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1. – Premesse. Il reato di intralcio alla giustizia (377 c.p.) contempla e reprime la condotta di istigazione – o determinazione – a commettere i reati di: falsa testimonianza (372 c.p.), false informazioni alle parti processuali (371bis e 371 ter c.p.) e falsa perizia o consulenza tecnica (373 c.p.).
In particolare viene sanzionata la condotta di “chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiaamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria” al fine di indurla a commettere i reati di falsità in giudizio sopra indicati e nella ipotesi che l’offerta o la promessa non siano accettate, ovvero siano accettate ma la falsità non sia commessa.
Si tratta, quindi, di una norma che tutela il corretto svolgimento dell’attività processuale, in relazione a condotte volte a pregiudicare – mediante offerta o promessa di danaro o altra utilità, ovvero violenza o minaccia – la corretta ed imparziale acquisizione delle dichiarazioni di soggetti sui quali grava l’obbligo di rispondere[1].
Come può evincersi dalla sua formulazione letterale, il reato di cui all’articolo 377 richiede che la prevista condotta di induzione o determinazione si diriga nei confronti di una persona “chiamata a rendere dichiarazioni davanti alla autorità giudiziaria”[2] oppure “chiamata a svolgere attività di perito, consulente tecnico e interprete”.
Altresì appare pacifico che si sia in presenza di in reato a consumazione anticipata, che si realizza solo se la falsità in giudizio, oggetto della istigazione o determinazione, non venga commessa[3] ed in relazione al quale il tentativo non è ammissibile[4].
Inoltre la fattispecie in esame prevede, di per sé considerata, la punibilità del solo autore delle condotte di istigazione e determinazione. La norma, infatti, presuppone che l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità[5], volta al condizionamento delle dichiarazioni dei testimoni o delle attività dei soggetti muniti di competenze tecniche da sentire nel processo, “non sia accettata” (comma 1), ovvero che, “qualora l’offerta o la promessa sia accettata”, “la falsità non sia commessa” (comma 2) o ancora, in caso di violenza o minaccia, che “il fine” della subornazione “non sia conseguito” (comma 3).
Infine, pur profilandosi come un possibile antecedente causale di reati di falsità in giudizio contemplati nella previsione di non punibilità dell’articolo 384 del codice penale[6], la fattispecie di reato in esame non rientra nell’ambito di efficacia di tale ultima previsione, con la conseguenza che il soggetto che istighi un terzo, chiamato a deporre, allo scopo di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore, non potrà beneficiare della suddetta esimente, rigorosamente applicabile soltanto al soggetto che rende la deposizione (cioè il teste e analoghe figure soggettive)[7].
2. – Rapporti tra l’Intralcio alla giustizia e la Istigazione alla corruzione. Per unanime orientamento della Corte di cassazione, la fattispecie del 377, nella parte radicata su una condotta preordinata, tramite la promessa o l’offerta di denaro o altra utilità, ad inquinare la completezza e genuinità dei contemplati atti processuali, manifesta un evidente collegamento con la corruzione in atti giudiziari.
In particolare tale collegamento viene a dipendere da due essenziali fattori: in primo luogo dalla circostanza che l’atto che l’agente si propone di contaminare ha natura di atto giudiziario e quindi chiama in causa uno dei requisiti costitutivi della specifica fattispecie della corruzione in atti giudiziari (articolo 319 ter c.p.); in secondo luogo perché si dà per scontato che tra i destinatari della istigazione corruttiva ex 377 vi siano soggetti che rivestono, in ragione del loro peculiare status, la qualifica di pubblici ufficiali[8].
Per il momento limitiamoci: a) ad estrapolare dalla fattispecie del 377 le indubbie situazioni in cui la istigazione corruttiva si rivolga a soggetti che rivestono la qualifica di pubblico ufficiale: e cioè il perito, il consulente tecnico e l’interprete; b) ed a porre in rilievo che il reato da essa previsto possa coesistere sia con il rifiuto che con la accettazione della offerta o promessa di denaro (o altra utilità) e si delinea per il fatto che comunque non vi è stata la consumazione del reato scopo, cioè i divisati reati di cui agli articoli 371 –bis, 371 ter, 372 e 373 c.p..
Da tale quadro normativo emerge con immediatezza come la struttura del reato di intralcio alla giustizia, sempre nella sua specifica variante di reato con destinatari pubblici ufficiali, si presenti con connotati di specialità sia rispetto alla corrispondente figura della istigazione alla corruzione, sia rispetto alla figura della corruzione consumata, atteso che rientra sempre nell’ambito dell’intralcio alla giustizia l’eventualità che le prebende prospettate siano accettate; specialità che si riscontra sia dal lato soggettivo, in quanto è specificato il pubblico ufficiale, sia dal lato oggettivo, in quanto è del pari specificato l’oggetto e lo scopo dell’intento corruttivo.
In realtà gli approcci della Suprema Corte, nel contesto dell’esame dei rapporti tra intralcio alla giustizia e le variegate fattispecie di corruzione, si sono soffermate solo sulle ipotesi di istigazione alla corruzione ed attestato che il reato di intralcio alla giustizia, che postula la non commissione del reato “scopo” oggetto della istigazione, sia in rapporto di specialità con quello di istigazione alla corruzione e di conseguenza sia l’unico reato che va applicato nella ipotesi in cui taluno offra o prometta del denaro ad uno dei soggetti indicati nell’articolo 377 ed al fine di indurlo alla commissione dei reati contro l’amministrazione della giustizia ivi espressamente contemplati[9].
Secondo la cassazione, in particolare, tra i due reati intercorre un rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 c.p., in virtù del quale deve trovare applicazione solo l’art. 377 c.p., sia in relazione al profilo soggettivo, per la specificità della persona, sia al profilo oggettivo, per la specificità dell’atto contrario ai doveri di ufficio, mirante, in sostanza, alla manipolazione di specifiche fattispecie di atto giudiziario.
Fin qui l’operazione mette ordine nel rapporto tra le due norme e non genera alcuna conseguenza di rilievo, perché quello che viene a delinearsi sta tutto nella norma sull’intralcio alla giustizia, in sé comprensiva di una pluralità di figure processuali, tutte tutelate in modo proporzionato rispetto al disvalore dei reati che per loro tramite l’istigatore si proponeva di realizzare. In fondo conta poco che tra tali soggetti ve ne siano alcuni che, sin dal primo momento della loro esistenza, siano pacificamente pubblici ufficiali. Sia costoro che gli altri, che in ipotesi, assumiamo privi di tale qualifica, stanno comunque fuori dalla norma sulla istigazione alla corruzione e trovano tutela nella specifica norma dell’intralcio alla giustizia; i primi per via del rapporto di specialità tra l’intralcio alla giustizia e l’istigazione alla corruzione; i secondi perché privi di quello status soggettivo che è necessario per l’attivarsi della fattispecie di corruzione.
Qualcosa però viene a intaccare la coerenza del quadro sopra delineato, perché rompe la simmetria tra istigazione alla corruzione e intralcio alla giustizia e fa, per contro, irrompere il più complicato rapporto tra intralcio alla giustizia e corruzione, non solo nella forma della istigazione ma altresì nella forma della corruzione consumata, sub specie della corruzione in atti giudiziari.
In precedenza, nell’esibire le varie facce del reato di intralcio alla giustizia, si è evidenziato come tale fattispecie contempli anche l’ipotesi dell’offerta corruttiva accolta, alla quale, però, non abbia fatto seguito il reato che l’istigatore si proponeva di far realizzare.
In altri termini, pare che l’intralcio alla giustizia presenti la caratteristica di contemplare, almeno nella parte in cui concerne soggetti pubblici ufficiali, non solo fatti di istigazione alla corruzione ma anche fatti di corruzione; e di contemplarli in modo per vero eccentrico, punendo solo il corruttore a mai il corrotto, che entra compiutamente in scena quando la offerta di prebende sia accolta e che non smette di essere tale se l’atto prezzolato non sia commesso, perché tale estremo, come è pacifico, non è richiesto per la corruzione antecedente[10].
Pare, quindi, che debba essere ampliata la prospettiva di analisi dei rapporti tra intralcio alla giustizia ed i reati di corruzione, evitando di soffermarsi solo su quelli di istigazione alla corruzione e cercando di comprendere se, e per quali ragioni, i connotati di specialità del reato di intralcio alla giustizia possano altresì condurre alla non configurabilità di un astratto fatto di corruzione, nella specie della corruzione in atto giudiziario.
3. – Un passo indietro: non tutti i destinatari della istigazione sono pubblici ufficiali. Se tutti i soggetti menzionati nella fattispecie del 377 fossero, in ognuna delle varie tipologie di condotta ivi prevista, sempre dei pubblici ufficiali e fossero contemplati dalla norma in tale loro specifica qualifica soggettiva, saremmo al cospetto di una norma incriminatrice davvero singolare. Essa infatti verrebbe ad occupare altresì lo spazio della violenza a pubblico ufficiale, posto che, oltre alla istigazione con manovre corruttive, contempla anche l’impiego di minaccia e di violenza per indurre il supposto pubblico ufficiale a compiere un atto difforme dai supposti doveri istituzionali.
In realtà non sembra che le cose stiano davvero in questi termini. La fattispecie dell’articolo 377 non ha nulla a che fare con la tutela dei pubblici ufficiali e si occupa soltanto di completare e rendere più incisiva la tutela penale di soggetti che vengono in rilievo, anche quando per avventura siano pubblici ufficiali, solo e soltanto nella loro specifica ed onnicomprensiva veste di soggetti processuali.
In tale norma, in particolare, i destinatari della condotta di istigazione corruttiva (ed anche coercitiva) si stagliano solo come potenziali autori di alcuni determinati reati contro la amministrazione della giustizia[11] ed a partire dal momento in cui tale potenzialità si delinei con i connotati di reale concretezza[12]. E’ questa l’unica qualifica soggettiva che interessa la norma incriminatrice e che ne condiziona la sussistenza, posto che il suo spazio di efficacia nasce solo nel momento in cui i soggetti da essa menzionati siano, “nominati” o “chiamati” per il compimento di un atto processuale dianzi all’autorità giudiziaria o al difensore [13], senza che abbia alcun rilevo l’eventuale preesistenza di una ulteriore qualifica[14] e senza che assuma diretto ed immediato rilievo la circostanza, meramente eventuale e controversa, che il provvedimento dell’autorità giudiziaria che crea lo status richiesto dalla norma incriminatrice generi anche, e quale suo ulteriore effetto, lo status di pubblico ufficiale.
Proviamo a scendere nel dettaglio delle singole e contemplate figure processuali e mettere in evidenza le situazioni in cui non viene in rilievo la qualifica di pubblico ufficiale.
In tale schiera compare in primo luogo il soggetto chiamato dal difensore, nel corso dell’attività investigativa, a rendere dichiarazioni; indi segue il soggetto che sia chiamato a svolgere la medesima incombenza dinanzi al pubblico ministero.
In entrambi i casi non vi è nulla che possa consentire di qualificare i predetti soggetti, per effetto della ricevuta “chiamata” a rendere dichiarazioni in un procedimento penale, come pubblici ufficiali[15]. E tale conclusione discende dal fatto che in essi difettano i concreti connotati del pubblico ufficiale, la cui insussistenza configura un dato genetico della peculiare posizione e si manifesta qualunque sia il concreto, e prospettico, impiego di tali dichiarazioni: e quindi anche se, per scelta dell’imputato, vengano adoperate come prove per la decisione sul merito del processo[16].
Per contro, si ritiene indubbio, per pacifica giurisprudenza e come già rilevato, il cumulo delle qualifiche di status processuale e pubblico ufficiale con riguardo alle figure del perito, del consulente tecnico di ufficio nel processo civile e dell’interprete.
