A cura di Avv. Emanuela Ruscio
SOMMARIO
MOBBING SUL POSTO DI LAVORO
-Introduzione
-Aspetti contrattuali
-Aspetti psicologici
-Aspetti giurdici
INTRODUZIONE
Questa raccolta di atti e relazioni vuole rappresentare un’analisi, il più possibile esaustiva, di un fenomeno attuale ma nel contempo antico.
Attuale perché il termine Mobbing ha iniziato ad essere utilizzato solo da pochi anni; inizialmente in ambiti scientifici extragiuridici, per poi, grazie alla presa di coscienza dei lavoratori, trasferirsi nel linguaggio dottrinale e giurisprudenziale.
Nella nostra esperienza, infatti, non passa giorno che qualche lavoratore si presenti ed affermi, a torto o a ragione, di essere vittima di condotte persecutorie e vessatorie da parte del datore di lavoro o di colleghi; il Mobbing è, dunque, diventato un fenomeno di massa, di costume, oseremmo dire quasi di moda.
Antico perché le diverse azioni ascrivibili all’interno del fenomeno risultano in gran parte già studiate, sviluppate e risolte dalla giurisprudenza di merito e di legittimità degli ultimi decenni.
Il Mobbing è, pertanto, un termine nuovo che definisce una problematica presente da tempo nel mondo del lavoro e di cui solo oggi si parla con insistenza, in quanto numerose ricerche ne hanno evidenziato le dimensioni ed i costi aziendali e sociali.
Più in particolare questo suggestivo neologismo, che tanto successo sta riscuotendo nell’opinione pubblica e nel panorama scientifico, richiama alla mente dei dipendenti tutte quelle situazioni di insoddisfazione e di compromissione della loro libertà.
Pertanto quella che è stata definita come “la scoperta del 2000” in concreto rappresenta un fenomeno che sempre esistito sin dai tempi delle prime forme di industrializzazione, ma che non era mai stato sistematizzato con precisione e che soprattutto non aveva mai ricevuto una qualificazione giuridica specifica che la identificasse.
Di nuovo c’è solo il nome; Mobbing, per definire l’arte più antica del mondo:” l’arte della violenza psicologica”, violenza all’interno di un gruppo di persone che lavorano nella stessa azienda.
Allora perché tutto questo interesse intorno al fenomeno in esame?.
La risposta può essere certamente ricercata nella richiesta di apprestare sempre maggiore tutela a quelle situazioni vessatorie e discriminatorie che più spesso affliggono il mondo del lavoro e che rischiano di rimanere confinate nelle pieghe apparenti del giuridicamente lecito.
In tale senso l’espressione Mobbing ha il merito di riunire in un unico concetto contenitore un insieme di azioni, mancanze o condotte fra loro diverse e che non sempre, facendo riferimento agli schemi giuridici tradizionali del diritto del lavoro, erano in grado di essere comprese nella loro completezza e nella loro carica negativa.
Pertanto l’utilizzo da parte dei giudici italiani di questo ennesimo “anglicismo” risulta essere estremamente utile in quanto il termine , nella sua brevità e forza semantica, ha il potere di raggiungere un’universalità di comportamenti diversi ma comuni.
Dal punto di vista psicologico e medico-legale, il Mobbing può essere individuato come una forma di violenza e di molestia psicologica, che può anche essere non continuativa, capace di produrre sofferenza e disagio nella vita della vittima, con strascichi anche dolorosi nella sua salute psicofisica, a che si realizza attraverso contegni astiosi, vessatori posti in essere dai
colleghi e/o dal datore di lavoro e dai superiori gerarchici nei confronti di un lavoratore individuato come perseguitato.
Per quanto ci riguarda, con questo piccolo contributo, abbiamo ritenuto, quale sindacato impegnato, a mettere a disposizione dei nostri iscritti la nostra consulenza ed assistenza legale specialistica per far conoscere le possibilità esistenti di tutela giudiziale e non al fine di ottenere giustizia e ristoro dio danni eventualmente patiti.
Questo vuole essere il fine della presente pubblicazione.
IL MOBBING SUL POSTO DI LAVORO:
ASPETTI CONTRATTUALI
Definizione di Mobbing secondo il C.C.N.L. Comparto 2002/2005
• Art.5:
“Forma di violenza morale o psichica in occasione di lavoro – attuato dal datore di lavoro o da altri dipendenti – nei confronti di un lavoratore” .
Il mobbing, per essere tale, deve essere caratterizzato da :
• una serie di atti, atteggiamenti o comportamenti diversie ripetuti nel tempo in modo
sistematico ed abituale
• Tali atteggiamenti devono essere connotati da aggressività, denigrazione e vessatorietà
in modo tale da determinare un degrado delle condizioni lavorative
• Comportamenti donei a determinare la compromissione della salute o della
professionalità o della dignità del lavoratore nell’ambito dell’ufficio di appartenenza o
tali da escluderlo dal contesto di lavoro
Il mobbing, per essere tale, deve essere caratterizzato da
• una serie di atti, atteggiamenti o comportamenti diversie ripetuti nel tempo in modo sistematico ed abituale
• Tali atteggiamenti devono essere connotati da aggressività, denigrazione e vessatorietà in modo tale da determinare un degrado delle condizioni lavorative
• Comportamenti donei a determinare la compromissione della salute o della professionalità o della dignità del lavoratore nell’ambito dell’ufficio di appartenenza o tali da escluderlo dal contesto di lavoro
Cosa prevede il contratto per fronteggiare il mobbing
Per fronteggiare questo fenomeno, è prevista la costituzione obbligatoria presso ciascuna
azienda sanitaria,di uno specifico Comitato paritetico, con il compito di :
- raccogliere dati relativi all’aspetto quantitativo e qualitativo del fenomeno mobbing;
- individuarne le possibili cause, con particolare riferimento alla verifica dell’esistenza di condizioni di lavoro che possano determinare l’insorgere di situazioni persecutorie;
- formulare proposte di azioni positive in ordine alla prevenzione ed alla repressione delle situazioni di criticità;
- formulare proposte per la definizione dei codici di condotta.
Da chi è composto il comitato paritetico
• E’ costituito da un componente designato da ciascuna delle Organizzazioni Sindacali di comparto firmatarie del vigente CCNL e da un pari numero di rappresentanti delle aziende o enti.
• Il Presidente del Comitato viene designato tra i rappresentanti delle aziende o enti, il vicepresidente dai componenti di parte sindacale
• Ferma rimanendo la composizione paritetica dei Comitati, di essi fa parte anche un rappresentante del Comitato per le pari opportunità, appositamente designato da quest’ultimo, allo scopo di garantire il raccordo tra le attività dei due organismi.
Gli obblighi dell’Azienda e del Comitato
• Le aziende o enti favoriscono l’operatività dei Comitati e garantiscono tutti gli strumenti idonei al loro funzionamento.
• I Comitati adottano un regolamento per la disciplina dei propri lavori e sono tenuti ad effettuare una relazione annuale sull’attività svolta.
Quali potrebbero essere le “azioni positive” dei Comitati
Proporre idonei interventi formativi e di aggiornamento finalizzati a:
- Affermare una cultura organizzativa che comporti una maggiore consapevolezza della gravità del fenomeno e delle sue conseguenze individuali e sociali
- Favorire la coesione e la solidarietà dei dipendenti attraverso una specifica conoscenza dei ruoli e delle dinamiche interpersonali all’interno degli uffici, anche al fine di incentivare il recupero della motivazione e dell’affezione all’ambiente di lavoro.
Proporre idonei interventi formativi e di aggiornamento finalizzati a:
• una serie di atti, atteggiamenti o comportamenti diversi e ripetuti nel tempo in modo sistematico ed abituale;
• Tali atteggiamenti devono essere connotati da aggressività, denigrazione e vessatorietà in modo tale da determinare un degrado delle condizioni lavorative;
• Comportamenti donei a determinare la compromissione della salute o della professionalità o della dignità del lavoratore nell’ambito dell’ufficio di appartenenza o tali da escluderlo dal contesto di lavoro.
Tipologia di mobbing
• Il mobbing verticale
si ha quando i comportamenti discriminatori sono posti in essere dai superiori, c.d. bossing.
• Il mobbing orizzontale
si ha quando i comportamenti discriminatori sono posti in essere deliberatamente e ripetutamente nel tempo dai colleghi di pari livello o anche da subalterni del lavoratore designato.
• Il Mobbing Strategico
Si ha quando il disegno di esclusione di un lavoratore avviene da da parte del managment aziendale, che con un’azione programmata e premedidata, intende ridimensionare la figura professionale di un determinato soggetto.
Alcuni fattori di rischio mobbing secondo la circolare inail del 17.12.2003
Mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata
· Mancata assegnazione degli strumenti di lavoro
· Ripetuti trasferimenti ingiustificati
· Prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali condizioni di handicap psico-fisici
· Inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro
· Esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale
· Esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo
Altri fattori NON rientranti nel rischio mobbing secondo la circolare inail del 17.12.2003
• i fattori organizzativo/gestionali legati al normale svolgimento del rapporto di lavoro (nuova assegnazione, trasferimento, licenziamento)
• le situazioni indotte dalle dinamiche psicologico-relazionali comuni sia agli ambienti di lavoro che a quelli di vita (conflittualità interpersonali, difficoltà relazionali o condotte comunque riconducibili a comportamenti puramente soggettivi che, in quanto tali, si prestano inevitabilmente a discrezionalità interpretative).
Indagine dell’Eurispes inserita nel ‘’Rapporto Italia 2003’’.
• Ecco alcune delle situazioni più frequentemente riferite per esercitare violenza psicologica, emerse dall’indagine:
• accuse di scarsa produttività;
• assegnazione di obiettivi impossibili per il livello professionale della vittima e per il tempo concesso non adeguato al compito;
• attribuzione di compiti non necessari, richiesti urgentemente e, una volta assolti, neppure controllati;
• contestazioni o richiami disciplinari non adeguati all’entità della mancanza
• Utilizzo in mansioni inferiori rispetto alla qualifica attribuita;
• eccessivo ricorso a visite fiscali;
• generiche critiche circa lo svolgimento del lavoro, con rifiuto a motivarle;
• imposizione ai colleghi della vittima di non parlare con la vittima stessa;
• minacce di trasferimento
• ossessivo controllo dell’orario di lavoro;
• richieste di lavoro urgente anche in giorni festivi o fuori orario;
• ripetute e repentine variazioni di orientamento sul lavoro da eseguire;
• uso di minacce esplicite o implicite;
• uso di tono arrogante in presenza di colleghi;
Dati sul mobbing
• Dimensione del fenomeno (Rapporto EURISPES, 2003)
• 1.500.000 i lavoratori mobbizzati stimati in italia di cui:
• 79% impiegati (63% privato , 37% pubblico impiego)
• Solo il 4% denuncia gli abusi
Identikit del mobbizzato in Italia(Ricerca SDA BOCCONI – feb. 2004
ETÀ
- 21-30 5,9%
- 31-40 32,7%
- 41-50 33,7%
- 51-60 23,8%
- Oltre 61 4,0%
SESSO
- Uomini 51%
- Donne 49%
TITOLO DI STUDIO
- Laurea 23%
- Diploma media sup. 50%
- Diploma media inf. 26%
- Licenza elementare 1%
Tipizzazione del fenomeno (Ricerca IREF – marzo 2004 )
- In linea generale si tratta di mobbing verticale che colpisce nel 78,6% i lavoratori di età compresa tra i 40 e i 50 anni
La percezione del fenomeno
( Ricerca IREF Istituto di ricerche educative e formative marzo 2004 )
Indagine campionaria condotta su 3000 lavoratori italiani
- 70,4% dichiara di non conoscere il fenomeno del mobbing
- 18,9% manifesta spiccata sensibilità verso il fenomeno
- 5,2% dichiara di trovarsi attualmente in una situazione di mobbing
- 5,5% dichiara di aver subito mobbing in passato
La Giurispudenza sul Mobbing
- La magistratura di merito, ha ormai ben focalizzato e convincentemente affrontato il fenomeno del mobbing, in un’ottica di necessitata supplenza causata dall’incredibile latitanza del Parlamento presso cui giacciono (da troppo tempo e fin dalla precedente legislatura) numerosi disegni di legge volti a disciplinare e reprimere questa degenerazione nelle relazioni interpersonali sul posto di lavoro.
- Negli ultimi 10 anni la giurisprudenza si è occupata di mobbing nei vari gradi di giudizio (Tribunale, Corte d’Appello e Cassazione) , tantè che si possono contare decine e decine di sentenze di merito emesse.
IL MOBBING SUL POSTO DI LAVORO: ASPETTI PSICOLOGICI
“IL MOBBING: INDIVIDUO E CONTESTO”
Introduzione
Il fenomeno delle vessazioni sul lavoro è antico come il lavoro stesso, ed assolutamente trasversale alle aziende, alle culture, alle nazioni. In Italia durante il fascismo abbiamo assistito all’imposizione del giuramento di fedeltà al regime, che portò al rifiuto da parte di molti cittadini, che per questo subirono gravissime ritorsioni; risulta davvero strano che gli attuali studiosi del mobbing non ricordino un antecedente così illustre e doloroso. Nel dopoguerra alla FIAT furono creati dei reparti di “confino” dove vennero relegati dipendenti politicamente scomodi; anche di questo non si parla. Gli studiosi del mobbing sembra non abbiano memoria storica. Si può comprendere il mistero se si considera che la matrice culturale del mobbing è anglosassone, ed in Italia il termine è arrivato privo di un lavoro di contestualizzazione alla nostra situazione nazionale, che lo rende perciò in gran parte avulso dalla nostra cultura e dalla nostra società; pensiamo, per esempio, alla presenza nelle nostre realtà produttive di un sindacato forte che certamente è di ostacolo ad atteggiamenti vessatori.
In Italia il mobbing interessa soprattutto dirigenti e quadri, personale poco o nulla sindacalizzato, spesso entrato in azienda al seguito di cordate politiche o personali, e abbandonato poi in caso di rivolgimenti di potere.
Con l’”etichetta” mobbing si includono così tutte le numerosissime tensioni di cui le organizzazioni sono spesso protagoniste, avvalorando l’idea che la soluzione dei conflitti vada cercata esclusivamente nelle aule dei tribunali, e focalizzando l’attenzione sulla patologia psichica del mobbizzato o sulla personalità disturbata del mobber, leggendo il fenomeno in termini di vittima-aggressore.
Viene così persa di vista la relazione e il contesto in cui avviene, tralasciando di considerare il fenomeno come espressione di un disagio psicosociale, come sintomo di un’organizzazione disfunzionale.
Certamente le relazioni nei luoghi di lavoro, per la complessità delle interazioni che le caratterizzano nonché per l’importanza socialmente attribuita al lavoro nella vita delle persone, sono caratterizzate in maniera rilevante da problemi di convivenza che possono facilmente sfociare in manifestazioni di violenza più o meno subdola. Riteniamo tuttavia che si tratti di manifestazioni di violenza che si possono verificare più in generale in ogni contesto organizzativo/sociale: dalla famiglia, al condominio, alla scuola, al gruppo di amici, alle aziende, alle associazioni culturali, ricreative, sportive, ecc. Si tratta, in altri termini, di una “patologia” che riguarda la convivenza nei sistemi sociali.
