Di Francesca Dimundo

Sommario: 1. Premessa – 2. Criteri identificativi della prestazione: buona fede e diligenza – 3.Norme di riferimento in tema di inadempimento – 4.Ipotesi particolari di inadempimento legato all’impossibilità: factum principis ed onere della prova

1.Premessa

Nel Codice Civile non c’è una norma che definisca l’obbligazione.

Anche nel codice civile del 1865, come in quello Napoleonico del 1804, mancava una definizione del concetto di rapporto obbligatorio ed a questo fine ci si rimetteva all’opera della giurisprudenza e della dottrina.

La rinuncia del Legislatore nasceva, probabilmente, dalla difficoltà di coniare una definizione che riuscisse a conciliare le dispute dottrinali sugli elementi costitutivi delle obbligazioni.

Non essendo chiare le indicazioni dottrinarie e giurisprudenziali ed essendo anche difficoltoso definire un concetto di obbligazione in grado di racchiudere tutte le tipologie di obbligazioni della realtà sociale, il Codice  Civile del 1942 ha preferito non coniare una definizione ad hoc.

È utile notare che il Codice del ’42 si differenzia da quello del 1865, e dal suo antecedente storico ed ideologico, ovvero il codice Napoleonico, per la collocazione sistematica della disciplina delle obbligazioni.

Il Codice del 1865 prevedeva alcune norme generali sulle obbligazioni nel titolo IV, intitolato “delle obbligazioni e dei contratti”, facente parte a sua volta del libro III, dedicato ai modi di acquisto e di trasmissione della proprietà e degli altri diritti sulle cose. Questo vuole dire che nell’impostazione del codice del 1865, essendo centrale sul piano economico l’idea della proprietà terriera, le obbligazioni non avevano una dignità autonoma e non erano considerate un bene a sé stante e trasferibile, ma uno strumento attraverso il quale si acquistava principalmente la proprietà di un bene. Quindi, le obbligazioni erano concepite come serventi rispetto ai diritti reali. L’obbligazione era vista essenzialmente come un mezzo attraverso il quale si acquistava la proprietà di un bene: in tale modo si differenziavano plasticamente i modi di acquisto originari della proprietà, come invenzione e occupazione, dai modi di acquisto derivativi, come i contratti, quale archetipo delle obbligazioni.

Il Legislatore del 1942, invece, dedica un intero libro, il IV, alle obbligazioni, dopo avere disciplinato nel libro III la proprietà e i diritti reali. Questo dimostra che, per il Codice attuale, le obbligazioni non costituiscono più un modo di acquisto di un diritto reale, ma sono beni giuridici autonomi, facenti parte delle poste attive del patrimonio di ciascun soggetto.

Questo comporta che, a differenza di quanto accadeva in passato, allorquando si riteneva impossibile il trasferimento ovvero la modificazione dell’obbligazione in base ad un semplice accordo, salvo il ricorso allo strumento della novazione, nella nuova visione economica, è chiara la percezione che le obbligazioni sono beni autonomi che circolano direttamente e senza la necessità di transitare  attraverso una novazione.

Volendo dare un contenuto alla nozione di obbligazione, possiamo rifarci alla definizione contenuta nelle Institutiones di Giustiniano, secondo il quale “obligatio est iuris vinculum quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei secundum civitatis nostrae”.

L’inciso “alicuius solvendae rei” differenzia chiaramente l’obbligazione dal diritto reale, evidenziando in modo netto che il creditore non ha un potere attuale sul bene, ma soltanto la pretesa che il debitore tenga un comportamento finalizzato a farglielo ottenere. Mentre nel diritto reale, il suo titolare può goderne in maniera autosatisfattiva, senza bisogno dell’altrui cooperazione, il creditore necessita per definizione della cooperazione da parte del debitore onde soddisfarsi del credito.

Nella definizione giustinianea risalta immediatamente che il soggetto attivo del rapporto obbligatorio non ha un potere attuale sul bene dedotto in obbligazione, ma un’aspirazione a conseguirlo passando attraverso il comportamento necessario e qualche volta infungibile e incoercibile, sul piano specifico, del debitore.

Importante, sotto il profilo ermeneutico, è il termine vinculum che rappresenta la radice etimologica del termine obligatio, che si può tradurre come legame o vincolo.

Il concetto di vincolo è di ausilio per distinguere l’obbligazione dal debito.

La differenza consiste nel fatto che potrebbe esserci un lato cronologico e logico tra il momento in cui nasce il vincolo ed il momento in cui lo stesso diviene esigibile. Se nella maggior parte dei casi il debitore che si vincola è contemporaneamente tenuto ad eseguire la prestazione per effetto del vincolo stesso, è però possibile che vi sia un lato temporale, come nel caso di un’obbligazione sottoposta a termine iniziale o ad un evento condizionale, che rende incerta l’esistenza del dovere di eseguire la prestazione.

In questi casi, esiste il vincolo, ma non il debito, nel senso che il soggetto è vincolato ma non attualmente impegnato: si vincola in modo definitivo, ma non è ancora attuale il momento in cui il vincolo produce il debito, intendendosi per debito il dovere attuale, esigibile e coercibile di eseguire la prestazione.

A detta di autorevole dottrina, la definizione giustinianea è di stringente attualità, in quanto il concetto di vinculum è diverso da quello di debito: il vincolo è l’esistenza di un impegno che potrà essere successivamente portato ad esecuzione perchè diventato doveroso.  Basi pensare al caso del contratto condizionato sospensivamente, il quale viene definito “vincolante” ma non ancora “impegnativo”: è vincolante nella misura in cui il soggetto si è obbligato, ma non impegnato ad eseguire la prestazione fino a che la condizione non si verifichi. In pendenza della condizione, le parti sono comunque tenute ad un comportamento collaborativo, ad evitare di tenere condotte che possano impedire il verificarsi della condizione, a preparare la prestazione e quindi ad assumere delle condotte che non identificano però l’esecuzione esatta della prestazione.

In merito alle fonti dell’obbligazione, il codice civile, all’art. 1173, le individua espressamente nel contratto, nel fatto illecito e in ogni altro atto o fatto idoneo a produrle, in conformità all’ordinamento giuridico.

Dalla lettura di detta norma si deduce che il codice civile vigente ha superato la quadripartizione del codice giustinianeo, del codice Napoleone, del codice del 1865: contratti, quasi contratti, delitti, quasi delitti.

Oggi, infatti, ci troviamo di fronte ad una tripartizione delle fonti dell’obbligazione: contratto, fatto illecito, ogni altro atto o fatto idoneo secondo l’ordinamento giuridico.  

Tale tripartizione riproduce quella di Gaio, per il quale: obligationes aut ex contractu nascuntur aut ex maleficio aut proprio quodam iure ex variis causarum figurae.

Tali fonti delle obbligazioni si caratterizzano per la loro autonomia, dal momento che una stessa obbligazione può derivare da diverse fonti. Per esempio, l’obbligo di risarcire il danno può originare da un fatto illecito, art. 2043 c.c., o dall’inadempimento dell’obbligazione, art. 1218 c.c., nel quale caso si configura una responsabilità contrattuale.

La caratteristica dell’autonomia si riflette anche sul rapporto obbligatorio che ne deriva; infatti, il codice civile appresta una disciplina delle obbligazioni che prescinde dalla fonte da cui le stesse scaturiscono.

Con riferimento alla terza fonte dell’obbligazione, si nota come il codice civile abbia scelto la strada  di costruire un sistema atipico di fonte dell’obbligazione, che la dottrina ha correttamente definito tendenzialmente aperto, in cui la volontà dei privati, idonea a realizzare i valori espressi nel sistema di diritto positivo, diviene fonte di obbligazioni anche al di là dello schema contrattuale.

Così, nel sistema delle fonti sono ricomprese la buona fede e la correttezza ed il cosiddetto contatto sociale qualificato.

In particolare, la giurisprudenza ha progressivamente affermato che esistono fatti socialmente rilevanti innominati, perchè non presi in considerazione da norme puntuali, che danno luogo a un contatto fra soggetti che, alla luce di quei principi, diventa significativo.

Si dice che l’obbligazione nasce da situazioni socialmente significative, nelle quali fra i due soggetti non vi è un formale contratto, ma è riscontrabile un elemento di contatto in virtù del quale, spesso in ragione del particolare status o della particolare qualifica che riveste uno dei soggetti del contatto, l’altro matura un affidamento che la controparte in ragione di quello status  si comporti secondo standard di correttezza, osservando determinate modalità protettive dei suoi interessi.

