La riforma della giustizia, passando per la mediazione.

Una proposta di modifica.

a cura di Angelo Monoriti

  1. La riforma del processo civile: una riforma necessaria? II. Per l’efficacia della mediazione, la Suprema Corte di Cassazione “richiede” il negoziatore: una figura professionale nuova. III. Il primo tema di riforma. La scienza della negoziazione come materia obbligatoria nelle nostre università – IV. L’estensione delle “materie” soggette a mediazione obbligatoria: una riforma sufficiente? – V. Modificare l’incontro o la “preparazione” dell’incontro? Necessità per i cittadini e opportunità professionale – VI. Il funzionamento del cervello umano. I fatti e la percezione dei fatti – VII. La “prospettiva” di parte e la “rappresentanza” dell’avvocato – VIII. Rappresentanza in giudizio e assistenza in mediazione – IX. Mettersi nei panni dell’altra parte – X. Il secondo tema di riforma. Un nuovo servizio professionale: l’analisi del quadro negoziale – XI. Il terzo tema di riforma. Avvocato in giudizio e Negoziatore in mediazione. Il compenso del professionista – XII. Il quarto tema di riforma. Il segreto professionale e il mandato limitato – XIII. Il quinto tema di riforma. Le agevolazioni fiscali. Gli incentivi alla parte e al professionista. – XIV. In sintesi, Le proposte di modifica al D.Lgs. n. 28/2010 e alle altre disposizioni rilevanti.

I. La riforma del processo civile: una riforma necessaria?

E’ una metafora che ci può far comprendere il rischio di inefficacia di potenziali riforme che, per smaltire i contenziosi civili, tendano a modificare unicamente la struttura e le fasi del processo- giudizio. Supponiamo di avere una famiglia numerosa e di disporre di una sola lavatrice. Potremo anche accorciarne o modificarne il ciclo, ma se la quantità di panni che dovremo lavare è sempre altissima, il risultato complessivamente non migliorerà. Anzi il rischio sarà non solo che i singoli panni ne escano lavati sommariamente, ma anche che alcuni panni vengano lavati dopo mesi o, addirittura, anni, quando ormai non serviranno più. Occorrerà quindi mettere meno panni in lavatrice. Per fare questo i componenti della famiglia dovranno imparare a – ed essere “assistiti” per – mettere sempre meno panni in lavatrice, e cominciare sempre più spesso a lavarli a mano. Solo così potranno apprezzare di più anche la lavatrice, quando sarà necessario utilizzarla. Per imparare a lavare bene a mano, piuttosto che usare la lavatrice, servono percorsi di formazione diversi: così come diversi sono i percorsi di formazione professionale necessari per fare accordi rispetto a quelli necessari per ottenere decisioni[1]: la scienza della negoziazione e il diritto.

Per produrre accordi, piuttosto che decisioni, occorre preparare professionalmente dei tecnici che siano in grado di “assistere” (e non di “rappresentare”) le parti in una negoziazione diretta o in una mediazione, esattamente così come gli avvocati sono perfettamente in grado di “rappresentare” le parti nel processo-giudizio.

II. Per l’efficacia della mediazione, la Suprema Corte di Cassazione indica una “figura professionale nuova”: il negoziatore

Per “assistere” le parti in mediazione non occorre imparare a “mediare” (questa è un’attività riservata al “mediatore”), ma occorre imparare a negoziare e, cioè, apprendere gli interessi di entrambe le parti e “combinarli” per generare soluzioni al problema comune anche al di là del thema decidendum che si pone sul piano giuridico. La preparazione tecnico-professionale di chi “assiste” una parte in mediazione è, dunque, basata sullo studio della scienza della negoziazione[2]. A ben vedere, infatti, è proprio questo il senso di quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con la propria pronuncia n. 8473/2019[3]. Riferendosi all’avvenuta introduzione nel nostro ordinamento – ad opera del D. Lgs. 28/2010 (come novellato nel 2013) – della presenza necessaria dell’avvocato in mediazione, la Corte ha infatti chiarito che l’efficacia di questo strumento – la mediazione, appunto – richiede la “… progressiva emersione di una figura professionale nuova, con un ruolo in parte diverso e alla quale si richiede l’acquisizione di ulteriori competenze di tipo relazionale e umano, inclusa la capacità di comprendere gli interessi delle parti al di là delle pretese giuridiche avanzate”. E’ quindi chiaro che, se per affrontare un processo-giudizio (e, quindi, per ottenere una decisione) ci vuole un avvocato che “rappresenti” la parte (cioè la “escluda” dal procedimento) e che sappia parlare il linguaggio della “decisione”, per affrontare una mediazione (e, quindi, per ottenere un accordo) ci vuole un professionista “… esperto in tecniche negoziali che “assiste” la parte nella procedura di mediazione …”; un professionista, cioè, che sappia far utilizzare alla parte il linguaggio dell’accordo. Non è dunque sufficiente che questo professionista abbia acquisito il titolo di avvocato sulla base di una preparazione tecnico-giuridica, ma è necessario che abbia una specifica preparazione in scienza della negoziazione. Pertanto, sebbene il D.Lgs. n. 28/2010 imponga la presenza dell’avvocato in mediazione (richiedendo, in apparenza, la mera presenza di un soggetto con la relativa abilitazione e, quindi, con una preparazione tecnico-giuridica) in realtà ciò che è – e dovrebbe, anzi, essere esplicitamente – richiesto dalla legge è che il professionista che “assiste” la parte in mediazione abbia una specifica preparazione professionale di tipo tecnico-negoziale e non (solo) di tipo tecnico- giuridico. La “figura professionale nuova” cui si riferisce la Cassazione non è – e non può essere – dunque l’avvocato in quanto tale, richiedendosi che tale soggetto – a seguito di apposito processo di formazione universitaria o post-universitaria – sia divenuto anche un “negoziatore” ovvero un professionista dotato di speciale competenza in scienza della negoziazione. E’ il negoziatore che “assiste” la parte in mediazione (anche se ha il tesserino da avvocato), non l’avvocato. E qualora un avvocato abbia studiato anche scienza della negoziazione, concentrando in sé, sia la preparazione tecnico-giuridica, sia la preparazione tecnico-negoziale, è fondamentale che in mediazione dispieghi quest’ultima e non la prima; pena la trasformazione della mediazione, come sempre più spesso accade, in un “giudizio anticipato”. E sì, perché la mediazione non è affatto un “giudizio anticipato” da poter gestire con le logiche dei tecnici del diritto (del resto, come detto, non deve produrre una “decisione”), ma una negoziazione fra le parti – che devono quindi essere necessariamente presenti[4] – “assistita” dai negoziatori delle parti stesse.

III. Il primo tema di riforma. La scienza della negoziazione come materia obbligatoria nelle nostre università.

Da tutto quanto sopra discendono due importanti conseguenze:

  • in mediazione, ai lati del mediatore, dovrà richiedersi la presenza di (una, anzi, due) “figure professionali nuove” e, cioè, di professionisti che – indipendentemente dall’aver acquisito l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato – abbiano studiato scienza della negoziazione;
  • siccome a tali figure professionali si richiede lo studio di una materia diversa dal diritto – quale è la scienza della “negoziazione”[5] – è evidente che questa scienza dovrà essere introdotta e diventare centrale nel nostro sistema universitario.

Il legislatore non potrà far altro – prima o poi – che prendere atto, e dare finalmente attuazione, a quanto sopra prevedendo espressamente che la scienza della negoziazione divenga materia obbligatoria nelle nostre università.

E ciò avrebbe gradualmente importanti conseguenze nell’ottica di riduzione del numero dei contenziosi che ingolfano il nostro sistema giudiziario; un obiettivo deflattivo che si continua invece a perseguire attraverso (ipotesi) di riforme che riguardano unicamente la struttura dello stesso processo–giudizio (v. parag. I) oppure – per incidere sul rapporto tra questo e la mediazione – unicamente attraverso il dibattito sull’estensione del novero delle controversie soggette a mediazione obbligatoria (cfr. art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28)[6]. L’introduzione della scienza della negoziazione come materia universitaria e, quindi, la formazione “nuove figure professionali” (quali sono i “negoziatori”) è dunque la premessa delle riforme: la riforma di base. Del resto, senza disporre di “nuove figure professionali” in grado di “assistere” le parti verso la produzione di “accordi” e non solo verso la produzione di “decisioni”, non solo si continuerebbe ad affidare l’”assistenza” in mediazione a puri tecnici del diritto (e, quindi, a tecnici formati per ottenere “decisioni”), ma il dibattito sull’efficacia della mediazione in sé e/o sull’effetto deflattivo rispetto al processo-giudizio continuerebbe ad essere viziato da “preconcetti” legati ad un punto di osservazione “parziale”, piuttosto che da analisi empiriche sui risultati raggiunti dallo strumento della mediazione una volta che lo stesso sia stato però messo in grado di funzionare efficacemente.

