A cura di Ida Tascone – Magistrato TAR
La presente relazione riguarda i casi in cui, in materia di contrattualistica pubblica, l’interesse di un soggetto partecipante ad una procedura di gara che si ritenga danneggiato dallo svolgimento illegittimo della stessa, non possa essere soddisfatto dalla tutela in forma specifica, mediante l’annullamento e la riedizione della gara ovvero attraverso la diretta aggiudicazione del contratto al quale il concorrente aspirava, avendo quindi egli diritto ad un risarcimento per equivalente, secondo quanto disposto dall’art. 124 c.p.a.
Tale norma, riformulata dall’art. 209, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 31 marzo 2023 n. 36, prevede che “se il giudice non dichiara l’inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato”.
In realtà, la disciplina della tutela giurisdizionale in materia di appalti pubblici recata dal codice del processo amministrativo è – almeno in astratto – congegnata in modo tale da favorire la tutela in forma specifica o, meglio, da evitare che il contratto possa essere stipulato in presenza di un contenzioso che lasci dubitare della legittimità dell’aggiudicazione (almeno fino alla conclusione della fase di merito in primo grado).
Il che, se non ha finora impedito la proposizione di azioni risarcitorie, denota un sistema comunque imperniato sulla tutela concentrata sul terreno delle regole di validità (ancor più dopo le modifiche apportate all’articolo 120, comma 6, del codice del processo amministrativo dall’articolo 4, comma 4, lett. a), del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120).
L’intero articolato normativo traduce, quindi, la preoccupazione volta alla predisposizione di una “rete di contenimento” all’esperimento delle azioni risarcitorie dei privati (cui si accompagna la previsione dell’azione di rivalsa dell’amministrazione oggi disciplinata dall’art. 5 del nuovo codice).
Tale rete di contenimento consta più di un atteggiamento culturale (come quando si sottolinea, ad esempio, che i danni da risarcire devono essere “effettivi e provati”), trattandosi della declinazione nel settore della contrattualistica pubblica di princìpi e regole da tempo noti nel diritto civile e nel diritto amministrativo generale.
Le considerazioni che seguono, nel predetto ambito, mirano a considerare talune conclusioni cui è ormai approdata la giurisprudenza amministrativa in tema di risarcimento relativamente alla partecipazione alla gara e/o al conseguimento del contratto in materia di appalti pubblici.
È noto, infatti, che tale forma di responsabilità risulta oggi differenziata rispetto alla generale responsabilità della p.a. per lesione di interesse legittimo, configurata come extracontrattuale e ricondotta ai criteri dell’art. 2043 c.c., in quanto la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con sentenza 30 settembre 2010, C-314/09, decidendo sul tema della compatibilità con la direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE, di una normativa nazionale — nel caso austriaca — che subordinasse la tutela risarcitoria, per danni derivanti dalla violazione della disciplina sugli appalti pubblici, al riscontro del requisito della colpa, decideva che tale direttiva osta ad una normativa nazionale che subordini il diritto ad ottenere il risarcimento per la violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di una amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole della violazione.
Viene definitivamente esclusa la rilevanza della colpevolezza ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’amministrazione aggiudicatrice, nel settore degli appalti pubblici, creando quindi un’ipotesi di responsabilità oggettiva.
Infatti, l’onere probatorio della colpa — ancorché in presenza ormai di una normativa incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo alle p.a. — è stato ritenuto incompatibile con la direttiva in quanto, potendo derivarne la privazione del diritto al risarcimento, verrebbero pregiudicate le finalità di assicurare una tutela rapida ed efficace alle situazioni giuridiche lese.
Orbene, due sono gli elementi che occorre evidenziare:
a) il primo, che essa crea un regime giuridico speciale per la responsabilità delle amministrazioni aggiudicatrici in materia di appalti pubblici, favorendo la posizione del richiedente la tutela, mediante la oggettivizzazione della relativa responsabilità;
b) il secondo, che tale scelta viene operata per le ragioni chiaramente enunciate al punto 39 della motivazione della sentenza, secondo cui “il rimedio risarcitorio (…) può costituire (…) un’alternativa procedurale compatibile con il principio di effettività (…) soltanto a condizione che la possibilità di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici non sia subordinata (…) alla constatazione dell’esistenza di un comportamento colpevole tenuto dall’amministrazione aggiudicatrice”.
In sostanza, viene istituito un regime di responsabilità speciale che, in quanto oggettiva, favorisce il soggetto leso, e ciò in ragione del necessario ruolo sussidiario — alternativo e compensativo — del risarcimento per equivalente rispetto a quello in forma specifica in tale specifico settore.