Cos’è il mobbing
Il primo ad utilizzare il termine mobbing in ambito lavorativo è stato lo psicologo del lavoro Heinz Leymann (1996), che lo definisce come una “comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa e qui costretto a restare da continue attività ostili. Queste azioni si verificano con una frequenza piuttosto alta (almeno una alla settimana) e per lungo tempo (almeno per sei mesi). A causa dell’alta frequenza e della durata, il mobbing crea seri disagi psicologici, psicosomatici e sociali”.
Il mobbing, a seconda della teoria di riferimento, può essere inteso come:
- un epifenomeno perverso dei normali rapporti interpersonali, manifestazione estrema dell’aggressività tra singoli individui che si comportano secondo il motto latino homo homini lupus;
- un epifenomeno perverso dei normali rapporti intergruppi, manifestazione nemmeno tanto estrema dell’eterna lotta tra compagini opposte che cercano di definire la propria identità sociale aderendo al motto latino mors tua vita mea;
- un fenomeno organizzativo che si innesca e viene mantenuto nel tempo da particolari fattori, impliciti ed espliciti, inerenti l’organizzazione aziendale e di lavoro;
- un fenomeno socioculturale che va combattuto sul piano istituzionale e legislativo.
Per affermare che si è in presenza di una situazione di mobbing, è opinione abbastanza diffusa che si debbano individuare almeno quattro condizioni:
- un’azione vessatoria, di aggressione morale, sociale e/o psicologica (anche fisica) o funzionale, esercitata sul luogo di lavoro verso individui in esso operanti;
- la volontarietà nell’esercizio di una vessazione da parte di un soggetto o di un gruppo di soggetti anch’essi operanti in quel luogo lavorativo;
- un rilevante periodo di tempo;
- il danno derivante per il mobbizzato di natura psico-fisica, psicologica od anche sanitaria.
Riportiamo ora alcuni modi di categorizzare il fenomeno del mobbing, che sono largamente utilizzati sia nell’ambito della letterature scientifica sia dalla giurisprudenza.
Il mobbing emozionale, che nasce dall’irrompere per il mobber di alcuni “modi comuni di sentire”, quali l’invidia, la gelosia, l’antipatia, la competitività, ecc.
Il mobbing strategico, che è invece attuato frequentemente dai vertici aziendali come strategia di ridimensionamento, in conseguenza ad esempio di fasi di ristrutturazione o fusione, secondo modalità ben studiate per mettere uno o più lavoratori indesiderati in condizioni di forte disagio col fine di escluderli dal contesto lavorativo o del soggiogamento ed è articolato in vari sottotipi tra cui il mobbing logistico, quello mansionale, quello diretto contro la salute ed altri. Questa seconda tipologia viene detta anche mobbing aziendale, quando i vertici aziendali intendono disfarsi di più lavoratori provocando le loro dimissioni, non direttamente, ma attraverso azioni perpetrate da colleghi delle vittime.
Nella categoria del mobbing emozionale rientra anche il bossing, caratterizzato dall’abuso di potere da parte di un superiore nei confronti dei propri subordinati.
Citiamo inoltre il mobbing legato ad conflitto interpersonale non efficacemente risolto dal quale parte l’escalation delle vessazioni; il mobbing di tipo predatorio in cui la vittima si trova accidentalmente in una posizione di svantaggio, senza aver fatto nulla per provocare e/o giustificare l’accanimento nei suoi confronti; il doppio mobbing, che coinvolge la famiglia del mobbizzato il quale, oltre a subire il mobbing sul lavoro, non è più capito, sostenuto e incoraggiato nemmeno presso la famiglia.
Vengono distinte poi varie tipologie di azioni che costituiscono e su cui si articolano le diverse tipologie di mobbing:
- azioni appartenenti alla sfera della comunicazione verbale e non verbale vs. la sfera del comportamento fisico;
- comportamenti apertamente manifesti e diretti vs. azioni di natura subdola e indiretta quale l’esclusione sociale dei pari;
- strategie razionali basate su precisi calcoli logici e razionali vs. manipolazione sociale;
- agire attivo vs. la dimensione passiva del non agire affatto al fine di escludere;
- strategie che si focalizzano sul deterioramento delle relazioni interpersonali vs. il deterioramento della qualità e della quantità del lavoro svolto.
La maggior parte della letteratura classifica il mobbing sulla base delle relazioni gerarchiche che intercorrono tra i soggetti coinvolti. Si distinguono quindi:
- il mobbing orizzontale, che coinvolge soggetti di pari grado. Le azioni aggressive sono perpetuate dai colleghi, solitamente in gruppo, e solitamente sono di natura socio-comunicativa, attraverso il blocco delle informazioni, l’isolamento e gli attacchi basati su questioni inerenti la vita privata della vittima;
- il mobbing verticale discendente, che è esercitato dai superiori gerarchicamente nei confronti dei sottoposti. Le azioni sono in questo caso legate all’autorità e al potere formale del mobber, e prendono forma attraverso il controllo e i provvedimenti disciplinari;
- il mobbing verticale ascendente, che viene esercitato nei confronti di un superiore da parte di un gruppo di collaboratori.
In letteratura viene proposta inoltre una classificazione generale delle attività mobbizzanti individuando circa 42 comportamenti che si riconducono a cinque categorie:
- limitazioni sulle possibilità della vittima di comunicare adeguatamente;
- attacchi sulle possibilità della vittima di mantenere contatti sociali;
- attacchi sulla reputazione personale della vittima;
- attacchi sulla qualità della situazione professionale e personale della vittima;
- attacchi alla salute della vittima.
Gli eventi che più frequentemente si registrano nei casi evidenti di mobbing possono essere così – non esaustivamente – elencati:
a) demansionare in modo formale o solo di fatto;
b) marginalizzare il lavoratore fino al punto di metterlo in una condizione di totale inoperosità;
c) costruire ad arte “incidenti” miranti a rovinare la reputazione della vittima;
d) discriminare sulla carriera, le ferie, l’aggiornamento, la postazione di lavoro, il carico e la qualità del lavoro;
e) negare diritti contrattuali;
f) utilizzare espressioni o atteggiamenti offensivi o di squalifica, fino alla diffamazione vera e propria;
g) isolare dal contatto con gli altri lavoratori;
h) utilizzare in modo esasperato ed esasperante il potere di controllo e l’azione disciplinare
· Come si origina il mobbing
Alcuni autori propongono un modello disposizionale ipotizzando che il processo di mobbing possa essere spiegato a partire dai tratti di personalità, favorendo lo sviluppo di veri e propri identikit della tipica vittima e, in parte, del tipico aggressore. In quest’ottica aggressore e vittima sono caratterizzati da tratti relativamente stabili di personalità, presupponendo che le persone, a prescindere dalla specifica situazione nella quale si vengano a trovare, siano a priori destinate ad essere dei mobber o dei mobbizzati sulla base delle proprie caratteristiche personologiche.
Alcuni studi di natura sociale, discostandosi dalle teorie personologiche, spiegano il verificarsi di episodi di mobbing a partire da alcune dinamiche di gruppo non efficacemente gestite, che portano come risultato estremo ad una situazione di forte stress che induce frustrazione, la quale a sua volta provoca reazioni aggressive. Sarebbero quindi alcune dinamiche sociali, spontanee e fisiologiche nella vita dei gruppi sociali, a far sì che una persona diventi oggetto di vessazioni e persecuzioni, e non le sue caratteristiche intrinseche. Il capro espiatorio rappresenta quindi uno dei ruoli che emergono fisiologicamente nei gruppi sociali, assolvendo alla fondamentale funzione di chiarificatore delle norme sociali del gruppo e delle conseguenze che derivano dalla loro violazione.
Secondo altri studiosi l’insorgenza del mobbing è attribuibile all’esplodere del conflitto patologico sostenuto da fattori organizzativi più che a tratti di personalità; tratti che vengono spesso utilizzati dalle aziende per individuare nella vittima la responsabilità del “suo” mobbing. L’origine del mobbing sarebbe da rintracciare quindi nel conflitto patologico, distruttivo e logorante, non quello fisiologico che avviene quotidianamente nelle realtà lavorative e che, anzi, può funzionare da stimolo alla crescita professionale. Al conflitto si va aggiungere una cultura aziendale fortemente e patologicamente orientata alla competizione e alla spinta. Tutto ciò può scatenare dinamiche conflittuali di invidia, risentimento vero e proprio tra i lavoratori, che possono condurre a situazioni logoranti, laceranti e patologiche di mobbing.
Facendo infine riferimento alle teorie della psicologia clinica e della psicologia sociale, si può leggere il fenomeno del mobbing come manifestazione del fallimento collusivo e come patologia dei sistemi di convivenza. Le vessazioni agite in una relazione e che si sviluppano in un determinato sistema di convivenza come il posto di lavoro, nascono a seguito del fallimento delle regole di convivenza che fino a quel momento avevano fondato la relazione sociale (ad esempio la relazione capo-dipendente). In questo caso, quella relazione che precedentemente era condivisa da tutti i partecipanti sia a livello esplicito che implicito, ad un certo punto vede venire a mancare il consenso di una delle parti. E’ qui che si situa il “fallimento collusivo” il quale prende origine da un processo di cambiamento strutturale, organizzativo, che rende in qualche modo obsoleta la dinamica collusiva sino a quel momento realizzata.
Se l’organizzazione non è in grado di contenere l’emozionalità emergente e non sa far fronte al cambiamento in modo funzionale, ecco che si creano le condizioni per far emergere ed esasperare comportamenti non desiderati e violenti nei confronti di chi viene vissuto come estraneo, diverso. L’altro è colui che viene percepito come il diverso rispetto al proprio sistema di appartenenza. E’ colui che impone la messa in discussione del proprio bagaglio di sicurezze; d’altra parte rappresenta l’unico modo affinché le relazioni sociali crescano per evolversi e non esaurirsi al loro interno; quindi l’estraneo è soprattutto una risorsa per lo sviluppo della relazione sociale. In altri termini l’estraneo propone la diversità che si contrappone alla percezione scontata delle relazioni affettive familiari o familistiche. Per tale motivo può essere percepito come il principale nemico da distruggere.
· Il mobbing come fallimento collusivo: analisi, prevenzione e formazione
Il fenomeno del mobbing si manifesta e può essere letto dunque entro la dinamica di rapporto circolare tra individuo e contesto, questo inteso come l’insieme delle relazioni, e della loro struttura organizzata, entro cui ciascun individuo vive la propria esperienza. Relazioni e struttura sono esperienza viva, acquistano una connotazione emotiva ed un significato simbolico che viene condiviso dai partecipanti a quel contesto (ad es. il linguaggio).
Noi siamo continuamente confrontati con la traduzione emozionale di tutto ciò che viviamo, in tutti i contesti in cui ci troviamo: i capi, i dipendenti, i colleghi, tutto viene tradotto in termini di emozionalità”. Quando in un’organizzazione si condividono le stesse “categorie” emozionali, una stessa significazione del contesto in cui si vive e lavora si sta colludendo.
In un’organizzazione è possibile infatti evidenziare obiettivi, funzioni e ruoli, norme ed altre dimensioni ancora, collegabili al modo di “funzionare” di un’organizzazione sociale fondato sulla logica “razionale” propria del pensiero cosciente.
Ma vi è anche nelle relazioni sociali una componente che può essere compresa facendo riferimento al modo di essere inconscio della mente: esso ha sue leggi caratteristiche che sono un modo di rappresentare, di “conoscere” la realtà esterna, “contestuale”, trasformandola in una realtà interna con qualità particolari, di natura “connotativa” ed emozionale.
La collusione è un “accordo inconscio” a fondamento della relazione sociale, è la “conoscenza” e “trasformazione” emozionale della realtà “esterna”, socialmente condivisa ed evocata dal contesto.
Mediante l’integrazione tra processi di pensiero (cioè di differenziazione “razionale” della realtà) e dinamica collusiva (cioè di condivisione delle emozioni che la realtà evoca) è possibile l’azione competente, quella che permette all’organizzazione di raggiungere l’obiettivo che si è prefissa.
Quando gli obiettivi che l’organizzazione si è data e gli strumenti utilizzati per raggiungerli non sono funzionali, o non lo sono più, la dinamica collusiva non trova un’interfaccia coerente nella “funzionalità” dell’organizzazione: si assiste ad una “crisi della competenza” chiamata fallimento collusivo.
Come sopra evidenziato, il mobbing va considerato come una delle possibili manifestazioni del fallimento collusivo tra le persone e il contesto che condividono emozionalmente, come una modalità con cui si manifestano i problemi relativi alla convivenza fra le persone.
L’intervento per prevenire il mobbing e per affrontarlo quando sia presente in un’organizzazione, è orientato da un modello formativo basato sull’analisi del fallimento che ha riguardato la collusione in quel contesto organizzativo, o fra quell’organizzazione e il contesto sociale più ampio. Collusione che precedentemente aveva sostenuto in maniera efficace la relazione sociale.
Analisi significa riflettere su, sviluppare un pensiero su ciò che è accaduto, sta accadendo o si teme che possa accadere; significa riflettere anche sull’intervento formativo: il perché è stato richiesto, da chi; con quali obiettivi; quali fantasie esso evochi nei partecipanti. Il lavoro di analisi non è rivolto alle motivazioni formali che possono essere addotte per giustificare l’intervento, bensì alle fantasie sottostanti, che procedono secondo la logica simmetrica caratteristica del funzionamento inconscio della mente.
La proposta è quella della formazione psicosociale come intervento di prevenzione dei problemi, dei quali il mobbing è appunto un esempio, che possono insorgere in un’organizzazione in seguito ad un cambiamento e la proponiamo anche come strumento per affrontare questi problemi quando siano già insorti evitando così un’escalation di malfunzionamenti e sofferenze, drammaticamente dannosa per tutti coloro che operano nell’organizzazione.
La formazione psicosociale mira a rendere “competenti” i formandi circa la loro capacità di “leggere” le relazioni in cui sono immersi (con i colleghi, i superiori, i clienti, ecc.), formulando un pensiero emozionato sulla collusione.
Il pensiero emozionato è inteso come un “pensiero su”, “ironico” su se stessi e sul contesto in cui si vive e lavora. Si tratta di un “pensare” che viene condiviso dai partecipanti alla relazione organizzativa in base alle esperienze comuni che essi fanno e considerano significative.
La promozione di un pensiero emozionato (ironico per l’appunto) sulla collusione, fallita nel contesto originario ma riproposta nel contesto formativo – obiettivo metodologico in grado di ridefinire comportamenti più adeguati – non mira a dare giudizi di valore: non si tratta di individuare chi ha sbagliato, chi è cattivo, chi è “mobber” e via di seguito.
C’è un’emozione molto importante che permette il passaggio ad un “pensiero ironico” sul contesto: la vergogna. Si tratta di un sentimento “sociale” perché consente la presa di consapevolezza del fallimento collusivo, quindi permette la modifica del rapporto tra individuo e contesto.
Il passaggio dalla vergogna all’ironia “salva” dalla vergogna, permette di attenuarla, rendendo accettabile, ma anche modificabile, questo sentimento utile seppur doloroso.
Spesso la vergogna e l’ironia non vengono tollerate nella vita organizzativa perché considerate dimensioni interferenti con l’efficienza organizzativa stessa: dietro questa motivazione si nasconde, in realtà, l’incapacità di riflettere sulla “falsità” delle reazioni emozionali che coinvolgono gli attori organizzativi.
La vergogna e l’ironia sono gli esiti dell’analisi del fallimento collusivo, ed insieme una verifica dell’efficacia dell’intervento formativo.
