, nota a Cass. 27 gennaio 2021, n. 1754, LG, 2021, 1059.
[25] P.CAMPANELLA,Attività estranea all’oggetto dell’appalto tra interposizione illecita e prestazione di fatto, ADL, 2013,p.1043.
[26] M. D. FERRARA, La somministrazione di lavoro dopo il decreto «dignità», RIDL, 2019, I, 227.
[27] A.SARTORI,Prime osservazioni sul decreto dignità: controriforma del Jobs Act con molte incognite,RIDL,2018,I,677.