IV. L’estensione delle “materie” soggette a mediazione obbligatoria: una riforma sufficiente?

Ad uno sguardo attento emerge chiaramente che il D. Lgs. 4 marzo 2010, n. 28 non è stato tanto il frutto di un disegno complessivo di riforma, quanto piuttosto il risultato della volontà di perseguire in via immediata lo scopo pratico della deflazione del processo pensando che, a tal fine, sarebbe stata sufficiente la semplice creazione di una sorta di “anticamera”. Le peculiarità del processo di mediazione non emergono pienamente dalla disciplina legislativa la quale – al contrario – ne mortifica le caratteristiche riducendola ad una mera occasione di “incontro” per tentare una “conciliazione” su una controversia già delineata sul piano giuridico; un incontro che, alla fine, avviene spesso senza le parti e senza che ci sia stata una preparazione (professionale) prodromica all’incontro stesso. In effetti il quadro complessivo che emerge dalla regolamentazione legislativa appare molto riduttivo rispetto alle effettive potenzialità di uno strumento dell’ordine negoziato quale è la mediazione[7]. Pertanto, per come è stato disciplinato – e successivamente modificato – il procedimento di mediazione farà fatica a dare i suoi frutti per raggiungere quel risultato pratico che il legislatore pure si era prefissato: e, cioè, l’alleggerimento del carico che grava sulla macchina della giustizia. Certamente, come detto, l’estensione del novero delle materie per le quali la mediazione diverrebbe “obbligatoria” potrebbe apportare un incremento sensibile del numero di mediazioni, ma un tal provvedimento potrebbe di per sé non rivelarsi sufficiente poiché – anche a voler prescindere dalla contraddizione in termini fra “obbligatorietà” e “mediazione”[8] – lo stesso rischierebbe di continuare ad “imporre” alle parti e ai loro avvocati uno strumento ancora “sconosciuto” dal punto di vista tecnico (poiché non vi una preparazione professionale alla base) e, quindi, di mettere a disposizione di tutti uno strumento potenzialmente “potentissimo” che però continuerebbe ad essere scambiato per un semplice “incontro” in cui ci si limita a dirsi – in base alla posizione di partenza – se si è intenzionati o meno a trovare un accordo. Insomma, si rischierebbe di imporre ancor più l’utilizzo di un’automobile a chi non la sa (e, anche per questo motivo, non la vuole) guidare. Ben venga dunque un provvedimento che preveda l’estensione del novero delle materie soggette a mediazione obbligatoria, purchè si consenta, però, non solo alle parti di disporre di uno strumento che “funziona” correttamente (il che equivale a dire che le parti debbano poter disporre della corretta “assistenza” professionale), ma anche ai professionisti coinvolti di crearsi – e quindi di poter beneficiare – di un nuovo spazio di opportunità professionale ed anche economica.
Il tutto per fare in modo che, pur passando inizialmente da una previsione di “obbligatorietà della mediazione” (più estesa di quella attuale), alla fine di tale previsione non vi sia più sostanzialmente bisogno, poiché saranno le stesse parti e, soprattutto, i professionisti che le “assistono” ad avere acquisito la cultura e la professionalità della mediazione.

V. Modificare l’incontro o la “preparazione” dell’incontro? Necessità per i cittadini e opportunità professionale.

Proprio alla luce di quanto sopra, se si volesse immaginare una complessiva ed efficace proposta di riforma della normativa in questione, occorrerebbe partire da un principio fondamentale: quello cioè secondo cui la mediazione non è nient’altro che una negoziazione fra le parti (e non certo fra gli avvocati) guidata dal mediatore. La mediazione, quindi, è – e deve rimanere – un procedimento autonomo ed informale che non tollera “regole procedurali” poste dall’esterno (da soggetti e/o entità terze diverse dalle parti e/o dalla legge) pena la palese “distorsione” dell’efficacia del meccanismo che deve invece lasciare alle parti la disponibilità del controllo non solo sulle tempistiche e sulle modalità di incontro, ma anche sulla sostanza del conflitto. Gli avvocati non possono “rappresentare” le parti (e cioè sostituirle), ma devono “assisterle” (cioè, “prepararle” ed “affiancarle”). Cambia il servizio professionale. Non è più quello tipico dell’avvocato, ma quello del negoziatore: un servizio che chi è già avvocato può – previa adeguata formazione – svolgere egregiamente sia pur con la presenza necessaria delle parti. Del resto, in mediazione si producono accordi. Non decisioni. E l’accordo è delle parti. E’ evidente, dunque, che la modifica della disciplina della mediazione non può riguardare lo svolgimento dell’incontro in sé (che, come detto, deve rimanere autonomo ed informale), ma la “preparazione” dell’incontro di mediazione. E tale modifica, oggi, non è solo una necessità per lo Stato e per i cittadini, ma diventa una straordinaria opportunità professionale, soprattutto per gli avvocati. Proviamo dunque ad immaginare quali potrebbero essere i correttivi in grado di dare un impulso a questo strumento tenendo conto di quanto sopra. Per fare questo, però, occorre fare un passo indietro. Occorre muovere dal funzionamento del cervello umano e dal modo in cui vengono percepiti i fatti della vita.

VI. Il funzionamento del cervello umano. I fatti e la percezione dei fatti.

Le percezioni sono il nostro modo di vedere il mondo e ciò che ci circonda. Siamo portati a credere che la realtà, così come la vediamo, sia oggettiva e assoluta, senza essere consapevoli della relatività e della soggettività della nostra percezione. La realtà, invece, per ciascuno di noi, è un’esperienza altamente soggettiva filtrata dal pensiero. Non può esistere una realtà unica e indiscutibile, ma esisteranno sempre “più realtà”. In base a “come” un fatto viene percepito da un individuo, questo può assumere un valore e un significato diverso. Quindi, così come noi percepiamo la “nostra” realtà, anche il nostro interlocutore percepisce la “sua realtà”.

Il fatto è identico. Qualcuno percepirà un volto di donna, qualcun altro un sassofonista. Di fronte ad un conflitto, dunque, gli individui non si relazionano mai sulla base di una oggettiva e razionale analisi dei dati di fatto e delle “questioni materiali”. Nell’interpretazione dei “fatti” gli individui sono influenzati dalle loro esperienze passate, dai loro legami sociali (i.e. il sentimento di connessione con un individuo o con un gruppo)[9], dall’immagine che hanno di sé[10]. Come diceva Carl Gustav Jung: “Non vediamo le cose come sono, ma vediamo le cose come siamo”. In altre parole, il nostro cervello tende ad elaborare ed interpretare le informazioni (i fatti, le immagini, ecc.) in maniera selettiva in modo, cioè, da trascurare tutto ciò che non è conforme ai nostri desideri, alle nostre aspettative e alla nostra prospettiva[11]. Vediamo, insomma, quello che vogliamo vedere. Questo fenomeno viene definito percezione selettiva[12]. La percezione selettiva è una distorsione cognitiva molto comune. Influenza il meccanismo di percezione facendoci vedere, ascoltare o concentrare su stimoli basati sulle nostre aspettative, tralasciando il resto delle informazioni. Questo fenomeno si verifica anche nel momento in cui affrontiamo un conflitto. Il nostro cervello seleziona solo le informazioni e le circostanze “utili” a sostenere la nostra posizione. Tendiamo automaticamente a non considerare, ovvero a considerare “non valide”, alcune informazioni, dichiarazioni e/o circostanze solo perchè dette o fatte dall’altra parte. Quindi il più delle volte il conflitto – anche se apparentemente esistente sulla sostanza delle cose – in realtà sta nelle “percezioni di ciascuna parte”; non sta sui fatti, ma sulla diversa percezione di quegli stessi fatti[13]. Pertanto, in ottica negoziale, tentare di convincere l’altro sulla sostanza così come essa si presenta dal “proprio punto di vista” è un atteggiamento inefficace. Un negoziatore deve comprendere “come l’altro vede le cose” per avere un “quadro complessivo” del problema; problema che, come evincibile da quanto sopra, il più delle volte si colloca nel modo in cui l’altra parte vede e percepisce la sostanza del negoziato[14]. Comprendere il modo di pensare e di sentire dell’altra parte consente di mantenere sempre “separate le persone dal problema” e, quindi, di spostarsi dal “sentiero” che porta ad una decisione e “viaggiare” sull’autostrada che consente di addivenire ad un accordo.

VII. La “prospettiva” di parte e la “rappresentanza” dell’avvocato.

Normalmente nella vita le parti dispongono di diverse informazioni riguardo ad un identico fatto.
Tuttavia, anche quando le parti hanno a disposizione le stesse identiche informazioni, le loro conclusioni sono sempre influenzate dal “pregiudizio di parte”[15]. Una parte seleziona, e presta attenzione, alle informazioni e ai fatti che supportano la sua “ragione”, cancellando le altre. E l’altra parte tende a fare lo stesso. Il “pregiudizio di parte” si consolida nel momento in cui il cliente si rivolge ad un avvocato. L’avvocato è un tecnico formato professionalmente per risolvere i conflitti con uno fra i diversi metodi a disposizione: il diritto[16]. Il diritto consente di risolvere i conflitti attraverso una decisione. La logica che guida l’intervento di un avvocato – anche in quella fase che viene definita “stragiudiziale” – ha sempre come parametro di riferimento una potenziale decisione. Ora, l’avvocato raramente assiste alla nascita del conflitto. Viene coinvolto nel conflitto, nella stragrande maggioranza dei casi, quando questo è ormai divenuto controversia. La controversia è il prodotto del conflitto, la sua concreta manifestazione. Le parti hanno già preso “posizione” e la comunicazione si è interrotta. La controversia è su uno specifico oggetto materiale ed è meno ampia rispetto al conflitto. L’avvocato è quindi sollecitato a intervenire quando il contrasto tra le parti si è cristallizzato su un punto specifico ed esibisce ormai una chiara divergenza di posizioni. La differente percezione di valori, interessi, emozioni, aspirazioni, preferenze che sta alla base di questa controversia non è più chiaramente visibile. Nel momento in cui il cliente incontra il proprio avvocato, del resto, si sono già verificate le due circostanze che impediscono a quest’ultimo di “vedere” il conflitto “a monte” e lo costringono a gestire la mera controversia:

  • l’interruzione della comunicazione fra il cliente e il suo interlocutore (che diventa, così, la sua “contro” parte);
  • il “posizionamento” del cliente e il consolidamento della sua percezione dei fatti come una percezione “di parte”.