IL MOBBING SUL POSTO DI LAVORO: ASPETTI GIURIDICI
LA DEFINIZIONE DI MOBBING NELLA GIURISPRUDENZA, NELLA LEGISLAZIONE E NELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
Il fenomeno del mobbing si è diffuso negli ultimi anni in modo esponenziale, portando la dottrina e la giurisprudenza ad interrogarsi più volte su una serie di problematiche interpretative di non poco momento e dalle ricadute applicative particolarmente significative. Il mobbing si è sviluppato nella prima metà degli anni ’90 come fenomeno culturale in diversi Paesi, mentre in Italia ha fatto il suo ingresso subito dopo, per lo più per merito della dottrina seguita dalla giurisprudenza. L’evoluzione del mobbing ha comportato vari passaggi interpretativi prima di arrivare ad una ricostruzione sostanzialmente unitaria: si è partiti dal mobbing finalizzato solo ad ottenere le dimissioni del lavoratore dipendente, fino ad arrivare ad una concezione più ampia idonea a ricomprendere nella medesima categoria concettuale qualsiasi comportamento vessatorio e ripetuto realizzato con finalità emulative (anche formalmente lecite, ma sostanzialmente illecite).
Il Mobbing è una azione pericolosa e delittuosa, i suoi propositi sono scanditi da impulsi fortemente negativi nei confronti degli altri ed i suoi risultati possono essere catastrofici potendo finanche condurre al suicidio della vittima, con ovvie conseguenze disgregatrici del tessuto sociale. Essendo, inoltre, un fenomeno complesso che coinvolge un numero straordinario di persone è evidente come lo stesso possa provocare gravissimi danni a chi lo subisce, all’azienda ove opera la vittima e, in ultima istanza, anche all’intera collettività. Da queste considerazioni si comprende bene che il Mobbing è un problema che, a prescindere dal tipo di lavoro svolto e dal tipo di settore occupato, può interessare potenzialmente ognuno di noi.
Proprio in considerazione della sua lesività, la conoscenza e l’approfondimento della questione delle vessazioni psicologiche sul posto di lavoro risulta essere indispensabile non solo per i professionisti del diritto o della medicina legale ma anche per tutti coloro (soprattutto lavoratori ed imprenditori) che si trovino a dover gestire quelle problematiche connesse al contesto interpersonale nell’ambiente di lavoro.
La descrizione del Mobbing nei Tribunali italiani e nella Suprema Corte di Cassazione
Se oggi possiamo delineare gli elementi strutturali del Mobbing il merito è ascrivibile soprattutto alla giurisprudenza la quale,in assenza di un quadro normativo e svolgendo un importante ruolo di nomofilachia, ha fornito tutte le indicazioni giuridiche del caso.
Molteplici sono le sentenze che, soprattutto negli ultimi tempi, hanno avuto ad oggetto il Mobbing cosi come numerosi sono i ricorsi civili e le denunce penali che vedono come protagonisti i lavoratori ed i datori di lavoro.
Da qui la necessità di esaminare lo stato contemporaneo dell’elaborazione giurisprudenziale e tentare, nei limiti del possibile,di offrire un resoconto, quanto più completo, delle principali e più interessanti sentenze emesse finora in detta materia.
2. La prima giurisprudenza sul Mobbing.
In attesa di una espressa disposizione legislativa che possa qualificare positivamente le condotte di Mobbing, la prima definizione giuridica del fenomeno risulta da due pronunce di merito.
Si tratta delle sentenze del Tribunale di Torino del 16 novembre 1999 e del 30 dicembre 1999, le quali hanno offerto una tutela giuridica piena contro le azioni vessatorie sofferte dai lavoratori fornendoci, nello stesso tempo, un’innovativa ricostruzione giuridica del Mobbing (Le due pronunce, pur avendo ad oggetto situazioni e comportamenti vessatori diversi — isolamento lavorativo la prima demansionamento la seconda—, costituiscono il fondamentale punto di partenza per la ricostruzione della definizione di Mobbing.
Infatti in entrambi i casi il giudice dedica un apposito paragrafo al fenomeno delle molestie morali in azienda.
Il magistrato torinese considera il Mobbing come un «fenomeno intenazionalmente noto » ovvero come fatto notorio ai sensi dell’ari. 115 comma 2 del c.p.c. in quanto «acquisito alle conoscenze della collettività in modo da non esigere dimostrazione in giudizio »
Dalle decisioni via via susseguitesi nel corso degli anni sembra emergere un dato tendenzialmente uniforme rappresentato dalla sussistenza, nelle fattispecie di Mobbing, di un elemento materiale sostanziato dalla perduranza di azioni vessatorie reiterate, rivolte, da uno o più soggetti, alla corrispondente loro vittima, ed un elemento psicologico, sostanziato dalla coscienza e dalla volontà dell’autore d’offendere il lavoratore.
Una delle sentenze più innovative e di straordinario equilibrio per avere formulato una definizione molto specifica del fenomeno Mobbing è quella pronunciata ultimamente dal Tribunale di Forlì in data 28 gennaio 2005 in una controversia in materia di diritto scolastico.
Il giudice avverte sin dall’inizio che il concetto di Mobbing è stato utilizzato, molto spesso senza particolare cognizione di causa, nelle aule di giustizia e nei processi di lavoro.
Il pericolo, in effetti, è quello che si identifichino come Mobbing situazioni che solo per alcuni caratteri possono ricondursi a tale fenomeno.
Partendo da questa considerazione il magistrato esprime il principio per cui per definire il Mobbing, in mancanza di dati normativi chiari, sarà necessario «riprendere la definizione offerta dallo psicologo del lavoro – Prof. Ege – che nel 1996 introdusse questo concetto nel nostro paese ».
Pertanto, ai fini della corretta identificazione del fenomeno, si insiste sulla necessità della contemporanea esistenza degli elementi della durata, della ripetitività, della sistematicità, della pluralità e dell’intento persecutorio delle condotte .Ma il giudice va oltre.In effetti egli non si limita ad aderire sic et sempliciter alla nozione fondamentale elaborata dalla psicologia del lavoro, ma riconosce come anche la «conflittualità sottile» sul posto di lavoro possa integrare gli estremi del Mobbing; anzi è la forma più infida e dannosa perché necessita di una particolare attenzione per riconoscerne le qualità specifiche .
Degna di particolare menzione è una fresca pronuncia del Tribunale di Milano datata 29 giugno 2004 con la quale il magistrato del lavoro ha condannato un ente al risarcimento del danno biologico ed esistenziale per complessive Euro 70.000,00 a seguito di condotte datoriali cosiddette mobbizzanti adottate da due dirigenti scolastici in pregiudizio di un insegnante.
Anche in questo caso la premessa dalla quale si parte è che per questo occorre prendere le mosse dagli studi di psicologia o psichiatria che per primi ne hanno tracciato le linee generali.
Solo in un secondo momento sarà poi possibile verificarne la rilevanza dal punto di vista non più solo sociale o medico bensì giuridico, per accertare la riferibilità al datore di lavoro della responsabilità civile dei danni procurati al lavoratore.
Ebbene, ad avviso del magistrato, il Mobbing, che è possibile definire in vari modi, nella sostanza può essere ridotto ad alcuni comuni elementi essenziali quali
- Aggressione o persecuzione di carattere psicologico
- Frequenza, sistematicità e durata nel tempo con andamento progressivo della condottaci).
Non si ritiene, inoltre, che tale azione debba essere proprio indirizzata verso un determinato lavoratore, ben potendo essere invece diretta verso tutto un gruppo di lavoratori, sì da creare un clima pesante di perdita della fiducia e della dignità che può essere avvertito da alcuno in misura diversa e ben più grave rispetto a tutti gli altri.
In termini,con la pronuncia in oggetto si mettono in risalto gli eventi di persistenza e di ripetitività che la condotta di Mobbing deve avere e che la rendono differente da quelle occasioni di conflitto ordinario che, invece, sono da considerarsi naturali all’interno di un luogo di relazione qual è un’organizzazione lavorativa
Mobbing, per i giudici, significa innanzitutto strategia, pianificazione, finalità persecutoria; un disegno, cioè, messo in atto volutamente contro una determinata persona e realizzato attraverso azioni aggressive con il chiaro scopo di emarginare e, se del caso (come accade nel Bossing), costringere il lavoratore al licenziamento.
La conseguenza di questa impostazione non può che essere una, e cioè l’esclusione dalla fattispecie in oggetto di tutti quei comportamenti di conflitto ordinario che non rientrano all’interno di una vera e propria strategia messa in atto dal datore di lavoro ma sono frutto di un normale, per quanto difficoltoso, rapporto di lavoro.
Tuttavia i magistrati si rendono conto che, così individuato, il Mobbing finirebbe per essere di difficile accertamento (e ciò, diciamo noi, anche in considerazione degli atteggiamenti omertosi sempre presenti in azienda) e quindi, dal punto di vista aggettivo, opera un’estensione dei comportamenti mobbizzanti anche a quelli aventi una potenzialità lesiva di tipo obiettivo per il lavoratore .
3. L’opinione della Cassazione
Degne di citazione (anche perché allo stato attuale rappresentano gli unici orientamenti emersi finora dalla giurisprudenza di legittimità in materia di Mobbing) sono tre pronunce della Suprema Corte di Cassazione.Procedendo in ordine cronologico, la prima è stata emanata dalla Sezione Lavoro (sentenza n. 143 del 8 gennaio 2000), la seconda dalle Sezioni Unite Civili (sentenza n. 8438 del 4 maggio 2004) e la terza dalla Sezione Lavoro (sentenza n. 6326 del 23 marzo 2005).
In via preliminare va ricordato che nella prima sentenza(quella dell’5 gennaio 2000 n. 143) l’oggetto della controversia non riguardava un vero e proprio caso di molestia morale quanto, al contrario, un’accusa non provata di Mobbing che aveva dato luogo al licenziamento.
In pratica si discuteva se fosse legittimo il licenziamento disposto dall’azienda nei confronti di una dipendente la quale aveva mosso un serie di accuse di molestie sessuali e discriminazioni nei confronti del capo del personale del suo stabilimento, successivamente divulgate a mezzo stampa, le quali si erano rivelate assolutamente inesistenti.
Ai nostri fini , per quanto riguarda la questione definitoria del Mobbing, questa sentenza è estremamente utile in quanto vi si ritrova, sebbene solo obiter dictum, una definizione del fenomeno che ne sottolinea quelle caratteristiche di condotta aggressiva e vessatoria dell’altrui sfera giuridica evidenziate più volte dalla sociologia e dalla psicologia del lavoro.
Ed infatti si legge «… Mobbing, un termine, che indica l’aggredire la sfera psichica altrui, mutuato dal linguaggio usato in altri Paesi in cui il fenomeno stesso da tempo è oggetto di studi particolari». Si tratta tuttavia, come è facile intuire, di una definizione del fenomeno abbastanza scarna ma che comunque testimonia come anche la giurisprudenza di legittimità, da circa un quinquennio a questa parte, stia acquisendo contezza dell’importanza di queste nuove forme di disagio sociale e della necessità di un miglioramento dell’organizzazione e della sicurezza del lavoro.
Sicuramente degna di menzione è la sentenza n. 8438 delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione del 4 maggio 2004 la quale risolve alcuni importanti questioni riguardanti la natura giuridica dell’azione risarcitoria (qualificandola come contrattuale) ed il riparto di giurisdizione in materia di pubblico impiego per fattispecie antecedenti all’entrata in vigore del d.lgs.n. 80 del 1998 (ma su tali punti torneremo diffusamente nel corso dei successivi capitoli).
La pronuncia in oggetto, definita dalla stampa quotidiana come un «nuovo orientamento giurisprudenziale in tema di Mobbing», in realtà definisce una questione di stretto diritto processuale ed ha poco a che vedere con quella sostanziale relativa al l’accertamento dell’asserita condotta mobbizzante.
La Corte, infatti, non entra nel merito della domanda di risarcimento avanzata dal lavoratore ed ha cura di precisare, ogni qual volta in motivazione utilizza il termine Mobbing, che lo stesso è ripreso dal ricorso introduttivo del lavoratore e, ove ciò non accade, che è il ricorrente ad utilizzarlo per descrivere le vessazioni subite.
Più in particolare il termine Mobbing viene essenzialmente riferito « ad ogni ipotesi di pratiche vessatorie poste in essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro ». Questa scarna definizione conferma come la Corte di Cassazione, per qualificare le condotte vessatorie che possano potenzialmente dare luogo al risarcimento dei danni, abbia fatto riferimento proprio a quegli elementi oggettivi (di sistematicità, durata,ripetitività della condotta persecutoria) e soggettivi (intento persecutorio ed offensivo) enunciati a più riprese dalla psicologia del lavoro per qualificare le condotte di Mobbing (3 3).
4. Il Mobbing nei diversi progetti di legge nazionali e l’importanza del Testo Unificato della Commissione Lavoro al Senato del 2 febbraio 2005
Anche il legislatore italiano, considerando l’importanza numerica dei soggetti coinvolti e le conseguenze dannose che il Mobbing comporta, si è interessato alla problematica delle molestie morali sul posto di lavoro .
In particolare, sia nella passata (XIII) che nell’attuale (XIV) legislatura, sono state presentate molteplici proposte di legge — aventi finalità preventive, riparatorie, informative e repressive — tese alla regolamentazione giuridica di questo nuovo fenomeno sociale .
Tuttavia, tra i diversi disegni di legge, quello che riteniamo abbia più possibilità di essere definitivamente approvato — tanto che lo scorso 19 luglio 2005 ha ricevuto parere favorevole dalla XI Commissione permanente — è il Testo Parlamentare Unificato sul Mobbing della Commissione Lavoro al Senato.
Si tratta di un testo unitario che intende raccogliere le diverse proposte di legge in materia di Mobbing e nel quale viene data una definizione «elastica» del fenomeno applicabile a tutte le tipologie di lavoro, pubblico e privato, indipendentemente dalla loro natura, nonché dalla mansione svolta o dal livello conseguito, e comprensiva di tutti i fenomeni di violenza o persecuzione psicologica caratterizzati dal minimo comune denominatore costituito dall’elemento oggettivo (ossia dal carattere sistematico, intenso e duraturo della condotta) e dall’elemento soggettivo o ideologico ovvero dalla finalità delle azioni dirette a danneggiare l’integrità psico-fisica della lavoratrice o del lavoratore .
In tal senso, il Testo Unificato attribuisce un ruolo centrale all’azienda ed alle rappresentanze sindacali che, di concerto, sono chiamate ad adottare ogni azione necessaria.
Da non trascurare il rilievo attribuito all’informazione dei lavoratori.
A tale problematica viene dedicato un apposito articolo e ciò proprio al fine di evidenziare l’imprescindibilità della stessa nel contesto della problematica concernente la protezione del Mobbing.
È stato anche attribuito uno specifico diritto dei lavoratori —a svolgersi secondo le modalità e con le forme di cui all’articolo 20 della Legge 20 maggio 1970, n. 300 — di riunirsi fuori dall’orario di lavoro, nei limiti di cinque ore su base annuale, per discutere riguardo alle violenze ed alle persecuzioni psicologiche occorse.
Sotto il profilo della responsabilità disciplinare la proposta normativa in oggetto sanziona non solo coloro che pongono in essere atti o comportamenti qualificabili come Mobbing ma anche quanti, in maniera fraudolenta, denuncino consapevolmente atti o comportamenti persecutori inesistenti, al fine di trarre vantaggio per sé o per altri.