Da tanto ne deriva che l’affidamento generato dallo status o dalla qualifica rilevante di uno dei due soggetti ed il correlato principio di buona fede, che impone doveri di protezione, nonché l’aspettativa giuridicamente vincolante che matura in capo  a chi subisce questo contatto, fanno maturare obbligazioni. Conseguentemente, eventuali illeciti che dovessero riguardare quel determinato contesto caratterizzato da contatto socialmente significativo vengono considerati come illeciti derivanti dall’inadempimento di obbligazioni che scaturiscono da una fonte innominata, il c.d. contatto sociale, e la loro sottoposizione alla disciplina di cui all’art. 1218 c.c.

Tra le ipotesi in cui la giurisprudenza ha fatto applicazione dell’istituto del contatto sociale qualificato, figurano quelle relative alla responsabilità del medico nei confronti del paziente, alla responsabilità dell’insegnante in ipotesi di autolesioni dell’alunno minore, nonché alla responsabilità della banca per il pagamento di un assegno non trasferibile a soggetto non legittimato.

Tali fattispecie sono accomunate dalla circostanza che il danno non si realizza nell’ambito di un rapporto contrattuale, ma comunque nell’ambito di un contesto socialmente significativo e riferibile ad un rapporto tra soggetti, i quali non sono reciprocamente tra loro nella condizione del quisque de populo, ovvero di totale estraneità o di persone che si incontrano del tutto casualmente.

In questo caso, l’evento dannoso si verifica all’interno di un rapporto che è regolato dall’ordinamento giuridico, perchè la legge prevede espressamente in che modo quel rapporto deve atteggiarsi. Quindi, la legge irrigimenta all’interno di un percorso giuridico il rapporto tra due soggetti, che non sono legati da un rapporto contrattuale, ma da un rapporto che l’ordinamento ha reputato opportuno disciplinare.

Proprio perchè i soggetti entrano in contatto tra di loro non casualmente, dottrina e giurisprudenza ritengono che in tali ipotesi trovi applicazione la disciplina della responsabilità contrattuale e non quella della responsabilità extracontrattuale di cui all’art 2043 c.c.

Naturalmente, ne deriva una posizione di vantaggio del danneggiato, poiché nella responsabilità contrattuale egli può limitarsi a provare il titolo, cioè l’esistenza di un rapporto contrattuale che obblighi ad un determinato adempimento il soggetto debitore, sul quale incomberà l’onere di dimostrare di avere adempiuto o di non avere potuto adempiere per motivi non dipendenti da sua colpa.

Al contrario, nella responsabilità extracontrattuale spetta al danneggiato provare tutti gli elementi della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., tra cui anche la colpa del danneggiante, con evidente aggravio dell’onere probatorio in capo a questo soggetto.

A questo punto è importante identificare gli elementi che definiscono l’obbligazione, che, sostanzialmente, è il diritto del creditore ad esigere dal debitore una prestazione per il soddisfacimento di un suo interesse. Come noto, la prestazione può essere finalizzata anche ad un interesse non patrimoniale del creditore, ma deve però essere patrimonialmente ed economicamente valutabile, ai sensi dell’art. 1174 c.c..

Secondo la dottrina più recente, gli elementi che contraddistinguono l’obbligazione sono quattro.

Il primo elemento è costituito dai soggetti.

Infatti, l’obbligazione è un rapporto che necessita di almeno due soggetti ed in questo è chiara, sotto un altro aspetto, la differenza con il diritto reale, che, invece, si sostanzia in una relazione tra il soggetto ed il bene.

Mentre in quest’ultimo caso il soggetto si soddisfa usando il bene per i suoi bisogni con un potere immediato che evidenzia una relazione reale tra il soggetto e la cosa, nell’obbligazione si instaura una relazione personale tra due soggetti, nel senso che il creditore ha bisogno, per soddisfarsi, del comportamento collaborativo del debitore, che consiste in un facere, un non facere o un dare. I due soggetti, debitore e creditore, devono essere ab origine determinati o almeno determinabili, pena la nullità, ad esempio di un contratto che stabilisca un’obbligazione in capo ad un soggetto indeterminato o indeterminabile.

Sono considerate determinabili le obbligazioni ambulatorie, tali definendosi quelle obbligazioni nelle quali il debitore è identificato in quel soggetto che nel tempo rivestirà una determinata qualifica. Una tipica obbligazione ambulatoria è quella che grava sul proprietario di un bene e che si trasferisce con la proprietà del bene, ad esempio, l’obbligazione condominiale.

In dottrina si è discusso sulla possibilità di configurare un rapporto obbligatorio unisoggettivo in cui il medesimo soggetto assommi su di sé la qualità sia di debitore che di creditore. La soluzione preferibile è quella negativa. Infatti, qualora un soggetto dovesse ricoprire contemporaneamente le qualifiche di creditore e debitore si contraddirebbe la ratio, insita nel rapporto obbligatorio, secondo la quale per il soddisfacimento del creditore è necessaria la collaborazione altrui e non è consentito l’autosoddisfacimento come accade nei diritti reali. Sul piano del diritto positivo, l’art. 1253 c.c. afferma che, quando si verifica la concentrazione in capo ad un soggetto delle due qualifiche di debitore e creditore, si verifica l’estinzione dell’obbligazione, cosiddetta confusione. È vero anche che eccezionalmente vi sono casi in cui, nonostante la concentrazione in capo al medesimo soggetto della qualità di debitore e creditore, l’obbligazione sopravvive in capo al medesimo soggetto. Ci si riferisce, in particolare, all’art. 1254 c.c., che fa riferimento all’ipotesi in cui la confusione non opera in pregiudizio dei terzi che hanno acquistato diritti di usufrutto o di pegno sul credito; ed ancora, all’art. 490 c.c., che, in caso di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario, prevede che l’obbligazione tra l’erede e il defunto non si estingua. Queste norme sono eccezionali e si spiegano o con la necessità della tutela dei terzi che non possono essere pregiudicati dalla concentrazione, come nel caso dell’art. 1254 c.c., o con la provvisorietà e l’incertezza della successione che sia ancora sottoposta all’alea del beneficio di inventario; proprio perchè sono ipotesi eccezionali di rapporti unisoggettivi, è evidente come la regola generale sia, al contrario, quella secondo cui in mancanza di dualità soggettiva l’obbligazione non può sopravvivere.

Altra regola generale in materia di obbligazioni, relativa ai soggetti, è quella secondo la quale, in assenza di divieti o caratterizzazioni specifiche legate all’intuitus personae, l’obbligazione è un bene che può circolare ed il cambiamento delle identità dei soggetti non intacca l’identificazione dell’obbligazione.

Il secondo elemento che contraddistingue l’obbligazione è la prestazione, ovvero il debitum in senso stretto. L’obbligazione richiede la presenza di una prestazione, quale oggetto dell’obbligazione stessa, alla quale il debitore è tenuto per soddisfare l’interesse del creditore. La prestazione deve essere economicamente valutabile affinchè l’obbligazione possa essere qualificata come giuridica.

Ad esempio gli obblighi coniugali sono doveri e non obbligazioni nel senso tecnico di diritti di credito ai fini degli artt. 1173 e 1174 c.c.. ed,infatti, la violazione degli obblighi coniugali produce una responsabilità di tipo aquiliano e non contrattuale, proprio perchè non sono obblighi ex contractu in senso stretto: l’obbligo coniugale ha ad oggetto una prestazione non economicamente valutabile, come per esempio il dovere di fedeltà.

La diversità tipologica di prestazione produce una classificazione delle obbligazioni.

Si distinguono obbligazioni aventi per oggetto un facere, un non facere o un dare; obbligazioni positive e negative, fungibili e infungibili, generiche e specifiche. Sul piano soggettivo, invece, si distingue tra obbligazioni solidali e parziarie, divisibili e indivisibili.

In passato, si riteneva che modificare l’oggetto dell’obbligazione significasse estinguerla, ovvero per modificare l’oggetto bisognasse novare l’obbligazione.

Nell’attuale testo codicistico, invece, l’art. 1230 c.c. stabilisce al primo comma che l’obbligazione si estingue quando le parti sostituiscono all’obbligazione ordinaria una nuova obbligazione con oggetto o titolo diverso; mentre al secondo comma aggiunge che la volontà di estinguere l’obbligazione deve risultare in modo non equivoco: quindi, non è sufficiente l’aliquid novi per aversi novazione, essendo altresì necessario l’animus novandi. Questo significa che la decisione circa il mantenimento in vita del vecchio vincolo o la sua estinzione con nascita di uno nuovo è rimessa all’autonomia contrattuale delle parti. E tanto può dirsi anche richiamando l’art. 1321 c.c., il quale in sede di definizione del contratto dispone che il contratto è l’accordo intercorrente tra due o più soggetti volto ad estinguere, regolare o costituire un rapporto giuridico patrimoniale, laddove il termine “regolare” sembra includere l’idea di modificare l’oggetto senza estinguere il titolo e, quindi, la fonte.