Vedremo in seguito se tale tesi, che fa discendere tale duplice qualifica dall’atto di “nomina” sia davvero ineludibile; e se quindi sia ammissibile la figura di pubblico ufficiale che concerna un soggetto che è un privato cittadino, duri un limitato spazio di tempo e sia circoscritta allo svolgimento di una funzione processuale; oppure se ciò sia smentito proprio in ragione della esistenza della fattispecie di intralcio alla giustizia, nel cui ambito viene ad esaurirsi la intera tutela penale dei fatti di sterile istigazione corruttiva e coercitiva.
Ad ogni modo, la preliminare definizione delle due aree in cui è, rispettivamente e pacificamente, esclusa o ammessa la contestuale qualifica di pubblico ufficiale ci consente di affrontare la questione se realmente il soggetto chiamato a rendere una testimonianza, e quindi potenziale autore del reato di cui all’articolo 372 del codice penale, sia, per effetto del pertinente provvedimento autorizzativo, un pubblico ufficiale; e se possa, ad ammettere tale qualifica, davvero rendersi responsabile anche del reato di corruzione in atti giudiziari.
Il raccordo con la qualifica pubblicistica e quindi con il predetto reato di corruzione è affidato al canone secondo cui il testimone, in quanto soggetto che partecipa alla formazione della volontà del giudice e quindi all’esercizio della funzione giudiziaria, riveste la qualifica di pubblico ufficiale sin dal momento dell’autorizzazione del giudice alla citazione[17].
4. – Rapporti tra la Corruzione in atti giudiziari e Intralcio alla giustizia. Muoviamo da un rapido cenno alla struttura del reato di corruzione in atti giudiziari, previsto dell’articolo 319 ter, solo per sottolineare che esso si realizza allorquando i fatti di corruzione di cui agli articoli 318 e 319 siano commessi “per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo”.
In quanto replica potenziata dei tipici reati di corruzione, tale reato si perfeziona, analogamente alle ipotesi di cui agli artt. 318 e 319, nel momento e nel luogo in cui viene concluso il pactum sceleris; oppure allorquando venga erogata la dazione o fatta la promessa di dazione nella ipotesi di corruzione giudiziaria susseguente[18].
Il compimento dell’atto da parte dell’intraneus, quindi, non fa parte della struttura del reato, fatta salva la ipotesi della corruzione susseguente, strutturalmente destinata a delinearsi solo in seguito al compimento dell’atto.
In termini più generali, nelquadro del reato di cui all’articolo 319 ter viene in rilievo qualsiasi atto che sia funzionale alla decisione del giudice, con particolare riferimento agli atti che, posti in essere nel contesto del processo ed in violazione degli obblighi di legge, abbiano attitudine a inquinare la corretta ricostruzione e valutazione del fatto di causa.
L’offesa, nel delitto in esame, si incarna sulla compravendita o meglio sull’accettazione di compensi da parte di chi deve compiere un atto attinente a un processo ed idoneo almeno potenzialmente a determinare vantaggi o danni per una delle parti del processo. Ed è proprio il pericolo che la corretta e puntuale esplicazione dell’attività giudiziaria possa essere minata da attacchi insidiosi, quali senz’altro sono gli accordi corruttivi, che ha indotto il legislatore a configurare come più grave fattispecie autonoma di reato la corruzione in atti giudiziari.
L’atto “giudiziario” ha quindi un rilievo centrale nella fattispecie in esame. Con tale termine si designano tutti gli atti che, per contesto di svolgimento e finalità specifiche, possono influire sul processo. Si spiega quindi perché la giurisprudenza, dando rilievo alla gravità sociale del reato e alla necessità di approntare una rigorosa tutela alla ricerca della verità ed al corretto svolgimento dell’attività giudiziaria, abbia optato per un’interpretazione ampia del termine “atti giudiziari”, facendovi confluire tutti quegli atti la cui conoscenza è indispensabile per il magistrato al fine della emissione di una serena, corretta e legale pronuncia e così rendere giustizia a chi la deve avere.
A questo punto, per meglio definire i precisi rapporti tra intralcio alla giustizia, istigazione alla corruzione e corruzione giudiziaria occorre ribadire e mettere in netto rilievo la circostanza che il reato di intralcio alla giustizia si si realizza “anche” nella ipotesi in cui l’offerta di denaro sia accettata “ma la falsità non sia commessa”.
Vi rientra, quindi, un fatto che, proiettato sul versante dei reati di corruzione ed ove fosse indubbia, e comunque specificamente, rilevante la qualità di pubblico ufficiale del destinatario della condotta corruttiva, integrerebbe di per sé solo il reato di corruzione in atti giudiziari.
5. – Sui rapporti tra Corruzione in atti giudiziari e Falsa testimonianza. Qualcosa però stride, perché nella dominante esegesi del reato di corruzione in atti giudiziari si mette in rilievo che tale reato viene a realizzarsi allorquando alla promessa o alla dazione di denaro rivolta al teste-pubblico ufficiale, e da questi accettata, faccia seguito la falsa testimonianza per favorire una parte del processo penale[19].
Si è quindi al di fuori dell’usuale paradigma del reato di corruzione, che si perfeziona per il sol fatto dell’accordo e non richiede il compimento dell’attività inerente all’ufficio, assolutamente estraneo alla struttura della fattispecie.
Nell’ipotesi in cui l’atto giudiziario consista in una falsa testimonianza verrebbe, quindi, a determinarsi un corposo intreccio tra l’intralcio alla giustizia e la corruzione in atti giudiziari, per effetto del quale la prima fattispecie condiziona l’ambito di configurabilità della seconda e ne circoscrive la rilevanza alle ipotesi in cui la falsa testimonianza sia stata resa: e quindi allorquando sia compiuto l’atto di ufficio fine o causa del patto corruttivo. Sicché in tale specifico ambito si realizza una frattura nel generale e tradizionale impianto del reato di corruzione antecedente, posto che è ormai indiscusso, si ribadisce, l’orientamento secondo cui “dal momento consumativo del delitto di corruzione esula l’effettivo compimento dell’atto — tanto che il reato si consuma anche se il pubblico ufficiale non faccia seguire alla promessa o alla ricezione dell’utilità l’atto che si è impegnato a compiere[20].
Nel quadro della dominante ricostruzione giurisprudenziale dei rapporti tra intralcio alla giustizia e corruzione in atti giudiziari, la falsa testimonianza viene a costituire, nel contempo, il fattore che dà vita alla corruzione in atti giudiziari ed il fatto che configura l’ulteriore reato previsto dall’articolo 372 del codice penale[21].
La conclusione, ci sembra e come già rilevato, stride all’interno della tradizionale struttura dei reati di corruzione[22] e forse deve indurre a rimeditare le premesse esegetiche da cui trae origine.
Siffatta peculiarità, peraltro, genera l’ulteriore interrogativo se ed in che misura la eventuale inutilizzabilità della testimonianza, atto reputato necessario per il realizzarsi della corruzione, si rifletta su quest’ultimo reato.
La questione, che forse si può porre anche con riguardo ai c.d. testimoni assistiti[23], di certo si pone con riguardo alla testimonianza resa da soggetti che, pur non essendo mai stati indagati, si trovavano comunque in una posizione per la quale avrebbero dovuto esserlo; e quindi non potevano essere sentiti senza la presenza di un difensore[24].
Si ritiene infatti che in tali ipotesi la inutilizzabilità della deposizione testimoniale, discendendo dalla erronea citazione come teste di un soggetto che avrebbe dovuto essere sentito come teste assistito o come indagato, incida sulla stessa possibilità di configurare sia la falsa testimonianza che la corruzione in atti giudiziari[25].
In particolare si sottolinea come la falsa testimonianza possa essere commessa solo da colui che rivesta legittimamente la qualità di testimone; e che è esclusa, dall’articolo 384, comma 2, c.p., la configurabilità della falsa testimonianza nella ipotesi in cui le dichiarazioni false siano state rese da un soggetto che non poteva rivestire tale qualità, perché sostanzialmente raggiunto da indizi per il reato per cui si procede o per altro ad esso connesso[26].
Il ragionamento, nella costruzione più volte richiamata, è lineare: la corruzione in atti giudiziari sussiste solo quando il soggetto corrotto sia un pubblico ufficiale; per giurisprudenza costante, la persona che testimonia assume la qualifica di pubblico ufficiale; è compito del giudice, chiamato ad accertare la fattispecie corruttiva, verificare se il dichiarante, che si assume essere stato corrotto, sia stato o meno correttamente qualificato come testimone.
Se le persone chiamate a rendere dichiarazioni andavano correttamente qualificate come indagate di reato connesso e non testimoni, non solo non è configurabile il delitto di falsa testimonianza ma neppure il reato di corruzione in atti giudiziari, mancando, nel contempo, sia la qualità di pubblico ufficiale (nella specie: testimone) in capo al “corrotto” sia un atto giudiziario utilizzabile: e quindi per difetto di un essenziale elemento costitutivo (o presupposto) del delitto corruttivo[27].
6. – Spunti per una diversa ricostruzione: il ruolo centrale ed esaustivo del reato di Intralcio alla giustizia. Si è già visto come la fattispecie di intralcio alla giustizia contempla fatti di istigazione corruttiva con diversi destinatari ed a partire dal momento in cui i predetti, per effetto di un atto di correlazione, anche prospettica, con determinati ruoli processuali, assumano la specifica qualifica soggettiva di soggetti chiamati a rendere dichiarazioni in predeterminati contesti procedimentali o di soggetti chiamati, sempre nei medesimi contesti, a svolgere gli incarichi di periti, consulenti tecnici nel processo civile ed interpreti. E si è visto come tra i soggetti destinatari ve ne siano alcuni considerati “anche” pubblici ufficiali ed altri che non possiedono tale qualifica.
Altresì va rilevato come la schiera dei destinatari della istigazione registra l’assenza dei consulenti tecnici sia del pubblico ministero che delle parti private nel processo penale, posto che, coordinata con la formulazione della fattispecie di cui all’articolo 373 c.p. (falsa perizia o interpretazione) la locuzione “consulente tecnico”, che figura accanto a quella di perito, designa i soli consulenti tecnici del giudice nel processo civile.
Proprio in relazione a tale lacuna si è posta, come già rilevato, la questione di quale sia la appropriata qualificazione del fatto di istigazione non accolta rivolta al consulente tecnico del pubblico ministero. E in tale prospettiva si è inizialmente sostenuto che siffatta condotta, ove realizzata dopo la nomina ma prima che il consulente fosse “chiamato a rendere dichiarazioni”, fuoriesca dall’ambito della fattispecie di intralcio alla giustizia e vada inquadrata, atteso lo status di pubblico ufficiale del consulente tecnico, nella più generale fattispecie della istigazione alla corruzione in atti giudiziari, ex art. 322 c.p..
L’interpretazione è stata in seguito disattesa da parte della giurisprudenza di legittimità, sulla base dell’argomento secondo il quale per tale via si perverrebbe alla irragionevole conseguenza di punire l’istigazione alla falsa consulenza tecnica, rivolta ad un consulente che non abbia ancora assunto la qualifica di testimone (o qualifiche equipollenti), in modo più severo di quanto previsto per le affini ipotesi di subornazione: di un perito o di un consulente tecnico d’ufficio del giudice civile; di un consulente di parte o di un consulente del pubblico ministero già ammesso a deporre in dibattimento.
Trattandosi di episodi connotati da un analogo disvalore giuridico penale, si è rilevato che non risulta giustificata, sul piano della costituzionalità, una simile disomogeneità nel trattamento sanzionatorio e di conseguenza appare più corretto e ragionevole ricondurre anche la istigazione alla falsa consulenza tecnica nell’ambito della fattispecie di intralcio alla giustizia.