Del resto, ogniqualvolta la comunicazione fra le parti risulta carente o assente questo distorce in senso negativo la percezione dell’altro; l’incomunicabilità produce pregiudizi che generano false identità. Per effetto di ciò, ciascuna parte genera l’immagine del “nemico” e raggiunge il convincimento che per uscire dal conflitto non debba e non possa dissolvere il conflitto interagendo con l’altra parte, ma debba “vincere la controversia” contro l’altra parte. La stessa parte chiede, dunque, di “accedere” ad un terzo (il giudice) che gli dia “ragione” [17]. Per “vincere” sull’altra parte. Escludendo l’uso della forza, per “vincere” sull’altra parte occorre farsi “rappresentare” da qualcuno con una professionalità tecnico-giuridica quale quella alla base della formazione dell’avvocato. L’avvocato risolve controversie attraverso il diritto. Non dissolve conflitti. L’avvocato, dunque, ricevuta la visita del cliente, “selezionerà” ancora di più le informazioni disponibili mantenendo quelle che – alla luce di quanto previsto dalle regole giuridiche – risultano favorevoli al cliente e scartando quelle che non lo sono. E così farà l’avvocato dell’altra parte. Di fronte allo stesso identico fatto, l’avvocato dell’attore si concentrerà sulle informazioni più favorevoli alla propria parte, mentre l’avvocato del convenuto solo sulle informazioni più favorevoli all’altra parte. Del resto, le ricerche scientifiche dimostrano che questa lettura “di parte” delle informazioni è inevitabile e si verificherebbe anche nel caso in cui venisse richiesto all’avvocato di assumere un atteggiamento “neutrale”. Una volta “saputo” chi debba rappresentare, un soggetto perde l’abilità di analizzare le informazioni oggettivamente e diviene vittima di un pregiudizio auto-indotto[18]. Al riguardo, basti pensare che frequentemente – anzi, quasi sempre – la valutazione in termini percentuali dell’esito della controversia fatta dall’avvocato dell’attore è sempre diversa da quella dell’avvocato del convenuto. E frequentemente, all’esito di tali valutazioni, sommando le percentuali di successo fornite separatamente alle parti dai propri avvocatisi giunge ad un valore superiore al 100%. Stessi fatti, percezioni diverse, posizioni opposte. L’interpretazione dei fatti da parte dell’avvocato non potrà (e non dovrà) mai essere neutrale, ma è anche vero che per risolvere controversie con il metodo del diritto non bisogna essere neutrali. Del resto, come detto, il parametro di riferimento “virtuale” per risolvere una controversia con il metodo del diritto è pur sempre una decisione (che può essere a favore dell’uno o dell’altro) e non un accordo. L’avvocato non è un recettore neutrale dei fatti poiché, nel momento in cui questi gli vengono esposti, inizia già a operare raffronto ed un filtro in base alle norme in astratto applicabili. Pertanto, l’intervento dell’avvocato “è molto selettivo già nella fase della raccolta delle informazioni riguardanti la vicenda in fatto, il che finisce per instaurare un movimento circolare in cui i fatti e le qualificazioni giuridiche si rincorrono e ridefiniscono a più riprese[19]. Per svolgere professionalmente il proprio lavoro, l’avvocato che raccoglie elementi di fatto deve necessariamente collegarli a qualificazioni di diritto; via via che gli elementi di fatto vengono acquisiti, l’avvocato deve riformulare progressivamente le qualificazioni giuridiche, innescando ripetuti rinvii tra fatti e qualificazioni[20]. L’avvocato ricostruisce – selezionando – il perimetro dei soli fatti che hanno rilievo giuridico. Si definisce un orizzonte limitato e di parte. Una tesi. E per ogni tesi – dall’altra parte – ci sarà anche un’antitesi. Ci si confronta, dunque, senza comunicare veramente, senza “scambiarsi informazioni” e con percezioni divergenti. E ciò è normale poiché nessuna parte, da sola, può disporre della “verità”, ma sarà un terzo a rivelarla sotto forma di “vittoria” e, quindi, a stabilire chi prevale, chi ha ragione, chi “vince” secondo la regola. Pertanto, questo processo “selettivo” di informazioni – già insito nei meccanismi di funzionamento del nostro cervello – è fisiologico per un avvocato. Anzi, è proprio oggetto della sua formazione ed è l’espressione della miglior capacità tecnica per un professionista del diritto. In effetti, un professionista del diritto “seleziona” informazioni e, in particolare, quelle che gli consentono di dimostrare che esiste un diritto soggettivo. Solo chi ha un diritto soggettivo ha ragione. E vince. L’altro perde. L’avvocato deve “vincere”[21]. L’avvocato è un professionista del diritto. E’ un tecnico formato per risolvere una controversia in termini giuridici (decisione) e non per dissolvere un conflitto in termini negoziali con un accordo. Egli deve “rappresentare” il proprio cliente (cioè sostituirlo) e “vincere”. L’avvocato prende, dunque, posizione. Il fatto è il medesimo. Ma vi sarà comunque una contrapposizione. E questa contrapposizione, laddove per puro caso non si delineasse una zona di possibile accordo sul singolo oggetto della controversia, porterà a – e richiederà una – decisione. Secondo le regole. Secondo diritto. Si noterà, tuttavia, che, anche a seguito di una decisione, risolta la controversia, non sarà dissolto il conflitto. Perché risolvere una controversia (con una decisione) e dissolvere un conflitto (con un accordo) sono due cose completamente diverse[22].

VIII. Rappresentanza in giudizio e assistenza in mediazione

Orbene, è chiaro che la formazione e la capacità tecnica che l’avvocato esprime per risolvere una controversia con il metodo del diritto mal si concilia con il procedimento di mediazione. La mediazione non è un metodo che consente ad una parte di ottenere una decisione, è un metodo che

consente alle parti di arrivare ad un accordo. La mediazione sfugge alla logica della contrapposizione. E’ un modello di risoluzione dei conflitti diverso da quello della iurisdictio. Non vi è un terzo che decide. Non si applicano regole procedurali, a meno che non siano le parti a determinarle e ad accettarle concordemente. Non c’è bisogno per le parti di prendere posizione e di contrapporsi. Il mediatore non ha alcuna legittimazione ad imporre una soluzione. La soluzione deve essere trovata dalle parti che possono avvantaggiarsi di un esito completamente innovativo rispetto alle posizioni di partenza. La composizione della lite non avviene per mezzo di una decisione, ma di un accordo. Un atto negoziale. Pertanto, se è diverso il mezzo con cui si giunge a dissolvere il conflitto (ripetesi, non più una decisione, ma un accordo), diverso è anche il servizio di “assistenza professionale” che deve essere fornito a ciascuna parte. Un professionista in questo caso non dovrà “rappresentare il proprio cliente per vincere”, ma dovrà “assistere” il proprio cliente per far sì che questi contribuisca a risolvere il problema più grande (conflitto) di entrambe le parti. Lo sguardo non sarà più rivolto al passato per trovare e attribuire responsabilità all’altro, ma al futuro per generare opzioni e per scrivere la nuova costituzione del rapporto (l’accordo). L’ottica cambia radicalmente: non si “selezionano” informazioni, ma si “acquisiscono più informazioni possibili”. Nel caso in cui un professionista sia chiamato a svolgere attività di “assistenza” in mediazione, dovrà quindi acquisire la più ampia quantità di informazioni e di un genere (anche) diverso rispetto a quelle che solitamente sono rilevanti per gestire una controversia con il metodo del diritto. Il servizio non è più un servizio di “difesa”, ma un servizio di intelligence informativa. In altre parole, se è vero, come detto, che l’impostazione di una difesa giudiziale impone di essere molto selettivi nella raccolta delle informazioni e conduce ad una visione “atomistica” della questione (perchè il processo è un ingranaggio che tende a semplificare la vicenda in fatto in modo da poter più agevolmente operare le necessarie qualificazioni giuridiche), è vero anche che in una negoziazione diretta o in una mediazione non si tratta più di “selezionare” gli elementi di fatto rilevanti rispetto ad una regola poiché non si deve ottenere “ragione” attraverso una decisione. Occorre invece interpretare i fatti non solo dal punto di vista del proprio assistito, ma anche dal punto di vista dell’altra parte per verificare e “riallineare” le diverse percezioni sugli stessi fatti e identificare i reciproci interessi. Come noto, la preparazione tecnico-professionale dei giuristi si basa su un principio: ciò che conta sono i fatti e, quindi, conta solo “chi ha ragione e chi ha torto” tenuto conto delle regole che disciplinano quei fatti. Per “assistere” una parte in mediazione occorre invece muovere da un altro principio e, cioè, che quello che rileva – prima di tutto – sono le “percezioni” che entrambe le parti hanno di quegli stessi fatti. Senza cogliere la prospettiva ed il punto di vista anche dell’altra parte, un professionista non potrà mai essere efficace nel produrre accordi. In questo senso, il professionista deve estendere le sue valutazioni anche ad elementi ed informazioni quali il tempo, la relazione, le emozioni, le necessità, i bisogni di ciascuna parte che sono all’origine del conflitto e che, invece, per il diritto sono irrilevanti. Si passa, dunque, dallo studio dei diritti soggettivi, alla ricerca degli interessi umani. Del resto, all’origine di qualsivoglia tipologia di conflitto si trovano sempre e comunque gli interessi degli individui. Gli interessi possono essere definiti come l’insieme dei desideri, dei bisogni e delle preoccupazioni che motivano le persone; le esigenze interiori dell’agire umano. Gli interessi sono ciò che si cela dietro la posizione socialmente assunta dagli individui[23]. Gli interessi sono un insieme molto più grande di quello dei diritti soggettivi. Pertanto, considerato che non tutti gli interessi trovano un diritto soggettivo corrispondente tutelato dall’ordinamento, lo spazio di lavoro professionale diventa molto più grande.

Colui che “assiste” la parte in mediazione dovrà acquisire e sviluppare questa specifica professionalità ovvero quella capacità che è stata definita dalla stessa Suprema Corte di Cassazione come la “…capacità di comprendere gli interessi delle parti al di là delle pretese giuridiche avanzate” (v. Cass. Civ. n. 8473/2019).