Terzo elemento costitutivo del rapporto obbligatorio è l’interesse alla prestazione. Tanto si ricava dalla lettura dell’art. 1174 c.c., secondo il quale la prestazione deve corrispondere ad un interesse del creditore, e dai principi generali dell’ordinamento giuridico secondo cui i diritti sono posizioni attribuite al soggetto per la tutela di un suo interesse.

Quindi, la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione, oltre ad essere suscettibile di valutazione economica, deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore. Il vincolo obbligatorio può nascere per soddisfare vari interessi, tra cui, ad esempio quelli morali, artistici, religiosi, scientifici o culturali, purchè gli stessi siano seri, socialmente apprezzabili e, quindi, meritevoli di tutela giuridica.

L’interesse quale elemento funzionale del rapporto obbligatorio, è quello tipico che la prestazione è diretta a  soddisfare e che entra nel contenuto del vincolo obbligatorio. Diversamente, esulano dal concetto di interesse creditorio i  meri interessi individuali, ovvero gli interessi ulteriori, assimilabili ai motivi, che nella fase costituiva del negozio non hanno rilevanza giuridica. Vanno distinti dall’interesse creditorio anche l’utilità economicamente valutabile che la prestazione apporta al creditore, ben potendo il vantaggio economico consolidarsi in capo ad un terzo o allo stesso debitore.

Dal carattere costitutivo dell’interesse creditorio si trae l’ulteriore precipitato che l’obbligazione non sorge se non sussiste tale interesse, ovvero la prestazione non sia capace di soddisfarlo e si estingue nel caso in cui l’interesse venga meno successivamente.

L’elemento in esame svolge anche la funzione di valutazione della condotta adempitiva: la prestazione si determina avendo riguardo allo sforzo diligente normalmente adeguato a soddisfare l’interesse del creditore e deve considerarsi satisfattoria ove sia soddisfatto l’interesse stesso, anche se non esattamente conforme a ciò che è stato pattuito.

Il rapporto obbligatorio è giuridico quando, oltre all’interesse  del creditore, rilevi anche l’interesse del debitore, dato che sarà ben difficile pensare a casi in cui il soggetto passivo non sia mosso da alcun interesse, sia pure solo morale. In proposito, è bene precisare che esiste sempre un interesse del debitore ad eseguire la prestazione atteso che dalla nascita del rapporto obbligatorio deriva un vincolo alla sua libertà di comportamento che lo stesso vuole rimuovere nel più breve tempo possibile, si pensi alla garanzia patrimoniale generica ex art. 2740 c.c..

Per quanto riguarda l’analisi degli elementi costituivi, sorge la questione relativa alla configurabilità della responsabilità quale ulteriore elemento identificabile del rapporto obbligatorio. In argomento, si rilevano in dottrina due orientamenti. Secondo una corrente di pensiero, anche la responsabilità costituisce un elemento strutturale dell’obbligazione; a parere di altri, la responsabilità è estrinseca all’obbligazione e si riferisce alle conseguenze dell’inadempimento. In particolare, un orientamento reputa che l’obbligazione si concretizzi ed abbia come oggetto soltanto il dovere dell’obbligato di eseguire la prestazione, individuando una relazione personale per effetto della quale esiste l’obbligo comportamentale del debitore. Così, la responsabilità del debitore  con il suo patrimonio, ai sensi dell’art. 2740 c.c., in caso di inadempimento, più che integrare un elemento costitutivo dell’obbligazione, configura la conseguenza sanzionatoria dell’inadempimento stesso: alla relazione personale, l’obbligazione, consegue una relazione patrimoniale, la responsabilità,  figlia dell’obbligo trasgredito.

La tesi opposta, invece, individua l’essenza dell’obbligazione nella relazione tra patrimoni, nel senso che suo oggetto è non tanto il dovere comportamentale dell’obbligato, ovvero la relazione personale, quanto la soggezione del patrimonio del debitore alla pretese creditorie dedotte in obbligazione. In questo modo, si valorizza l’aspetto oggettivo dell’obbligazione e il debitore, più che essere tenuto ad un determinato comportamento, vede il suo patrimonio soggetto alla possibile aggressione da parte del creditore e subisce una limitazione patrimoniale più che personale.

Alla luce di tale impostazione, se un debito non fosse corredato dalla responsabilità e, quindi, il debitore non fosse tenuto a rispondere per l’inadempimento con i suoi beni, non potrebbe essere definito come un’obbligazione giuridica nel senso stretto del termine, ma al più, a seconda dei casi, un vincolo morale, personale, affettivo, sociale.

Le argomentazioni a sostegno di quest’ultimo orientamento sono diverse.

In primo luogo, si richiama l’art. 1229 c.c., il quale rappresenta una norma a tutela della giuridicità del vincolo: un vincolo giuridico deve essere necessariamente sanzionabile sul piano della responsabilità di chi lo trasgredisce. Infatti, detta disposizione considera nulle le clausole che limitino la responsabilità per dolo e colpa grave e in caso di violazione di principi di ordine pubblico, a dimostrazione del fatto che un debito per essere giuridico deve essere sanzionabile. Non si potrebbe definire debito un vincolo per il quale il debitore è consapevole che in caso di inosservanza non è prevista alcuna conseguenza.

Inoltre, dalla lettura dell’art. 2740 c.c., si evince che le ipotesi nelle quali il debitore in caso di inadempimento non risponda con tutti i suoi beni del proprio patrimonio sono eccezionali e di stretta interpretazione.  Di conseguenza, secondo alcuni, in mancanza di legge autorizzativa, sarebbero nulle le clausole che stabiliscano che il creditore non possa aggredire l’intero patrimonio, o alcuni beni, del debitore. La ratio sottesa a questa affermazione è identica a quella insita nella disposizione di cui all’art. 1229 c.c., nel senso che il debitore che si obblighi e contestualmente sancisca con il creditore un patto con il quale rende non aggredibili i propri beni sortisce lo stesso effetto di erosione della garanzia e di esclusione della responsabilità.

In dottrina, l’orientamento prevalente è quello che ritiene che debito e responsabilità siano concetti distinti, con la conseguenza che la responsabilità patrimoniale generica non può annoverarsi tra gli elementi costitutivi dell’obbligazione.

In particolare, si osserva che l’art. 2740 c.c. è collocato in un libro diverso da quello dedicato alle obbligazioni e dedicato alla tutela dei diritti, esprimendo così una scelta legislativa in controtendenza con quella adottata dal codice previgente del 1865, che collocava la norma tra quelle dedicate all’obbligazione, e l’inquadramento della responsabilità tra gli strumenti a garanzia dell’inadempimento, quindi, di reazione all’inadempimento. Inoltre, vi sono casi in cui esiste il debito senza la responsabilità, è il caso dell’obbligazione naturale, e, viceversa, si manifesti la responsabilità senza il debito, come nel caso della fideiussione, del terzo datore di ipoteca e pegno del bene del terzo.

2. Criteri identificativi della prestazione: buona fede e diligenza

L’approfondita premessa sulla definizione di obbligazione, sulle sue fonti, e sui suoi elementi costitutivi, si è reputata opportuna al fine di potere trattare ed analizzare il tema dell’adempimento, dell’inadempimento e, conseguentemente, comprendere quando può ritenersi che il soggetto abbia perfettamente adempiuto e non vada incontro a responsabilità.

In particolare, si può notare come il tema dell’adempimento e dell’inadempimento sia strettamente connesso a quello della prestazione dovuta dal debitore.

Perimetrare i confini della prestazione, infatti, consente di stabilire qual’è il comportamento richiedibile al debitore e, conseguentemente, accertare l’osservanza degli obblighi su di lui incombenti e l’esclusione in capo allo stesso di qualsivoglia forma di responsabilità.

In proposito, dottrina e giurisprudenza, nel corso degli anni, hanno consolidato il principio secondo il quale, al fine della individuazione della prestazione dovuta e della valutazione del comportamento del debitore e del creditore, non possa prescindersi dalla buona fede e dalla diligenza.

La buona fede alla quale ci si riferisce è quella di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., intesa in senso oggettivo, ovvero come dovere di ogni soggetto dell’obbligazione, sia debitore che creditore, di salvaguardare l’utilità dell’altro nei limiti di un apprezzabile sacrificio. Quindi, non buon fede in senso soggettivo, quale stato psicologico del non essere in mala fede.

Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, la buona fede ha una portata molto limitata e non introduce nuovi vincoli, non contribuisce a disegnare, ad identificare la prestazione dovuta, ma costituisce soltanto un criterio correttivo da applicare in sede esecutiva.