Tale soluzione, come già visto, ha ricevuto l’avallo delle sezioni unite[28], le quali hanno affermato[29], sul presupposto del rapporto di specialità tra intralcio alla giustizia ed istigazione alla corruzione e per dare atto della sussistenza anche in tal caso dei requisiti costitutivi dell’intralcio alla giustizia (tra i quali il provvedimento che convoca per la deposizione), che sin dall’atto di nomina il consulente tecnico è ontologicamente destinato ad assumere la veste di ” persona informata- testimone” ex artt. 371-bis o 372 c.p., in quanto prevedibile sviluppo processuale della funzione a lui assegnata con tale atto di nomina.
Gli interventi del giudice di legittimità e del giudice delle leggi sembrano, quindi, avere considerato la fattispecie di intralcio alla giustizia l’unica norma che si propone di tutelare in via anticipata la veridicità e correttezza di determinati apporti processuali; e quindi avere considerato che siffatta tutela, in quanto radicata sulla necessità di esclusiva protezione di determinati atti processuali, fosse insensibile alla ulteriore ed eventuale qualifica di pubblico ufficiale posseduta dai destinatari della istigazione.
In altri termini, si è ritenuto che la predetta norma esaurisse il significato offensivo dei fatti di sterile istigazione, cioè non seguita dalla commissione del reato scopo, e non fosse consentito, per la coesistenza tra i destinatari della condotta di pubblici ufficiali e soggetti privati, distinguere tra i medesimi e ritenere che la predetta norma cedesse il passo alla istigazione alla corruzione nel caso di istigazione rivolta ad un soggetto che fosse anche pubblico ufficiale.
E qui occorre esplicitare quanto implicito in ciò che si è detto finora con riguardo al concetto di istigazione, adoperato sia per descrivere la fattispecie del 377 sia per descrivere quella di istigazione alla corruzione ai sensi dell’articolo 322.
Nel quadro di quest’ultima fattispecie, il concetto di istigazione designa solo le ipotesi in cui il pubblico ufficiale non accetti la offerta o promessa di denaro ed altra utilità; nell’ambito della fattispecie di intralcio alla giustizia, per contro, l’istigazione si appunta verso la commissione di determinati reati, si avvale, a tal fine, della offerta o promessa di denaro o altra utilità e rimane una istigazione sterile non solo quando la offerta o la promessa non siano accettati ma anche nella ipotesi in cui esse siano accettare e il reato scopo non sia comunque commesso.
Nell’intralcio alla giustizia, quindi, la condotta del destinatario della istigazione può coincidere con quella che darebbe vita all’ipotetico reato di istigazione alla corruzione (quando rifiuta l’offerta o promessa di denaro) ma può anche andare oltre e consistere nella accettazione di tale offerta o promessa, finendo in tal modo con il coincidere con il versante passivo del reato di corruzione consumata.
In altri termini, al reato di intralcio alla giustizia non interessa il diverso grado di sensibilità ed accondiscendenza alla offerta o promessa di denaro: ciò che interessa, per discriminare tale reato dagli illeciti scopo, è se l’istigazione alla infedeltà processuale abbia o no avuto successo. Il che ha il senso di dire che l’intero reato di intralcio alla giustizia, in relazione a tutti i soggetti destinatari della istigazione, rimane il medesimo sia quando l’offerta o la promessa di denaro non sia stata accettata sia quando essa sia stata accettata ma il reato scopo non sia stato commesso.
Ne deriva che il reato di intralcio alla giustizia esclude la configurabilità sia dell’astrattamente ipotizzabile reato di istigazione alla corruzione sia di quello di corruzione consumata reato[30].
7. – Intralcio alla giustizia e testimone-pubblico ufficiale: un binomio poco plausibile. A questo punto occorre capire fin dove arriva la efficacia di tutela esclusiva dell’intralcio alla giustizia; e cosa significhi la pacifica sua applicabilità solo se l’atto giudiziario contaminato dalla istigazione corruttiva non venga commesso.
E per procedere in questa direzione diviene necessario ipotizzarne il compimento e chiedersi se in tale ipotesi scompaia ogni traccia della fattispecie dell’intralcio alla giustizia e trovi applicazione solo il reato processuale commesso, ovviamente nella versione plurisoggettiva.
Certo, l’interrogativo può sembrare retorico, perché si è già visto come nella impostazione accreditata dalla giurisprudenza della suprema corte l’atto giudiziario compiuto in esito al positivo effetto della istigazione corruttiva dà vita, nel contempo, allo specifico reato processuale ed al reato di corruzione in atti giudiziari. Lo si è già visto e si sono anche sottolineati gli inconvenienti, primo dei quali quello di una corruzione che, quasi per lo scampato pericolo di essere già ravvisata sulla base degli ingredienti dell’intralcio alla giustizia (istigazione accolta), riemerge in un secondo momento e con un vestito che, inevitabilmente, deve avere qualcosa di più di quello che connota l’intralcio alla giustizia: appunto il compimento dell’atto di infedeltà processuale.
Anche in questo caso possono delinearsi due opposte prospettive.
La prima, sulla scia dei connotati di specialità ed esclusiva applicazione dell’intralcio alla giustizia, riscontrerà analogo connotato nelle fattispecie di falsità giudiziali alla cui realizzazione era preordinato l’intralcio alla giustizia e ne farà le uniche norme applicabili in esito al fruttuoso epilogo della istigazione corruttiva.
La seconda ammette il concorso di tali delitti con la corruzione in atti giudiziari dell’art. 319-ter, sul presupposto che questa fattispecie abbia una latitudine applicativa che non è circoscritta solo ai soggetti che esercitano le funzioni giurisdizionali ma comprende ogni soggetto che, per la funzione esercitata, dia un contributo al processo ed al suo epilogo[31].
Inutile tergiversare: la questione di base è se davvero siano pubblici ufficiali, e rilevino come tali, quei soggetti che, del tutto estranei all’apparato organizzativo della pubblica amministrazione e in nessun modo chiamati a svolgere, sulla base di variegati atti di legittimazione o investitura, atti dotati di contenuto ed efficacia pubblicistica, vengano coinvolti in un procedimento giudiziario in quanto in possesso o di una peculiare competenza tecnica o di un bagaglio informativo utile per la ricostruzione dei fatti sub judice.
E’ noto come sia ormai consolidata la tendenza a riscontrare qualifiche pubblicistiche in ogni soggetto privato che sia chiamato, in un frammentario contesto della sua esperienza di vita e comunque lavorativa, a svolgere compiti, compreso il prelievo del denaro, riconducibili alle tradizionali prerogative degli organi pubblici. Tendenza che mette quindi capo alla creazione di una sorta di “diaconato” del pubblico impiego, la cui origine si colloca a cavallo tra la interpretazione soggettiva ed oggettiva della nozione di pubblico ufficiale e che si pone in faticoso rapporto con il principio di prevedibilità, perché non è affatto ragionevole ipotizzare che soggetti del tutto estranei alla struttura e al dinamismo funzionale dei pubblici poteri, come accade al comune soggetto chiamato a testimoniare, siano consapevoli del peculiare contesto normativo che, per come inteso nell’esperienza giudiziaria, assicura la protezione penale del pubblico ufficiale offeso e la repressione penale del pubblico ufficiale infedele nei variegati e tipizzati atti di infedeltà; e quindi possa predicarsi a suo riguardo la sussistenza dei fondamentali requisiti di conoscibilità (accessibilità) e prevedibilità della legge e delle conseguenze sanzionatorie di essa[32].
Non è certo questo il luogo per muovere argomentati rilievi critici a tale tendenza. Qui la questione assume un tono minore e ben circoscritto, dovendo appurarsi se realmente il testimone acquisti il contestuale status di pubblico ufficiale per il sol fatto della testimonianza; cui sono poi correlate le due ulteriori questioni di quale sia il momento di acquisto della qualifica pubblicistica, se con l’autorizzazione, oppure con la citazione ovvero ed infine con il giuramento, e quando essa pervenga a cessazione[33].
Sulla complessiva questione vi è in realtà ben poco e quello che si rinviene nei repertori di giurisprudenza, in massima parte inerente all’individuazione dell’atto che genera nel teste l’assunzione della ulteriore qualifica di pubblico ufficiale, si esaurisce, per il resto, nell’assioma che il testimone sia portatore di un dovere di tutela del prestigio e dell’imparzialità della pubblica amministrazione e partecipi, con la sua deposizione, alla formazione della volontà del giudice[34].
Sempre dai pochi elementi a disposizione si ricava che all’approdo che il teste sia anche pubblico ufficiale si perviene sulla base di parametri ad ampio respiro, collocati un uno dei tasselli che compongono il tessuto dell’articolo 357 del codice penale[35] e non condizionati dalla peculiare struttura delle norme incriminatrici che si rivolgono comunque al testimone: o per proteggerlo da atti intesi a comprometterne la specifica funzione processuale; o per punirlo nel caso di falsa testimonianza.
Tirando le fila di quanto detto nei paragrafi precedenti, sembra che invece debba essere proprio quest’ultimo il percorso esegetico da utilizzare. E ciò per la ragione che la struttura ed il contenuto delle specifiche norme incriminatrici che coinvolgono il testimone sono le uniche che debbono trovare applicazione con riguardo alla valutazione e sanzione delle condotte da esse puntualmente ed interamente descritte, sia quando tali condotte contemplano un ruolo passivo del testimone (ricezione della offerta o promessa di denaro) sia quando contemplano condotte attive (realizzazione del reato di falsa testimonianza)[36].
Orbene, si è visto come nella fattispecie incriminatrice dell’intralcio alla giustizia vengono in rilievo distinte figure processuali, alcune delle quali sicuramente prive di qualifiche pubblicistiche (persone informate sui fatti) ed altre ritenute invece in possesso di tali qualifiche[37].
Ciò sta a significare, pare a chi scrive, che la supposta distinzione tra tali figure non assume nessuna rilevanza all’interno della norma di cui all’articolo 377, la quale punisce solo l’autore della istigazione, peraltro in una prospettiva che considera equipollenti le corpose e vestite lusinghe alle rozze minacce, e lo assoggetta ad uno statuto sanzionatorio correlato alle pene edittali comminate per il reato che si proponeva di far realizzare.
Si spiega quindi perché la fattispecie dell’articolo 377 non assegna rilievo decisivo al possesso della qualifica di pubblico ufficiale del destinatario della istigazione. Anche nella ipotesi in cui ciò dovesse realmente riscontrarsi, non muterebbe in alcun modo lo statuto fondamentale della disciplina del fatto e rimarrebbe sempre indiscussa la esclusiva applicazione della predetta fattispecie.
Incidentalmente va rilevato come la tesi che annette la qualifica di pubblico ufficiale al testimone e la nega alle persone informate sui fatti incorre in un corto circuito argomentativo, in quanto le ragioni che pone a base della opzione favorevole al testimone-pubblico ufficiale potrebbero condurre ad analoga conclusione anche con riguardo alle persone informate sui fatti, perché è difficilmente contestabile che anche costoro partecipano alla formazione della volontà del giudice: ed esattamente alla decisione giudiziale di archiviazione[38], rinvio o citazione a giudizio e sentenza di non luogo a procedere[39].
La prospettiva cambia radicalmente, in un modo che ci sembra foriero di una maggiore coerenza sistematica, se si muove dal rilievo, si ribadisce, che la norma incriminatrice dell’intralcio alla giustizia realizzi una tutela esclusiva ed assorbente dei fatti di istigazione a compiere gli atti di falsità processuale ivi contemplati e dia esclusivo rilievo allo status processuale dei soggetti destinatari della istigazione, astraendo completamente dalla questione se tali figure siano anche pubblici ufficiali, per status prescindente dall’impegno processuale o per derivazione dal predetto impegno.
In altri termini, il legislatore con la norma incriminatrice dell’intralcio alla giustizia ha predisposto un duplice assetto di tutela: in primo luogo quello radicato sulla realizzazione del reato scopo, evidentemente nella fattispecie plurisoggettiva comprendente il determinante contributo dell’istigatore[40]; in secondo, ancorché cronologicamente anticipato, luogo quello radicato sull’intralcio alla giustizia, che realizza una sorta di fattispecie plurisoggettiva impropria con punibilità del solo istigatore per la ipotesi che la falsità processuale oggetto della istigazione non venga commessa[41].