È su tali presupposti di base che si intende considerare la giurisprudenza amministrativa che ha riconosciuto risarcimenti per equivalente nel settore degli appalti pubblici.
Il tema che si pone esaminando la giurisprudenza e, più in generale, il modello di responsabilità in esame, riguarda i criteri adottati per pervenire alla definizione del danno risarcibile per equivalente, quantificandolo mediante riferimento all’interesse negativo o a quello positivo, al danno emergente o all’utile contrattuale.
A tal proposito, occorre nuovamente compiere una distinzione separando le ipotesi in cui l’attività amministrativa da porre in essere a seguito della decisione del giudice sia del tutto vincolata, in quanto – riscontrata la sussistenza dei presupposti di legge – il ga accerta che l’amministrazione dovrebbe — o avrebbe dovuto — adottare una certa decisione, dalle diverse ipotesi in cui l’esito del procedimento e quindi il conseguimento del bene della vita per il concorrente sia ancora sottoposto a valutazioni discrezionali della amministrazione.
La dimostrazione della spettanza dell’appalto alla società danneggiata risulta ovviamente configurabile nei soli casi in cui il criterio di aggiudicazione si fonda su parametri vincolati e matematici, mentre si rivela complesso laddove la selezione del contraente venga operata sulla base di un apprezzamento tecnico-discrezionale dell’offerta (come nel caso in cui l’affidamento del contratto sia basato sul criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa).
Nel primo caso il giudizio sulla spettanza del bene, negato illegittimamente, appare agevole, giustificando che venga riconosciuto il ristoro del danno facendo riferimento al mancato conseguimento dell’utilità finale.
Si tratta della situazione in cui — ad esempio — la seconda classificata provi che la prima graduata avrebbe dovuto essere esclusa non avendo essa prodotto in gara la documentazione prevista a pena di esclusione: in tale fattispecie, l’esito della gara si presenta come certo, in quanto l’impresa ricorrente danneggiata ha la certezza di risultare aggiudicataria e, grazie all’esito favorevole del giudizio, in cui si censura l’illegittima azione amministrativa, potrà ottenere una somma di denaro pari all’utile che avrebbe percepito in caso di esecuzione dell’appalto.
In merito alla quantificazione di tale vantaggio economico, tradizionalmente la giurisprudenza stimava in via presuntiva il danno da mancata aggiudicazione nel 10% dell’importo a base d’asta (oppure di quello depurato del ribasso in sede di offerta), ricavando tale percentuale (come è noto) dalle norme che, in materia di lavori pubblici, disciplinano il recesso e la risoluzione del contratto.
Anche dopo l’entrata in vigore del Codice del Processo Amministrativo, è stato talora confermato l’orientamento che riconosce un utile presunto nella misura massima del 10%, oppure in misure inferiori, generalmente del 5%; peraltro, da alcune recenti pronunce è stato ritenuto che, invece della quantificazione presuntiva, sia preferibile la dimostrazione dell’utile effettivo che l’impresa avrebbe conseguito in caso di aggiudicazione, ferma la possibilità di consentire la sua determinazione equitativa nei casi in cui non risulti chiaramente indicato nei documenti di gara (Cons. Stato, ad. plen., 12 maggio 2017, n. 2).
Qualora, invece, si configurino margini di discrezionalità bisogna nuovamente considerare le diverse ipotesi in cui, a fronte di valutazioni riconducibili a mera discrezionalità di tipo tecnico, il giudice possa spingersi a verificare il corretto uso di tale tipo di discrezionalità giungendo al doveroso riconoscimento del bene della vita dal diverso caso in cui l’indagine sulla spettanza del bene della vita non potrà che portare ad un giudizio prognostico, da condurre in riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o meno dell’istanza, onde stabilire se il pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettibile di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva secondo un criterio di normalità.
Fin dagli inizi degli anni 2000, la giurisprudenza ha fatto propria la tesi della risarcibilità della chance per la quale la effettiva realizzazione, impedita da un fatto illecito, è indimostrabile precisando che essa (la chance) si pone quale bene patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione.
In estrema sintesi, il risarcimento del danno per perdita di chance, non si identifica con la perdita di un risultato utile sicuro, ma con il semplice venire meno di un’apprezzabile possibilità di conseguirlo, in particolare per l’essere stato l’interessato privato della stessa possibilità concreta di aggiudicarsi un appalto; non si risarcisce il mancato conseguimento del risultato utile, ma la possibilità (perduta) — intesa come bene autonomo — di raggiungere il risultato utile.