A parere di altri, invece, la buona fede costituisce un criterio integrativo della volontà che non si è espressa e che merita una regolamentazione. In questo caso, ci troviamo di fronte ad un criterio integrativo del rapporto obbligatorio e che può disegnare, comprendere e valutare la prestazione dovuta dal debitore.

La buona fede, quindi, diventa fonte autonoma di obbligazione per i soggetti ed ha anche una capacità integrativa della prestazione descritta dalla fonte, poiché gli obblighi di buona fede fanno nascere a carico del debitore anche obblighi di protezione, ulteriori rispetto agli obblighi prestazionali contemplati nel contratto.

L’altro criterio di individuazione della prestazione, come già detto, è la diligenza di cui all’art. 1176 c.c.,  il quale, al 1° comma, recita testualmente: “nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia”.

Quindi, il Legislatore, al fine di individuare la prestazione dovuta, sceglie l’immagine del buon padre di famiglia, che rappresenta l’uomo medio, non pretendendo una diligenza eccezionale e che le parti ricorrano a mezzi eccezionali per realizzare la propria attività; l’uomo medio è il soggetto che adopera una diligenza ordinaria.

Nel diritto penale, il riferimento all’uomo medio  assume un carattere particolare ed è l’homo eiusdem condicionis et professionis, ovvero la persona scrupolosa che opera secondo i criteri della prevedibilità e dell’evitabilità dell’evento; quindi, un’astratta figura di agente modello, esperto ed accorto.

A mente del secondo comma della norma in parola, “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”.

A parere della dottrina e della giurisprudenza , il criterio utilizzato nella seconda parte dell’art. 1176 c.c.  non è diverso rispetto a quello della prima parte, per cui quando l’obbligazione deve essere svolta da un professionista, quello che si prende in considerazione è il professionista medio, quindi, un criterio di normalità e non di eccezionalità. Pertanto, non si ha riguardo al professionista migliore, ma a quello medio e si tiene conto di tutte le circostanze che connotano la fattispecie in cui la prestazione deve essere realizzata. Si gradua la diligenza sulla base della specializzazione del soggetto professionista, ma si pretende sempre una diligenza media.

In giurisprudenza, sia in campo civile che in quello penale, si è dibattuto se ai fini della valutazione del comportamento del debitore debba aversi riguardo alle conoscenze e competenze superiori che lo stesso eventualmente abbia.

In diritto penale, si afferma che delle competenze superiori non si può tenere conto, perchè non si può pretendere che un soggetto tenga sempre la stessa diligenza eccezionale; invece, si tiene conto delle conoscenze superiori.

In diritto civile, sono rinvenibili pronunce giurisprudenziali nella quali si adottano entrambe le soluzioni: in alcuni casi, si nega la possibilità di tenere conto delle competenze e conoscenze superiori, mentre in altri se ne ammette la possibilità.

In argomento, la Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che, nella costruzione del  modello di agente, non rilevano le caratteristiche strutturali dell’obbligazione, per cui, anche quando l’obbligazione è a titolo gratuito, il soggetto è tenuto a rispettare il livello di diligenza media.

È utile ricordare che l’art. 2236 c.c. contempla una norma speciale e prevede che se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore non risponde dei danni se non in caso di dolo e colpa grave.

Quindi, il professionista che si trovi di fronte ad una prestazione complessa, che implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, risponde solo per dolo e per colpa grave e mai per colpa lieve. Questa norma rappresenta l’unica ipotesi in cui l’ordinamento gradua la colpa a fini civilistici.

La Corte Costituzionale ha affermato che detta norma non offre un privilegio, ma è diretta ad assicurare l’evoluzione del pensiero scientifico e la tutela  dei singoli in situazioni di questo genere e ad evitare che i professionisti si rifiutino, per paura di incorrere in responsabilità, di accettare incarichi particolarmente complessi, così da favorire il progresso scientifico. D’altra parte, la norma fa riferimento alle situazioni in cui,nonostante la diligenza applicata, si sia verificato il danno. Quindi, la diligenza è sempre richiesta ed anzi il suo livello è più elevato rispetto ad una situazione ordinaria, poiché ci troviamo di fronte ad una fattispecie particolarmente complessa ed il modello di agente deve essere quello di un soggetto che ponga molta attenzione  nello svolgere l’attività dovuta.

Le caratteristiche della diligenza sono la cura, la cautela e la perizia.

La cura è l’attenzione che il debitore deve avere per soddisfare l’interesse del creditore, la cui realizzazione impone che ci si comporti secondo buona fede e secondo diligenza.

La cautela è l’osservanza delle misure necessarie per realizzare  l’interesse del creditore.

La perizia, invece, è tipica delle attività professionali. Il professionista è tenuto all’applicazione delle regole tecniche, cioè delle leges artis tipiche della sua attività. Pertanto, il livello di diligenza è dato da un elemento estraneo al debitore, non tenendosi conto del suo livello di conoscenza, ma delle leges artis che egli normalmente deve applicare. La perizia è sì un elemento fondamentale di qualsiasi obbligazione, ma diventa centrale nelle obbligazioni professionali.

Una volta definito il contenuto dell’obbligo prestazionale incombente sul debitore, questi dovrà darvi puntuale esecuzione, realizzando di tal guisa l’esatto adempimento.

Quindi, è possibile definire l’adempimento come l’atto del prestare, l’atto con cui è realizzata l’obbligazione.

Ci si è interrogati sulla natura giuridica dell’adempimento; in particolare, secondo una teoria, esso è qualificabile come negozio giuridico, al contrario di altri che ritengono trattarsi di un fatto giuridico.

Il fatto giuridico è il fatto dal quale l’ordinamento giuridico trae determinate conseguenze o a cui l’ordinamento giuridico attribuisce un determinato ruolo nella valutazione della fattispecie, indipendentemente dalla volontà di chi lo ponga in essere.

Invece, il negozio giuridico è la dichiarazione di volontà che sia idonea a modificare il proprio patrimonio giuridico o a fare assumere degli obblighi.

Chi ritiene che l’adempimento sia un negozio giuridico pone in evidenza l’esistenza dell’ animus solvendi che accompagna l’esecuzione della prestazione: il soggetto  vuole liberarsi dall’obbligazione. Nelle obbligazioni di fare, è rinvenibile un negozio giuridico unilaterale; mentre, in quelle di dare, il negozio sarebbe bilaterale, perchè, a fronte dell’atto del dare, è necessaria la volontà di ricevere il bene e di farlo entrare nel proprio patrimonio giuridico da parte del creditore.

Altri ritengono, invece, che l’adempimento prescinda completamente dalla volontà, come dimostrato dalla disciplina speciale riguardante la capacità del soggetto che accetta l’adempimento.

Secondo una terza teoria, l’adempimento ha natura negoziale soltanto nel caso dell’adempimento del pagamento traslativo, che si ha quando il trasferimento di proprietà di un determinato bene non discende dall’obbligo di consegna insito nel contratto di compravendita e previsto dall’art. 1476, nrr. 1 e 2, come effetto del contratto, ma avviene in adempimento di un obbligo preesistente.

L’atto è posto in essere solvendi causa di un precedente obbligo e si concreta in un adempimento finalizzato a trasferire la proprietà  di un bene.

Il riconoscimento del pagamento traslativo come strumento di estinzione dell’obbligazione ha incontrato numerose difficoltà, rappresentate dalla compatibilità di tale istituto con il principio di causalità, con ilm principio consensualistico e con quello di tipicità.

Rispetto al principio di causalità, si è osservato che nel nostro ordinamento non sono ammessi trasferimenti da cui derivino obblighi patrimoniali privi di un sostrato causale, dal momento che un fatto diretto ad un’attribuzione patrimoniale non può produrre l’effetto di attribuirne il diritto, se non sul fondamento di un precedente obbligo del disponente a compiere tale attribuzione a favore del beneficiario.

Con riferimento al principio consensualistico, si è notato che i contratti traslativi producono effetti dal momento in cui le parti raggiungono l’accordo ed indipendentemente dalla consegna del bene, ossia dall’effetto reale del contratto, come disposto dall’art. 1376 c.c.; più precisamente, in tale caso, il contratto è allo stesso tempo, titulus, cioè atto contenente la causa del trasferimento, e modus, cioè atto che produce l’effetto del trasferimento della proprietà.

In relazione al principio di tipicità dei modi di acquisto della proprietà, desumibile dall’art. 922 c.c., si osserva come non sia ammissibile un atto solutorio traslativo, che non sia tipizzato dalla legge.

Tali ostacoli sono stati, però, superati, dando prevalenza al principio dell’autonomia contrattuale sancito dall’art. 1322 c.c., che, in deroga al principio consensualistico, consente alle parti di concludere  atti o contratti atipici traslativi della proprietà di un bene.