In tale prospettiva ben si comprende la circostanza che la fattispecie di intralcio alla giustizia contempla, tra i destinatari delle manovre di prospettico inquinamento probatorio, soggetti processuali idonei ad incidere in diversa modo sul processo e dimensioni la pena per l’istigatore in modo congruo rispetto allo specifico disvalore dei divisati fatti di inquinamento, prevedendo appunto che il predetto istigatore sia punito, e solo lui, con la pena prevista per i delitti scopo ridotta dalla metà a due terzi.
E difatti la dottrina che ha scandagliato la fattispecie di intralcio alla giustizia ha messo in decisivo rilievo, con specifico riguardo alla istigazione alla falsa testimonianza, che, in difetto della commissione di tale reato, il potenziale testimone, che ha accettato la promessa o l’offerta, non commette alcun atto dotato di rilevanza penale: «qualora l’offerta o la promessa siano accettate dal subornato al fine di commettere il falso processuale per favorire o danneggiare una parte del processo, ma il falso non sia commesso, pur essendo astrattamente prospettabile la corruzione in quanto perfezionatasi con l’accettazione della retribuzione, si applica il solo reato di cui al c. 1 (cioè l’intralcio alla giustizia) e quindi chi ha accettato la promessa o l’offerta non risponde di alcun reato»[42].
In un contesto così delineato, sembra quindi che facciano difetto le basi essenziali per il configurarsi della corruzione in atti giudiziari nella promessa o dazione di denaro ad un teste, non importa se prima o dopo la falsa deposizione e senza che venga in rilievo, per escludere a posteriori tale reato, la eventuale inutilizzabilità della testimonianza. E lo stesso vale per le altre contemplate figure processuali, che nella prospettiva della norma vengono esclusivamente in rilievo per il contingente e circoscritto ruolo processuale coessenziale alle variegate qualifiche che assumono, a prescindere dalla questione se tali figure, in altre fattispecie incriminatrici (per esempio minaccia ad un teste nell’atto in cui rende la deposizione) possa venire in rilievo anche, ove ritenuta sussistente, la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio[43].
[1] Sez. 6, n. 10129 del 20/01/2015, Lattanzi, Rv. 262906. Tale norma, in particolare ed insieme alla contigua norma di cui all’articolo 377bis c.p., provvede alla repressione di condotte che realizzino il pericolo (377) o l’effetto (377 bis) di inquinare le prove dichiarative da assumere nel corso di un processo. In sostanza si tratta di previsioni delittuose preordinate ad impedire che determinati soggetti, coinvolti nel processo di formazione delle prove e a tal fine chiamati a comparire dinanzi alla autorità giudiziaria, dichiarino il falso o si astengano dal rendere dichiarazioni.
[2] Per effetto di una importante sentenza delle sezioni unite la qualità di “persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria” si assume nel momento dell’autorizzazione del giudice alla citazione della persona stessa in qualità di testimone, ai sensi dell’art. 468, comma 2, c.p.p. o in qualità di perito o interprete – (Sez. un., 30 ottobre 2002, n. 37503 V.). La tesi è comunque controversa, come si avrà modo di constatare nelle pagine seguenti.
[3] Ciò per la determinante ragione che in tal caso subentra la realizzazione concorsuale dello specifico e divisato reato di falsità in giudizio, con punibilità di entrambi i soggetti o soltanto del determinatore nel caso in cui la falsità processuale sia stata realizzata per minaccia o violenza integrante gli estremi dello stato di necessità o la fattispecie di cui all’articolo 46 (costringimento fisico a commettere un reato).
Come hanno osservato le Sezioni Unite, “sotto la rubrica di “intralcio alla giustizia”, l’art. 377 cod. pen. configura, al comma 1, come reato l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità, non accettata, per commettere taluni delitti contro l’amministrazione della giustizia: derogando, con ciò, al generale principio per cui l’istigazione non accolta a commettere un reato non è punibile (art. 115 cod. pen.)” (Sez. U, n. 51824 del 25/09/2014, Guidi, Rv. 261187).
[4] Cenni sul reato di cui all’articolo 377 bis c.p. . Si tratta di un reato introdotto nel 2001, la cui finalità è quella di garantire che i soggetti titolari della facoltà di non rispondere (concorrenti nel medesimo reato, imputati di reati connessi chiamati a rendere dichiarazioni ai sensi dell’articolo 210 del codice di procedura penale) non subiscano illeciti condizionamenti in ordine al se e come avvalersi di tale facoltà. In particolare, la norma, che si applica in via sussidiaria e ove non si riscontri un più grave reato, prevede il fatto di chiunque, con violenza o minaccia, o con offerta o promessa di denaro o di altra utilità, induce a non rendere dichiarazioni o rendere dichiarazioni mendaci la persona chiamata a rendere davanti alla autorità giudiziaria dichiarazioni utilizzabili in un procedimento penale, quando questa ha la facoltà di non rispondere.
La suddetta norma, quindi, persegue lo scopo di contrastare gli inconvenienti derivanti da un possibile uso strumentale e insidioso della facoltà di tacere e perfino di mentire davanti all’autorità giudiziaria, facoltà derivante dagli articoli 63 e 64 c.p.p. (oltre che dai precetti ad esso “collegati”, come l’art. 210 c.p.p.).
La condotta costitutiva del reato consiste in una induzione posta in essere, tramite mezzi coercitivi (minaccia o violenza) e mezzi corruttivi (offerta o promessa di denaro o altra utilità), nei confronti di un soggetto che, pur essendo stato chiamato a rendere dichiarazioni avanti alla autorità giudiziaria, sia titolare del diritto di astenersi dal renderle. Il reato si consuma nel momento in cui il destinatario della induzione, proprio per effetto di tale induzione, renda la dichiarazione mendace o oppure scelga di non rendere alcuna dichiarazione.
Sotto tale aspetto la fattispecie in esame, inverando il pericolo di inquinamento probatorio, diverge dal reato di intralcio alla giustizia, previsto dall’articolo 377, che ha natura di reato a consumazione anticipata e si contrassegna per il dolo specifico di essere finalizzato a far commettere alcuni tipici reati di falsità in giudizio.
Anche in questo caso, come può evincersi dalla formulazione della norma incriminatrice, la condotta di induzione deve dirigersi nei confronti di un soggetto che versi nella peculiare posizione di “chiamato a rendere dichiarazioni davanti alla autorità giudiziaria” e sia, nel contempo, titolare del diritto di non rispondere.
Il soggetto indotto, quindi, deve avere un particolare status processuale, che, per essere connotato dal diritto di non rispondere, non coincide con quello di testimone e si identifica nella peculiare posizione di imputato, coimputato e imputato di reato di connesso, chiamati a rendere dichiarazioni sul fatto altrui (al riguardo assumono preminente rilievo le norme di cui agli articoli 197 bis e 210 codice di procedura penale).
Al riguardo si è precisato (cass., sez. 6, Sentenza n. 45626 del 25/11/2010 Ud. (dep. 29/12/2010) Rv. 249321 – 01) che in tale categoria <<vanno inclusi – ma senza alcuna pretesa di esaustività – le persone dell’imputato, del coimputato e dell’imputato in reato connesso (art. 12, lett. a) e c) che rendano dichiarazioni sul fatto altrui, nei cui confronti trova applicazione l’art. 500 c.p.p., comma 5, non a caso richiamato dall’art. 210 c.p.p., comma 6. Persone che, proprio in forza del precetto dell’art. 63 c.p.p. (inteso nella sua dimensione statica) costituiscono il paradigma per il riferimento soggettivo della norma in esame. Vanno, dunque, esclusi – sia detto per inciso – non soltanto tutte quelle persone il cui dovere di (non NDR) rendere dichiarazioni non derivi dal ruolo processuale da esse rivestito, ma da concrete situazioni di fatto collegate o all’esercizio del diritto di difesa (v. art. 198, comma 2) o a tutele di diverso tipo (v. artt. 199, 200 e 201)… ma anche coloro nei cui confronti trovi applicazione l’esimente (ovviamente) di diritto sostanziale nelle ipotesi indicate dall’art. 384 c.p., i testimoni c.d. assistiti ai quali, sul piano sostanziale è riferibile la previsione dell’art. 377 c.p. e dell’art. 372 c.p. da quella richiamata, in caso di concorso del subornato.>>
Tale tesi non è comunque pacifica, in quanto alcuni autori ritengono che la norma in esame possa comprendere anche la facoltà di non rispondere riconosciuta ad alcuni testimoni (per esempio, i prossimi congiunti, in relazione all’articolo 199 c.p.).
[5] A tal fine si richiede che l’offerta o la promessa dell’utilità da parte del privato istigatore abbia connotati di concretezza (tra tante, Sez. 6, n. 4113 del 14/12/2016, Rv. 269737; sez. 6, Sentenza n. 38920 del 01/06/2017, 271037 – 01).
[6] Dottrina e giurisprudenza hanno a lungo discusso in merito alla natura giuridica della fattispecie di non punibilità in esame.
Secondo una prima impostazione, che potremmo definire tradizionale, l’art. 384, primo comma, cod. pen., rappresenterebbe una causa che esclude l’antigiuridicità del fatto, essendo la stessa riconducibile ad una ipotesi speciale dello stato di necessità di cui all’art. 54 cod. pen., sia pure con connotazioni e sviluppi applicativi autonomi rispetto ai presupposti in presenza dei quali può riconoscersi la sussistenza del vero e proprio stato di necessità, del quale, in buona sostanza, rappresenterebbe una species.
In tale prospettiva, la norma viene considerata quale causa di esclusione dell’antigiuridicità che mirerebbe a bilanciare fra loro due esigenze contrapposte: da un lato, la prevenzione dei reati contro l’amministrazione della giustizia, e, dall’altro, l’onore e la libertà del soggetto deponente o la salvaguardia dell’istituzione familiare.
La tesi è stata riproposta anche da recente dottrina (Consulich, lo statuto penale delle scriminanti, Giappichelli), la quale ha cura di precisare come non colga nel segno l’obiezione secondo cui la qualificazione della norma come scriminante aprirebbe la strada all’estensione della non punibilità anche a eventuali concorrenti, come ad esempio l’istigatore della falsa testimonianza, in contrasto con la lettera della legge. Si rileva al riguardo che la natura personale di alcune giustificazioni (per tutte: l’uso legittimo delle armi di cui all’art. 53 c.p.) è pacificamente ammessa, sicché tra queste ben potrebbe essere inserita anche la disposizione in analisi, che richiede un pregiudizio in proprio per l’agente oppure per un suo prossimo congiunto, escludendo dall’esenzione ogni altro soggetto.
Per un ulteriore indirizzo saremmo in presenza di una causa di esclusione della sola punibilità, a fronte di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole.
Per altro indirizzo, la norma integra una causa di esclusione della colpevolezza basata sul principio di inesigibilità di contegni giuridici autolesivi. Si tratta, in particolare, di una scusante, fondata non sul bilanciamento di interessi fra loro in contrasto ma sulla riconosciuta rilevanza della peculiare condizione soggettiva dell’autore del fatto antigiuridico, posto dinnanzi ad un conflitto interiore fra l’obbligo giuridico di collaborare con la giustizia, da un lato, e l’istinto di autoconservazione o il dovere morale di tutelare la propria vita familiare, dall’altro.
In particolare si rileva (Brunelli, Il diritto penale delle fattispecie criminose, Giappichelli, terza edizione, p. 338.) che la norma di cui al 384, analogamente a quella dello stato di necessità, è da correlare all’anormalità della situazione oggettiva o supposta in cui si è formata la decisione di commettere il fatto, che non lasciava ragionevolmente alternative: la realizzazione criminosa non rivela quindi un atteggiamento anti doveroso e disallineato rispetto ai valori dell’ordinamento.