Peraltro, una volta acquisita anche questa specifica capacità, l’ “assistenza” in mediazione di un professionista che ha già di base anche una preparazione tecnico-giuridica (avvocato) si rivelerà di fondamentale importanza per le parti nel momento finale del processo e, cioè, quello in cui il diritto ritornerà ad avere un ruolo: il momento in cui – qualora la mediazione dovesse avere esito positivo – occorrerà redigere un accordo. Sebbene l’accordo non rappresenti il fine di una mediazione (posto che il fine di una mediazione è rappresentato dalla combinazione degli interessi), ma solo il mezzo, esso rappresenta la “sintesi” del nuovo rapporto costituito fra le parti e diventa, quindi, uno strumento rilevante giuridicamente. Ecco, dunque, che in quest’ottica la presenza in mediazione (anche) di una professionalità tecnico-giuridica, oltre a quella tecnico-negoziale di base, potrà essere di ulteriore ausilio per consentire alle parti di avere piena consapevolezza e puntuale cognizione anche delle conseguenze giuridiche cui rimarranno esposte sottoscrivendo l’accordo. Per far sì dunque che gli avvocati recitino un ruolo da “protagonisti” nel processo di mediazione occorrerà prima “professionalizzare” il loro apporto dal punto di vista tecnico-negoziale, di modo che possano “assistere” le parti e farle uscire dalla logica di contrapposizione; quella logica, cioè, che ha un senso solo se si agisce nella “presunzione” che le parti non possano mantenere il controllo del conflitto e che, quindi, sia sempre inevitabile l’intervento di un terzo per applicare una regola e per attribuire ragione o torto. Ecco, dunque, l’obiettivo della nuova “figura professionale” invocata dalla Cassazione e che dovrà “risiedere” in entrambi i professionisti che “assistono” le parti in mediazione: consentire alle parti di mantenere esse stesse il controllo sul conflitto in corso.
Solo così potremo ottenere il risultato di “rimarcare la responsabilità sociale che grava sull’avvocato, in modo da evitare che l’assolvimento dell’incarico professionale di curare gli interessi del cliente possa ottundere le responsabilità che ricadono sul professionista come membro di una comunità più ampia, come cittadino, come uomo”[24]. Alla luce di quanto sopra, se è vero – com’è vero – che il servizio di un professionista in mediazione non è – e non può essere – una mera rappresentanza tecnico-giuridica (basata sui diritti soggettivi), ma un’assistenza tecnico-negoziale (basata sugli interessi), è facile comprendere che la prima fondamentale operazione che questa “nuova figura professionale” deve saper svolgere professionalmente costituisce esplicazione nel fondamentale principio del “mettersi nei panni degli altri”.

IX. Mettersi nei panni dell’altra parte.

Per effetto del meccanismo delle percezioni, ognuno di noi tende a vedere unicamente i meriti delle proprie argomentazioni e i difetti di quelle dell’altro. E questa impostazione si “riproduce” nell’attività di analisi tipica dei “professionisti del diritto” i quali hanno l’obiettivo di dimostrare che la parte ha “ragione” secondo la regola e, quindi, è nel “giusto”. Un negoziatore, al contrario, deve vedere la situazione “così come la vede l’altro” e cercare di capire come l’altro percepisce i fatti. Non è sufficiente dirsi che l’altro pensa e vede le cose in modo diverso, ma è necessario comprendere quali sono gli interessi, i sentimenti e la dimensione emotiva dell’altra parte. Occorre vedere non solo i difetti, ma anche i meriti delle altrui argomentazioni. Perchè? Perchè per fare accordi (non decisioni) occorre percorrere una strada a due corsie: non è possibile soddisfare i nostri interessi senza riconoscere e provare a soddisfare gli interessi dell’altro; interessi che, quindi, occorre prima di tutto identificare. Quindi solo il “mettersi nei panni dell’altro” può consentire di riesaminare le proprie convinzioni, ridurre le zone di potenziale conflitto, far progredire il proprio interesse sotto una luce diversa e, soprattutto, combinare i propri interessi con quelli degli altri. Insomma, per fare accordi occorre essere “assistiti” professionalmente a “mettersi nei panni degli altri”.
Ma quale strumento pratico può essere utilizzato a tal fine da un professionista della mediazione?

X. Il secondo tema di riforma. Un nuovo servizio professionale: l’analisi del quadro negoziale.

Abbiamo visto che il professionista in mediazione non sostituisce la parte, la “assiste” mettendosi al suo fianco e che questa “assistenza” si sostanzia nel supportare la parte stessa a “mettersi nei panni degli altri” per rilevarne gli interessi “al di là delle pretese giuridiche avanzate”. Il professionista deve dunque preparare non solo sè stesso, ma anche la parte. Il professionista non può limitarsi a valutare le ragioni del proprio cliente, i suoi diritti; non può solo “selezionare” informazioni, ma deve “ampliare” il raggio delle informazioni disponibili. Egli deve svolgere un’attività che, sebbene non richiesta dal punto di vista tecnico-giuridico (cioè nella logica del diritto), risulta essenziale dal punto di vista tecnico-negoziale e, cioè, estendere sin da subito le proprie valutazioni al “punto di vista dell’altra parte”. Il professionista deve “vedere”, “analizzare” e valutare la questione “mettendosi nei panni dell’altra parte”. E poi trasferire e discutere queste valutazioni con il proprio cliente. Si tratta di identificare, non solo la posizione dell’altra parte (cosa vuole?), ma anche: (i) i suoi interessi (perché lo vuole?) per poi determinare altresì (ii) la migliore alternativa all’accordo negoziato, (iii) le possibili opzioni, (iv) il/i punto/i di resistenza, e (v) la/le zone di possibile accordo. Il ruolo del professionista è centrale per condurre il cliente ad acquisire piena consapevolezza non solo dei propri reali interessi, ma anche degli interessi dell’altra parte. Ricordiamo sempre che il servizio professionale offerto alla parte è – e deve essere funzionale – alla ricerca di un accordo, non di una decisione. E per poter identificare gli spazi per un accordo occorre comprendere non solo cosa c’è nella testa del proprio cliente, ma anche cosa c’è nella testa dell’altra parte e, cioè, quali sono i reali motivi del loro agire (i loro reciproci interessi): proprio quelli che in diritto non sono rilevanti. Ma vediamo meglio questo percorso logico. A fronte alla rappresentazione dei fatti offerta dal proprio cliente, un professionista non potrà limitarsi a identificare la posizione di quest’ultimo (what?), ma dovrà analizzare la controversia “dal punto di vista dell’altra parte”. A tal fine dovrà raccogliere più informazioni possibili al fine – in particolare – di identificare i reali interessi (why?) non solo del proprio cliente, ma anche quelli dell’altra parte. Questa attività di intelligence informativa consentirà al professionista di “uscire” dall’oggetto della controversia (il c.d. thema decidendum) e così – combinando gli interessi delle parti – di poter trovare soluzioni utili per risolvere il conflitto in maniera più ampia (c.d. “allargamento della torta”). Il tutto con lo sguardo rivolto non al passato (per attribuire responsabilità), ma al futuro (per risolvere il problema più grande che coinvolge entrambe le parti). Inoltre, sempre prima di affrontare una mediazione, il professionista dovrebbe essere in grado di determinare il c.d. BATNA (Best alternative to a negotiated agreement) di ciascuna parte. E’ il parametro per determinare non solo se e fino a che punto sia conveniente accettare il contenuto di quel dato accordo, ma anche la forza negoziale di ciascuna parte. La forza negoziale di ciascuna parte non dipende, infatti, né dalla sua ricchezza, né dalla sua reputazione, ma essenzialmente dalla sua “migliore alternativa” all’accordo. Ed è il rapporto relativo fra i BATNA delle parti che indica il rapporto di forza in quella data negoziazione. In questo senso, considerato che nelle controversie che giungono all’attenzione dell’avvocato, nella maggioranza dei casi la “miglior alternativa” di una parte (o di entrambe) è il “processo-giudizio”, un professionista che ha già una competenza tecnico-giuridica (come l’avvocato) sarà avvantaggiato poiché sarà meglio in grado di “determinare” il valore del BATNA tenendo conto della percentuale di vittoria/soccombenza, della durata presumibile del processo e delle spese del giudizio[25]. Una volta determinati gli interessi delle parti e il BATNA, sarà possibile determinare anche le possibili opzioni/soluzioni, i relativi punti di resistenza e le zone di possibile accordo. Le valutazioni di cui sopra richiedono una preparazione specifica e, quindi, possono essere oggetto di un servizio professionale che ha un valore tecnico- scientifico ed economico. Per dare valore tangibile a questo servizio professionale è opportuno che lo stesso si concretizzi nella preparazione di un documento; un documento analogo – sul piano negoziale – a quelli che per i tecnici del diritto sono il parere e l’atto giudiziario. La proposta è quindi di richiedere al professionista di “cristallizzare” le suddette informazioni in un documento scritto da predisporsi in fase di preparazione alla mediazione per poi “aggiornarle” man mano che – anche nel corso della mediazione – si raccolgano maggiori informazioni. A tal fine, lo strumento che il professionista dovrà saper predisporre – che non è certo una diffida o un atto giudiziario, né, tantomeno, un parere legale – può essere definito come: l’analisi del quadro negoziale[26]. Uno schema esemplificativo utile per la predisposizione di tale documento è riportata nell’Allegato 1. L’ “analisi del quadro negoziale” è dunque un documento scritto – da predisporre e condividere con il proprio cliente – da cui emergono gli elementi salienti del conflitto in essere. Prima di presentarsi in mediazione, dunque, il professionista dovrebbe predisporre e condividere con il proprio cliente una compiuta “analisi del quadro negoziale”. L’ “analisi del quadro negoziale” dovrebbe essere poi discussa con il mediatore – in sessione riservata – prima dell’inizio della mediazione. Va da sé che la predisposizione di tale documento richiederà una specifica preparazione che potrà essere acquisita attraverso apposita formazione universitaria e/o approfondita attraverso una formazione post-universitaria. E tale attività – avente specifico valore e contenuto professionale – andrà retribuita dal cliente che potrà appunto disporre di una compiuta “analisi” in grado di “supportarlo” nelle scelte negoziali che andrà a compiere. Un’ultima notazione: per svolgere tale attività di preparazione e ai fini della compilazione del quadro negoziale, la reciproca cooperazione fra i due professionisti che assistono le parti e il reciproco scambio di informazioni diverrà fondamentale. Sarà dunque la coppia contrapposta dei legali, personificando professionalmente il “pro” ed il “contro” che il giurista integrale dovrebbe dibattere dentro di sé”[27] a divenire, insieme, un unico “giurista” in senso pieno: il “giurista”, cioè, fatto da “entrambi” che risolve il problema “più grande”, laddove ciascuno dei legali – operando da solo – rimarrebbe sempre e solo l’avvocato che “vince”.