In quest’ottica, la scissione tra titulus e modus non crea un atto di trasferimento acausale, poiché la causa giustificativa dello spostamento patrimoniale può porsi anche all’esterno dello schema causale e rinvenibile nel complesso dell’operazione in cui si inserisce il negozio di trasferimento.

Così, si è fatta strada l’idea dell’ammissibilità degli atti solutori con causa esterna al di fuori dei casi previsti dalla legge, divenendo prevalente l’idea secondo la quale l’art. 1322, espressione dell’autonomia contrattuale, derogando all’art. 1376 c.c., consente di considerare l’atto traslativo della proprietà come un atto che contiene sia la causa, sia l’effetto del trasferimento della stessa proprietà.

Secondo un orientamento minoritario, al fine della validità del negozio, è necessaria la expressio causae, dovendo essere enunciati nel negozio del pagamento traslativo sia l’effetto solutorio sia il negozio o il vincolo di legge di cui la translatio costituisce attuazione.

Prevalente è, però, la teoria secondo la quale, anche in mancanza di causa espressa e dell’enunciazione dell’intento solutorio, è possibile verificare la sussistenza di una oggettiva ed adeguata giustificazione causale, attraverso la volontà delle parti e del collegamento tra il negozio solutorio e quello a monte.

Quindi, è accolta la tesi dell’ammissibilità del pagamento traslativo, inteso come negozio atipico con carattere solutorio, idoneo a trasferire la proprietà al di fuori degli strumenti tipici della compravendita e della donazione, al solo fine di adempiere un’obbligazione assunta o derivante direttamente dalla legge.

Tale teoria è stata avallata dalla Corte di Cassazione, la quale, sostenendo la teoria della causa in concreto, ha dichiarato che la causa quale elemento essenziale del contratto non deve essere intesa come mera ed astratta funzione economico sociale del negozio, bensì come sintesi degli interessi reali che il contratto è diretto a realizzare, quindi come funzione economico individuale del singolo, specifico contratto, fermo restando che detta sintesi deve riguardare la dinamica contrattuale, complessivamente considerata, e non la mera volontà delle parti.

Dunque, un contratto non cessa di essere tale nel caso in cui abbia una causa, anche o solo esterna, ossia solutoria rispetto ad un obbligo assunto a monte in forza di una precedente convenzione.

Occorre evidenziare come parte della dottrina inquadri i casi di pagamento traslativo nelle obbligazioni di dare, come per esempio, nell’obbligazione del venditore di cosa altrui,  oppure, nella separazione consensuale tra coniugi, nell’obbligo di mantenimento di uno dei coniugi nei confronti della prole, che potrebbe essere soddisfatto in un’unica soluzione con un trasferimento immobiliare.

Una volta adempiuta l’obbligazione, il debitore può pretendere che il creditore gli rilasci quietanza di avvenuto pagamento, la quale, secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha efficacia di piena prova dell’adempimento. Questo comporta che nel caso in cui il debitore produca in giudizio l’atto di quietanza, il creditore non è ammesso alla prova contraria per testimoni, ma solo alla prova che la quietanza sia stata rilasciata a seguito di errore di fatto oppure a seguito di violenza.

Con riferimento alle quietanze atipiche, quali sono quelle relative ad alcuni procedimenti speciali, la giurisprudenza si è interrogata sull’applicabilità alle stesse dei principi previsti per le quietanze tipiche, come per esempio quella di cui al R.D. n. 1814 del 1927 relativa al trasferimento degli autoveicoli. In questo caso, il soggetto, per consentire il trasferimento dell’autoveicolo, deve dichiarare di avere ricevuto il prezzo, ma in questo caso non ci troviamo di fronte alla quietanza civilistica, ma, come chiarito dalla giurisprudenza, di fronte ad una confessione stragiudiziale, fatta dal terzo e che può essere liberamente apprezzata dal giudice.

Nel caso in cui tra debitore e creditore intercorrano più rapporti di debito ed il creditore abbia ottenuto la quietanza da parte del creditore, se non è espressamente indicato il debito al quale si riferisce, secondo la dottrina incombe sul debitore l’onere di provare a quale debito la stessa sia imputabile; invece, la giurisprudenza è scissa tra la posizione che aderisce alla tesi della dottrina e quella che pone sul creditore l’onere di dimostrare a quale rapporto debitorio la quietanza sia relativa.

Con l’adempimento, l’obbligazione si estingue.

In realtà, l’obbligazione può estinguersi anche per cause diverse dall’adempimento, come per esempio,nel caso della impossibilità sopravvenuta della prestazione.

L’impossibilità originaria della prestazione determina il non nascere del rapporto obbligatorio; invece, l’impossibilità sopravvenuta, ai sensi dell’art. 1256 c.c., 1° co., determina l’estinzione dell’obbligazione, qualora non dipenda da causa imputabile al debitore.

La giurisprudenza ha chiarito che elemento essenziale per aversi impossibilità sopravvenuta idonea a determinare l’estinzione dell’obbligazione sia l’imprevedibilità  del determinarsi di questa situazione al momento della nascita della obbligazione.

Quindi, la causa della impossibilità non deve essere prevedibile e, soprattutto, non deve essere superabile attraverso quello sforzo di diligenza che è richiesto al debitore.

In merito al carattere oggettivo o soggettivo di detta impossibilità, la giurisprudenza afferma che occorre guardare alla esigibilità del comportamento e che, quindi, è causa sopravvenuta quella situazione che renda impossibile la prestazione che non era prevedibile, che non era superabile sulla base di quell’impegno che il soggetto si è obbligato a fornire.

Non è necessario che si tratti di una impossibilità oggettiva, cioè in rerum natura, di una situazione tale che nessun soggetto sia in grado di realizzare la prestazione oggetto dell’obbligazione. Si è precisato che occorre avere riguardo, non tanto alla prestazione in sé, quanto alla persona del debitore ed al tipo di impegno che lo stesso abbia assunto. È, altresì, necessario che la situazione che renda impossibile la prestazione non possa essere superata con quel livello di diligenza, richiesto al debitore ed a cui il debitore si è impegnato attraverso l’assunzione dell’obbligazione. Pertanto, il livello di diligenza richiesto rappresenta il criterio attraverso il quale valutare l’impossibilità sopravvenuta.

Al fine della valutazione circa la sussistenza della impossibilità sopravvenuta, quale causa di estinzione dell’obbligazione, dottrina e giurisprudenza richiamano il concetto di esigibilità della prestazione, che rappresenta una nozione autonoma e rilevante  anche in materia penale.

L’esigibilità si riferisce alla possibilità di pretendere dal debitore il comportamento che realizzerebbe la prestazione, sia sul piano oggettivo che su quello soggettivo.

Dal punto di vista oggettivo, l’esigibilità riflette il livello di prestazione dovuto ed è legata al tipo di contratto che è stato stipulato, all’obbligazione che il soggetto ha assunto, alla diligenza, allo sforzo che il soggetto si è impegnato a prestare.

L’esigibilità della prestazione potrebbe non configurarsi da un punto di vista soggettivo, ovvero in relazione alla condizione del debitore. Questo significa che un comportamento, oggettivamente possibile, possa diventare impossibile avuto riguardo alla persona del debitore, che venga a trovarsi in particolari condizioni indipendenti dalla sua volontà.

In proposito, una parte della giurisprudenza ritiene che, anche in virtù della buona fede, in caso di inesigibilità soggettiva possa configurarsi una ipotesi di impossibilità sopravvenuta idonea ad estinguere l’obbligazione e a non indurre a reputare inadempiente il debitore.

Si compie una estinzione automatica dell’obbligazione nel caso in cui l’impossibilità sopravvenuta sia definitiva, ovvero quando definitivamente si è certi che la prestazione non diventerà più possibile.

Nel caso, invece, di impossibilità sopravvenuta temporanea, l’estinzione si verifica quando in relazione alle caratteristiche dell’obbligazione, alla natura dell’oggetto della prestazione , il debitore non può più essere ritenuto obbligato ad eseguire la prestazione, oppure quando il creditore non abbia più interesse alla realizzazione della prestazione. In ogni altro caso, la temporaneità dell’impossibilità non determina l’estinzione dell’obbligazione, ma comporta che possa applicarsi la responsabilità da ritardo in capo al debitore.

L’impossibilità può essere, altresì, totale o parziale. È totale quando essa coinvolge completamente la prestazione dovuta; è parziale quando riguarda solo in parte la possibilità di realizzare l’interesse creditorio.

Nel caso in cui la prestazione rimanga parzialmente impossibile, si avrà l’estinzione soltanto per la parte divenuta impossibile; mentre il debitore dovrà eseguire la parte della prestazione rimasta possibile, senza peraltro che il creditore la possa rifiutare come descritto dall’art. 1258 c.c.