Nello stesso senso è orientata una parte della giurisprudenza, la quale espressamente contrappone l’art. 384 co. 1, quale norma che prevede una causa di esclusione della colpevolezza, all’ art. 54, quale norma che prevede una causa oggettiva di esclusione della antigiuridicità.
Tale indirizzo esegetico ha trovato recentissima conferma nella decisione delle sezioni unite n. 10381 del 2021, con la quale si è incisivamente asserito che la previsione in esame costituisce una causa di esclusione della colpevolezza, meglio una “scusante” soggettiva.
Essa, in particolare, rientra tra le ipotesi in cui l’agente pone in essere un fatto antigiuridico, agendo anche con dolo, nella consapevolezza di violare la legge, e in cui l’ordinamento si astiene dal muovergli un rimprovero, prendendo atto che la sua condotta è stata determinata dalla presenza di circostanze peculiari, che hanno influito sulla sua volontà, sicché non si può esigere un comportamento alternativo.
Il riconoscimento all’esimente in parola della natura di scusante a struttura soggettiva, quindi che investe direttamente la colpevolezza, ha delle importanti ricadute sul piano ermeneutico quando si va a verificarne l’applicabilità ai casi non espressamente considerati ed in conformità alla prospettiva, ormai dominante, secondo cui: a) il divieto di analogia non ha un carattere assoluto, nel senso che sia rivolto tanto alle norme penali incriminatrici, quanto alle norme di “favore”, funzionale ad assicurare la certezza del comando penale; b) esso è finalizzato ad assicurare, più che la certezza, l’esigenza di garantire le libertà del cittadino, libertà che vengono messe in pericolo se si riconosce al giudice il potere di applicare analogicamente – in senso sfavorevole – norme incriminatrici, mentre un tale pericolo non ricorre in presenza di una applicazione di norme di favore ed a condizione che la norma di favore non configuri una legge eccezionale .
Per le sezioni unite non vi sono ostacoli all’ipotizzata applicazione analogica, in quanto è pacifico che non abbiano carattere eccezionale le cause di giustificazione e quelle di esclusione della colpevolezza.
Ciò vale in generale per le scusanti soggettive, che costituiscono espressione di un principio generale dell’ordinamento in quanto investono la colpevolezza ed impediscono la punizione in presenza di una condotta che viene percepita come inesigibile. E ciò vale in particolare per l’esimente in questione, che costituisce manifestazione di un principio immanente al sistema penale, quello cioè della “inesigibilità” di una condotta conforme a diritto in presenza di circostanze particolari, tali da esercitare una forte pressione sulla motivazione dell’agente, condizionando la sua libertà di autodeterminazione.
[7] Per la suprema Corte (Sentenza n. 18110 del 12/03/2018) l’esimente configurata dall’art. 384 cod. pen., in quanto connessa alla particolare situazione soggettiva in cui viene a trovarsi l’agente, che rende inesigibile un comportamento conforme alle norme indicate al comma primo dello stesso art. 384, è applicabile soltanto a chi compie materialmente l’azione tipica e non si estende ai concorrenti nel reato in concreto commesso dal soggetto non punibile.
La suddetta interpretazione solleva qualche dubbio, in relazione alla eventualità che la falsa testimonianza sia concertata da soggetti indistintamente nella posizione di prossimi congiunti e poi attuata solo da colui che, unico tra tutti, sia stato chiamato a deporre. Ad ogni modo la questione si stempera nella ormai consolidata prospettiva secondo cui la esimente in questione non si applica nella ipotesi in cui il prossimo congiunto, debitamente informato, non si avvalga della facoltà di non deporre (sezioni unite, sentenza n. 7208 del 2008).
[8] Si ritiene pacifico che rivestano tale qualifica il perito, il consulente tecnico nel processo civile e l’interprete.
[9] In merito, Sez. 6, n. 4062 del 07/01/1999, Pizzicaroli, Rv. 21414.). L’indubbio rapporto di specialità tra le due figure criminose ha costituito lo sfondo su cui si è innescata la questione di quale fosse la appropriata qualificazione penalistica del fatto di istigazione corruttiva rivolta al consulente del pubblico ministero: cioè un soggetto che, a decorrere dall’atto di nomina, partecipa quale ausiliario all’esercizio della funzione giurisdizionale e quindi rivesta la qualifica di pubblico ufficiale (da ultimo, Cassazione, n. 18521 del 13/01/2020).
Come può, sia pure con una certa fatica, rilevarsi dal raffronto tra la norma del 377 e quella del 373, il consulente del pubblico ministero è l’ingombrante assente nella schiera delle figure processuali richiamate dal reato di intralcio alla giustizia, posto che il reato di cui all’articolo 373 c.p., uno dei reati che l’istigatore si propone di far commettere, contempla solo la falsità del perito e del consulente tecnico nel processo civile, perché solo questi sono i soggetti espressamente menzionati nella norma incriminatrice ed ai quali si attaglia la qualifica di periti-ausiliari del giudice.
Sicché, sul presupposto della indubbia qualifica di pubblico ufficiale del consulente tecnico del pubblico ministero, si è dovuto stabilire se l’istigazione a lui rivolta per redigere una falsa consulenza rientrasse nella più grave fattispecie della istigazione alla corruzione oppure, e a che condizioni, potesse farsi rientrare nell’intralcio alla giustizia.
Per un primo orientamento, posto che la norma sull’intralcio alla giustizia contempla altresì la istigazione nei confronti di un soggetto “chiamato a rendere dichiarazioni dinanzi alla autorità giudiziaria”, ne deriva che il consulente tecnico del PM, che non è un perito, non potrà neanche essere considerato soggetto passivo di una subornazione (reato ex 377 c.p.) tutte le volte che il predetto non abbia acquisito lo status di “chiamato a rendere dichiarazioni”. E cioè quando non sia stato ancora citato dal Pm per rendere dichiarazioni o non sia stata autorizzata dal giudice la sua citazione come teste-consulente: e quindi si trovi in quella zona grigia in cui è pubblico ufficiale per via della nomina ma non è ancora teste o persona informata sui fatti per la decisiva ragione che non è ancora stato chiamato dall’autorità giudiziaria a riferire sull’oggetto della sua consulenza.
Da ciò discende, sempre in conformità all’orientamento che stiamo esaminando, che la condotta di colui che istighi il consulente del PM, dietro promessa o offerta di denaro, a falsificare la consulenza, prima però che costui riceva la citazione a comparire, fuoriesce dall’ambito della fattispecie di intralcio alla giustizia (377) e va inquadrata, essendo indubbia la qualifica di PU del consulente a partire dal momento in cui viene nominato, nella più generale fattispecie della istigazione alla corruzione in atti giudiziari, ex art. 322 c.p..
Siffatta interpretazione è stata disattesa in ulteriori decisioni della stessa corte di cassazione, sulla base dell’argomento secondo il quale per tale via si perverrebbe alla irragionevole conseguenza di punire l’istigazione alla falsa consulenza tecnica, rivolta ad un consulente che non abbia ancora assunto la qualifica di testimone o persona da assumere a sommarie informazioni, in modo più severo di quanto previsto per le affini ipotesi di subornazione poste in essere nei confronti: di un perito o di un consulente tecnico d’ufficio del giudice civile; di un consulente di parte o di un consulente del pubblico ministero già ammesso a deporre in dibattimento.
Trattandosi di episodi connotati da un analogo disvalore giuridico penale, si è rilevato che non risulta giustificata, sul piano della costituzionalità, una simile disomogeneità nel trattamento sanzionatorio e di conseguenza appare più corretto e ragionevole ricondurre anche la istigazione alla falsa consulenza tecnica nell’ambito della fattispecie di intralcio alla giustizia.
Si è quindi ritenuto, con orientamento avallato dalle sezioni unite, che tra i soggetti attivi dei reati previsti dagli articoli 371bis e 372, cioè due dei reati contemplati dalla norma sull’intralcio alla giustizia, possa senz’altro rientrare il consulente tecnico, considerato che egli, nonostante non sia qualificabile come “testimone” (nel senso propriamente indicato dall’art. 194 c.p.p.) perché non riferisce su fatti ma esprime valutazioni “ben può affermare il falso o negare il vero, secondo la previsione dell’art. 372 c.p., o rendere dichiarazioni false, secondo quella dell’art. 371-bis c.p., ad esempio tacendo o alterando determinati esiti obiettivi degli accertamenti espletati”.
Come vistosa traccia del non perfetto assetto dei rapporti tra consulente del pubblico ministero e perito rimane la diversa rilevanza penale delle condotte di falsità nell’elaborato peritale. Ed infatti per gli elaborati redatti al consulente trova applicazione la previsione di cui all’art. 479, primo comma, cod. pen., dovendosi, invece, escludere la configurabilità del delitto di falsa perizia (art. 373 cod. pen.) dal momento che il predetto consulente non è equiparabile, nell’attuale sistema processuale, al perito nominato dal giudice.
Per completezza di esposizione si rileva che con la sentenza n. 18521 del 2020 la corte di cassazione ha dichiarato manifestamente infondata la prospettata questione di legittimità costituzionale per contrasto con l’art. 3 Cost. relativamente all’applicazione al consulente tecnico dell’art. 479 cod. pen. piuttosto che dell’art. 373 cod. pen., configurabile nei confronti del perito, escludendo qualsiasi disparità di trattamento sia perché i due reati sono puniti con la medesima pena edittale nel massimo sia perché le due figure di esperti, nel codice di rito, hanno ruoli e funzioni non equiparabili
[10] Il delitto di corruzione antecedente, infatti, si consuma nel luogo e nel momento in cui interviene l’accordo, ossia allorché il pubblico funzionario accetta la retribuzione o la promessa, non richiedendosi che la promessa sia eseguita o che il denaro sia consegnato. Dunque, se la promessa non è seguita dalla dazione o se la ricezione dell’utilità non è preceduta dalla promessa, l’individuazione del momento consumativo sarà assai semplice coincidendo esso, rispettivamente, con la promessa o la dazione. Nel caso in cui alla promessa segua poi l’effettiva dazione del denaro, questa fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna, di conseguenza, il momento consumativo sostanziale del reato.
La consumazione del reato, nella forma antecedente, non esige pertanto che l’attività d’ufficio, per la quale è stato dato o promesso il denaro, venga poi effettivamente compiuta (Cass 4.2.2004, n. 4177, B., CED 227099) trattandosi di un dato assolutamente estraneo alla struttura della fattispecie e che rileva solo sul terreno del dolo, come specifica finalità che deve animare i protagonisti di questa vicenda delittuosa: la condotta tipica, infatti, è il ricevere da parte dell’intraneus, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità oppure accettarne la promessa, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri.
Ed è su tali basi che si colloca, come già rilevato, la questione del concorso tra la corruzione e il reato eventualmente commesso con il compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio. In linea di principio si è affermato che, siccome nella corruzione propria antecedente il compimento dell’atto non è elemento costitutivo del reato, la sua successiva adozione, qualora concreti altra fattispecie di reato, deve essere di regola punita autonomamente, dal momento che il disvalore di tale fatto ulteriore non può ritenersi assorbito nella corruzione stessa, salvo. il riconoscimento del vincolo della continuazione.
In realtà, con riguardo al concorso tra corruzione ed abuso di ufficio parte della dottrina esclude la ammissibilità del concorso in ragione dell’instaurarsi tra le due norme di un rapporto di consunzione (in merito, Pagliaro, Diritto penale, parte speciale).
Nel medesimo senso altri autori (Romano Bartolomeo (1993): La subornazione. Tra istigazione, corruzione e processo (Milano, Giuffrè) osservano che se, di regola, deve ammettersi il concorso di reati tra la corruzione propria e il delitto realizzato dal funzionario-corrotto in esecuzione del pactum sceleris, non si può escludere che, in qualche caso, rispetto a tale condotta, in quanto funzionalmente correlata alla corruzione – come avviene appunto nel caso dell’abuso d’ufficio – possa operare il principio di consunzione; ciò che avverrà quando, secondo una pur implicita valutazione legislativa, in base all’id quod plerumque accidit, il reato più grave assorba l’intero disvalore soggettivo e oggettivo dell’abuso.