XI. Il terzo tema di riforma. Avvocato in giudizio e Negoziatore in mediazione. Il compenso del professionista.

Un professionista deve dunque mostrare consapevolezza del suo diverso ruolo di “negoziatore” in funzione delle peculiarità dello strumento della mediazione. E non vi è dubbio che, finchè i programmi di insegnamento universitario e di formazione professionale non si estenderanno compiutamente anche alla scienza della negoziazione, sarà difficile avere una categoria professionale posta in condizione di operare al meglio in questa tipologia di metodi di risoluzione dei conflitti. E’ normale, del resto, che gli avvocati che vantano una tradizionale formazione tecnico-giuridica possano reagire con disagio o disinteresse nei confronti di un metodo di risoluzione dei conflitti rispetto al quale non hanno acquisito la relativa professionalità e, quindi, anche la capacità di utilizzarla al meglio nel proprio interesse come elemento di redditività. A questo proposito, occorre spezzare una lancia a favore degli avvocati. La resistenza e lo scetticismo verso una preparazione ed un approccio tecnico-negoziale, piuttosto che tecnico-giuridico – e, quindi avversariale – non sono solo e sempre conseguenza di un’impostazione professionale ormai consolidata, quanto piuttosto di un’esigenza economico-pratica. Come noto, infatti, il cliente che si rivolge all’avvocato, essendo già convinto che le ragioni siano già interamente dalla sua parte, si aspetta semplicemente che l’avvocato sia pronto a difendere ad oltranza la sua posizione. E questo bisogno psicologico deriva semplicemente da un condizionamento culturale. Ancora oggi, infatti, tutti noi tendiamo a risolvere i conflitti secondo il modello occidentale della guerra[28] così come si è formato nell’antichità greca: un modello che appare tutto incentrato sullo scontro diretto di schieramenti in battaglia[29]. Per effetto di questo condizionamento culturale e psicologico, il bisogno con cui la parte si presenta dall’avvocato non è quello di risolvere il problema, ma quello di “vincere” e, per questo, vuole essere difesa. Ecco perché la parte si aspetta – almeno in prima battuta – che il bravo avvocato dica convintamente che egli ha “ragione” e poi agisca per far valere tale ragione. E’ un condizionamento culturale, dunque, quello che porta ciascuna parte a percepire il conflitto in chiave egocentrica (il protagonista del conflitto non è il problema, ma la persona, la “contro”parte) e, dunque, ad assimilare l’altro contendente più alla figura del nemico che non a quella dell’avversario. Ma con il nemico non si negozia. Con il nemico si combatte. Per vincere. Ecco allora che la logica della “contrapposizione” e dello scontro si trasmetterà all’avvocato che andrà così a soddisfare l’esigenza psicologica del cliente (quella, cioè, che sia riconosciuto il valore di ciò che quest’ultimo ha pensato, ha provato o ha fatto prima di varcare quella soglia”[30]) dimostrando sin da subito la “fedeltà” alle sue ragioni e una pronta risposta alle sue aspettative. L’unico percorso possibile sarà dunque quello dell’assenza di comunicazione con l’altra parte (con il nemico non si parla) e, quindi, quello dell’attacco/difesa (secondo la regola). Da quanto sopra si comprende dunque “perché” sarebbe opportuno introdurre alcune semplici regole non sull’incontro di mediazione, ma sulla “preparazione” dell’incontro di mediazione. Solo in tal modo sarebbe infatti possibile, per un verso, consentire al professionista di apprendere ed esplicare una nuova professionalità e, per l’altro, offrirgli una “giustificazione” verso il cliente per condurre quest’ultimo verso un approccio al conflitto di tipo tecnico-negoziale; un approccio comunque professionale e che, come tale, dovrà essere retribuito. Come detto, infatti, proprio l’“analisi del quadro negoziale” richiede una preparazione alla base e obbliga il professionista – e soprattutto il cliente – ad instaurare un dialogo più approfondito; un dialogo che dovrà necessariamente ricomprendere le ragioni e i punti di forza dell’altro litigante. E questa attività ha un altissimo valore professionale. E’ ora dunque che – anche attraverso una mirata modifica della normativa vigente – la categoria professionale degli avvocati sia messa in condizione di comprendere e di cogliere le opportunità tecniche e di guadagno connesse con un metodo di risoluzione dei conflitti diverso dal diritto. Occorre, in altri termini, come del resto chiaramente evidenziato dalla Suprema Corte di Cassazione, mettere gli avvocati nelle migliori condizioni per dar corso ad un’effettiva “assistenza” negoziale alle parti dando riconoscimento ad una “nuova figura professionale” e alla sua attività anche ai fini del relativo compenso. Del resto, acquisire una specifica professionalità per condurre una mediazione non esautora un avvocato dalle proprie funzioni, ma anzi è in grado di offrirgli un nuovo “ambito” di professionalità: quello che deriva, come detto, dallo studio della scienza della negoziazione[31]. E tale “ambito” di professionalità – corrispondendo ad un nuovo e diverso servizio per il cliente – andrà certamente valorizzato autonomamente e separatamente rispetto all’assistenza giudiziale. Andrà quindi riconosciuta all’avvocato non solo la professionalità in termini di “rappresentanza della parte” sulla via del diritto, ma anche la sua professionalità in termini di “assistenza della parte” sulla via della mediazione. Proprio quest’ultima professionalità andrà dunque valorizzata anche in termini economici nel D.M. 55/2014 e nelle Tabelle allegate attraverso apposita ed espressa previsione nell’ambito della Sezione relativa all’attività stragiudiziale ovvero in sezione apposita. E potrebbe addirittura valutarsi – sia pur molto attentamente – la possibilità di prevedere una doppia tariffa: una nel caso in cui non si arrivi ad un accordo ed una – viceversa – più alta nel caso in cui l’accordo invece venga raggiunto dalle parti.

XII. Il quarto tema di riforma. Il segreto professionale e il mandato limitato

Come abbiamo visto, al fine di garantire il corretto dispiegarsi delle potenzialità della mediazione è indispensabile che sia agevolato il processo di raccolta e scambio delle informazioni da entrambe le parti. Questo però non può andare a scapito delle stesse parti nel momento in cui – non trovando l’accordo – decidessero infine di utilizzare il processo-giudizio per dirimere la loro controversia. In altri termini, se – da un lato – occorre “incentivare” lo scambio di informazioni durante il processo di mediazione, occorre allo stesso tempo impedire che queste informazioni possano essere utilizzate da una parte contro l’altra nel diverso “meccanismo” del processo-giudizio. In tal senso, si potrebbe pensare di “rafforzare” (attraverso specifiche sanzioni da valutare e calibrare molto attentamente) la previsione di cui all’art. 10 del D. Lgs. n. 28/2010 che pone già il divieto di utilizzare nel giudizio le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel processo di mediazione.
E in relazione a quanto sopra – a maggior tutela delle parti – non sarebbe forse un peccato riflettere – ora certamente, ma magari per quando i tempi saranno più “maturi” – alla previsione di un mandato limitato per gli avvocati che “assistono” le parti in mediazione. In sostanza, si potrebbe pensare di prevedere (ad esempio, all’art. 8, comma 1 D. Lgs. n. 28/2010) il divieto per l’avvocato che “assiste” la parte in mediazione di potere poi anche “rappresentare” la stessa parte nel successivo, eventuale, giudizio. Una tale soluzione, del resto, potrebbe garantire non solo una maggior tutela delle parti nel processo-giudizio rispetto all’utilizzo indebito di informazioni acquisite nel corso della mediazione, ma potrebbe “supportare” ulteriormente la “professionalizzazione” dell’attività di assistenza in mediazione svolta proprio da quella “nuova figura professionale” indicata dalla Suprema Corte di Cassazione con la propria sentenza n. 8473/2019.