3.Norme di riferimento in tema di inadempimento

In caso di  mancata esecuzione della prestazione così come dedotta in obbligazione, si configura l’inadempimento del debitore, del quale trattano l’art. 1176 c.c., da una parte, e gli artt. 1218 e 1256 c.c., dall’altra.

Dette norme sembrano offrire indicazioni differenti, dal momento che l’art. 1176 c.c.  pare che fondi l’inadempimento sulla diligenza e, quindi, su una responsabilità per colpa, mentre gli artt. 1218 e 1256 c.c., al contrario, si ha l’impressione che descrivano una sorta di responsabilità oggettiva, nel senso che il debitore si libererebbe solo adempiendo ovvero dimostrando la causa che ha determinato l’impossibilità di adempiere a lui non imputabile.

La regola posta dall’articolo 1218, quindi, è decisamente più sfavorevole al debitore perché una persona può anche essere diligente, ma nonostante tutto essere inadempiente.

In altre parole, è come se il codice dicesse che il debitore non deve solo comportarsi in modo diligente ex art. 1176, ma deve anche andare oltre: deve impegnarsi nell’adempimento più che con l’ordinaria diligenza, dato che sarà ritenuto responsabile in ogni caso, salvo che l’inadempimento non sia dipeso da fatto a lui non imputabile. L’articolo 1218, pone, quindi, una regola oggettiva, che sembra prescindere da una valutazione soggettiva del comportamento del debitore.

Il confronto tra le norme in parola ha generato un dibattito giurisprudenziale, dal quale sono emerse due teorie.

Alcuni, facendo prevalere la  lettera degli artt. 1218 e 1256 c.c., riconoscono che la responsabilità del debitore sia oggettiva e che lo stesso si liberi soltanto adempiendo o soltanto in virtù di un impedimento oggettivo e assoluto, sempre che questo impedimento non sia a lui imputabile.

L’articolo 1176 non regola la fase dell’inadempimento dell’obbligazione, ma quella dell’adempimento: sarebbe, cioè, una modalità della condotta. Di conseguenza, tale articolo non entra in gioco quando l’obbligazione è rimasta inadempiuta, ma quando è stata adempiuta, per poter valutare se l’adempimento sia esatto o no. Secondo un’altra impostazione, invece, l’art. 1176 c.c. assumerebbe importanza solo quando, di fronte all’impossibilità oggettiva e assoluta della prestazione, occorre verificare che la causa che ha provocato l’inadempimento non sia imputabile al debitore.

Molti autori hanno trovato dei temperamenti alle conseguenze rigorose cui porta la teoria oggettiva: in alcuni casi si è detto che la prestazione è da considerarsi impossibile quando richiede uno sforzo superiore al normale; è questo il fenomeno che dottrina e giurisprudenza chiamano di “inesigibilità della prestazione”;in altri casi, è stato detto che la prestazione diventa impossibile per causa non imputabile quando la prestazione potrebbe  astrattamente essere richiesta, ma il principio della correttezza e della buona fede impongono al creditore di non esigere la prestazione.

Occorre precisare che, all’interno di questa tesi, c’è chi afferma che bisogna operare una distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato. Nelle obbligazioni di mezzi, il soggetto debitore si impegna ad una determinata attività, senza assicurare il risultato desiderato dal creditore; mentre, nelle obbligazioni di risultato, il risultato è oggetto dell’impegno che assume il debitore in uno all’obbligo di agire con diligenza.

Nelle obbligazioni di risultato è possibile scindere il profilo della prestazione da quello della diligenza; si distingue la prestazione da eseguire dalla diligenza, quale misura dell’impegno che va osservato nell’esecuzione della prestazione da parte del debitore. Per tale motivo, è possibile separare il profilo dell’inadempimento dal profilo della colpevolezza; il primo si realizza per il solo mancato conseguimento del risultato, il secondo è, invece, integrato dalla semplice mancanza di diligenza nell’eseguire la prestazione. Quindi, tali obbligazioni consentono l’applicazione della teoria oggettiva, secondo la quale si configura inadempimento per il solo fatto oggettivo della mancata esecuzione della prestazione.

Nelle obbligazioni di mezzi, le quali sono anche denominate “obbligazioni di diligenza”, la diligenza è oggetto della prestazione e non mero criterio di valutazione del comportamento tenuto dal debitore. Pertanto, in esse non è possibile scindere i due profili dell’inadempimento e della colpevolezza.

Diversamente dalle precedenti tesi, la teoria soggettiva pone al centro dei criteri per valutare la responsabilità del debitore la colpa del soggetto; in caso di inadempimento, occorrerà vedere se il soggetto si sia comportato con diligenza e tale diligenza verrà valutata in base al criterio previsto dall’articolo 1176.

Secondo questa teoria, la norma di cui all’articolo 1218 non detta la regola generale sull’inadempimento, ma disciplina solo una delle tante ipotesi possibili, cioè l’ipotesi in cui la prestazione sia divenuta impossibile; in presenza di un evento che ha reso impossibile l’adempimento, l’impossibilità è considerata non imputabile al debitore, quando il debitore si sia comportato con diligenza; quando la prestazione è ancora possibile; quindi,  per valutare la responsabilità occorre riferirsi comunque al criterio della diligenza.

Per quanto riguarda i singoli tipi di prestazione, alcuni hanno operato una distinzione. In particolare, si è osservato che l’articolo 1218, fissando il dovere di adempiere tenendo uno sforzo superiore a quello della normale diligenza, varrebbe unicamente per due categorie di obbligazioni: le obbligazione di dare, restituire, o trasferire una cosa certa e determinata, nelle quali la prestazione del debitore consiste proprio nell’impedire l’impossibilità sopravvenuta;  le obbligazioni pecuniarie. In tutte le altre prestazioni si applica l’articolo 1176, e, quindi, il debitore è liberato provando la sua diligenza.

Altri autori, invece, hanno affermato che il criterio della diligenza si applica in ogni ipotesi e non è possibile fare una distinzione. Per ogni obbligazione, quindi, sia essa di fare o di dare, consista la prestazione di dare in un’obbligazione generica o in un’obbligazione pecuniaria, la regola da seguire sarà sempre quella della diligenza. Può dirsi che vi sono ipotesi, da individuarsi caso per caso, e che sono giustificate dalla particolare natura della prestazione oppure dalla posizione del soggetto passivo,  in cui il debitore è tenuto ad uno sforzo notevole, superiore a quello della diligenza media, ma non si può effettuare una casistica precisa.

Anche la teoria soggettiva, però, porta a conseguenze che potrebbero essere ingiuste se si seguisse un metro rigorosamente soggettivo, perché si rischia di trattare due identici comportamenti in modi differenti solo per le diverse caratteristiche del debitore.

Si ammette, quindi, che il principio soggettivo subisca delle eccezioni: anzitutto, vi sono delle prestazioni di garanzia che impongono al debitore un obbligo che prescinde dal requisito della colpa; si parla, poi, del cosiddetto metro oggettivo nella valutazione della colpa,in base al quale la diligenza non è valutata in concreto, ma in astratto, con riferimento al grado di diligenza media; quanto all’impossibilità che è causa di estinzione dell’obbligazione, anche coloro che sostengono che deve essere soggettiva e relativa, ammettono che ci sono delle obbligazioni in cui l’impossibilità deve intendersi in senso oggettivo e assoluto,e cioè nelle prestazioni di genere.

Secondo una parte della dottrina non è possibile stabilire a priori un criterio di responsabilità che sia oggettivo o soggettivo. Il codice stabilisce che il debitore è responsabile se non prova che l’impossibilità della prestazione è dovuta a causa non  imputabile; ma il concetto di impossibilità non può venire inteso in modo rigoroso, e va valutato in relazione al caso concreto. D’altro canto il legislatore stesso ha dimostrato di non accogliere una visione rigidamente oggettiva o soggettiva della responsabilità, dato che nei vari istituti previsti dal codice, ad esempio gli articoli 2104, 1710, 1668,  è rinvenibile una molteplicità di regole;  a volte, è accolto un criterio soggettivo, come nei casi di responsabilità del mandatario, del vettore e dell’appaltatore, o nelle obbligazioni di custodire, o nelle obbligazioni di dare una cosa certa e determinata; altre volte, è accolto un criterio oggettivo,nelle obbligazioni di dare una cosa di genere o una somma di denaro. Un settore in cui regna incontrastata la responsabilità oggettiva è il settore della responsabilità d’impresa. In ogni caso in cui il soggetto inadempiente è un’impresa, infatti, la responsabilità sarà indipendente dalla colpa; in particolare, l’imprenditore è responsabile per ogni inadempimento dovuto a disfunzioni non solo della sua impresa, ma anche della rete degli ausiliari esterni, compresi quelli che operano nella fase preparatoria dei presupposti della prestazione. Il motivo per cui la regola è quella della responsabilità oggettiva in caso il debitore sia un’impresa è da ricercarsi in ragioni di ordine economico. Risulta essere, infatti, il sistema più rapido e sicuro processualmente. Inoltre la minaccia della responsabilità oggettiva può indurre il debitore ad adottare nuove misure preventive contro i danni, qualora, fatti i conti, il dover risarcire i danni arrecati gli costi molto di più.  Per quanto riguarda la responsabilità contrattuale, però, ci sono anche ulteriori ragioni che giustificano l’adozione di un criterio di responsabilità oggettiva. In questa materia, infatti, adottare il criterio di responsabilità per colpa porterebbe a risultati insoddisfacenti e ingiusti; infatti, “solo la responsabilità oggettiva consente di trasferire sull’impresa che ha mal funzionato il peso dell’intero danno che ne è seguito, anche se non si sia verificato presso la controparte”.