La tutela giudiziaria — espressamente contenuta nell’ari. 5 —è stata incentrata su tre piani distinti:
- tutela inibitoria
- tutela risarcitoria
- annullabilità degli atti illeciti
5. I Decreti Legislativi 9 luglio 2003 n. 215 e 216 ed il divieto di discriminazione
Agli inizi del mese di luglio del 2003 vi è stato un importante intervento del legislatore per adeguare la normativa nazionale alle Direttive comunitarie.
E così il panorama giuridico italiano si è arricchito di due fondamentali provvedimenti giuridici aventi ad oggetto la tutela contro le discriminazioni fondate sul sesso, la razza, l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali.
Si tratta del:
- D.Lgs. 9 luglio 2003 n. 215 di «Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendente mente dalla razza e dall’origine etnica » ;
- D.Lgs. 9 luglio 2003 n. 216 di «Attuazione della Direttiva 2000/78/ CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro » .
I decreti legislativi sono strutturati in maniera sostanzialmente speculare, ricalcando l’impianto delle direttive comunitarie di riferimento .
Entrambe le normative considerano come discriminazione sia quella diretta che quella indiretta .
Pur non essendo mai citato esplicitamente, il Mobbing viene posto in risalto grazie all’art. 2 comma III delle citate disposizioni,il quale — nella definizione giuridica del concetto di discriminazione — chiarisce che sono considerate tali «….anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per uno dei motivi di cui all’articolo 1 (ovvero religione, convinzioni personali, handicap, età, orientamento sessuale), aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo (…)».
Nella definizione di molestie vi rientrano, dunque, tutti quegli stati d’animo di afflizione e di sofferenza del lavoratore determinati da azioni persecutorie e vessatorie dirette ad alterarne l’equilibrio psico-fisico.
In altri termini la caratteristica discriminatoria rileva sia come una delle modalità con cui il Mobbing si può atteggiare sia come comportamento illegittimo in sé.
Partendo da tali normative — che si ribadisce non utilizzano in maniera esplicita la parola
«Mobbing» — si può affermare, dunque, che le condotte qualificate come illegittime dal legislatore interno e comunitario corrispondano proprio a quei comportamenti orami tipizzati con questo termine.
I provvedimenti in esame segnano, pertanto, un importante passo avanti verso la descrizione giuridica del fenomeno che con sentirà alle vittime di comportamenti persecutori e vessatori di avere ulteriore tutela in sede giudiziaria .
Un’ultima precisazione è fondamentale.
Affinché si possa parlare di Mobbing è comunque necessario che l’elemento oggettivo e quello soggettivo coesistano nello stesso momento, altrimenti le azioni per quanto afflittive e persecutorie non potranno essere ascrivibili al Mobbing ma troveranno un’altra forma di tutela giurisdizionale e di inquadramento sistematico.
Il Mobbing inoltre, può essere di origine individuale o collettivo (e non necessariamente collettivo come vorrebbe il Tribunale di Como con le pronunce del 22 maggio 2001 e del 22 febbraio 2003), e può manifestarsi anche con l’aiuto dei c.d. side mobbers e cioè degli spettatori passivi che pur essendo a conoscenza della situazione di disagio in cui vive la vittima non fanno nulla per aiutarla.
Aver posto in rilievo gli elementi strutturali delle persecuzioni psicologiche sul luogo di lavoro è senz’altro importante in quanto ci consente di elevare il fenomeno del Mobbing al rango di una vera e propria categoria giuridica unitaria (ovvero come « legai framework » ) nella quale si possono ricomprendere:
- condotte che erano già considerate illeciti sanzionati (ad esempio il demansionamento ovvero la dequalificazione professionale, le molestie sessuali, il trasferimento ingiustificato, etc..) ma che attraverso una visione di insieme, un inquadramento sistematico ed unitario cioè, possono essere considerate all’interno di un’unica vicenda persecutoria;
- azioni o omissioni che singolarmente prese potrebbero apparire lecite e non dare luogo ad alcuna forma di responsabilità giuridica ma che, in realtà, inserendosi in un disegno diretto a provocare l’isolamento e l’eliminazione del soggetto indesiderato provocano un danno psicofisico meritevole di tutela.
LE PRINCIPALI FATTISPECIE DI MOBBING
Le condotte attraverso le quali si può manifestare il Mobbing sono molteplici per cui sarebbe assolutamente impossibile creare un elenco ovvero una tabella esauriente di azioni e di atteggiamenti vessatori che perfezionano il fenomeno; molto dipenderà, ad esempio, dalla tipologia di lavoro prestato, dalle condizioni sociali e dalle attitudini personali della vittima. Tuttavia, in detta sede, analizzeremo le principali tipologie di azioni persecutorie che, a nostro avviso, hanno la forza di integrarne con maggiore intensità la fattispecie.
Alla luce di quanto detto, è possibile offrire un quadro esemplificativo delle principali fattispecie di molestie morali che sono state già riconosciute e sanzionate dalla giurisprudenza.
- Demansionamento ed inattività del lavoratore
Dalle nostre aule giudiziarie non passa giorno che vengano emesse sentenze che sanzionano quei comportamenti di demansionamento, di forzosa inattività ovvero di completo depauperamento e svilimento del bagaglio professionale dei lavoratori.
In questo senso la dequalifìcazione professionale e l’inattività forzosa rappresentano gli esempi tipici di Mobbing verticale ovvero di Bossing, cioè di una vera e propria strategia studiata a tavolino dall’azienda, la quale, attraverso una graduale sottrazione di compiti e di mansioni e con la lenta e costante rimozione dai centri decisionali, mira ad allontanare ed a espellere il mobbizzato dal complesso aziendale.
In tutti questi casi la normativa violata è rappresentata, in primis, dall’art.2103 c.c. che sanziona tutte quelle situazioni di assegnazione datoriale del prestatore di lavoro a mansioni non equivalenti e che ne limitano la capacità, la competenza, l’esperienza e la pratica acquisite nel corso degli anni e non ne consentono l’accrescimento ed il miglioramento.
Ma l’art. 2103 c.c. sancisce anche il divieto, per l’azienda, di isolare il dipendente nella umiliante e vergognosa situazione di completa e totale inoperosità senza svolgere alcun compito.
Conseguentemente, la ratio sottesa all’art. 2103 c.c. è duplice: da un lato tutelare la professionalità lavorativa in senso stretto, dall’altro consacrare il diritto morale del lavoratore a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte.
In questo senso, come è stato più volte ripetuto dalla giurisprudenza sia di legittimità che di merito «…… il demansionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all’articolo 2103 c.c. ma ridonda in una lesione del diritto fondamentale da riconoscere al lavoratore anche in quanto cittadino, alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro » .
Stabilito ciò, riteniamo utile enunciare qualche caso giurisprudenziale in cui il demansionamento è stato utilizzato come forma di vessazione e persecuzione psicologica.
Iniziamo, dunque, facendo una breve panoramica in ordine a quella che era la situazione prima che le sentenze torinesi del 16 novembre 1999 e del 30 dicembre 1999 introducessero nel nostro ordinamento giuridico la fattispecie del Mobbing.
Nel sistema «pre-Mobbing» molto ricca è stata la giurisprudenza formatasi in tema di dequalificazione professionale.
Così, ad esempio:
- modificazione in senso peggiorativo delle mansioni professionali ;
- assegnazione al lavoratore di mansioni che comportano la totale dispersione della professionalità acquisita con contestuale adibizione ex novo a nuove ed inferiori mansioni ;
- attribuzione di attività meramente manuale, totalmente priva di responsabilità ed autonomia ;
- mancata promozione del lavoratore nel caso in cui la discrezionalità del datore nelle procedura valutativa risulti ispirata da criteri procedimentali e di merito precostituiti e discriminatori;
- adibizione ad una posizione professionale meno elevata che comporti l’inutilizzabilità del bagaglio professionale acquisito ;
- mancato esercizio ovvero esercizio estremamente ridotto della professione ;
- assegnazione di mansioni prive di contenuto qualificante ;
- privazione completa del lavoratore di ogni mansione
- assegnazione di nuove mansioni che non consentano la conservazione del bagaglio professionale acquisito e la valorizzazione delle capacità del lavoratore
Dall’anno 2000, grazie alle sentenze torinesi più volte citate, il Mobbing è stato definitivamente introdotto, a pieno titolo, nel panorama giuridico italiano.
Da quel momento lo schema di riferimento generale per punire le azioni di demansionamento che si inseriscono in un disegno eliminatorio e persecutorio è rappresentato dalla combinazione degli artt. 2103 c.c. e 2087 c.c. + artt. 32 e 41 Costituzione.
La giurisprudenza ha, pertanto, valorizzato l’art. 2087 c.c. nel senso di salvaguardare non solo la professionalità del lavoratore — ovvero la «libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro» (tutelata ex art. 2103 c.c.) — ma addirittura di estenderne la tutela alla personalità morale.
Il demansionamento, dunque, quando si inserisce in una reiterata condotta persecutoria e vessatoria determina una lesione alla dignità personale della vittima che si estrinseca in un dolore ed in una frustrazione sicuramente ascrivibile anche alla ratio di cui a l’art. 2087 c.c. e, dunque, sanzionabile come Mobbing.
1.2.Rimedi giuridici contro la dequalifìcazione
Terminata la trattazione sul collegamento esistente tra Mobbing e dequalificazione professionale, un breve cenno deve essere fatto in ordine alle possibili alternative giuridiche consentite al mobbizzato in rapporto a situazioni di illegittimo mutamento delle mansioni.
Ebbene la vittima ha a disposizione essenzialmente due strade,una di tipo stragiudiziale ed una giudiziale che prevede il ricorso alla magistratura del lavoro.
Per quanto concerne la prima, il lavoratore si può rifiutare di eseguire la prestazione lavorativa dequalificata e ciò ai sensi e per gli effetti dell’art.1460 c.c in quanto non conforme a quella contrattualmente pattuita .
Tuttavia in questo caso occorre attentamente valutare che tale rifiuto non sia sproporzionato e contrario alla buona fede perché, in questo caso, si potrebbe rischiare di subire un legittimo licenziamento da parte del datore di lavoro .
Quindi un consiglio che possiamo fornire alle vittime di Mobbing è proprio quello di fare attenzione, e porre in essere il rifiuto della prestazione lavorativa solo nelle situazioni in cui si è presenza di un chiarissimo ed indiscutibile esercizio arbitrario e discriminatorio dello jus variandi.(mutamento di mansioni)
L’altra strada per il mobbizzato è rappresentata dalla possibilità di rivolgersi al giudice del lavoro per ottenere la dichiarazione di nullità dell’atto illecito adottato dal datore di lavoro e, come immediata conseguenza, il risarcimento del danno e la condanna del datore di lavoro al corretto adempimento dell’obbligo contrattuale mediante la reintegra nelle precedenti mansioni svolte comunque in altre equivalenti.
Tuttavia va ricordato che, in sede di esecuzione dell’ordine giudiziale, il datore di lavoro può legittimamente esercitare lo jus variandi, essendogli consentito «di adempiere mediante assegnazione del dipendente a mansioni diverse di contenuto professionale equivalente » ma, in ogni caso, è fatta sempre salva la possibilità per il mobbizzato di recedere dal rapporto di lavoro adducendo una giusta causa di dimissioni ai sensi dell’ari. 2119 c.c.
A questo punto occorre fare un’ultima considerazione.
Molto spesso accade che il datore di lavoro licenzi illegittimamente il lavoratore e che quest’ultimo, proponendo ricorso giurisdizionale, ottenga la reintegra nel posto di lavoro ai sensi dell’ari. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
L’azienda — costretta a reintegrarlo — pur continuando regolarmente a pagare il dipendente potrebbe decidere di non adibirlo alle mansioni in precedenza svolte e ciò per evidenti finalità punitive.
Anche in questo caso il mobbizzato avrà la possibilità di ottenere tutela ed essere riassunto nelle abituali mansioni e nella medesima sede di lavoro occupata anteriormente al licenziamento .
2. Il trasferimento punitivo o discriminatorio
Un ulteriore modo attraverso il quale l’azienda mette in atto il disegno persecutorio ed eliminatorio di un dipendente «scomodo» è rappresentato dall’isolamento fisico che si può manifestare attraverso un trasferimento ingiustificato in un ufficio deserto e magari privo dei mezzi tecnici per potere lavorare (computer, sedia, scrivania, telefono) o in altre sedi aziendali distaccate.
Può anche verificarsi l’ipotesi di un trasferimento non individuale bensì collettivo ovvero di più dipendenti ritenuti sgraditi nei c.d. reparti-confino, in una situazione di assoluta emarginazione e senza alcun contatto con altri lavoratori .
Orbene, il cambiamento del luogo di adempimento della prestazione lavorativa rappresenta un momento fondamentale nella vita di un dipendente; esprime, cioè, un «mutamento spaziale» che incide su un assetto contrattuale già definito e che coinvolge attitudini professionali, lavorative e familiari tendenzialmente stabili e durature.
Conseguentemente, il legislatore ha fissato al datore di lavoro dei precisi limiti al proprio potere organizzatorio e ciò al fine di evitare che attraverso esso si possano porre in essere finalità vessatorie determinate da motivazioni illecite.
Innanzitutto, un primo, fondamentale, limite è rappresentato dal rispetto dei principi di buona fede e correttezza professionale ex artt. 1175 c.c. e 1375 c.c. che impongono all’imprenditore di non compiere atti discriminatori nella scelta del dipendente da trasferire .
Accanto alle norme innanzi citate, l’art. 2103 c.c. ha fissato delle ulteriori e precise condizioni all’esercizio dello jus variandi del datore di lavoro nel senso che il trasferimento del dipendente deve essere sempre giustificato da comprovate giustificazioni oggettive e/o soggettive.
Conseguentemente, è illegittimo quello spostamento lavorativo che pregiudica la sicurezza del lavoratore esponendolo a grave pregiudizio per la sua salute ed incolumità fisica e ne limita gran demente la libertà e la propria dignità umana .
In questo caso il giudice che sarà chiamato ad accertare la sussistenza delle azioni mobbizzanti dovrà sanzionarle e condannare l’azienda responsabile non solo alla reintegra del lavoratore trasferito ma anche al risarcimento del relativo danno .
Nello stesso contesto si inserisce l’art. 15 della Legge n. 300 del 1970 che disciplina e sanziona il trasferimento discriminatorio del dipendente avente finalità illegittima ed immorale a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero .
Sotto questo profilo va, inoltre, ricordato che tra le ipotesi più frequenti di condotte mobbizzanti vi è proprio il trasferimento di un sindacalista, benché la sua prestazione continui ad essere utile nella sede. Al riguardo l’art. 22 dello Statuto dei lavoratori prevede espressamente che il trasferimento dall’unità produttiva dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali possa essere disposto solo previo nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza.Fermo restando questo limite, accade sempre più spesso che il datore di lavoro, per eliminare un lavoratore sindacalista ritenuto «fastidioso », artatamente costruisca un trasferimento di tipo punitivo senza attendere il nulla osta di cui sopra; in questo caso il trasferimento, deciso per finalità ritorsive o di rappresaglia, è da considerarsi illegittimo .
Oltre a quanto detto, da non dimenticare è la circostanza che il trasferimento di un sindacalista, può anche rilevarsi come una vera e propria condotta antisindacale immediatamente sanzionabile.