Tale possibilità astratta di ottenere occasioni che, al contrario, sono andate perdute, per essere meritevole di risarcimento, deve trasformarsi in probabilità effettiva, prendendo come riferimento l’utile contrattuale (lucro cessante) che si sarebbe ricavato dal contratto di appalto, laddove ipoteticamente esso fosse stato concluso; la lesione della chance, laddove configurata, viene quantificata dalla giurisprudenza secondo criteri di matematica probabilistica secondo la regola probatoria c.d. “del più probabile che non”, riconoscendo poi il risarcimento corrispondente — ma non pari — all’utile contrattuale, adeguatamente correggendo quest’ultimo in rapporto alle “probabilità” reputate proprie di quella chance.
Sussiste, dunque, il nesso causale se l’illegittimità ha comportato non la perdita del contratto ma la perdita della possibilità della stipulazione di un contratto, statisticamente accertata in termini di probabilità consistente: in sostanza la chance risarcibile non è la mera possibilità ma la probabilità concreta, in qualche modo misurabile.
In tali ipotesi, il risarcimento viene riconosciuto parametrandolo sull’utile del contratto che l’impresa ha perduto la possibilità di conseguire, proporzionalmente ridotta in ragione delle concrete possibilità di vittoria desumibili dall’andamento della gara (ex multis, Cons. Stato, ad. plen., 12 maggio 2017, n. 2).
Inoltre, il risarcimento del danno da riconoscersi all’impresa in tali casi viene limitato alla perdita di chance per quanto riguarda il lucro cessante, come sopra quantificato, mentre viene negato il risarcimento del danno emergente (spese di gara) — interesse negativo — considerandolo rientrante tra i rischi dell’impresa partecipante alla gara e ricadente sulla stessa indipendentemente dall’esito della gara.
Infatti, secondo un consolidato orientamento, non è ristorabile il danno per spese e costi di partecipazione alla gara, per le spese generali e legali e per le spese di progettazione. E ciò in quanto la partecipazione alle gare d’appalto comporta per i partecipanti costi che ordinariamente restano a carico delle imprese, sia in caso di aggiudicazione sia in caso di mancata aggiudicazione. In caso contrario, infatti, si finirebbe con il riconoscere un risarcimento per equivalente superiore alle perdite patrimoniali subite dal danneggiato, violando pertanto un principio fondamentale in tema di risarcimento: con il risultato che l’impresa concorrente illegittimamente pretermessa dalla aggiudicazione percepirebbe, in sede risarcitoria, più di quanto avrebbe avuto se avesse eseguito il contratto, poiché beneficerebbe sia dei vantaggi economici che avrebbe avuto se non avesse stipulato ed eseguito il contratto oggetto di gara, sia del lucro che avrebbe conseguito ove il contratto fosse stato eseguito; in definitiva, si cumulerebbero i danni da lesione dell’interesse negativo con quelli da lesione dell’interesse positivo, il che è da ritenere inammissibile alla luce dei principi in materia di risarcimento del danno (Cons. Stato, ad. plen., 12 maggio 2017, n. 2).
La giurisprudenza ha, poi, espressamente configurato un’ulteriore posta di danno risarcibile nel “danno curriculare quale ulteriore profilo del lucro cessante” come “una specificazione del danno per perdita di chance”: alla mancata esecuzione dell’opera pubblica illegittimamente appaltata si ricollegano, infatti, indiretti nocumenti all’immagine della società, al suo radicamento sul mercato, all’ampliamento della qualità industriale o commerciale dell’azienda, al suo avviamento oltre alla lesione al più generale interesse pubblico al rispetto della concorrenza, in conseguenza dell’indebito potenziamento di imprese concorrenti che operino sul medesimo target di mercato, in modo illegittimo dichiarate aggiudicatarie della gara.
Quanto alla determinazione del “danno curriculare”, lo stesso potrà essere quantificato in via equitativa, in base all’assolvimento dell’onere probatorio da parte della concorrente danneggiata, in una somma percentuale da rapportarsi all’importo dell’offerta.
Una volta poste tali coordinate ermeneutiche, la seconda questione giuridica da esaminare riguarda il caso in cui il terzo illegittimamente pretermesso abbia ottenuto in giudizio l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione e l’accertamento del diritto a stipulare il contratto, ma – nelle more del giudizio – il rapporto contrattuale risulti interamente eseguito dall’aggiudicatario con conseguente impossibilità di subentro nell’appalto.
Il ricorrente vittorioso potrebbe, infatti, chiedere, oltre al risarcimento del danno per equivalente, anche l’applicazione delle sanzioni alternative previste dall’art. 123 c.p.a.
In tale fattispecie, per quanto concerne l’aspetto risarcitorio, occorre esaminare la quantificazione del lucro cessante in relazione alla mancata esecuzione dei lavori che dovevano essere affidati alla società seconda graduata (ex multis, Cons. Stato, ad. plen., 12 maggio 2017, n. 2).