Da quanto innanzi detto, si evince chele varie teorie partono da punti di vista diversi, ma in definitiva, quanto ai risultati conseguiti, non si differenziano molto.

In conclusione, il criterio da adottare, per valutare se il debitore sia responsabile, non è né soggettivo né oggettivo; occorrerà, invece, avere riguardo contemporaneamente ad entrambi i criteri proposti sia dall’articolo 1176 che dal 1218.

Né può dirsi che tali norme siano incompatibili tra di loro o che dettino criteri diversi; essendo clausole generali, per loro natura traggono il loro contenuto solo dalla concreta applicazione che ne viene fatta. Entrambe le norme, quindi, vanno lette ed applicate contemporaneamente al caso specifico, ma senza che possa predeterminarsi a priori se il criterio da seguire debba privilegiare l’uno o l’altro dei due articoli.

Quando non è adempiuta l’obbligazione occorre vedere se il debitore è responsabile oppure no.

Per la teoria soggettiva il debitore non è responsabile se si è comportato con diligenza, secondo l’art. 1176 c.c..  Di conseguenza, per essere esonerato da responsabilità, deve solo provare di essere stato diligente, quindi, mancanza di responsabilità  equivale a mancanza di colpa.

Per la teoria oggettiva,  il criterio per valutare l’inadempimento del debitore è quello di cui all’articolo 1218: il debitore non è responsabile solo se riesce a provare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile. Di conseguenza, per essere esonerato da responsabilità, deve provare due cose: il fatto specifico che ha causato l’inadempimento, come un incendio, un terremoto, il fatto del terzo; la sua inimputabilità, cioè che il fatto è dovuto a un evento straordinario e imprevedibile a lui estraneo e non imputabile.

Questo significa che il debitore potrebbe riuscire a provare di essere stato diligente, ma non riuscire a provare l’evento specifico, o la sua inimputabilità; in tal caso sarà responsabile ugualmente. In altre parole, il debitore deve tenere un comportamento superiore alla diligenza media, in quanto la mancanza di colpa non implica che il debitore non sia responsabile.

Parte della dottrina  sostiene che adottare una o l’altra delle tesi non porta a nessuna conseguenza di rilievo. Il criterio da adottare, cioè, non è  oggettivo o soggettivo, ma risulterà da un’applicazione combinata di entrambe le norme, che si adatti al caso concreto e che tenga conto di tutti gli interessi in gioco, nonché‚ di tutti i valori e i principi presenti nell’ordinamento. La nozione di “impossibilità per causa non imputabile”, infatti, è quanto mai generica e suscettibile di essere adattata ai casi concreti in modo elastico.

4.Ipotesi particolari di inadempimento legato all’impossibilità: factum principis ed onere della prova

Vi sono casi in cui il codice civile e altre leggi speciali descrivono ipotesi di responsabilità oggettiva, senza colpa, ma sono eccezioni rispetto al principio di carattere generale. Tra queste ricordiamo la responsabilità del vettore, dell’albergatore, del datore di lavoro che si avvale di ausiliari, del soggetto tenuto alla consegna di cose generiche, con riferimento alle quali l’impossibilità sopravvenuta è impossibile, in virtù del noto brocardo genus numquam perit, per cui il debitore è comunque tenuto alla prestazione.

Una ipotesi che è stata oggetto di attenzione da parte della giurisprudenza è rappresentata dal factum principis, che è il provvedimento dell’autorità che vieta l’attività oggetto della prestazione, ovvero il provvedimento dell’autorità che determina indirettamente l’impossibilità di realizzare la prestazione.

In proposito, la giurisprudenza rileva che il factum principis può essere causa di impossibilità sopravvenuta o causa che determina il venire meno dell’obbligazione, soltanto quando questo non era ragionevolmente prevedibile, neanche remotamente, al momento della assunzione dell’obbligazione secondo l’ordinaria diligenza e non sia stato determinato dal debitore.

Un’altra fattispecie da prendere in esame è quella relativa al contratto di deposito, che presenta una responsabilità aggravata a carico del depositario, come già lo era nel diritto romano, al pari del contratto di trasporto.

In particolare, il soggetto che perda o faccia deteriorare la cosa data in deposito deve provare il fatto storico, concreto che ha determinato la perdita o il deterioramento a lui non imputabile e, quindi, il caso fortuito. In tale caso, la giurisprudenza inverte il criterio della diligenza, ritenendo applicabile, al fine della prova liberatoria, l’art. 1218 c.c., non essendo sufficiente la dimostrazione di avere utilizzato la diligenza del buon padre di famiglia di cui all’art. 1176 c.c., ma, al contrario, essendo necessario dare atto della inevitabilità e della imprevedibilità.

Nella responsabilità “ex recepto”, il soggetto non è libero provando le cautele che ha adottato per impedire la realizzazione dell’evento lesivo, non si libera neanche provando di avere posto in essere la massima diligenza e tutte le cautele possibili per impedire la realizzazione del fatto. Egli si libera solo provando il fatto storico che ha determinato l’evento lesivo. Solo dopo avere individuato e provato il fatto storico, potrà procedersi alla verifica ed alla valutazione delle cautele adottate dal depositario al fine di evitare l’evento dannoso, nel senso anche della loro proporzionalità rispetto allo sforzo dovuto, come richiesto dall’art. 1176 c.c. . Da tanto consegue che, nel caso in cui il fatto resti ignoto e non si possa dimostrare la causa della perdita o del deterioramento del bene dato in deposito, il depositario risponderà comunque dell’evento dannoso, anche nel caso in cui egli abbia posto in essere le massime cautele possibili e utili in quel momento secondo la scienza.

Nel 2019, però, la giurisprudenza  afferma che, una volta individuato il fatto storico e, successivamente, l’impegno posto in essere dal soggetto per evitare che il danno si verificasse anche con riferimento a quel  tipo di evento, occorre avere riguardo al tipo di obbligazione. Pertanto, secondo la giurisprudenza che nega la responsabilità oggettiva, quanto meno a livello di denominazione, non si tratta di responsabilità oggettiva,  in quanto si riscontra sempre un criterio di diligenza che va riferito secondo quanto previsto dall’art. 1176 c.c.  alla categoria di appartenenza. Questo perchè la oggettività della responsabilità riguarderebbe solo l’obbligo di individuare il fatto concreto che abbia portato alla distruzione ed al deterioramento del bene. Una volta individuato il fatto storico, subentra la valutazione di diligenza ex ert.1176 c.c., la quale va condotta sulla base delle conoscenze tipiche del soggetto che svolge l’attività professionale alla quale il debitore è tenuto.

La giurisprudenza si è anche interrogata sul tipo di responsabilità incombente sull’imprenditore nel caso di sciopero. In argomento, si è operata la distinzione tra sciopero aziendale e sciopero nazionale, reputando solo il secondo quale causa di impossibilità sopravvenuta non prevedibile e non evitabile, dal momento che il singolo imprenditore non è in grado di attuare una politica del lavoro in grado di agire sulle dinamiche sindacali nazionali. Invece, nel caso di sciopero aziendale, si ritiene che sia necessario valutare la condotta del debitore/imprenditore, dal momento che potrebbe essere ben possibile che un’attenta politica sindacale avrebbe ben potuto evitare l’indizione e la realizzazione dello sciopero.

Nelle obbligazioni di non fare, cioè quelle in cui il soggetto si è impegnato a non tenere un determinato comportamento, si ritiene che non possa configurarsi una impossibilità sopravvenuta, perchè il compimento dell’attività che non si sarebbe dovuta realizzare implica il fatto volontario del soggetto che abbia violato l’obbligo di non fare.