Se l’appartenenza ed il proselitismo sindacale possono essere causa di Mobbing, può accadere anche esattemente il contrario…!!! Ovvero può succedere che un dirigente particolarmente zelante a contenere il lavoro straordinario sia costretto, a causa della decisa reazione sindacale, a subire tutta una serie di condotte vessatorie e persecutorie da parte dell’azienda.
Molto spesso al trasferimento punitivo del dipendente ad una diversa unità produttiva si accompagna anche un demansionamento ovvero una adibizione a mansioni inferiori rispetto a quelle proprie del livello professionale raggiunto e che non gli consentono la piena utilizzazione ovvero l’arricchimento del patrimonio professionale acquisito nella fase pregressa del rapporto con seguente lesione della libertà e della dignità umana.
Detto ciò passiamo a considerare alcune ulteriori questioni meritevoli di approfondimento. Potrebbe accadere che il datore di lavoro nel tentativo di giustificare il trasferimento del mobbizzato faccia riferimento alle seguenti circostanze:
- rapporti conflittuali ed incompatibilità ambientale con gli altri colleghi, autori essi stessi di pratiche vessatorie nei confronti della vittima;
- motivazioni di tipo disciplinare (il mobbizzato, infatti, venendosi a trovare in uno stato di ansia e depressione potrebbe anche commettere azioni sanzionabili dal punto di vista disciplinare);
- rallentamento della prestazione lavorativa per carenze di tipo soggettivo.
Come reagire, dunque, di fronte ad un trasferimento disposto per difficoltà nei rapporti con i colleghi ovvero per motivazioni di tipo disciplinare? Ed ancora, come tutelare la vittima di fronte ad un mutamento definitivo del luogo della prestazione lavorativa determinato da carenze meramente qualitative della prestazione lavorativa poiché dipendente da ragioni di carattere meramente soggettivo o da assenze per malattia?
Procediamo con ordine.
Per quanto concerne il primo interrogativo — riguardante il rapporto conflittuale con i mobbers autori della persecuzione —la giurisprudenza ha riconosciuto che qualora sia disposto il trasferimento del lavoratore non per cause o ragioni « oggettive », ma per gli atteggiamenti meramente soggettivi del dipendente, quali l’insofferenza manifestata da questo all’interno dell’ambiente di lavoro e le difficoltà nei rapporti con i colleghi, « tale trasferimento è illegittimo » .
Passando al secondo quesito — trasferimento per motivazioni disciplinari — va detto che esso non è consentito dal nostro ordinamento giuridico.
Infatti l’art. 7 comma IV dello Statuto dei lavoratori — il quale stabilisce che non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportano mutamenti definitivi del rapporto di lavoro— vieta espressamente tale possibilità a meno che ciò non sia previsto dalla contrattazione collettiva di categoria.
In ogni caso non può essere considerato legittimo quel trasferimento adottato nei confronti del dipendente, quale sanzione conservativa, per mancanze addebitategli senza alcuna giustificazione sotto il profilo delle motivazioni organizzative di tipo aziendale.
Stabilito questo, resta da fare un’ultima considerazione.
Nel caso in cui ci sia stata una dichiarazione giudiziale di accertamento dell’illegittimità di un precedente licenziamento, il lavoratore mobbizzato ha il diritto a non essere trasferito solo per il semplice fatto che il proprio posto di lavoro sia stato coperto da un altro dipendente.
Infatti, in questo caso il mobbizzato dovrà essere riassunto nello stesso luogo in cui prestava lavoro prima del licenziamento poi rivelatesi illegittimo .
1. Mobbing sessuale
Uno degli aspetti certamente più intimi e profondi della personalità umana è rappresentato dalla sfera sessuale.
Il problema delle molestie sessuali riguarda tutti gli aspetti della vita sociale ma, negli ultimi anni, all’interno dei luoghi di lavoro la questione è stata sicuramente più avvertita e ciò anche in considerazione della struttura gerarchica aziendale fatta di superiori che, approfittando dello status di soggezione e di debolezza in cui si trovano alcune particolari categorie di lavoratori (si pensi alle donne, ai minori e a quelli con contratti precari), molestano sessualmente avendo la quasi certezza dell’impunità .
A dire il vero il fenomeno delle molestie sessuali non riguarda solo i superiori gerarchici ma si riscontra, purtroppo sempre più spesso, anche tra i colleghi di pari grado (o addirittura di grado inferiore) della vittima.
Anche in questo caso gli atteggiamenti sgraditi a sfondo sessuale determinano una difficoltà ambientale e relazionale tale da rendere invivibile l’ambiente di lavoro; una situazione questa che viene ulteriormente aggravata allorquando a tali condotte non segua alcuna risposta in termini disciplinari da parte del datore di lavoro.
Nei rapporti di lavoro, dunque, il campo della sessualità viene spesso intaccato attraverso frasi, espressioni ed atteggiamenti connotati da elevata offensività e che, se si inseriscono in una serie reiterata di condotte persecutorie e vessatorie a sfondo erotico, possono senz’altro ascriversi alla fattispecie di Mobbing.
Tuttavia, al fine di evitare facili fraintendimenti ed indebite assimilazioni, si rende necessaria una precisazione.
La molestia sessuale, considerata in modo isolato non è Mobbing e ciò per due ordini di ragioni.
La prima è che la stessa potrebbe esaurirsi in un’unica azione mentre il Mobbing, come sappiamo, si attua attraverso una pluralità di condotte ripetute in un arco di tempo più o meno considerevole; la seconda, rilevante sotto il profilo soggettivo, concerne la finalità dell’azione in quanto, mentre l’obiettivo per l’autore della molestia è di tipo carnale, per il mobber è di eliminare la vittima o comunque ingiuriarla o discriminarla.
Con questa precisazione non si vuole, tuttavia, negare che le condotte di molestia sessuale possano essere strettamente legate al Mobbing e rientrare in una precisa strategia vessatoria diretta all’eliminazione, all’allontanamento o alla distruzione del mobbizzato.
Che, d’altro canto, attraverso le molestie sessuali si possa manifestare il Mobbing trova agevole conferma nei diversi progetti di legge finora presentati contro il fenomeno delle persecuzioni e delle vessazioni sui posti di lavoro .
In realtà, alla base del Mobbing sessuale vi possono essere una molteplicità di motivazioni. Può accadere che il mobber si sente fortemente attratto sessualmente da un collega di lavoro ed inizi una forma maldestra di corteggiamento (fatta di avances, di allusioni anche pesanti e di battute indecenti a sfondo sessuale). Se il destinatario di questi atteggiamenti acconsente non verrà mobbizzato se, invece, dovesse non piegarsi alla molestia o, peggio, pubblicizzare tali fatti in azienda, inizia una vera e propria strategia di attacco persecutorio diretta ad opprimere lo sventurato o la sventurata; in questo caso la molestia sessuale verrebbe a fungere da fase prodromica al Mobbing sessuale vero e proprio.
Ma è possibile che accada qualcosa di diverso.
Infatti il mobber, pur non provando alcun interesse carnale per la vittima e senza quindi ricevere alcun rifiuto, potrebbe utilizzare le molestie sessuali come vera e propria arma per indurre il mobbizzato all’allontanamento; in questo caso la dipendente, dopo una serie ripetuta di aggressioni a sfondo erotico, potrebbe non farcela più ed essere costretta a rassegnare le dimissioni dando ragione al mobber che quindi, in questo modo, vedrebbe realizzato il suo disegno eliminatorio. Quanto ciò accade la molestia sessuale non funge da semplice fase preparatoria ma rappresenta essa stessa Mobbing.
Ma quali sono, dunque, le forme attraverso le quali si manifesta una condotta sessualmente molesta rilevante ai fini del fenomeno in oggetto?
In attesa che il Parlamento italiano recepisca una specifica legge contro il fenomeno , per una definizione normativa delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro, occorre rifarci al contesto europeo.
Al riguardo, molteplici sono le normative comunitarie in materia di violenza e discriminazione sessuale.
Così, ad esempio si ricordi:
- la Risoluzione del Parlamento Europeo 11 giugno 1986 sulle violenza contro le donne;
- la Risoluzione del Consiglio 29 maggio 1990 sulla protezione e la dignità della donna e dell’uomo sul lavoro;
- la Dichiarazione del Consiglio 19 dicembre 1991, relativa alla corretta applicazione della Raccomandazione della Commissione 27 novembre 1991 n. 131 sulla tutela della dignità delle donne e degli uomini nel mondo del lavoro, compreso il Codice di Condotta allegato volto a combattere le molestie sessuali
- il Codice di comportamento della Commissione, diretto a contrastare le molestie sessuali (contenuto all’interno della Comunicazione della Commissione n. 373 del 24 luglio 1996 riguardante la consultazione delle parti sociali sulla prevenzione delle molestie sessuali sul lavoro);
- la Direttiva 79/80/CE del Consiglio 15 dicembre 1997, riguardante l’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso.
Considerevoli saranno, dunque, le concrete implicazioni per l’ordinamento italiano, cioè le integrazioni o modifiche che dovranno essere apportate alla legislazione interna per assicurarne la conformità al diritto comunitario.
Ai nostri fini, senza entrare nello specifico della disciplina e delle garanzie di effettività della tutela giurisdizionale ed amministrativa, interessa soprattutto la nozione di molestia sessuale. Per essa la disciplina comunitaria intende qualsiasi « situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma fisica, verbale o non verbale, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.
All’interno di una concezione cosi ampia rientrano, pertanto, tutte quelle forme di attacco alla reputazione personale della vittima, ovvero comportamenti tesi a distruggerne la credibilità (quali ad esempio: mettere in giro voci infondate sul suo conto, calunniarla, proferire malignità, prenderla in giro per la sua vita privata, ridicolizzarne le preferenze sessuali, esprimere parolacce o altre espressioni umilianti a sfondo erotico, fare offerte sessuali, verbali e non) o a determinare effetti sulla sua salute fisica (quali ad esempio atti di violenza o minaccia di atti di violenza a sfondo sessuale, per arrivare addirittura al vero e proprio contatto fisico diretto da parte dell’aggressore).
Si tratta, dunque, di tutta una serie di condotte che, nel complesso, trasformano il luogo di lavoro in cui opera la vittima della molestia sessuale in un ambiente degradante, discriminatorio ed afflittivo determinandone, nel contempo, uno stato di alterazione e di stress nell’equilibrio psicofisico che può riverberarsi oltre che sulla salute anche sulla qualità esistenziale e di vita del mobbizzato
Il lavoratore che ritenga di essere stato oggetto, da parte di un collega o di un superiore gerarchico, di una violenza sessuale da Mobbing e vorrà vedere tutelati i propri diritti avrà, dunque, due strade.
La prima è quella della denuncia penale. In questo caso potrà denunciare gli autori della condotta molesta per violazione degli artt. 594 c.p. (ingiurie) e 660 c.p. (molestie) o l’art. 572 c.p.(maltrattamenti) .
La seconda è quello di rivolgersi al giudice del lavoro per denunciare la discriminazione subita e chiedere, insieme al risarcimento del danno, la cessazione della molestia e degli effetti discriminatori subiti in ragione del sesso (quali, ad esempio, mancata assunzione, licenziamento, dequalificazione, trasferimento, mancata progressione di carriera, etc.).
Quest’ultima opzione è stata preferita in una vicenda decisa dal Tribunale di Milano in data 28 dicembre 2001 .
Il caso ha riguardato una lavoratrice che — dopo essere stato oggetto di ripetuti e sistematici attacchi discriminatori da parte di un altro collega manifestatisi attraverso frasi, espressioni ed atteggiamenti ostili diretti a colpirne la sfera sessuale — è stata costretta a subire il licenziamento da parte dell’azienda per avere tentato una reazione nei confronti dell’autore della violenza.
IL MOBBING NEL PUBBLICO IMPIEGO PRIVATIZZATO
Anche il settore del pubblico impiego non poteva risultare esente dalla problematica del Mobbing, anzi, come testimoniato dalle recenti statistiche, l’ambito della pubblica amministrazione è quello di gran lunga più colpito dal fenomeno delle persecuzioni psicologiche (14%) .
La ragione di tutto ciò si deve fare risalire al processo di privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico che ha visto l’impiegato statale avere gli stessi diritti e naturalmente gli stessi doveri del lavoratore privato.
Infatti, con i Decreti Legislativi n. 29 del 1993 e n. 165 del 2001 (quest’ultimo modificato dalla Legge 145 del 2002), anche all’interno dell’amministrazione statale si sono diffusi criteri privatistici di programmazione e di efficienza dell’azione amministrativa e delle risorse umane che se, da un lato, hanno potenziato la funzionalità organizzativa (in relazione ai risultati da raggiungere) dall’altro hanno facilitato la crescita del Mobbing e ciò in considerazione del ruolo e delle prerogative che le norme innanzi citate attribuiscono alla dirigenza pubblica.
Più in particolare, per quanto riguarda i criteri di organizzazione degli uffici, l’art. 2 del D.Lgs. n. 165 del 2001, propone un modello assai simile a quello privato, ispirato, cioè, all’articolazione degli uffici per funzioni omogenee, alla trasparenza dell’azione, all’armonizzazione degli orari di apertura con le esigenze degli utenti, alla flessibilità nella gestione delle risorse umane.
Nel settore della pubblica amministrazione, un’ulteriore innovazione ha riguardato la formulazione di una chiara e netta distinzione fra potere politico/amministrativo (affidato agli organi di governo) e potere gestionale (assegnato ai dirigenti).
Quanto al ruolo ed all’inquadramento giuridico dei dirigenti degli uffici statali, con l’art. 5 comma II del D.Lgs. n. 165 del 2001, essi sono stati perfettamente equiparati, quanto a diritti e competenze nella gestione dei rapporti di lavoro, ai datori di lavoro privato .
Più nel dettaglio gli sono stati attribuiti importanti compiti e poteri così riassumibili:
- attuazione dei piani, programmi e direttive generali definiti dal Ministro con l’attribuzione di incarichi e responsabilità di specifici progetti e gestioni (art. 16 lett. b) del D.Lgs. n. 165 del 30 marzo 2001);
- attività di organizzazione del personale e di gestione dei rapporti sindacali e di lavoro e delle risorse finanziarie e strumentali assegnate ai propri uffici (art. 16, comma I, lett. h) e art. 17,comma I, lett. e) del D.Lgs. n. 165 del 30 marzo 2001);
- attività di dirigenza, coordinamento e controllo dell’attività degli uffici che da essi dipendono e dei responsabili dei procedimenti amministrativi, anche con poteri sostitutivi in caso di inerzia (art. 17, comma I, lett. d) del D.Lgs. n. 165 del 30 marzo 2001).
Questo processo di « aziendalizzazione » del settore pubblico verso modelli mutuati dal contesto lavorativo privato — con l’inevitabile attribuzione ai dirigenti del potere di condizionare e limitare, con scelte gestionali e di programmazione, la condizione personale del pubblico dipendente — sta scatenando un diffuso aumento del disagio e dell’insoddisfazione dei lavoratori pubblici .