XIII. Il quinto tema di riforma. Le agevolazioni fiscali. Gli incentivi alla parte e al professionista.

Sotto il profilo delle agevolazioni fiscali, poi, ferma restando l’esenzione dall’imposta di bollo (D.Lgs. 28/2010, art. 17, comma 2) e dall’imposta di registro (D.Lgs. 28/2010 art. 17, comma 3) – in quest’ultimo caso valutando la possibilità di aumento del limite di valore attualmente fissato a €50.000,00 – si potrebbe pensare ad un “potenziamento” degli incentivi disponibili.
Al riguardo, con riferimento alla parte, si potrebbe, innanzitutto, valutare di affiancare al credito di imposta già previsto (D.Lgs. 28/2010, art. 20) in relazione all’indennità corrisposta all’organismo di mediazione – anche in questo caso aumentando eventualmente il limite attualmente fissato a €500,00 in caso di raggiungimento di un accordo – anche un credito di imposta commisurato al compenso corrisposto dalla parte stessa al professionista quale compenso per l’assistenza prestata.
Infine, con riferimento al professionista/avvocato si potrebbe valutare il riconoscimento di un credito di imposta commisurato ad una parte del compenso ricevuto dal proprio cliente (es. fino al 50%). In quest’ultimo caso, il credito di imposta potrebbe essere portato dal professionista in compensazione e/o in diminuzione non solo delle imposte sui redditi, ma anche del debito verso l’erario per l’imposta sul valore aggiunto

XIV. Le proposte di modifica al D.Lgs. n. 28/2010 e alle altre disposizioni rilevanti.

Alla luce di quanto sopra, è evidente che la mediazione dovrà essere vista, per i cittadini come un momento di esplicazione dell’interazione umana per dissolvere conflitti e, per chi li “assiste”, come un nuovo spazio di professionalità. Occorrerà quindi superare i modelli culturali imperanti, caratterizzati dall’ ansia di raggiungere a tutti i costi un risultato in breve tempo, ed entrare nell’ottica che non è pensabile perseguire i vantaggi della mediazione attraverso un unico incontro e con costi contenuti. Del resto, ciò non accade neanche per il processo-giudizio. Occorre, in altre parole, la consapevolezza che “fisiologicamente” il processo di mediazione potrebbe potrarsi per una pluralità di incontri e per un certo periodo di tempo; tempo che se non sarà certamente infinito e neanche commisurabile all’– ormai lunghissimo – tempo previsto per tre gradi di giudizio dinanzi alle Corti italiane, non può più essere sempre riducibile – come forse avviene ancora nell’immaginario di molti – ad un unico incontro di un’ora. In effetti, se è vero – com’è vero – che si tratta di un percorso delicato (perché ha ad oggetto l’interazione umana fra le parti) e che necessita di un elevatissimo apporto professionale, è evidente che richiede non solo il “giusto” tempo, ma anche il “giusto” corrispettivo professionale per gli assistenti e per il mediatore.
Muovendo da tale prospettiva – e tenuto conto delle considerazioni di cui sopra – si riassumono di seguito alcune proposte di modifica che potrebbero supportare questo percorso di “professionalizzazione” e, quindi, di valorizzazione della mediazione; proposte che, come detto, riguardano molto di più la “preparazione” della mediazione, piuttosto che l’incontro di mediazione in sé che deve, al contrario, rimanere il più possibile autonomo ed informale.

ProvvedimentoModifica
 Introduzione dell’obbligo insegnamento della scienza della negoziazione all’Università (in tutte le facoltà, compresa  Giurisprudenza)  con attribuzione di uno specifico ambito disciplinare
D.M. 55/2014 e Tabelle allegatePrevisione nel D.M. 55/2014 e nelle Tabelle allegate (attraverso apposita ed espressa previsione nell’ambito della Sezione relativa all’attività stragiudiziale ovvero in sezione apposita) di un compenso specifico per il professionista che “assiste” la parte per la predisposizione dell’analisi del quadro negoziale.
D. Lgs. 28/2010 Art. 4La domanda di mediazione relativa alle controversie di cui all’articolo 2 del D. Lgs. 28/2010 è presentata mediante deposito di un’istanza presso un organismo nel luogo concordato fra le parti. In mancanza di accordo, l’istanza può essere depositata presso l’organismo del giudice territorialmente competente per la controversia.
D.Lgs. 28/2010 art. 4, comma 3 Codice DeontologicoIn aggiunta agli obblighi di “informazione” di cui all’art. 4, comma 3, del D.Lgs. n. 28/2010, l’avvocato che assiste la parte avrà l’obbligo di predisporre, discutere e far sottoscrivere al cliente un documento denominato “analisi del quadro negoziale”.   Nota: tale obbligo risulta indispensabile per dare impulso e concreta attuazione a quanto indicato dalla Suprema Corte di Cassazione con la propria pronuncia n. 8473/2019 in cui, muovendo dall’avvenuta introduzione nel nostro ordinamento – ad opera del D. Lgs. 28/2010 (come novellato nel 2013) – della presenza necessaria dell’avvocato in mediazione ha chiarito che quest’ultimo deve agire non come un “[…] avvocato esperto in tecniche processuali che “rappresenta” la parte nel processo”, ma come un “[…] avvocato esperto in tecniche negoziali che “assiste” la parte nella procedura di mediazione” e, quindi, come “[…] una figura professionale nuova, con un ruolo in parte diverso e alla quale si richiede l’acquisizione di ulteriori competenze di tipo   relazionale   e   umano,    inclusa    la    capacità  di comprendere gli interessi delle parti al di là delle pretese giuridiche avanzate”. E’ fondamentale, dunque, che il legislatore richieda all’avvocato di “esplicitare” la propria attività di “assistenza” negoziale in un documento preparatorio da discutere con la parte e con il mediatore.   L’obbligo di cui sopra potrà assumere rilevanza anche dal punto di vista deontologico, con relativa sanzione in caso di mancato rispetto dello stesso.
D.Lgs. 28/2010 art. 5, comma 1-bisEstensione del novero delle materie per le quali la mediazione è condizione di procedibilità rispetto  al  giudizio  a  tutte  le  “questioni  in materia di condominio, diritti reali, divisione,
 successioni ereditarie, patti di famiglia, concorrenza sleale, diritti di proprietà intellettuale, rapporti sociali inerenti qualsiasi tipologia di società (ivi comprese le questioni relative al trasferimento delle partecipazioni), nonché a tutte le questioni concernenti obbligazioni contrattuali (ivi comprese, a titolo esemplificativo e non esaustivo, quelle derivanti da contratti di locazione, comodato, affitto di aziende, contratti assicurativi, bancari e finanziari, nonché contratti di subfornitura, di opera, di opera professionale, di appalto privato, di fornitura e di somministrazione, di distribuzione di franchising, di leasing) ed obbligazioni extracontrattuali (ivi comprese, a titolo esemplificativo e non esaustivo, quelle relative al risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria, da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità)”.
D.Lgs. 28/2010 art. 5, comma 4 a)La mediazione non è condizione di procedibilità nei procedimenti per ingiunzione. Una volta ottenuto il decreto ingiuntivo, il creditore dovrà notificarlo al debitore. Il debitore avrà 15 giorni per avviare la mediazione. In caso di mancato avvio della mediazione da parte del debitore nei 15 giorni successivi alla notifica del decreto, il decreto diventerà provvisoriamente esecutivo per inattività del debitore (cfr. art. 647 cod. proc. civ.), fermo restando il diritto del debitore di fare opposizione entro 40 giorni dalla notifica del decreto. Nel caso di avvio, da parte del debitore, della mediazione entro 15 giorni dalla notifica del decreto ingiuntivo, il termine per proporre opposizione si riduce a 15 giorni e decorre dal giorno del verbale negativo della mediazione.
D.Lgs. 28/2010 art. 5, comma 5Nel caso in cui le parti inseriscano volontariamente in un contratto, in uno statuto ovvero nell’atto costitutivo dell’ente una clausola di mediazione, la mediazione sarà condizione di procedibilità rispetto al giudizio ai sensi dell’art. 5, comma 1-bis, anche laddove la questione controversa fosse diversa da quelle per cui la mediazione risulta obbligatoria per legge.
D.Lgs. 28/2010 art. 6Eliminazione del termine di durata della mediazione (si tratta di uno strumento informale ed autonomo a che deve rimanere nella disponibilità delle parti). Mantenimento del termine   di   durata   nel   caso   di  mediazione delegata dal giudice, salvo possibilità di proroga da richiedere direttamente al giudice in udienza.
D.Lgs. 28/2010 art. 8, comma 1Al primo incontro e agli incontri successivi le parti devono essere presenti personalmente e devono partecipare con l’assistenza di un avvocato.   (Il mandato dell’avvocato è limitato al solo procedimento di mediazione e, pertanto, l’avvocato che “assiste” la parte in mediazione non potrà “rappresentare” la stessa parte in giudizio – V. parag. XII nel testo).   Le parti dovranno essere presenti di persona oppure, per giustificati motivi, tramite un rappresentante diverso dall’avvocato che le assiste in mediazione. Il rappresentante deve essere munito di idonea procura, a conoscenza dei fatti e fornito dei poteri per la soluzione della controversia. Per le persone giuridiche è richiesta la partecipazione tramite un rappresentante a conoscenza dei fatti e fornito dei poteri per la soluzione della controversia.   Le amministrazioni pubbliche dovranno partecipare alla mediazione assistiti dalla propria avvocatura, ove presente. La conciliazione della lite da parte di chi è incaricato di rappresentare la pubblica amministrazione, amministrata da uno degli organismi di mediazione previsti dal presente decreto, non darà luogo a responsabilità amministrativa e contabile quando il suo contenuto rientri nei limiti del potere decisionale dell’incaricato, salvo i casi di casi di dolo o colpa grave.   Le parti devono comportarsi secondo buona fede e lealtà nonché con spirito di cooperazione.
D.Lgs. 28/2010 art. 8, comma 1Durante il primo incontro, il mediatore invita separatamente ciascuna parte e il proprio avvocato a discutere insieme a lui l’analisi del quadro negoziale da essi predisposta prima dell’incontro.
D. Lgs. 28/2010 art. 16, comma 4-bisGli avvocati iscritti all’albo sono di diritto mediatori. Gli avvocati partecipano a corsi di formazione in materia di negoziazione, mediazione e conciliazione per acquisire un numero minimo di crediti ai fini della formazione continua previsti dal regolamento attuativo della l. 31 dicembre 2012, n. 247. Gli avvocati iscritti ad organismi di mediazione devono essere adeguatamente formati in materia di negoziazione e mediazione e mantenere la propria preparazione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati. La partecipazione del praticante avvocato ad un incontro di mediazione equivale alla partecipazione ad una udienza in tribunale ai fini della pratica forense fino a concorrenza della metà degli obblighi formativi di udienza.
D.Lgs. 28/2010 art. 17, comma 2 e 3Tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di mediazione sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura.   Il verbale di accordo è esente dall’imposta di registro entro il limite di valore di […] euro, altrimenti l’imposta è dovuta per la parte eccedente.
D.Lgs. 28/2010 art. 20, comma 1Alle parti che corrispondono l’ indennità ai soggetti abilitati a svolgere il procedimento di mediazione presso gli organismi è riconosciuto, in caso di successo della mediazione, un credito d’imposta commisurato all’ indennità stessa, fino a concorrenza di euro […], determinato secondo quanto disposto dai commi 2 e 3. In caso di insuccesso della mediazione, il credito di imposta è ridotto della metà punto   Alle parti è riconosciuto altresì un credito di imposta commisurato al compenso corrisposto dalla parte stessa al professionista quale compenso per l’assistenza prestata fino a concorrenza di € […].   All’avvocato è riconosciuto un credito di imposta pari al […]% del compenso ricevuto dal proprio cliente fino a concorrenza di € […].
D.Lgs. 28/2010 art. 20, comma 4  Il credito di imposta riconosciuto all’avvocato può essere portato in compensazione e/o in diminuzione delle imposte sui redditi ovvero del debito verso l’erario per l’imposta sul valore aggiunto
Codice Deontologico ForenseIntroduzione di un apposito titolo dopo il TITOLO IV (Doveri dell’avvocato nel processo) intitolato “TITOLO V Doveri dell’avvocato che assiste la parte in mediazione”   Gli avvocati devono comportarsi lealmente e cooperare fra loro sia nella preparazione della mediazione, sia nel corso dello svolgimento della stessa assistendo le parti presenti e agevolando la comunicazione e lo scambio di informazioni fra queste ultime.   Nota: in tale sede potranno essere previste altre regole volte a favorire la cooperazione e lo scambio di informazioni tra gli avvocati che “assistono” le parti in modo da agevolare il processo di mediazione.
Decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, conv., convertito, modificazioni, in legge 10 novembre 2014, n. 162, recante “Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile” (in Gazzetta Ufficiale n. 261 del 10.11.2014).Considerato che la convenzione di negoziazione di cui all’art. 2 del Decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 ha l’effetto di delimitare preliminarmente l’ “oggetto della controversia” e, quindi, di inserire a priori un “perimetro” all’attività negoziale – attività che, al contrario, dovrebbe rimanere libera di andare “al di là delle pretese giuridiche avanzate” (v. Cass. N. 8473/2019) – il rischio è che la c.d. “negoziazione assitita” risulti un’attività sempre “depotenziata” e frenata rispetto ad una semplice negoziazione diretta e, sicuramente, rispetto ad una mediazione. Ferma restando l’ineliminabile possibiltà di ricorso alla negoziazione diretta e libera, si potrebbe anche valutare l’abrogazione dell’istituto della “procedura di negoziazione assistita   da   uno    o    più    avvocati”    (c.d. negoziazione assistita) in favore di una maggiore estensione dell’istituto della mediazione.