Anche la giurisprudenza, sovrapponendo l’azione del funzionario costituita dall’accettazione della promessa o della dazione, con quella, successiva, che concreta l’abuso e dalla quale deriva il vantaggio o il danno per il terzo, sostiene che deve essere escluso, in base al principio di specialità, il concorso formale tra il reato di corruzione propria e quello di cui all’art. 323, perché quando il vantaggio economico del pubblico ufficiale è conseguito in dipendenza dell’erogazione altrui e di un proprio comportamento contrario ai doveri d’ufficio, trova applicazione solo la più grave figura criminosa della corruzione, caratterizzata dalla presenza del soggetto erogatore di un’utilità collegata teleologicamente al comportamento abusivo (Sez. 6, Sentenza n. 4459 del 24/11/2016 Ud. (dep. 30/01/2017 ) Rv. 269612 – 01).
Sempre in giurisprudenza, per contro, è affermata l’ammissibilità del concorso tra la corruzione e l’omissione di atti d’ufficio qualora il funzionario, oltre a ricevere il prezzo della corruzione, ometta effettivamente di compiere l’atto (Cass., Sez. 6, Sentenza n. 5414 del 26/02/1985 Ud. – dep. 28/05/1985 – Rv. 169496 – 01).
.
[11] E cioè i reati, si ribadisce, di false informazioni al pubblico ministero o al procuratore della Corte penale internazionale (371 bis c.p.); false dichiarazioni al difensore (371 ter c.p.); falsa testimonianza (372) e falsa perizia o consulenza tecnica (373c.p.).
[12] E cioè quando si realizza quell’evento che genera la nomina per i periti e la chiamata per tutti gli altri soggetti.
[13] Cfr., per completezza, Sez. 6, Sentenza n. 39280 del 30/05/2018 Ud. (dep. 30/08/2018 ) Rv. 273682 – 01: non vale ad integrare il reato di false informazioni al pubblico ministero, ex art. 371 bis cod. pen., la condotta di colui che non riveli quanto a sua conoscenza alla polizia giudiziaria, ancorché la stessa abbia proceduto alla sua audizione su delega del magistrato titolare delle indagini, atteso che soggetto attivo del reato di cui trattasi è solo chi sia richiesto dal pubblico ministero di fornire informazioni utili ai fini delle indagini (cfr. sez. 5, sent. n. 37306 del 14.07.2010, Rv. 248641).
[14] Per esempio, istigazione di un pubblico ufficiale, tale per inquadramento organico nel sistema della pubblica amministrazione, chiamato a testimoniare, con coinvolgimento, ove la istigazione sia fruttuosa, delle fattispecie criminose del 372 o del 375, ove la accolta istigazione metta capo ad una falsa testimonianza preordinata a sviare le indagini (art. 375 c.p.).
[15] Importanti i rilievi di cui alla sentenza Sez. 6, Sentenza n. 39280 del 30/05/2018 Ud. (dep. 30/08/2018 ) Rv. 273682 – 01: Se risponde a verità, infatti, che tale qualità (cioè la qualità di pubblico ufficiale) compete al testimone, che l’acquista al momento della citazione, conservandola anche successivamente alla sua audizione, sino alla definizione del processo (cfr. Sez. 6, sent. n. 25150 del 03.04.2013, Rv. 256809), siffatto discorso non si attaglia alla persona informata sui fatti. Invero, il testimone contribuisce, con la propria deposizione, alla formazione del convincimento del giudice, da ciò discendendo l’esigenza di tutelarne la libertà di deporre e la sincerità delle dichiarazioni, in ultima analisi, lo stesso prestigio della sua persona (v. in tal senso già Sez. 6, sent. n. 6406 del 10.05.1996, Rv. 205102); il che si correla al disposto dell’art. 357 cod. pen. e dà ragione dell’acquisizione della relativa qualità, in coincidenza con il provvedimento che abbia disposto l’ammissione della prova e comunque la citazione del soggetto indicato (cfr. Sez. 1, sentenza n. 15542 del 16.02.2001, Rv. 219262). Così non è per la persona informata sui fatti, il cui contributo conoscitivo si colloca nella fase delle indagini preliminari, dunque in un momento in cui è ancora fluida l’acquisizione del materiale probatorio, che s’ignora addirittura se condurrà al rinvio a giudizio dell’indagato/imputato Né potrebbe farsi luogo ad un indebito ampliamento della sfera di operatività del disposto dell’art. 357 cod. pen., vigendo in ambito penale il divieto di analogia in malam partem. D’altra parte, è per certo indicativo che non valga ad integrare il reato di false informazioni al pubblico ministero, ex art. 371 bis cod. pen., la condotta di colui che non riveli quanto a sua conoscenza alla polizia giudiziaria, ancorché la stessa abbia proceduto alla sua audizione su delega del magistrato titolare delle indagini, atteso che soggetto attivo del reato di cui trattasi è solo chi sia richiesto dal pubblico ministero di fornire informazioni utili ai fini delle indagini (cfr. sez. 5, sent. n. 37306 del 14.07.2010, Rv. 248641). Mentre sotto altro profilo, ancora diverso, è stato convincentemente affermato che proprio la fattispecie prevista e punita dal succitato art. 371 bis cod. pen. è stata introdotta nell’ordinamento allo scopo di colmare la lacuna derivante dalla mancata previsione della possibilità di perseguire penalmente chi abbia reso dichiarazioni false o reticenti al pubblico ministero (v. Sez. 6, sent. n. 5255 del 17.02.2000, Rv. 216139).
[16] Rilievo, questo, che all’evidenza introduce un elemento di disturbo nel contesto delle argomentazioni, parrebbe elevate a diritto vivente, con le quali, di contro, si riscontra la qualifica di pubblico ufficiale nel testimone.
[17] Sez. U, n. 37503 del 2002, V; Cass. pen., sez. VI, 6 giugno 2019, n. 44896 e, con riguardo al simile reato di cui all’art. 377-bis cod. pen., Sez. 6, n. 45626 del 2010, Z. .
Nella prospettiva che comunque ammette che il teste rivesta anche la qualifica di pubblico ufficiale non sono mancate critiche alla tesi che da discendere la qualifica di pubblico ufficiale dal provvedimento giudiziale di autorizzazione, anche evidenziando come il fatto che sia autorizzata una citazione non significa poi che quel soggetto venga effettivamente ammesso e, citato, venga effettivamente a deporre.
Per completezza si rileva che per cospicua dottrina la lettura sistematica delle norme codicistiche dovrebbe condurre a ritenere che l’assunzione della veste di pubblico ufficiale da parte del testimone avvenga soltanto nel momento stesso della deposizione (rectius: del giuramento) Sul punto: , Così N. Levi, Delitti contro la pubblica amministrazione, in E. Florian (coordinato da), Trattato di diritto penale, Milano, 1953, p. 37, il «testimone acquista la qualità di pubblico ufficiale col primo atto di esercizio della sua funzione […] ed è ovvio che il testimone non esercita alcuna funzione pubblica tra il momento in cui riceve la citazione e quello in cui inizia la deposizione. Ne consegue che il testimone (come il perito, l’interprete, ecc.) acquista la qualità di pubblico ufficiale nel momento in cui presta il giuramento (non per il fatto del giuramento, che in sé stesso è indifferente tanto che non influirebbe la mancanza o la nullità del medesimo, ma perché quello è il primo atto, in cui si concreta l’esercizio della pubblica funzione), ovvero, se non è ammesso a giurare, nel momento in cui dichiara le generalità».
[18] La condotta può assumere le forme della corruzione propria o di quella per l’esercizio della funzione, in ogni caso realizzate “per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo”.
In giurisprudenza e dottrina si è posto il problema, alla luce della formulazione della fattispecie incriminatrice, se il reato di corruzione in atti giudiziari sia configurabile anche nella ipotesi in cui l’illecito compenso venga corrisposto ed accettato dopo il compimento dell’atto ed in un contesto in cui non vi era stato alcun accordo precedente.
La questione ha formato oggetto di un intervento delle sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. U, Sentenza n. 15208 del 2010), in ragione del contrasto esistente nell’ambito della giurisprudenza di legittimità e con riguardo alla posizione della quasi unanime dottrina, fortemente orientata a negare la possibilità della corruzione giudiziaria susseguente.
Le sezioni unite hanno in primo luogo dato atto delle ragioni poste a sostegno dei contrapposti orientamenti, sottolineando come il punto controverso concerna la interpretazione da dare all’inciso “per favorire o danneggiare una parte in un processo”, che figura nello schema descrittivo del reato di corruzione giudiziaria.
Secondo il primo indirizzo, la lettera della norma incriminatrice, nel richiedere che il fatto sia commesso per favorire o danneggiare una parte processuale, individua e tipizza la condotta in modo incompatibile con la prospettiva di un atto già compiuto. Il fine di favorire o danneggiare non può essere disgiunto dalla preesistenza di un accordo corruttivo e deve essere considerato in stretta connessione e quale attuazione di tale accordo.
Quindi la corruzione in atti giudiziaria si realizza solo se la promessa o la dazione precedano l’atto e siano preordinati al suo compimento, con la ulteriore conseguenza che la mera remunerazione di atti pregressi resta fuori dell’area di tipicità del reato di corruzione giudiziaria e configura il diverso e meno grave reato di corruzione ai sensi degli articoli 318 o 319 c.p..
Secondo il contrapposto indirizzo (per tutti sentenze 4 febbraio 2004, n. 23024, D., 28 febbraio 2005, n. 13919, B. e 3 luglio 2007, n. 25418, G. e altro) la tesi sopra indicata non può accogliersi in quanto viene a risolversi in una interpretazione abrogatrice del precetto dell’art. 319 ter, ove viene richiamato, senza distinzione alcuna e per definire i fatti di corruzione giudiziaria, l’integrale contenuto degli artt. 318 e 319 cod. pen..
Il richiamo all’intero contenuto di questi due ultimi articoli impone pertanto l’adattamento della struttura della corruzione in atti giudiziari ad ambedue i modelli della corruzione; e quindi sia a quella antecedente che a quella susseguente.
Sicché ciò che assume rilevanza determinante, e conferisce alla complessiva condotta il suo connotato di tipicità, è il fatto che la promessa o la ricezione siano avvenute per un atto di giurisdizione da compiere o già compiuto per favorire o danneggiare una parte. È l’atto giudiziario che deve essere contrassegnato da una finalità non imparziale, con la conseguenza che l’elemento del dolo specifico, presente nell’ipotesi di corruzione antecedente, viene meno nel caso di corruzione susseguente per essere l’atto già stato compiuto. In questo ultimo caso, la dazione del denaro (o la accettazione della promessa) assume una valenza esclusivamente causale, nel senso che le predette utilità vengono ricevute per (a causa di) un comportamento tenuto in precedenza e finalizzato specificamente a favorire o danneggiare una parte processuale.
Come già rilevato, il suddetto contrasto è stato risolto delle sezioni unite con la sentenza n. 15208 del 2010, che ha aderito, condividendone parte della motivazione, all’indirizzo favorevole alla configurabilità della corruzione giudiziaria nella forma susseguente.
Gli argomenti posti a base di tale decisione possono sintetizzarsi nei seguenti termini.
In primo luogo viene in rilievo la formulazione letterale dell’art. 319 ter cod. pen. che riconnette la sanzione in esso prevista ai “fatti indicati negli artt. 318 e 319”: sicché occorre quindi prendere atto che la fattispecie incriminatrice, formulata con un rinvio puro e semplice alle disposizioni di cui agli artt. 318 e 319 cod. penale, contempla tutti i tipi di corruzione: propria, impropria, antecedente e susseguente.