Infatti, con la fine del modello di organizzazione statale incentrato su forme di rigidità strutturali ed organizzative — caratterizzato, cioè, dalla stabilità e dalla sostanziale immodificabilità delle mansioni attribuite al dipendente pubblico — e con la mitigazione dei principi di legalità e di legittimità nell’amministrazione e nella gestione delle risorse umane a
vantaggio dei principi del risultato, dell’efficienza e dell’economicità dell’azione amministrativa, si possono venire a creare delle situazioni di Mobbing verticale ovvero di condotte vessatorie ed afflittive poste in essere dai pubblici dirigenti (o anche da organismi politici negli Enti Locali) nei con fronti di quei dipendenti che, per le ragioni più diverse (di tipo politico, sindacale, o per esigenze di riorganizzazione in senso lato), vengono indotti alle dimissioni o comunque allontanati dal contesto lavorativo senza ricorrere al licenziamento e senza che si crei un caso sindacale .
Il Mobbing potrebbe, inoltre, essere determinato anche dalla violazione dei principi di buon andamento ed imparzialità ovvero dall’adozione, da parte dei pubblici funzionar!, di provvedimenti non motivati.
Un esempio, al riguardo, è offerto dall’illegittimo avanzamento professionale di un dipendente a danno di un altro che delinea un vizio tipico dell’azione amministrativa rappresentato dal c.d. eccesso di potere.
Per difendersi da tutte queste situazioni va ricordato al mobbizzato pubblico dipendente che l’amministrazione statale, operando « con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro
», è sempre e comunque sottoposta a precisi limiti e, più in particolare:
- al rigido rispetto dell’ari. 2087 c.c. il quale, da un lato, impone al datore di lavoro l’adozione delle misure richieste dalla legge, dall’esperienza e dalle conoscenze tecniche e la predisposizione di tutte le misure di diligenza e di prudenza necessarie per la tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore e, dall’altro, gli vieta di compiere direttamente qualsiasi azione lesiva dell’integrità del dipendente e lo impegna a prevenire e scoraggiare la realizzazione di condotte lesive nell’ambito del rapporto di lavoro;
- all’osservanza dell’ari. 2043 c.c. ovvero della normativa sulla responsabilità aquiliana la cui funzione è quella di consentire il risarcimento del danno ingiusto, intendendosi come tale il danno arrecato « non iure », il danno cioè inferto in assenza di una causa giustificativa che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo .
Da non dimenticare, inoltre, è la possibilità che anche nel pubblico impiego il Mobbing possa assumere la forma orizzontale che si verifica quando i comportamenti vessatori sono messi in atto dagli stessi colleghi di pari grado nei confronti del dipendente pubblico colpito; in questo caso si potrà utilizzare il principio contenuto nell’ari. 2049 c.c.
Da quanto finora detto si evince che il Mobbing — che rappresenta una vera e propria disfunzione del nostro sistema di relazioni interpersonali — è entrato a pieno titolo tra i problemi lavorativi propri anche dei lavoratori del pubblico impiego.
Tuttavia a questa presa di coscienza del fenomeno sul piano sociale non è seguita un’adeguata risposta in termini sanzionatori. Infatti, nonostante la rilevanza dei soggetti coinvolti, il numero delle sentenze aventi ad oggetto il Mobbing è stato, almeno fino a questo momento, alquanto esiguo.
1. Il fenomeno delle molestie morali in ambito sanitario
Uno dei settori pubblici in cui il Mobbing si è diffuso con estrema facilità è quello della sanità.
Le ragioni si possono fare rinvenire, anche in questo caso, nelle recenti leggi di riforma dell’amministrazione pubblica le quali hanno conferito ai dirigenti generali del Servizio Sanitario Nazionale il potere di nominare il direttore amministrativo ed il direttore sanitario . Questi ultimi — all’interno di una globale ristrutturazione e trasformazione delle Unità Sanitarie Locali caratterizzata da una impostazione sempre più manageriale, con la conseguente richiesta di una maggiore attenzione alle tematiche della produttività del servizio — sono dotati di poteri decisionali caratterizzati dalla più ampia discrezionalità e possono porre in essere delle azioni di prevaricazione e di non rispetto della personalità morale degli altri dipendenti che, pregiudicando i rapporti lavorativi tra il personale (sia medico che paramedico), determinano delle situazioni di discriminazione e di prevaricazione sindacabili dall’autorità giudiziaria.
E cosi il Mobbing spietato può colpire i giovani medici ricercatori, magari alle prime esperienze, ma già particolarmente capaci e meritevoli che, divulgando notizie o errori particolarmente gravi effettuati da colleghi più anziani o dirigenti dei reparti, si vedono costretti a subire condotte di tipo punitivo e di emarginazione articolatesi, ad esempio, nell’allontanamento dalle aule didattiche, nella sospensione dal reparto e dagli strumenti di ricerca, nell’isolamento o con accuse infamanti ed attinenti alle proprie capacità professionali
.
2. Danno erariale e Mobbing
Un ulteriore aspetto che ci preme qui ricordare è quello relativo alla responsabilità, sanzionabile dalla Corte dei Conti in termini di danno all’erario, nella quale potrebbe incorrere il pubblico dipendente autore di condotte vessatorie e persecutorie che hanno determinato una sentenza di condanna dell’amministrazione pubblica per danni da Mobbing. Infatti — ex art. 28 della Costituzione (34) — la pronuncia risarcitoria, formulata dall’organismo giurisdizionale ordinario nei confronti del mobber, ha effetti solidali anche nei riguardi dell’ente al quale quest’ultimo appartiene .
In questo caso, il pagamento del danno, effettuato dall’Amministrazione Pubblica alla vittima mobbizzata, rappresenta un’arbitraria sottrazione di risorse pubbliche dal patrimonio statale ovvero un danno erariale arrecato nell’esercizio di una attività illecita, commissiva od emissiva, connessa con il rapporto di pubblico impiego, sia che ne costituisca diretta esplicazione, sia che abbia carattere strumentale o strutturale per l’esercizio della funzione stessa .
Come immediata conseguenza, alla Corte dei Conti — che ex art. 103 Cost. ha
«giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge» — incombe l’onere di esercitare, nei confronti del dipendente autore delle condotte vessatorie, l’azione di regresso e di recupero delle somme versate a seguito della sentenza di condanna per i fatti illeciti dannosi commessi da quest’ultimo.
Sul punto si segnale una recente pronuncia della Corte dei Conti Sez. III d’Appello, la n. 623 deposita in data 25 ottobre 2005, con la quale un preside è stato ritenuto responsabile per danno all’Erario — conseguente ad una sentenza civile di condanna della Pubblica Amministrazione (nel caso di specie il Ministero della Pubblica Istruzione) al risarcimento del danno morale e da Mobbing dalla stessa dipendenti- e condannato al pagamento della somma di € 1.665,00.
IL PROBLEMA DELLA NATURA GIURIDICA
Nell’ambito del mobbing si sono poste numerose problematiche con riferimento alla sua natura giuridica: si tratta di responsabilità extracontrattuale o contrattuale? Secondo la tesi minoritaria al quesito bisognerebbe dare risposta negativa, essenzialmente perché non vi è uno specifico obbligo derivante dal contratto volto a non mobbizzare il lavoratore dipendente, ma al più un dovere generico di comportarsi secondo buona fede, in un’ottica generale di solidarietà sociale.Tutto ciò che non è espressamente previsto nel contratto, ma si riferisce a principi generali di etica o di valori può giustificare responsabilità di tipo extracontrattuali, venendo ad emergere il concetto di danno ingiusto e non quello di violazione contrattuale: poiché i contratti, di massima, non regolano il comportamento del datore con riferimento a comportamenti eventualmente mobbizzanti, allora, non ci può essere responsabilità contrattuale perché non si viola quanto scritto in un contratto, tanto più che la maggior parte delle volte il contratto viene formalmente rispettato, seppur nella sostanza se ne vulnera l’essenza; se, pertanto, si ritenesse il mobbing come violazione contrattuale, si dice, verrebbe vulnerata la stessa ratio di tutela del mobbing perché, in concreto, non sarebbe quasi mai dimostrabile perché le forme contrattuali sarebbero pur sempre rispettate: la responsabilità contrattuale è una responsabilità formale di condotta che mal si concilia con un istituto sostanziale come il mobbing.
D’altronde, la norma di riferimento del mobbing sarebbe l’art. 2087 c.c. che non riguarda il contratto, ma un dovere generico.
Accogliendo tale ricostruzione, allora, il mobbizzato dovrebbe dimostrare, sulla falsariga dello schema dell’art. 2043 c.c., la sussistenza del nesso eziologico, il dolo del datore ed il danno ingiustamente subito, con un appesantimento dell’onere probatorio non indifferente.
Diversamente, secondo altra tesi (confermata dalla giurisprudenza recente e dottrina, il mobbing riguarderebbe essenzialmente la responsabilità contrattuale; più da vicino, si dice, l’art. 2087 c.c. non sarebbe esterno al contratto, ma interno, traducendosi in un obbligo di protezione della posizione giuridica del lavoratore dipendente, volta a specificare e rafforzare la situazione debole: si tratterebbe di un obbligo accessorio, derivante, lato sensu , dalla disciplina dell’esecuzione del contratto secondo buona fede. Il datore di lavoro sarebbe tenuto, giuridicamente, a favorire lo sviluppo della personalità del lavoratore, con la conseguenza che, laddove ciò non venga fatto, il datore di lavoro violerebbe l’art. 2087 c.c. incorrendo in responsabilità contrattuale, perché tale disposizione entra nel congegno causale del contratto di lavoro; trattandosi, così, di responsabilità contrattuale sarebbe il datore di lavoro a dover dimostrare di aver fatto il possibile per far sì che il lavoratore sviluppasse la sua personalità, mentre il lavoratore potrebbe limitarsi a dimostrare il danno subito ed il nesso causale (in rapporto ad una condotta attiva o omissiva).
Tuttavia, è bene precisare che, ai fini di un corretto inquadramento dogmatico del fenomeno e per un’esatta qualificazione giuridica in termini di tipologia di responsabilità, il mobbing orizzontale può giustificare una responsabilità di tipo aquiliano diversamente dal mobbing verticale; id est, poiché nel rapporto tra colleghi non vi è un contratto che giustifica come causa del rapporto di lavoro (si tratta di una mera occasione), allora, de plano, nell’ambito del mobbing orizzontale la tipologia di responsabilità, a rigore, sarebbe extracontrattuale (secondo altra tesi, invece, sarebbe aquiliana), mentre nel mobbing verticale sarebbe contrattuale, ex art. 2087 c.c. letto in combinato disposto con l’art. 1218 c.c.
RESPONSABILITÀ CIVILE DA MOBBING.
TUTELA RISARCITORIA, RIPRISTINATORIA ED INIBITORIA
Di fronte a delle vere e proprie pratiche criminali, come quelle poste in essere dal mobber, la domanda che solitamente ci giunge dalle vittime è la seguente: « Come possiamo agire per vedere tutelati i nostri diritti?».
Quali sono, dunque, i mezzi per contrastare il Mobbing e per consentire al dipendente la piena esplicazione del proprio diritto soggettivo ad eseguire serenamente la prestazione lavorativa?
Dal punto di vista eminentemente legale, il mobbizzato ha a disposizione due strade. La prima è rappresentata dall’azione civile, la seconda da quella penale.
In questa relazione tralasceremo, per motivi di opportunità, gli aspetti penali e ci soffermeremo soprattutto sulla questione relativa alla responsabilità civile dell’azienda e degli autori materiali della terrorismo psicologico.
1. Profili di tutela civile
Come abbiamo avuto modo di vedere in precedenza, la maggior parte dei comportamenti che vengono ora ascritti al fenomeno Mobbing hanno integrato delle fattispecie giuridiche già definite dalla giurisprudenza e che trovavano, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, una specifica disciplina loro applicabile (demansionamento, trasferimento, atti discriminatori, ecc.).
Conseguentemente, sebbene di Mobbing si parli da tempi recenti e manchi una normativa nazionale ad hoc, la vittima mobbizzata, grazie all’intervento nomofilatico della giurisprudenza, ha avuto e continuerà ad avere una adeguata tutela giurisdizionale .
Detto ciò, va ricordato che le vessazioni materiali e psicologiche subite dal lavoratore durante lo svolgimento della prestazione lavorativa determinano, in capo al datore di lavoro e/o ad eventuali colleghi «mobbers », una responsabilità di tipo civile che può portare alla condanna al risarcimento del danno subito dalla vittima oppure al ripristino della situazione lavorativa “quo ante” antecedente cioè alla condotta illecita datoriale.
Più nel dettaglio, le condotte di Mobbing possono assumere rilevanza civilistica ed essere fonte di responsabilità sotto due profili e cioè sotto l’aspetto contrattuale ed extracontrattuale. Al riguardo, va segnalata una recente presa di posizione della Corte di Cassazione a Sezioni Unite la quale, con sentenza n. 8438 del 4 maggio 2004, ha considerato come contrattuale l’azione di risarcimento del danno da Mobbing
2. La responsabilità contrattuale
La norma giuridica fondamentale per la tutela del mobbizzato è, senza ombra di dubbio, rappresentata dall’art. 2087 c.c che, inserendosi imperativamente e meccanicamente nel rapporto sinallagmatico, consacra il principio della responsabilità contrattuale del datore di lavoro e gli impone una fondamentale e generale attività di prevenzione, inderogabile dalle parti, contro tutti i rischi, ivi compresi quelli esistenziali, inerenti lo svolgimento dell’attività i lavorativa .
II datore di lavoro deve assicurare, dunque, ai propri dipendenti un ambiente di lavoro sicuro, sereno e conforme a tutte le cautele e prescrizioni previste dalla legge, dalla tecnica e dal comune buon senso. In definitiva, l’art. 2087 c.c. introduce una precisa responsabilità datoriale che trova la propria origine nei limiti costituzionalmente imposti al diritto di libertà di iniziativa privata nell’esercizio dell’impresa (ex art. 41 I e II comma Cost.) e nel rispetto del diritto alla salute (ex art. 32 Cost.).
L’obbligo di sicurezza, consacrato dal codice del 1942 nell’art. 2087, trova, infine, perfetta realizzazione ed attuazione nella c.d. « cultura della prevenzione » perseguita con forza nel D.Lgs. 626/94.
Infatti tale normativa pone, per l’appunto, come principale ed indispensabile azione nel controllo della sicurezza nei luoghi di lavoro la rilevazione e la connessa valutazione di tutti quei rischi connessi con lo svolgimento della prestazione lavorativa e derivanti dagli scontri e dalle tensioni sempre più forti che si avvertono nel mondo del lavoro .
Parlando della responsabilità contrattuale del datore di lavoro in presenza di condotte di Mobbing una questione che occorre affrontare concerne la misura della diligenza richiesta all’imprenditore nel dare esecuzione a tutti quegli obblighi di protezione che l’ordinamento giuridico gli impone nell’esercizio dell’impresa.
La problematica, in altri termini, riguarda il carattere oggettivo o meno della responsabilità civile del datoriale ovvero se l’articolo 2087 c.c. possa assumere i caratteri di una vera e propria responsabilità oggettiva.
Al riguardo la giurisprudenza di legittimità ha escluso che l’art. 2087 c.c. configuri un’ipotesi di responsabilità oggettiva ossia di responsabilità del datore di lavoro basata su di un criterio puramente oggettivo di imputazione dell’evento lesivo collegato al rischio inerente all’attività lavorativa svolta nel suo interesse .
In particolare, si è ritenuto che l’imprenditore possa sempre fornire la prova dell’avvenuto adempimento dell’obbligo ex art. 2087 c.c., e cioè di aver adottato tutte le misure e le cautele necessario per prevenire ed evitare i rischi commessi all’attività lavorativa, ivi compresi i rischi inerenti al luogo in cui è sito l’ambiente di lavoro.