1 Cfr. G. COSI, L’accordo e la decisione. Modelli culturali di gestione dei conflitti, UTET, Torino, 2017.

2 D. T. MALHOTRA – M. H. BAZERMAN, Negotiation Genius, Harvard Business School, Bantam Books, 2007, p. 19: “Under the false assumption that negotiation is “all art and no science,” most people fail to prepare adequately for negotiation[U1] .

3 Muovendo dall’avvenuta introduzione nel nostro ordinamento – ad opera del D. Lgs. 28/2010 (come novellato nel 2013) – della presenza necessaria dell’avvocato in mediazione, la Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che proprio tale normativa “[…] con l’affiancare all’avvocato esperto in tecniche processuali che “rappresenta” la parte nel processo, l’avvocato esperto in tecniche negoziali che “assiste” la parte nella procedura di mediazione, segna anche la progressiva emersione di una figura professionale nuova, con un ruolo in parte diverso e alla quale si richiede l’acquisizione di ulteriori competenze di tipo relazionale e umano, inclusa la capacità di comprendere gli interessi delle parti al di là delle pretese giuridiche avanzate.” (v. Cass. Civ. n. 8473/2019).

4 In tal senso, la conferma della necessaria presenza delle parti viene dalla stessa Cass. Civ. n. 8473/2019: “Il successo dell’attività di mediazione è riposto nel contatto diretto tra le parti e il mediatore professionale il quale può, grazie alla interlocuzione diretta ed informale con esse, aiutarle a ricostruire i loro rapporti pregressi, ed aiutarle a trovare una soluzione che, al di là delle soluzioni in diritto della eventuale controversia, consenta loro di evitare l’acuirsi della conflittualità e definire amichevolmente una vicenda potenzialmente oppositiva con reciproca soddisfazione, favorendo al contempo la prosecuzione dei rapporti commerciali”.

5 La stessa Cassazione, del resto, riferendosi alla “…acquisizione di ulteriori competenze di tipo relazionale e umano, inclusa la capacità di comprendere gli interessi delle parti al di là delle pretese giuridiche avanzate”, ha definitivamente chiarito che la preparazione professionale di chi risolve conflitti in mediazione non deve essere incentrata sulla capacità di confronto fra “diritti soggettivi” (diritto), ma anche sulla capacità di confronto degli interessi (negoziazione).

6 Proprio quest’ultima discussione del resto – se posta in questi esatti termini – rischia di porre a diretto confronto due posizioni apparentemente difficili da conciliare: quella dei cittadini alla “deflazione” dei processi e quella degli operatori del diritto al mantenimento e consolidamento delle proprie prerogative professionali. Anche in questo caso, dunque, i principi della scienza della negoziazione possono rivelarsi utili a risolvere il problema. Anziché tentare di “ravvicinare” posizioni, può essere opportuno provare a “combinare” interessi. In effetti, piuttosto che discutere unicamente (e rimanere prigionieri) del problema della estensione o meno dell’ambito di ”obbligatorietà” della mediazione oppure di ipotesi di “ritualizzazione” della mediazione stessa (ipotesi che, come detto, ne snaturerebbero l’efficacia), occorrerebbe intanto procedere con la introduzione dello studio della scienza della negoziazione come requisito di preparazione necessario per poter “assistere” una parte in mediazione. Tale soluzione, del resto, potrebbe gradualmente soddisfare non solo l’interesse degli operatori professionali ad essere protagonisti nel mercato della risoluzione dei conflitti (semplicemente integrando la propria preparazione), ma anche quello della collettività a veder pian piano aumentare l’efficacia dello strumento della mediazione e, conseguentemente, l’effetto deflattivo sulla macchina della giustizia. A ben vedere, infatti, sebbene l’obbligatorietà della mediazione per alcune categorie di controversie civili e commerciali sia stata fino ad oggi indubbiamente fondamentale per la diffusione della cultura della mediazione (nell’ambito di una società che, come la nostra, considera il diritto statale il mezzo principale, se non l’unico, per risolvere i conflitti), non è a partire da questa previsione normativa che va pensato l’ulteriore sviluppo della cultura della mediazione. La mediazione è – e deve – per sua natura rimanere una “scelta” delle parti. L’obiettivo è fare in modo che – proprio attraverso il “suggerimento” e l’“assistenza” di professionisti appositamente formati – la mediazione diventi la prima scelta delle parti rispetto al processo-giudizio.

7     A.     MONORITI,    Dall’ordine    imposto,    all’ordine    negoziato,    in     Ratio    Juris     (ISSN2420-7888),      Marzo    2021

8 Come evidenziato da G. COSI, L’accordo e la decisione. Modelli culturali di gestione dei conflitti, UTET, Torino, 2017,

p. 173 con riferimento all’introduzione del tentativo obbligatorio di mediazione da parte del D.Lgs. n. 28/2010: “Non è una bella norma: una conciliazione obbligatoria è una contraddizione in termini, quasi un ossimoro”.

9 F. GINO, Sidetracked, Harvard Business Review Press 2013, 26: “A feeling of connection to another person, a group, an organization, or even a country can come from many sources: a shared history or experience, shared preferences (such as liking Italian food) or characteristics (such as being from Italy), or a direct relationship”.

10 F. GINO, Sidetracked, Harvard Business Review Press 2013, 26: “We commonly think that we are luckier, better drivers, more capable, healthier, and better investors than our peers. Research in behavioral decision making and social psychology refers to these inflated perception as better-than-average beliefs, and they’ve been demonstrated in a wide range of contexts, including intelligence, performance on tasks and tests, and the possession of desiderable characteristics (such as attractiveness and wealth) or personality traits (such as honesty and confidence). (…) viewing ourselves as more capable and competent than others may also cause us to give more weight to our own ideas and carefully gathered information than to ideas and information that others provide”.

11 v. MAX H. BAZERMAN, The power of noticing, Simon & Schuster 2014, 23: “… research in the field of behavioral ethics has found that when we have vested self-interest in a situation, we have difficulty approaching that situation without bias,

no matter how well-calibrated we believe our moral compass to be.   In many cases, what you see isn’t all there is because

you have reasons to decide it isn’t even there.  As far back as 1954, psychologists Albert H. Hastorf and Hadley Cantril

published a famous study involving student football fans at Princeton and Dartmouth. The fans all watched the same short film of clips from an important, hard-fought football game between the two schools in which numerous players were injured. The researchers found that the two groups of students “saw a different game”. Members of each side thought players on the opposing team engaged in unethical behavior but did not view the infractions committed by their own team to be severe

12 V. E. ARIELLI – G. SCOTTO, Conflitti e mediazione, Milano 2003, 31: “Se non è possibile interpretare le informazioni nuove in maniera coerente con le credenze acquisite, si tende a dare dei fatti un’interpretazione che richiede il minor cambiamento possibile del proprio sistema di credenze, secondo i principi che regolano la risoluzione delle dissonanze cognitive. Questo esito può essere ottenuto semplicemente ignorando l’informazione disturbante, scoprendo un significato nascosto nel messaggio, oppure screditando la fonte di informazione (…). (   ) la percezione selettiva è causa

di forti asimmetrie di valutazione, di favoritismi di parte, spesso frutto di una distorsione involontaria del giudizio. (    )

Questo meccanismo può avere effetti paradossali quando nel corso del conflitto una parte tenta un approccio conciliatore: il fatto stesso che la proposta provenga dall’avversario costituisce un buon motivo per ritenerla nel migliore dei casi inconsistente, nel peggiore un trucco o una trappola”.