In secondo luogo si è sottolineato che il fine di arrecare vantaggio o danno nei confronti di una parte processuale va riferito al pubblico ufficiale, poiché è costui che, compiendo un atto del proprio ufficio, può incidere sull’esito del processo: è l’atto o il comportamento processuale che deve, dunque, essere contrassegnato da una finalità non imparziale (non la condotta di accettazione della promessa o di ricezione del denaro o di altra utilità) e l’anzidetta peculiare direzione della volontà è un connotato soggettivo della condotta materiale del pubblico ufficiale, che deve sussistere al momento in cui questi ponga in essere la suddetta condotta (cioè quando compia l’atto che gli è proprio).
Ciò che conta, quindi, è la finalità perseguita al momento del compimento dell’atto del pubblico ufficiale: se essa [per qualsiasi motivo: ad esempio, rapporti di amicizia o di vicinanza culturale o politica; prospettive di vantaggi economici o di benefici pubblici o privati; sollecitazioni della parte interessata o di altri] è diretta a favorire o danneggiare una parte in un processo, è indifferente che l’utilità data o promessa sia antecedente o susseguente al compimento dell’atto, come pure è irrilevante stabilire se l’atto in concreto sia o non sia contrario ai doveri di ufficio.
Nelle ipotesi di corruzione susseguente, l’atto del pubblico ufficiale si inserisce nel contesto di un fatto che non ha ancora assunto rilevanza penale con riferimento al delitto di corruzione (la condotta di falsa testimonianza) e assume tale specifica rilevanza se e quando, successivamente all’atto o al comportamento, egli accetti denaro o altra utilità (ovvero la loro promessa) per averlo realizzato.
In esito a tali elementi ed argomenti le sezioni unite hanno quindi affermato il principio di diritto secondo cui “il delitto di corruzione in atti giudiziari, di cui all’art. 319 ter cod. pen., è configurabile anche nella forma della corruzione susseguente”.
[19] Il reato di intralcio alla giustizia costituisce fattispecie residuale rispetto al reato di corruzione in atti giudiziari, atteso che il primo, si consuma quando la promessa/l’offerta illecita non sia accettata ovvero quando sia accettata ma la falsità non sia commessa e il secondo, viceversa, si integra solo quando, più tardi, il testimone materialmente compia l’atto contrario avente ad oggetto la falsa testimonianza. Sez. 6, Sentenza n. 29400 del 17/05/2018 Ud. (dep. 27/06/2018) Rv. 273620 – 01); Sez. 6, n. 40759 del 23/06/2016, F. Rv. 268091.
In quest’ultima sentenza la Corte, a fronte del ricorso dell’imputato che evidenziava che il delitto previsto dall’art. 377, in quanto reato di pericolo, si realizza con la semplice offerta o con la minaccia, indipendentemente dall’accettazione del soggetto destinatario dell’offerta, e costituisce comunque fattispecie speciale rispetto a quella di cui all’art. 319-ter, afferma “Il reato tutela il corretto svolgimento dell’attività processuale, in relazione a condotte volte a pregiudicare – mediante offerta o promessa di danaro o altra utilità, ovvero violenza o minaccia – la serena acquisizione delle dichiarazioni di soggetti sui quali grava l’obbligo di rispondere (Sez. 6, n. 10129 del 20/01/2015, Lattanzi, Rv. 262906).
L’intralcio alla giustizia presuppone che l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità, volta al condizionamento delle dichiarazioni dei testimoni o delle attività dei soggetti muniti di competenze tecniche da sentire nel processo, “non sia accettata” (comma 1), ovvero che, “qualora l’offerta o la promessa sia accettata”, “la falsità non sia commessa” (comma 2) o ancora, in caso di violenza o minaccia, che “il fine” della subornazione “non sia conseguito”…… Ne discende che, nelle vicende oggetto di contestazione provvisoria, è stata correttamente ravvisata ora la fattispecie all’art. 319-ter cod. pen. (capo A), ora quella di cui all’art. 377 cod. pen. (Capo E), a seconda se la promessa di denaro o altre utilità fosse stata o meno accettata dai testi”.
E’ da dire che non è però chiaro perché si chiami in causa la corruzione in atti giudiziari, a scapito del meno grave reato di intralcio alla giustizia, quando la promessa di denaro o altre utilità sia accettata dai testi, posto che tale eventualità è tutta scritta e contemplata nell’intralcio alla giustizia.
[20] Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 2991 del 26 marzo 1993. Ed è su tali basi che si colloca la questione del concorso tra la corruzione e il reato eventualmente commesso con il compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio.
[21] Sez. 1, Sentenza n. 6274 del 23/01/2003 Cc. (dep. 07/02/2003 ) Rv. 223566 – 01 È configurabile il reato di corruzione in atti giudiziari (art.319-ter) nella dazione di denaro a soggetti che abbiano reso false deposizioni in esecuzione di una pattuizione illecita diretta a favorire una parte del processo civile, in quanto il testimone, che partecipa alla formazione della volontà del giudice, riveste, sin dal momento della sua citazione, la qualità di pubblico ufficiale ex art.357 cod. pen..
[22] Si rileva in dottrina come, rispetto alla struttura impressa sotto la precedente disciplina, che la configurava come “circostanza aggravante” subordinandone l’applicazione all’effettiva verificazione del danno o del favore nei confronti di una parte processuale, l’attuale fattispecie di corruzione in atti giudiziari registra un’anticipazione della soglia di punibilità: non si richiede più il raggiungimento dell’obiettivo, essendo stato relegato il favore o il danno della parte a contenuto del dolo specifico del soggetto agente. Analogamente alle ipotesi di cui agli artt. 318 e 319 il reato di corruzione in atti giudiziari si consuma nel momento e nel luogo in cui viene concluso il pactum sceleris; nell’ipotesi in cui, successivamente all’accordo criminoso, il privato corruttore corrisponda al funzionario corrotto il compenso pattuito, il momento consumativo coinciderà con il ricevimento del denaro o dell’altra utilità. Non è necessario che il favore o il danno della parte si realizzi in concreto, neanche sotto forma di condanna. In altri termini, anche nel delitto in esame al pari delle altre figure di corruzione, il compimento dell’atto da parte dell’intraneus non fa parte della struttura del reato e, quindi, non assume alcuna rilevanza né per la determinazione del momento consumativo né per stabilirne la continuazione: cassazione, sentenza n. 33435 del 2006.
[23] Cioè pregressi indagati, imputati e condannati in procedimenti per reati connessi nella ipotesi in cui, per varie ragioni, il loro esame sia avvenuto senza il rispetto delle prescritte garanzie difensive, che si riassumono nell’obbligo della presenza di un difensore e nel diritto a non rispondere a domande che concernono la responsabilità sui reati per i quali si è proceduto nei loro confronti.
Il punto non è comunque pacifico. Spunti per escludere la inutilizzabilità si rinvengono nell’orientamento, cui aderisce cassazione Sez. 6 – , Sentenza n. 9760 del 26/11/2019, secondo cui “è configurabile il delitto di falsa testimonianza anche nei riguardi di chi, già imputato in procedimento connesso o collegato definito con sentenza irrevocabile, abbia deposto senza la dovuta assistenza del difensore (v. Corte cost., 8 novembre 2006, n. 381; Sez. 6, n. 10235 del 07/02/2007, C, Rv. 235922; in tal senso altresì Sez. 6, n. 16461 05/04/2011, C, non mass.).
Sottolinea la sentenza del 2019 come “la posizione del «testimone assistito», prevista dal comma 2, dell’art. 197- bis cod. proc. pen. non diverge da quella di cui al comma 1, sussistendo per entrambi lo stesso obbligo che impone di testimoniare nei limiti fissati dal comma 4, senza che tale limite faccia venir meno il dovere di rispondere quando invece si verta al di fuori di tale situazione che potrebbero, se del caso, compromettere la posizione del propalante. Di conseguenza, le modalità di svolgimento del relativo mezzo di prova, disciplinate dall’art. 197-bis cod. proc. pen. non ammettono un’interpretazione estensiva delle figure di nullità o inutilizzabilità di tali dichiarazioni assunte in violazione del comma 3 dell’art. cit., norma che prevede l’assistenza del difensore, posto che, come rilevato anche da questa Corte di legittimità, per il principio di tassatività di cui all’art. 177 cod. proc. pen. delle, cause di nullità, è necessaria una specifica previsione di legge, assente nel caso sottoposto a scrutinio. D’altronde, il testimone imputato non assistito dalla difesa tecnica trova la sua specifica tutela nell’art. 197-bis, comma 5, cod. proc. pen. in relazione ad ipotesi di possibile auto ed etero incriminazione”.
In senso opposto sembra muoversi Sez. 2 – , Sentenza n. 7816 del 11/02/2021 Ud. (dep. 26/02/2021 ) Rv. 280686 – 0: sono inutilizzabili le dichiarazioni acquisite nel corso del giudizio abbreviato da soggetto indagato di reato collegato o connesso senza le garanzie previste dall’art. 197-bis cod. pen. (Fattispecie di tentata rapina aggravata e lesioni ai danni di una guardia giurata, a sua volta indagata per lesioni ai danni del ricorrente).
[24] Cass., Sez. Un., n. 33583 del 26.3.2015 – dep. 29.7.2015, Rv. 264479 – In tema di prova testimoniale, il mancato avvertimento di cui all’art. 64, comma terzo, lett. c), cod. proc. pen., all’imputato di reato connesso o collegato a quello per cui si procede, che avrebbe dovuto essere esaminato in dibattimento ai sensi dell’art. 210, comma sesto, cod. proc. pen., determina la inutilizzabilità della deposizione testimoniale resa senza garanzie. Nel medesimo senso, Sez. 2, Sentenza n. 8402 del 17/02/2016 Ud. (dep. 02/03/2016 ) Rv. 267729 – 01 – Le dichiarazioni rese dalla persona che fin dall’inizio avrebbe dovuto essere sentita nella qualità di indagata sono inutilizzabili “erga omnes” e la verifica della sussistenza di tale qualità va condotta non secondo un criterio formale, quale l’esistenza della “notitia criminis” e l’iscrizione nel registro degli indagati, ma secondo il criterio sostanziale della qualità oggettivamente attribuibile al soggetto in base alla situazione esistente nel momento in cui le dichiarazioni sono state rese.
[25] E’ pacifico, infatti, che il giudice del processo per corruzione in atti giudiziari possa ritenere che i soggetti sentiti come testi rivestissero qualifica di persone sostanzialmente indagate alla data delle deposizioni. In sostanza il giudice dispone della prerogativa di riqualificazione soggettiva, ex post, del dichiarante nel processo in cui ha deposto.
[26] Si ricordi che la qualità o meglio la qualificazione soggettiva del dichiarante non dipende dalla “formale” iscrizione della notizia di reato ma dalla emersione “sostanziale” di elementi indicativi del suo coinvolgimento in fatti connessi o collegati. In tema di prova dichiarativa, allorché venga in rilievo la veste che può assumere il dichiarante, spetta al giudice il potere di verificare in termini sostanziali, e quindi al di là del riscontro di indici formali, come l’eventuale già intervenuta iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato, l’attribuibilità allo stesso della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese, e il relativo accertamento si sottrae, se congruamente motivato, al sindacato di legittimità (Sez. U, Sentenza n. 15208 del 25/02/2010 Ud. (dep. 21/04/2010) Rv. 246584 – 01).