Va segnalata, tuttavia, un’interessante pronuncia della Corte di Cassazione la quale, in un ottica di rafforzamento delle garanzie poste a tutela dei lavoratori, ha dilatato la responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. nei confronti dei propri dipendenti, sino a ricomprendervi tutti quegli eventi possibili rispetto ai quali la condotta imprenditoriale si pone con un nesso adeguato di causalità .
Il caso di specie ha riguardato un lavoratore che aveva denunciato la propria azienda in seguito ad un incidente stradale causato dallo stress derivategli dallo svolgimento dell’attività lavorativa.
Pertanto anche una situazione lavorativa stressante causata da condotte di Mobbing può concretamente rappresentare una fonte di responsabilità per il datore di lavoro.
A nostro avviso, questa presa di posizione della giurisprudenza di legittimità è di estrema importanza in quanto può rappresentare la strada per ritenere « aggettivamente » responsabile il datore di lavoro per qualsiasi evento mobbizzante derivante dall’attività lavorativa che configuri un danno in capo al dipendente vittima.
3. La responsabilità extracontrattuale
Le vessazioni e le persecuzioni psicologiche sui luoghi di lavoro considerate nella loro oggettività — e quindi non sotto l’aspetto relativo ad un eventuale inadempimento di obbligazioni contrattuali— rappresentano delle condotte illecite che, pregiudicando diritti fondamentali ed universali dell’essere umano, arrecano a colui che le subisce un ingiustificato pregiudizio ed impongono all’autore materiale delle molestie il relativo risarcimento del danno.
Pertanto, fermo restando — così come affermato dalla Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 8438 del 4 maggio 2004 – che le condotte mobbizzanti costituiscono innanzitutto dei veri e propri inadempimenti contrattuali ex artt. 2087 c.c. e 2103 c.c.,riteniamo che l’altra norma sulla quale si possa costruire il fondamento giuridico per la tutela del mobbizzato sia rappresentata dall’ari 2043 c.c.
Detta disposizione introduce il principio generale della responsabilità aquiliana ed extracontrattuale ovvero del neminem laedere (fondamento sul quale si basa l’attuale società civile), che si estrinseca nel divieto di pregiudicare diritti ed interessi essenziali altrui.
Da non trascurare, inoltre, è l’art. 2049 c.c. il quale — disponendo che «I padroni ed i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti» — introduce una forma di responsabilità indiretta del datore di lavoro per il fatto commesso dal proprio dipendente.
Conseguentemente, la produzione di un danno ingiusto — intendendosi per esso sia il danno contro ius (ovvero sia quel tipo di danno che si produce in ordine ad una situazione soggettiva perfetta e tutelata pienamente dall’ordinamento giuridico in quanto diritto soggettivo) che il danno non iure (e cioè cagionato da un evento pregiudizievole in assoluto difetto di ragioni giustificative che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento giuridico, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo) — è fonte di responsabilità extracontrattuale ed obbliga il responsabile anche indiretto (e quindi anche il datore di lavoro ovvero il padrone o il committente per il fatto illecito dei propri dipendenti, domestici e commessi nell’esercizio della prestazione lavorativa), al risarcimento del relativo danno.
Nelle condotte di Mobbing — che, come abbiamo visto, si possono manifestare attraverso una molteplicità di forme e di modalità sia di tipo attivo che di tipo emissivo — il principio del neminem laedere, proprio per le sue caratteristiche di genericità ed indeterminatezza, può certamente essere impiegato per ottenere il risarcimento del danno causato da comportamenti vessatori.
Esso è particolarmente congeniale anche per colpire gli autori materiali del Mobbing orizzontale, ossia quelle situazioni di azioni vessatorie attuate da colleghi superiori, di pari grado o inferiori aIla vittima (c.d. mobbers) senza una partecipazione cosciente dell’azienda. In questo caso, infatti, poiché tra l’artefice del comportamento mobbizzante e la vittima manca un collegamento di tipo contrattuale, l’art. 2087 c.c. non potrà essere utilizzato per sostenere pretese di tipo risarcitorio.
Si ricordi, infine, che la responsabilità aquiliana ed i principi I neminem laedere ex artt. 2043
c.c. e 2049 c.c. sono stati involti, da una parte della giurisprudenza di merito, anche in situazioni della vita sociale (quali ad esempio la famiglia) che non avevano nulla a che fare con un rapporto di lavoro .
4.La risarcibilità del danno da Mobbing
La dottrina ha individuato diverse tipologie di mobbing: il mobbing verticale (dal datore di lavoro verso il dipendente), orizzontale (tra colleghi), bossing (piano aziendale per indurre il dipendente a rassegnare le dimissioni), straining (stress). In particolare, la giurisprudenza più recente ha definito il mobbing come una condotta sistematica e protratta nel tempo, realizzata con finalità emulative, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’art.2087 cod.civ . Tale definizione, invero, seppur ha il pregio di dare una definizione unitaria dell’istituto, non è esente da ombre interpretative. Infatti, è tutt’altro che pacifica la natura giuridica della stessa responsabilità; è dubbio, poi, cosa debba intendersi per comportamento reiterato (un giorno, dieci giorni, due anni o venti anni) e con finalità vessatorie (o emulative).
Nell’ipotesi in cui il lavoratore subisca, in conseguenza delle condotte vessatorie e prevaricatrici, una lesione del diritto primario ed assoluto alla salute ovvero un pregiudizio alla propria la morale ed esistenziale avrà diritto al risarcimento del danno .
Lo schema di riferimento è stato individuato — dalla giurisprudenza più recente — nelle seguenti norme:
- art. 2043 c.c. + art. 2049 c.c. (responsabilità extra contrattuale dell’azienda e dei colleghi mobber della vittima);
- artt. 2087 c.c. (responsabilità contrattuale del datore di lavoro)+ art. 2103 c.c. (in ipotesi di demansionamento e trasferimenti illeciti) + artt. 1175 c.c. e 1375 c.c. (principi di correttezza Bona fede contrattuale);
- il tutto in combinato disposto con gli artt. 2, 3, 4, 13, 37, , soprattutto, artt. 32 e 41 I e II comma della Costituzione.
Oggi, dunque, il lavoratore mobbizzato vittima di molestie morali potrà invocare separatamente la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale oppure disporne il concorso.
La vittima, dunque, a seconda del tipo di Mobbing che le sarà praticato, potrà scegliere diverse strade.
Nel caso in cui si tratti di Mobbing verticale e specificatamente di Bossing (che si realizza quando l’azienda stessa pone direttamente in essere azioni vessatorie dirette ad eliminare il lavoratore ritenuto scomodo attraverso una vera e propria strategia studiata a tavolino, avvalendosi dell’aiuto di superiori gerarchici — quadri, dirigenti del personale, ecc. — ovvero dei lavoratori colleghi di pari grado o inferiori della vittima) il mobbizzato potrà invocare contro il datore di lavoro:
- la responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. per inosservanza dei doveri e degli obblighi sanciti a difesa del lavoratore nell’esercizio della prestazione lavorativa ;
- la responsabilità extracontrattuale ovvero aquiliana ex art. 2043 c.c. per fatto illecito ed ex art. 2049 c.c. per omessa vigilanza sui propri dipendenti.
Conseguentemente alla vittima è consentito di proporre le diverse azioni di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale con due distinti ricorsi, oppure esercitare entrambe le azioni (c.d. cumulo) con il medesimo ricorso .
In quest’ultimo caso, va ricordato che quando si propone un ricorso contro la propria azienda per Mobbing, il ricorrente deve necessariamente indicare in modo specifico entrambe le responsabilità — contrattuale (ex art. 2087c.c.) ed extracontrattuale (art. 2043 c.c.) — che si assumono essere state violate altrimenti il rischio è che, in assenza di una precisa e chiara presa di posizione al riguardo, l’azione giudiziaria esercitata si presumerà di tipo extracontrattuale con tutti i risvolti che essa comporta in materia di onere probatorio, elemento soggettivo e prescrizione.
Tale assunto è suffragato dalla presa di posizione della Corte di Cassazione Civile a Sezione Unite con la sentenza n. 99 del 12marzo 2001.
Nelle ipotesi di Mobbing orizzontale — nel caso cioè di azioni vessatorie attuate da colleghi superiori, di pari grado o inferiori della vittima (c.d. mobbers), senza una partecipazione cosciente dell’azienda — nei confronti degli autori materiali delle condotte vessatorie insiste, innanzitutto, una responsabilità aquiliana di tipo extracontrattuale ex art. 2043 c.c. — che tutela tutte quelle situazioni di illecito civile produttive di un danno ingiusto — e ciò a prescindere dalla sussistenza di un rapporto di lavoro.
Conseguentemente il mobbizzato può esercitare, contro questi ultimi, un’azione di risarcimento del danno di tipo aquiliana.
Inoltre, ai lavoratori che pongono in essere la condotta mobbizzante sarà imputabile un vero e proprio inadempimento contrattuale — per violazione dell’obbligo di fedeltà e diligenza — e, conseguentemente, potrebbero subire un licenziamento giustificato ex art. 2119 c.c.
Il dipendente mobbizzato potrà, inoltre, agire anche contro l’azienda stessa. In questo caso egli avrà a disposizione due strade.
In primis, potrà richiamare l’articolo 2087 c.c. ed in questo caso il datore di lavoro non potrà limitarsi a sostenere che non era a conoscenza della situazione oppure di non averne compreso bene la gravita e la nocività.
La vittima di Mobbing, ai fini del risarcimento del danno potrà, inoltre, avvalersi dell’ari 2049 c.c.
Attraverso questo articolo si introduce una forma di responsabilità indiretta extracontrattuale di tipo oggettivo del datore di lavoro per il fatto commesso dal proprio dipendente che — sussistendo malgrado non gli si possa rimproverare nessuna violazione colposa dell’obbligo di vigilanza e pur in presenza del dolo dell’autore della condotta di Mobbing— gli impone di porre in essere tutte le misure preventive necessarie per la tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore l’autore dell’evento lesivo, essendo soddisfacente la verifica che le azioni siano state effettuate da lavoratori nell’esercizio delle loro mansioni .
La seconda riguarda le ipotesi di Mobbing orizzontale, in questi casi, qualora il datore di lavoro venisse condannato al risarcimento dei danni ex. artt. 2087 c.c. e 2049 c.c. potrebbe agire per l’equivalente, in via di regresso, nei confronti degli autori della condotta persecutoria i quali sono tenuti in solido — ex art. 2055 c.c. — al risarcimento dell’intero danno.
5. Tutela ripristinatoria in caso di dimissioni forzate
La tutela risarcitoria non è, però, l’unica strada percorribile dalla vittima.
Accade sempre più spesso, infatti, che il lavoratore — in un momento di esasperazione ed alterazione per le continue azioni mobbizzanti fatte di violenze e vessazioni che rendono impossibile continuare il rapporto di lavoro — sia costretto a rassegnare le dimissioni forzatamente senza addurre alcuna giusta causa o giustificato motivo.
In questa situazione può individuarsi l’epilogo del Mobbing verticale ovvero del Bossing; infatti l’azienda raggiunge lo scopo che si era prefissa, e cioè quello di eliminare il dipendente ritenuto scomodo, senza ricorrere al licenziamento attraverso la sua autoespulsione, evitando così qualsiasi controllo giudiziale e, soprattutto, senza che si crei un caso sindacale.
Quando ciò accade risulta evidente che le dimissioni non rappresentano una scelta volontaria, libera e consapevole, ma sono il frutto di una volontà viziata — cioè di una grave alterazione dell’equilibrio psicofisico della vittima — alla cui base vi è un comportamento illegittimo dell’azienda mobber che, attraverso una vera e propria « estorsione di volontà », riesce a far sottoscrivere al dipendente una lettera di congedo.
A questo punto che cosa può fare il mobbizzato per tutelare la libertà di autodeterminazione? La soluzione prospettabile è quella della tutela ripristinatoria rappresentata dall’eccezione di invalidità delle dimissioni con conseguente reintegra nel precedente rapporto di lavoro e condanna del datore di lavoro al pagamento della retribuzione dalla data di dimissioni fino a quello della sentenza definitiva.
Al riguardo, due possono essere le strade percorribili.
La prima ci viene offerta dagli artt. 1434 c.c., 1438 c.c e 1439 c.c., che consentono alle vittime di Mobbing di impugnare le dimissioni qualora si determini un vizio del consenso nella formazione della volontà contrattuale (il cui onere probatorio, si ricorda, incombe sulla vittima ex art. 2697 c.c.).
In particolare, la minaccia di far valere un diritto esercitatile dal datore di lavoro può manifestarsi secondo « modalità variabili ed indefinite, anche non esplicite », può rilevarsi anche « solo come concausa» e può esprimersi, inoltre, attraverso l’esercizio immotivato e strumentale di legittimi diritti e prerogative datoriali .
La seconda strada è rappresentata dal ricorso all’art. 428 c.c., attraverso il quale si riconosce la possibilità di impugnare le dimissioni , nel caso in cui il mobbizzato dimostri — anche in modo indiretto in base ad indizi e presunzioni — che le stesse sono state rassegnate in un momento di incapacità mentale ovvero in un momento di totale incapacità d’intendere e di volere .
In materia molto interessante è una recente pronuncia (datata 15 gennaio 2004 n. 575) della Corte di Cassazione Sezione Lavoro.
Può accadere, inoltre, che la scelta del mobbizzato di presentare le proprie dimissioni — sebbene determinata da comportamenti persecutori e vessatori potenzialmente in grado di alterarne la capacità di intendere e di volere — sia frutto di una sua libera volontà.
Infatti, considerando la gravita della situazione lavorativa causata dalle condotte mobbizzanti, il nostro ordinamento giuridico consente alla vittima, ex art. 2119 c.c., di recedere unilateralmente ed immediatamente (cioè senza alcun obbligo di preavviso)dal rapporto di lavoro per giusta causa ovvero per una causa che non consenta la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto.
Integrano giusta causa di dimissioni tutte quelle azioni di Mobbing ascrivibili alle molestie sessuali perpetrate dal datore di lavoro ai danni della lavoratrice oppure connesse con l’attribuzioni di mansioni inferiori .
D’altro canto, anche l’impossibilità di continuare a svolgere il proprio lavoro — a causa di comportamenti discriminatori, illeciti, ingiuriosi, ostili (quali ad esempio la mancata corresponsione di una gratifica già proposta, decurtazione di compensi, comunicazione con modi sgarbati, al rientro da un’assenza, della sospensione dal servizio) e diffamatori (come l’accusa infondata di essere un truffatore oppure di appropriazione illecita di somme di denaro) — rappresenta una situazione che non consente la prosecuzione del rapporto di lavoro .
Sotto il profilo risarcitorio, in tutte queste ipotesi, il lavoratore mobbizzato potrà chiedere al datore di lavoro, ex art. 2119 c.c., il pagamento dell’indennità di mancato preavviso equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso.
Fermo restando il diritto all’indennità di preavviso, è tuttora discusso se al mobbizzato possa essere risarcito l’ulteriore pregiudizio patrimoniale, derivante dall’effetto estintivo del rapporto di lavoro determinato da giusta causa, rappresentato dallo stato di disoccupazione e dalla mancata percezione della retribuzione .