Il profilo controverso riguarda, in particolare, le modalità di calcolo di tale posta risarcitoria, dovendosi stabilire se essa debba essere parametrata all’utile conseguito dalla società che ha effettivamente dato esecuzione al contratto, oppure se debba farsi riferimento alla percentuale di utile indicato dalla società danneggiata nell’ambito della documentazione presentata ai fini dell’offerta.
In secondo luogo, viene in contestazione la stima del danno curricolare susseguente alla mancata esecuzione dell’appalto.
In terzo luogo, occorre soffermarsi sulla richiesta di applicazione delle sanzioni alternative all’inefficacia del contratto.
In via preliminare, si riconosce che anche se ai sensi dell’art. 124 c.p.a. compete alla società la scelta tra la tutela in forma specifica e il risarcimento del danno per equivalente, laddove in pendenza di lite il contratto sia stato eseguito, l’unica strada percorribile resta quella del risarcimento del danno per equivalente.
Il Consiglio di Stato, con riguardo alla quantificazione del danno per lucro cessante correlato alle prestazioni dedotte nel contratto afferma che per la liquidazione di tale posta risarcitoria debba aversi riguardo all’utile che la società danneggiata avrebbe ricavato dall’esecuzione del contratto, alla luce della proposta negoziale formulata e della sua struttura dei costi (Cons. Stato Sez. V, 7 novembre 2022, n. 9785).
Per questa ragione, il quantum del danno da perdita di utile – quale lesione connessa, in via immediata e diretta (art. 1223 c.c.), alla mancata esecuzione del contratto alle condizioni proposte nell’offerta presentata in sede di gara – pur potendo essere determinato mediante presunzioni, non può essere calcolato in base a criteri che precludono la formulazione di un giudizio probabilistico (quali la misura forfetaria del 10% dell’importo a base di gara) ovvero relativi alla struttura e alle scelte imprenditoriali di altri concorrenti, altrimenti il soggetto danneggiato aggirerebbe gli oneri probatori posti a suo carico e finirebbe per conseguire un ristoro scollegato dalla lesione concretamente subita.
Con riferimento alla liquidazione del danno curricolare, tale posta risarcitoria, invece, può essere quantificata in via equitativa, avuto riguardo alle oggettive difficoltà probatorie riscontrate dalla giurisprudenza, in quanto si tratta di stabilire il nesso eziologico esistente tra il danno subito e i provvedimenti impugnati in primo grado.
In proposito, va evidenziato che la giurisprudenza non è univoca nel ritenere ammissibile tale approccio valutativo, in quanto in alcune pronunce si richiede che il danneggiato provi la perdita di ulteriori commesse pubbliche o di aver subito altre ricadute negative, in termini di minore redditività, sulla propria immagine commerciale (Cons. Stato, Sez. V, 26 luglio 2019, n. 5283; Id., Sez. III, 5 marzo 2020, n. 1607).
Il Consiglio di Stato (Cons. Stato Sez. V, 7 novembre 2022, n. 9785, cit.), infine, ritiene applicabile anche la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 123, comma 1, lett. a), c.p.a. qualora, nonostante l’affidamento dei lavori sia riconducibile a una delle ipotesi di grave violazione di cui all’art. 121 c.p.a., non risulti possibile dichiarare l’inefficacia del contratto in ragione dell’impossibilità di subentro del ricorrente.
In ordine all’applicazione delle sanzioni alternative all’inefficacia del contratto, vale segnalare che il profilo processuale della vicenda non esclude il carattere “sostanzialmente amministrativo” di tale potere sanzionatorio. Viene in rilievo, come sostenuto in dottrina, una ipotesi di giurisdizione di tipo oggettivo, in quanto l’irrogazione di tali sanzioni mira a punire le stazioni appaltanti per la realizzazione di violazioni ritenute gravi dal legislatore in quanto lesive di principi quali quelli di concorrenza “per il mercato”, parità di trattamento e non discriminazione.
Come è stato segnalato da alcuni autori, l’applicazione di tali sanzioni accede a una fase processuale nella quale non si tratta di assicurare una tutela piena ed effettiva alla situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio dal ricorrente, bensì di tutelare interessi pubblici superindividuali.
Nel caso di specie (Cons. Stato Sez. V, 7 novembre 2022, n. 9785, cit.), per quanto concerne le modalità applicative della sanzione pecuniaria il Consiglio di Stato ha considerato quale base di calcolo il valore del contratto applicando una misura congrua (1%).
Nella sentenza, inoltre, è stato affermato che la condanna al risarcimento del danno non costituisce una sanzione alternativa, il che ne consente il cumulo con le sanzioni previste dall’art. 123 c.p.a.