13 W. URY, Getting Past No, Bantam Books 2007, 5: “(. ) I remember my uncle Mel once coming visit me at my Harvard

Law School office when he returned to campus for his twenty-fifth alumni reunion. At one point he took me aside and said: “You know, Bill, it has taken me twenty-five years to unlearn what I learned at Harvard Law School. Because what I learned at Harvard Law School is that all that counts in life are the facts — who’s right and who’s wrong. It’s taken me twenty-five years to learn that just as important as the facts, if not more important, are people’s perceptions of those facts. Unless you understand their perspective, you’re never going to be effective at making deals or settling dispute

14 Per superare le errate percezioni, secondo R. FISHER, W. URY E B. PATTON, Getting to yes. Negotiating Agreement Without Giving In, Random House Business Book, 2012, 34 ss è utile:

  1. mettersi nei panni dell’altra parte;
  2. non dedurre le intenzioni altrui dalle nostre paure;
  3. non prendersela con l’altra parte per il proprio problema;
  4. discutere le reciproche impressioni;
  5. cercare di agire in modo diverso dai pregiudizi che l’altro ha su di noi;
  6. coinvolgere la controparte rispetto al risultato;
  7. salvare la faccia dell’altra parte.

15 Cfr. I. BOHNET, What works – Gender equality by design, The Belknap press of Harvard University Press, 2016, 45.

16 I metodi di gestione dei conflitti possono essere immaginati, infatti, come una piramide il cui vertice è rappresentato dalla forza, il centro dal diritto e la base dagli interessi. Essi perseguono diversi obiettivi: accertare chi ha più potere (forza), stabilire chi ha ragione sulla base di una regola (diritto), conciliare gli interessi delle parti (interessi). I conflitti si originano sempre nell’area alla base della piramide, quella degli interessi, poiché sono proprio gli interessi i motivi che danno impulso all’azione umana. Si può scegliere di gestirli con metodi caratteristici della stessa area in cui sorgono (negoziazione, mediazione), oppure – risalendo la piramide – con metodi propri di altre aree, come quella del diritto (arbitrato, giudizio) e della forza (autotutela, guerra). Al riguardo, v. G. COSI – G. ROMUALDI, La mediazione dei conflitti

– Teoria e pratica dei metodi ADR, Torino, 2012.

17 G. CONTE, Cultura della iurisdictio vs. cultura della mediazione, in Mediazione e progresso, persona, società, professione, impresa a cura di Paola Lucarelli e Giuseppe Conte, 2012, p. 235 ss: “Quando il cliente varca la soglia di uno studio professionale, anche solo al fine di acquisire un parere o indicazioni specifiche sulla controversia, ha già maturato – nella maggioranza dei casi – la convinzione che la controversia che lo vede coinvolto sia meritevole di una definizione giudiziale”.

18 Cfr. I. BOHNET, What works – Gender equality by design, The Belknap press of Harvard University Press, 2016, 46.

19 G. CONTE, Cultura della iurisdictio vs. cultura della mediazione, in Mediazione e progresso, persona, società, professione, impresa a cura di Paola Lucarelli e Giuseppe Conte, 2012, p. 241

20 G. COSI – G. ROMUALDI, La mediazione dei conflitti – Teoria e pratica dei metodi ADR, Torino 2012, 12: “E’ ovvio che l’avvocato agisca scegliendo tra le eventualità offerte dal diritto positivo la più favorevole possibile agli interessi del suo cliente. Fenomenologicamente, egli oggi non può più essere un giurista nel senso pieno e classico del termine: parrebbe invece assumerne, sia pure preterintenzionalmente, le caratteristiche la coppia contrapposta dei legali, personificando professionalmente il “pro” e il “contro” che il giurista integrale dovrebbe dibattere dentro di sé. La giurisprudenza nascerebbe come sintesi ed equilibrio delle opposte pressioni argomentative unilaterali, concretizzandosi nel momento giurisdizionale attraverso la decisione del giudice. Il singolo avvocato sarebbe quindi un giurista a metà: e la sua stessa posizione di intermediario tra la vita normale e la “vita” giuridica a delinearne in questi termini il ruolo e la funzione, almeno nell’ambito del processo”.

21 G. COSI – G. ROMUALDI, La mediazione dei conflitti – Teoria e pratica dei metodi ADR, Torino 2012, 12: “All’avvocato che esce dall’aula non si domanda se ha, sia pure indirettamente, contribuito a determinare il migliore possibile diritto consentito dalle circostanze; vi si chiede se ha vinto o se ha perso”.

22 G. COSI – G. ROMUALDI, La mediazione dei conflitti – Teoria e pratica dei metodi ADR, Torino 2012, 46: “(…) Come certi medicinali, il diritto sembra dunque capace di trattare soprattutto i sintomi, e non le cause, di un malessere. La pace assicurata dal diritto, rimanendo alla “superficie” degli eventi, si dimostra spesso carente sia sul piano etico generale, sia su quello pratico dell’effettiva risoluzione del conflitto: sul piano etico, non solo non spinge i contendenti alla consapevolezza delle proprie reali motivazioni, ma non va oltre la mera tolleranza, senza pervenire a un vero riconoscimento dell’altro; sul piano pratico, confonde quasi sempre la verità con la vittoria, lasciando lo sconfitto solo col suo rancore e il suo desiderio di rivalsa. Ciò perché essa segue a una procedura che di fatto tende ad assimilare i

contendenti più alla figura del nemico che non a quella dell’avversario. (…) E il conflitto diventa ingestibile soprattutto perché il bisogno percepito come fondamentale è quello di avere ragione, non quello di trovare una soluzione.

23 R. FISHER – W. URY – B. PATTON, Getting to Yes. Negotiating Agreement Without Giving In, Random House Business Book 2012, 43: “Such desires and concerns are interests. Interests motivate people; they are the silent movers behind the hubbub of position. Your position is something you have decided upon. Your interests are what caused you to so decide”.

24 G. CONTE, Cultura della iurisdictio vs. cultura della mediazione, in Mediazione e progresso, persona, società, professione, impresa a cura di Paola Lucarelli e Giuseppe Conte, 2012, p. 260.

25 Cfr. . FISHER, W. URY E B. PATTON, Getting to yes. Negotiating Agreement Without Giving In, Random House Business Book, 2012, 100-101 ss; A. MONORITI – R. GABELLINI, NegoziAzione – Il Manuale dell’interazione umana, Giuffrè, 2018, p. 136.

26 Sull’analisi del quadro negoziale v. W. URY, Getting Past No – Negotiating in difficult situation, Bantam books, 2007, Appendix; A. MONORITI – R. GABELLINI, NegoziAzione – Il Manuale dell’interazione umana, Giuffrè, 2018, p. 143.

27 G. COSI, L’accordo e la decisione. Modelli culturali di gestione dei conflitti, UTET, Torino, 2017, p. 134

28 Cfr. V.D. HANSON, Le modèle occidental de la guerre, Paris, 1990.

29 G. COSI, L’accordo e la decisione. Modelli culturali di gestione dei conflitti, UTET, Torino, 2017, p. 180: “Intorno all’VIII-VII secolo a.C., con il consolidarsi delle prime poleis, le forme arcaiche del conflitto basato su scaramucce episodiche e disorganizzate, sui duelli individuali tra eroi in preda al “furore” celebrati nell’epopea omerica, cedono infatti il posto alla nuova struttura collettiva della falange, in cui due corpi di opliti pesantemente armati e schierati in ranghi compatti avanzano l’uno contro l’altro senza possibilità di diversione o di fuga. Il campo di battaglia, spesso scelto di comune accordo, deve essere aperto e privo di insidie; vengono disprezzate le azioni dilatorie e di disturbo, quelle stesse che l’arte strategica cinese raccomanda invece come fondamentali per sfiancare il nemico; anche l’uso delle armi che colpiscono insidiosamente e da lontano, come frecce e giavellotti, viene tendenzialmente rifiutato a favore della lancia e della spada, armi dello scontro diretto e ravvicinato. Non che i greci fossero privi di metis, della capacità di delineare e applicare strategie “astute”, oblique e ingannevoli nella conduzione della guerra; ma, a differenza che in Cina, non fu mai a partire da esse che pensarono la guerra. […] Vi è probabilmente di più che una semplice analogia tra il modo in cui si scontrano le falangi sul campo di battaglia e il modo in cui i logoi, confrontandosi all’interno della polis, strutturano le forme archetipiche del pensiero occidentale. L’agon bellico trova un equivalente nel modo in cui si articola il discorso nella tragedia (e nella commedia), nell’assemblea, nel tribunale: che sia teatrale, politico o giudiziario, si tratta sempre di un dibattito in cui schiere di argomenti contrapposti si affrontano direttamente e “da vicino” al fine di raggiungere una decisione. […] Il conflitto da fisico diventa dialettico; ma il secondo mantiene pur sempre gli schemi di base del primo”.

30 D. SHAPIRO, Beyond Reason – Using Emotions as You Negotiate, Penguin Books, 2005.

31 Il programma di studio della “scienza della negoziazione” si snoda su tre capitoli fondamentali: relazione, processo e sostanza (Cfr. A. MONORITI – R. GABELLINI, NegoziAzione – Il Manuale dell’interazione umana, Giuffrè, 2018).