6.Tutela ripristinatoria in caso di Mobbing da trasferimento e demansionamento
Le pratiche di Mobbing possono colpire innanzitutto la professionalità del lavoratore in quanto possono privarlo in tutto o in parte del normale svolgimento di ogni mansione di competenza (con conseguente impoverimento del bagaglio professionale ed emarginazione dal contesto lavorativo) oppure possono determinare trasferimenti in luoghi di lavoro angusti ed isolati senza alcuna esigenza sotto il profilo tecnico ed organizzativo.
In tutte queste situazioni di palese inadempimento contrattuale, il mobbizzato — oltre ad ottenere l’accertamento dell’illiceità del comportamento datoriale con conseguente risarcimento del danno (nelle forme che vedremo nel corso del capitolo successivo) — potrà rivolgersi al giudice del lavoro per conseguire una pronuncia giurisdizionale che annulli gli atti lesivi della sua dignità professionale ed umana e condanni il datore di lavoro a
«.reintegrarlo» (con effetti ex tunc) nelle mansioni precedentemente svolte, ovvero in altre equivalenti, nello stesso luogo di adempimento della prestazione lavorativa avuto in precedenza .
7. Violenza psicologica e tutela inibitoria e cautelare
Attraverso le forme di tutela civile citate in precedenza (risarcitoria e ripristinatoria) il lavoratore riuscirà senz’altro ad avere una qualche forma di protezione.
Tuttavia entrambi gli strumenti sono, a nostro avviso, insufficienti a garantire un’effettiva tutela dei diritti della personalità della vittima e ciò a causa dell’estrema lentezza dei giudizi ordinari (l’effettività della tutela, si sa, è intrinsecamente connessa alla sua celerità).
Per evitare tutto ciò cosa può fare il mobbizzato?
Al riguardo può intervenire la tutela inibitoria (c.d. cautelare) la quale consentirà al giudice
- previo accertamento dell’irreparabilità ed imminenza del pregiudizio — di prevenire, inibire ovvero far cessare tempestivamente le condotte di Mobbing che integrino una violazione degli obblighi di sicurezza o che ledano la libertà o la dignità del prestatore di lavoro.
La norma giuridica utilizzabile — di portata generale — è rappresentata dall’art. 700 c.p.c. che permette al lavoratore di ottenere tutti i provvedimenti d’urgenza necessari a salvaguardare la propria situazione psicofisica .
Per ottenere ciò si richiedono, in quanto requisiti tipicamente propri di ogni azione cautelare, un’approssimativa verosimiglianza circa la sussistenza del diritto che si intende far valere (c.d. fumus boni iuris) ed il pericolo di subire, nelle more del giudizio, un pregiudizio grave ed irreparabile (c.d. periculum in mora).
Nel caso di condotte di Mobbing entrambi i requisiti sono presenti.
Infatti, per quanto riguarda il primo (fumus boni iuris) il comportamento dell’azienda si concretizza in una palese violazione di norme imperative di legge mentre l’elemento del pregiudizio grave ed irreparabile è insito nella compromissione del diritto al lavoro del mobbizzato.
A ciò si aggiunga che proprio la gravita del comportamento aziendale impone decisioni urgenti e rapide a tutela della professionalità e del diritto alla salute; beni cioè, di natura personalissima il cui pregiudizio è, per definizione, insuscettibile di valutazione economica. Molto ricca è la giurisprudenza di merito che ha utilizzato tale procedura d’urgenza, in riferimento ad atti vessatori e persecutori che ledono i diritti dei lavoratori e che possono, pertanto, integrare la fattispecie di Mobbing.
Così ad esempio, in tema di dequalificazione professionale è stato più volte ribadito come l’assegnazione al lavoratore, in violazione al disposto dell’ari. 2103 c. c. ., di mansioni inferiori a quelle a ultimo svolte, possa dar luogo ad una serie di pregiudizi gravi ed irreparabili che legittimano la concessione del provvedimento d’urgenza qualora, per effetto dei comportamenti innanzi citati, si realizzi una perdita della possibilità di crescita professionale del lavoratore.
Discorso analogo può farsi anche in tutte quelle situazione di completa inattività del mobbizzato che non consentono il concreto svolgimento dell’attività lavorativa e, quindi, non permettono lo sviluppo e l’estrinsecazione della propria personalità garantiti dall’art.2 della Costituzione oppure nelle ipotesi in cui ciò determini una riduzione delle prospettive occupazionali e di mercato future .
Si ricordi, inoltre, che all’ammissibilità del ricorso non è di ostacolo la circostanza che lo stato di offesa al diritto del lavoro del mobbizzato duri da poco o da molto tempo; infatti trattasi, quello del demansionamento, di un comportamento ad effetti permanenti, sicché l’offesa è sempre e comunque attuale.
Va, infine, ribadito che il datore di lavoro, qualora condannato in sede cautelare alla reintegra del mobbizzato in mansioni equivalenti a quelle svolte in precedenza, non può rifiutarsi di dare esecuzione all’ordine giudiziale adducendo il fatto che, nelle more del giudizio, le mansioni prestate dalla vittima sono esercitate da un altro dipendente.
In questo caso il comportamento dell’azienda mobber— rappresentandosi come elusione di un comando giudiziale — potrebbe incardinare una responsabilità penale per violazione del disposto contenuto nell’ari. 388 c.p., II comma .
Anche per quanto riguarda l’ipotesi di trasferimento del lavoratore ovvero di comportamenti discriminatori tendenti a determinare situazioni di emarginazione, isolamento, depauperamento del bagaglio professionale e lesione dell’immagine, dignità e personalità del mobbizzato, in giurisprudenza si è pacificamente riconosciuta la possibilità di esperire il procedimento d’urgenza ex art.700 c.p.c.
A questo punto la tutela cautelare, che doveva rappresentare un provvedimento eccezionale e residuale, si è trasformata in uno valido strumento di protezione alternativo rispetto ai procedimenti ordinari.
In conclusione ci sia consentito un consiglio riguardante l’individuazione degli effetti ed il tipo di provvedimento richiesto in sede cautelare .
Sotto questo profilo va ricordato che il potere del giudice non è assoluto, nel senso che spetta sempre e comunque al mobbizzato individuare sia il provvedimento di tutela sia il tipo di effetto richiesto; il magistrato ha, infatti, solamente poteri discrezionali in ordine alla «specificazione attuativa» della forma di tutela cautelare e non può disporre effetti che non siano stati espressamente richiesti dal ricorrente nel ricorso introduttivo del giudizio.
IL PROBLEMA DELL’ELEMENTO PSICOLOGICO
Ulteriori aspetti non del tutto chiari, che emergono dalle recenti ricostruzioni giurisprudenziali in tema di mobbing, si possono individuare anche nell’ambito dell’elemento psicologico.Cosa si intende per finalità vessatorie ed emulative? Dalla dicitura usata dalla giurisprudenza, invero, sembrerebbe farsi riferimento ad un dolo specifico, caratterizzato dalla presenza dalla volontà di danneggiare il lavoratore senza alcuna utilità pratica, con la conseguenza logica che anche una semplice utilità come il fine di aumentarne la produttività attraverso rimproveri reiterati ovvero la necessità di far riposare sine die il dipendente potrebbe essere una motivazione idonea a restare al di fuori del concetto di finalità emulativa; id est, la specificità del dolo richiesto, in questo senso, potrebbe porre in crisi la figura del mobbing, svuotandolo, nella sostanza, di portata applicativa: se per dimostrare il mobbing è necessario dimostrare che il datore di lavoro non abbia alcuna utilità pratica derivante dal comportamento mobbizzante si rischia i vulnerare l’essenza stessa del mobbing, in quanto questo si può basare pur sempre su un comportamento formalmente lecito, con la conseguenza che sarebbe facile per il datore di lavoro riuscire a dimostrare una qualche utilità pratica derivante dall’atteggiamento mobbizzante.
Inoltre, a rigore, l’elemento psicologico non dovrebbe assumere rilievo in quanto si tratterebbe pur sempre di responsabilità contrattuale per la quale, di massima, è irrilevante l’elemento psicologico, così che appare contraddittorio sostenere da un lato la sussistenza del dolo specifico della finalità emulativa e dall’altro lato la sussistenza di una tipologia di responsabilità che ne prescinde. Sotto tale profilo, allora, a contrario, sembrerebbe più coerente con la ratio dell’istituto del mobbing porre l’accento sull’elemento psicologico dell’atteggiamento vessatorio piuttosto che emulativo, in senso tecnico – giuridico.
IL PROBLEMA DEI DANNI
Il mobbing, nella sostanza, è un comportamento antigiuridico ovvero una condotta illecita (seppur formalmente lecita), per cui, ai fini del risarcimento, sarà necessario dimostrare la sussistenza di un danno da mobbing 8 ovvero, ai fini della negazione della responsabilità il datore di lavoro, ex art. 2087 c.c. (ed ex art. 1218 c.c.) sarà tenuto a dimostrare l’insussistenza di qualsivoglia danno eziologicamente collegato alla condotta datoriale. Invero, il mobbing può cagionare sia danni sul piano patrimoniale ( sub specie di danno emergente e lucro cessante, ex art. 1223 c.c.): il soggetto mobbizzato è una persona che perde professionalità, a causa di un atteggiamento abdicativo verso se stesso, subendo danni patrimoniali anche significativi, ed altresì perdendo potenzialità lavorative ed occasioni importanti.
In altri termini, il mobbizzato subisce un danno diretto ed uno indiretto, costituito dal mancato guadagno economico, ex art. 1223 c.c.
Tuttavia, i danni che vengono subiti dal soggetto mobbizzato (sia in senso verticale che orizzontale) sono anche di tipo non patrimoniale, ex art. 2059 c.c., per merito del revirement giurisprudenziale del 2003 e alla luce dell’astratta configurabilità di un reato; in questo senso, allora, al comportamento mobbizzante potrà seguire un danno biologico (tendenzialmente psichico) ovvero un danno esistenziale (da intendersi come mancato guadagno non patrimoniale).
VADEMECUM PER AFFRONTARE IL MOBBING
Dopo aver affrontato il tema della prevenzione, appare opportuno formulare, in considerazione delle diverse tipologie di persecuzione morale, alcuni utili suggerimenti pratici su come difendersi ed affrontare correttamente il fenomeno del Mobbing.
In altri termini, si tratta di fornire al lavoratore mobbizzato un vero e proprio vademecum, ovvero un «piano di battaglia», su come comportarsi in presenza di molestie morali, vessazioni, angherie e persecuzioni sul luogo di lavoro al fine di opporsi, combattere e vincere contro i mobbers.
Molto interessanti sono i consigli pratici per resistere al Mobbing
- in primo luogo è necessario riconoscere e prendere coscienza del processo di persecuzione morale che si sta subendo attraverso una adeguata raccolta di informazioni;
- una volta compreso che si è vittima di Mobbing, occorre ricostruire in modo analitico e dettagliato il contesto aziendale, gli autori materiali e le modalità attraverso le quali si manifesta la violenza psicologica. In questo senso può essere molto utile annotare, come si trattasse di un vero e proprio « diario di bordo », su un block notes o su un supporto magnetico, con estrema precisione tutti gli elementi della condotta mobbizzante (momento di avvio, durata, frequenza ed intensità della persecuzione);
- in ogni caso si ritiene fondamentale, anche per assolvere meglio all’onere probatorio incombente sul mobbizzato in caso di ricorso giurisdizionale, acquisire, anche tramite fotocopie, tutta la documentazione rilevante come ad esempio ordini di servizio, trasferimenti, mutamenti di mansioni, lettere di richiamo, contestazioni di addebito, provvedimenti disciplinari, diniego di frequenza a corsi di formazione per migliorare le proprie capacità professionali e tutto ciò che può in qualche modo suffragare le nostre accuse. Al riguardo si deve ricordare che il mobbizzato ha il diritto, ai sensi degli artt. 10, 22 e ss. della L. 241/90 (se si tratta di un datore di lavoro pubblico) ed art. 13 I° comma lett. c) della Legge675/1996 (se si tratta di datore di lavoro privato) di poter visionare ed estrarre copia, in carta semplice, di tutta la documentazione e dei dati personali in possesso del datore di lavoro che riguardino la propria posizione lavorativa;
- molto efficace potrà essere, inoltre, predisporre una lista di testimoni (colleghi, rappresentanti sindacali, medici del lavoro, etc.) che siano venuti a conoscenza, direttamente o indirettamente, della molestia morale;
- sul piano aziendale, estremamente utile sarà parlare, anche in modo informale, con il responsabile delle risorse umane (e, se del caso, proprio con il datore di lavoro) al fine di informarlo della situazione ed instaurare un dialogo positivo e costruttivo per tentare di risolvere la violenza psicologica che si sta vivendo. In questa sede sarà opportuno farsi accompagnare da un collega di lavoro che, eventualmente, potrà anche testimoniare in sede processuale;
-qualora l’impresa rifiuti qualsiasi forma di colloquio —anche informale — il mobbizzato potrà e dovrà richiedere spiegazioni per iscritto e con raccomandata; tali lettere serviranno a provare a chi è imputabile quella mancanza di dialogo che così spesso è la causa principale del Mobbing;
- qualora nessuna risposta dovesse giungere dai vertici aziendali, occorrerà denunciare o comunque divulgare e far conoscere all’interno dell’azienda la storia di persecuzione e la condizione di disagio in cui si lavora (anche attraverso affissioni in bacheca, interventi in assemblee sindacali e riunioni, o tramite volantini) ciò potrebbe sollecitare, negli altri lavoratori, un movimento di opinione a favore;
- quando la resistenza psicologica diventa impossibile e lo stress e la tensione supera livelli di normale tollerabilità, per la vittima di Mobbing sarà opportuno prendersi un periodo di riposo chiedendo al proprio medico di fiducia (meglio, però, sarebbe avere una certificazione specialistica che attesti il nesso di causalità esistente tra comportamento datoriale e patologia psicofisica) dei giorni di malattia per assentarsi dal lavoro e ripresentarsi in azienda solo dopo aver riacquistato la piena fiducia in sé stessi. In ogni caso sarà opportuno evitare un eccessivo prolungamento della malattia in quanto ciò potrebbe consentire il superamento del periodo di comporto; in quest’ultimo caso si potrebbero utilizzare i periodi di ferie non goduti o i recuperi orari;
- se gli atteggiamenti discriminatori e le prevaricazioni tra colleghi, capi e capetti non consentono la prosecuzione del rapporto di lavoro in una determinata divisione o reparto, si potrà richiedere il trasferimento per motivi di salute (attraverso il medico aziendale competente ex D.Lgs. 626/94 ed a condizione che la struttura aziendale lo consenta) presso un altro settore in modo da risolvere, in via definitiva, tutti quei conflitti interpersonali che sono alla base del Mobbing;
- per la vittima molto importante potrebbe rivelarsi l’iscrizione ad associazioni no profit contro il Mobbing oppure l’inserimento in gruppi di auto-aiuto (composti da persone che hanno già vissuto sulla propria pelle il problema delle persecuzioni psicologiche e da psicologi specialisti) che offrano un punto di incontro e di dibattito per comprendere e consigliare il mobbizato;
- sin dal primo momento dell’insorgenza delle molestie morali sul posto di lavoro, si consiglia di rivolgersi ad un avvocato specializzato in problematiche riguardanti il diritto del lavoro che abbia già affrontato controversie aventi ad oggetto il Mobbing e sappia, pertanto, dare degli utili e concreti suggerimenti circa i comportamenti da adottare in azienda ed in ordine alla sostenibilità probatoria della tesi in giudizio.