[27] Da ultimo cfr. Tribunale di Milano, Sez. VII penale, 15 maggio 2023 (ud. 15 febbraio 2023), n. 2246: “Quello di testimone è un elemento normativo delle fattispecie di corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza. In quanto tale, la qualità di testimone è definita dalle nonne processuali che regolano lo statuto dei dichiaranti. Queste ultime chiariscono che la qualità di testimone non discende esclusivamente dal fatto di essere chiamato a rendere dichiarazioni in un procedimento penale. Ci sono posizioni incompatibili con tale veste: anzitutto quella dell’indagato di reato connesso. Quest’ultimo, peraltro, con l’assistenza di un difensore e nella concorrenza delle due condizioni poste dalla legge (l’avviso ex art. 64, comma 3, lett. e, c.p.p. e la scelta consapevole di non avvalersi del diritto al silenzio) può volontariamente scegliere di assumere l’ufficio di testimone (assistito). Sarà qualificabile come tale solo in relazione alle dichiarazioni concernenti la responsabilità altrui, che saranno sì utilizzabili ma necessiteranno di riscontri.
Con riguardo a eventuali propalazioni sul fatto proprio, il dichiarante rimarrà nella posizione incompatibile con l’ufficio di testimone (anche assistito).
Le disposizioni processuali relative allo statuto dei dichiaranti e all’utilizzabilità e al valore probatorio delle dichiarazioni provenienti dai soggetti che assumono le diverse vesti processuali (testimoni puri o assistiti oppure come indagati/imputati di reato connesso) si saldano strettamente con le norme del diritto penale sostanziale. Quest’ultimo, infatti, si preoccupa di scongiurare fenomeni di contaminazione processuale e, più in generale, condotte tese ad alterare la genuinità del contributo conoscitivo delle persone chiamate a rendere dichiarazioni nel processo. Tuttavia, esso modula diversamente il perimetro della fattispecie incriminatrice e l’asprezza del trattamento sanzionatorio a seconda della qualità della persona chiamata a rendere dichiarazioni nel processo. Omissis
Su un piano puramente logico e dogmatico, ogni volta che si trova a verificare la sussistenza di reati propri
– quali quelli di cui agli artt. 319 ter cp. e 372 c.p., che qui vengono in rilievo – il giudice può e deve, anche d’ufficio, accertare se l’agente rivesta la qualità soggettiva richiesta dalla fattispecie incriminatrice.
Nel caso in esame, la qualifica di testimone-pubblico ufficiale è uno degli elementi costitutivi dei reati di corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza ed è dunque dall’accertamento di tali qualità che si deve in ogni caso partire per verificare la sussistenza dei delitti medesimi. Omissis
Quindi, con riferimento alla falsa testimonianza (e ad altri delitti contro l’amministrazione della giustizia) il legislatore ha rimediato all’escussione come testimone di un soggetto incompatibile con quell’ufficio – e cui quindi sia stata erroneamente attribuita la corrispondente qualità – mediante l’espressa previsione di cui all’art. 384, comma 2, c.p. Una disposizione che, come visto, nella sua consolidata interpretazione giurisprudenziale si riconnette direttamente ai valori fondamentali del diritto di difesa e del principio di eguaglianza nella sua portata sostanziale.
È altrettanto pacifico che una previsione espressa, analoga all’art. 384, comma 2, c.p., non esista per l’ipotesi di corruzione in atti giudiziari ascritta a un soggetto escusso come testimone ma incompatibile con tale qualità perché sostanzialmente indagato del medesimo reato o di reato connesso.
[28] Sentenza n. 51824 del 25/09/2014.
[29] In linea con quanto rilevato dalla corte costituzionale nella sentenza n. 163 del 2014, in riscontro alla ordinanza delle sezioni unite n. 43384 del 2013, con la quale si era sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 322, comma secondo, cod. pen. (istigazione alla corruzione propria) in riferimento all’art. 3 Cost. sotto il duplice profilo della disparità di trattamento di situazioni analoghe e della irragionevolezza, nella parte in cui prevede che l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero, per il compimento di una falsa consulenza, è punita con una pena superiore a quella del reato di intralcio alla giustizia di cui all’art. 377, comma primo, cod. pen., in relazione all’art. 373 cod. pen., per il caso di analoga condotta nei confronti del perito.
[30] Sicchè la norma in esame viene a risolversi anche in un trattamento di favore per l’istigatore, il quale, in luogo di sottostare alla severa sanzione della corruzione in atti giudiziari, verrà sottoposto alla pene, computate per relazionem rispetto ai divisati delitti contro la amministrazione della giustizia, di cui al 377 c.p..
[31] In merito, Pagliaro, Diritto penale, Parte speciale, I, p. 227.
[32] Di grande attualità le parole di un illustre maestro del diritto: “Viviamo in un universo di regole. Che queste regole si distinguano in pubbliche e private, è cosa avvertita, per così dire, sulla pelle: problematico e difficile, però, cogliere i tratti che ci permettono di assegnare una regola all’uno o all’altro versante dell’insieme “diritto”. Confine, solco, di cui prendiamo consapevolezza, e non potrebbe essere diversamente, quando, persone umane, incrociamo la nostra strada con altre persone umane. L’incontro con le regole è sempre incontro fra persone- non potrebbe essere diversamente. Capita a ciascuno di noi: una volta o l’altra ci siamo sentiti dire “Guardi, io sono un pubblico ufficiale”. Talora c’è l’uniforme e questo in genere ci basta, ma, vestimenta a parte, che cosa rende pubblica l’attività della persona che ci rivolge quelle parole, che cosa sta dietro, motiva e rende accettabile una frase tanto spesso ripetuta. Si risponderà: perché questa frase è proferita da un pubblico ufficiale. Naturalmente la questione è soltanto spostata – che cosa rende pubblico l’ufficio di chi questa frase pronuncia o, che è lo stesso, quali sono gli uffici nell’ambito dei quali si svolgono attività riconosciute pubbliche. Marcello Gallo, Stimatissimo professor Kelsen…, Giappichelli, 2020, p. 37-38.
[33] Sul punto sez. 6, Sentenza n. 25150 del 03/04/2013 , secondo cui il teste acquista la qualifica di pubblico ufficiale al momento della citazione, conservandola anche successivamente alla sua audizione, sino alla definizione del processo (cfr. Sez. 6, sent. n. 25150 del 03.04.2013, Rv. 256809).
[34] In merito, Francesco Centonze e Pierpaolo Astorina Marino, Corruzione in atti giudiziari e testimoni. Una revisione critica. In sistema penale, 27 gennaio 2023. Si precisa che si è avuto modo di leggere l’interessante contributo dei due autori quando le bozze del presente lavoro erano già concluse.
[35] Art. 357 c.p. gli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi
[36] Per fare un esempio: se una norma punisce il teste che accetta denaro per rendere una falsa testimonianza, sarà tendenzialmente obbligata la conclusione che questa norma sia una variante processuale dei reati di corruzione, si appaghi solo dello status di testimone e metta fuori gioco, nel contempo, le norme sulla corruzione e le variegate riflessioni sul se il testimone sia anche pubblico ufficiale. Potrebbe anche esserlo su altri versanti, per esempio con riguardo alla repressione di atti coercitivi posti in essere contro di lui nell’atto in cui depone. Ma di certo non servono ai fini della qualifica penalistica dell’atto con cui il teste, chiaramente tale, accetta dei soldi per dire il falso. A questo basta la norma ad hoc.
[37] Singolare poi la circostanza che la norma del 377 non sia stata aggiornata in modo da contemplare, quale destinataria della istigazione corruttiva, quel pubblico ufficiale soggetto attivo del reato di frode in processo e depistaggio (375 c.p.), sicuramente in possesso della qualifica pubblicistica preesistente al processo in cui viene coinvolto come teste.
[38] Peraltro non sembra che vi siano ragioni per escludere che, in tale prospettiva, anche il contributo alla formazione della volontà del pubblico ministero meriterebbe la qualifica di atto di pubblico ufficio. Sicchè non sembra persuasivo quanto affermato dalla sentenza della corte di cassazione n. 39280 del 30/05/2018, secondo cui la qualifica di pubblico ufficiale non si attaglia alla persona informata sui fatti in quanto il suo “contributo conoscitivo si colloca nella fase delle indagini preliminari, dunque in un momento in cui è ancora fluida l’acquisizione del materiale probatorio, che s’ignora addirittura se condurrà al rinvio a giudizio dell’indagato/imputato”.
[39] In merito è da rilevare che per parte della dottrina “alle persone chiamate a rendere dichiarazioni davanti al difensore o al p.m. potrebbe attribuirsi la qualifica di incaricati di pubblico servizio”. In tal senso, B. Romano, Delitti contro la amministrazione della Giustizia, Giuffrè, 2004, p. 150.
[40] Va da sé che la medesima soluzione non può essere automaticamente estesa al caso in cui il reato scopo sia stato effettivamente realizzato per effetto della violenza o alla minaccia. Se la violenza ha assunto i contorni di una “vis absoluta”, ai sensi dell’art. 46 c.p. (costringimento fisico) il reato commesso potrà essere ascritto al solo autore della violenza. Ad analoga soluzione si perviene quando la violenza o la minaccia abbia comportato un “pericolo attuale di un danno grave alla persona” tanto da indurre uno dei soggetti qualificati dall’art. 377 c.p. a commettere il reato di falsità perché “costretto dalla necessità di salvare sé od altri”.
Si ritiene invece plausibile prospettare nuovamente il concorso di persone nel reato di falsità dell’autore della minaccia o della violenza e del soggetto passivo di queste se la violenza o la minaccia non erano tali da integrare un costringimento fisico (art. 46 c.p.) o psichico (art. 54 c.p.), salvo differenziare la pena in base alla diversa intensità del dolo (art. 133, n. 3, c.p.) dei concorrenti. In merito, Petragnani Gelosi- Papa, Intralcio alla giustizia, in Diritto penale, Diretto da Cadoppi, Canestrati, Manna e Papa, tomo primo, p. 2609 -2610.
[41] Sono state ritenute irrilevanti, sotto questo profilo, le motivazioni che hanno indotto l’istigato a non dichiarare il falso quindi è indifferente che il soggetto non si sia presentato a deporre, oppure che si sia presentato e abbia dichiarato il vero. In merito, PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte speciale, Il, 5, Milano, 129: «in realtà conta soltanto che la falsità non sia commessa)); PIFFER, i delitti contro l’amministrazione della giustizia. I delitti contro l’attività giudiziaria, in Trattato di diritto penale, Parte speciale, diretto da Marinucci-Dolcini. IV, l, Padova, 2005, 612.
[42] PIFFER, Guido (2015): “Sub art. 377”, p. 1719, in DOLCINI, Emilio e GATTA, Gianluigi, Codice penale commentato, Milano, Ipsoa, 2021.
[43] In tal senso è orientata parte della dottrina secondo la quale, proprio perché il bene tutelato nelle varie ipotesi di corruzione è il corretto adempimento da parte dei pubblici funzionari dei propri doveri istituzionali, le norme sulla corruzione non possono applicarsi a qualsiasi soggetto (che si trovi, anche occasionalmente, ad esercitare una pubblica funzione) ma solo ai soggetti che possono ritenersi intranei. Ne deriva che il disvalore della condotta di un teste che abusa del suo ufficio commettendo falsa testimonianza sarebbe già adeguatamente sanzionato dall’art. 372 e, in forma anticipata sub specie di reato di pericolo, dall’art. 377: così Seminara, commento articolo 319 ter, in Commentario breve al codice penale, a cura di Cresi, Stella, Zuccalà, p. 783.
Analoghe perplessità esprime Manna, La corruzione in atti giudiziari e l’insostenibile leggerezza dell’essere, in GM, 2010, P. 1057 nonché in la corruzione susseguente in atti giudiziari tra interpretazione letterale e limiti strutturali, in Diritto penale e processo, 2010, p. 1091, secondo il quale attribuire la qualifica di pubblico ufficiale al testimone potrebbe apparire una superfetazione dal momento che la tutela penale contro le condotte illecite che riguardano il testimone è già offerta dalle norme specifiche che si riferiscono a tale soggetto processuale, ossia l’articolo 372 che punisce la falsa testimonianza e l’articolo 377 che punisce la subornazione del testimone.