Con riguardo alla responsabilità della banca a seguito del pagamento dell’assegno a soggetto diverso dal legittimo imprenditore, la giurisprudenza si è divisa tra un orientamento che riteneva trattarsi di una responsabilità oggettiva, ed un altro orientamento sviluppatosi a partire dal ’68, secondo il quale la banca risponde nei confronti dell’effettivo prenditore solo se non ha usato la dovuta diligenza, la quale viene posta al centro della relazione. Le Sezioni Unite della Cassazione precisano che la banca in questa ipotesi risponde di responsabilità contrattuale nei confronti del legittimo titolare. Tra la banca  e l’effettivo prenditore non c’è un rapporto contrattuale, ma è pur vero che è configurabile una responsabilità contrattuale, poiché tra la banca ed il soggetto titolare del diritto al pagamento dell’assegno, si realizza un contatto sociale qualificato. Infatti, tra l’istituto bancario ed il legittimo prenditore dell’assegno si realizza un rapporto disciplinato dall’ordinamento giuridico, il quale impone alla banca di tenere un determinato comportamento idoneo a tutelare l’affidamento che la comunità ripone nei confronti dei soggetti bancari. Da detto rapporto, discende a carico della banca l’obbligo professionale di protezione, preesistente, specifico e volontariamente assunto, da adempiere nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine dell’operazione.

Qualificata la responsabilità della banca quale responsabilità contrattuale da contatto sociale qualificato, derivano a carico della stessa i doveri di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c..

Pertanto, se l’obbligazione ha natura contrattuale, dalla quale derivano doveri di correttezza e buona fede, ex art. 1175, 1375 c.c., nonché di diligenza ex art. 1176 c.c., non può ritenersi condivisibile la tesi secondo cui la banca risponde del pagamento dell’assegno a prescindere dalla colpa. Ne discende che vi è responsabilità contrattuale solo se c’è responsabilità colposa, non essendo pensabile una responsabilità oggettiva nell’ambito di un rapporto contrattuale, con la conseguenza che le uniche ipotesi di responsabilità oggettiva sarebbero concepibili nell’ambito di una responsabilità extracontrattuale.

I rimedi contro l’inadempimento sono mezzi di tutela del diritto di credito. Al riguardo si distingue tra rimedi generali e rimedi settoriali. I primi sono posti a tutela di qualsiasi posizione creditoria, a prescindere, cioè, dalla fonte di obbligazioni che la origina. In questo primo gruppo rientrano il risarcimento del danno e l’azione di adempimento.

I secondi, invece, sono preordinati alla tutela di quelle posizioni creditorie che derivano da una peculiare fonte di obbligazioni. Ad esempio, l’ordinamento predispone dei mezzi di tutela specifici in materia di contratti sinallagmatici, come la risoluzione del contratto.

Tali rimedi, poi, possono essere giudiziali o stragiudiziali, a seconda, cioè, che richiedano o meno per la loro attuazione l’intervento del giudice. E’ da dire, però, che la maggior parte dei rimedi stragiudiziali sono assolutamente eccezionali, in quanto danno luogo alla cosiddetta autotutela privata.

Un rimedio stragiudiziale, che non configura una forma di autotutela del credito, ma costituisce una liquidazione preventiva e forfettaria del danno da inadempimento, è la clausola penale.

Altra distinzione fondamentale è quella tra rimedi sanzionatori e rimedi obiettivi. I primi presuppongono la colpa del debitore, come ad esempio il risarcimento del danno, mentre negli altri è sufficiente la mera violazione dell’obbligo, come nel caso della riduzione del prezzo.

In sintesi, i rimedi sono: risarcimento del danno; clausola penale; azione di adempimento.

In  merito all’azione di adempimento, si osserva che si tratta di un’azione diretta ad ottenere la condanna del debitore ad eseguire la prestazione dedotta in obbligazione. È azione di condanna, finalizzata, cioè, alla precostituzione di un titolo esecutivo da spendere nel processo di esecuzione. I presupposti di tale azione sono: la fungibilità della prestazione e la sua mancata esecuzione. Nei contratti a prestazioni corrispettive, l’art. 1453 comma 2 la pone in rapporto di alternatività con l’azione di risoluzione. Ciò è giustificato dal fatto che l’azione di adempimento presuppone il mantenimento in vita del contratto, mentre  la risoluzione porta all’estinzione del medesimo, con rilevanti conseguenze anche sotto il profilo processuale. L’azione di adempimento non va, poi, confusa con il risarcimento in forma specifica: la prima è finalizzata ad ottenere la prestazione dedotta in obbligazione, mentre la seconda un surrogato che compensi il creditore della perdita subita.

Un altro rimedio è rappresentato dal diritto alla sostituzione della prestazione, previsto in modo specifico per la vendita dei beni di consumo dal d.lgs. n. 24/02 che aveva novellato il codice civile introducendo gli artt. 1519 bis e ss., ora confluiti nel codice del consumo. E’ discusso se tale rimedio possa trovare applicazione generalizzata in materia contrattuale. Al riguardo si dibatte anche della natura giuridica della sostituzione: secondo alcuni si tratterebbe di una novazione dell’originaria obbligazione, mentre secondo altri sarebbe soddisfazione dell’originaria pretesa di adempimento.

A queste forme di tutela, si aggiungono i rimedi contrattuali, di cui agli artt. 1453 e ss. c.c., l’ esecuzione forzata; i provvedimenti d’urgenza ex art.700 c.p.c.

In ordine all’onere della prova in materia di inadempimento, si discuteva sul riparto del medesimo. In particolare, si registrava un contrasto giurisprudenziale: parte della giurisprudenza riteneva che il creditore dovesse provare l’inadempimento, mentre per l’orientamento minoritario era il debitore, eccepente l’estinzione dell’obbligazione, a dover provare l’intervenuto adempimento.

Secondo la prima tesi, quella tradizionale e prevalente, l’onere della prova del creditore mutava a seconda del tipo di azione proposta. Se, infatti, il creditore agiva per l’esecuzione del contratto o per l’esatto adempimento, lo stesso era tenuto a provare solo la fonte del rapporto, cioè il contratto; ciò in quanto si riteneva che il fatto costitutivo, oggetto dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., fosse proprio il contratto. Diversa era, invece, la soluzione allorquando il creditore avesse agito per la risoluzione. In tal caso, infatti, la il fatto da provare era dato dal contratto e dall’inadempimento.

A questa impostazione furono mosse alcune critiche. In particolare, si fece notare come si creasse un’irragionevole disparità di trattamento tra rimedi che la legge, ex art. 1453 comma 2 cc, configura come alternativi; inoltre, anche l’azione di adempimento, al pari della risoluzione, è un rimedio contro l’inadempimento e dunque lo presuppone quale fatto storico; il creditore, nel caso della risoluzione, incorreva in una probatio diabolica, dovendo provare un fatto negativo, cioè l’inadempimento.

Sulla scorta di tali critiche un orientamento minoritario riteneva, invece, che il creditore dovesse provare solo ed esclusivamente la fonte del rapporto, in quanto solo quest’ultima si atteggia sempre ed in ogni caso come fatto costitutivo del diritto di credito. La tesi era suffragata, inoltre, da alcuni principi fondamentali in materia probatoria. In primo luogo, si richiamava il principio della riferibilità o della vicinanza della prova, in base al quale l’onere della prova di un fatto va posto a carico del soggetto a cui il fatto stesso si riferisce; così, nel caso che ci riguarda, l’inadempimento si riferisce al debitore e quindi deve essere questi a provare di non essere inadempiente; in secondo luogo, si citava il principio della persistenza del diritto, in virtù del quale ogni diritto, anche quello di credito, si presume esistente finché non si dimostra il contrario; da tale principio, nel caso di specie, discende una presunzione di inadempimento, che solo il debitore, mediante prova contraria, può vincere; infine, con tale tesi, si evita la prova di un fatto negativo, in quanto è il debitore a dover provare l’adempimento e quindi un fatto positivo.

A comporre il contrasto sono intervenute le SS.UU. Civili, con la sentenza n.13533 del 30 ottobre 2001, le quali hanno aderito all’impostazione minoritaria, andando, peraltro, a saggiare la portata della nuova tesi anche in alcune fattispecie particolari, come l’inesatto adempimento, l’exceptio inadimpleti contractus, obbligazioni negative; tuttavia, l’ultima ipotesi rappresenta un’eccezione pertanto il creditore dovrà provare anche l’inadempimento.

In sostanza il creditore, che voglia agire in giudizio per la tutela della propria pretesa, dovrà provare il titolo ed allegare l’inadempimento, mentre sul debitore grava l’onere di dover provare la fattispecie solutoria.

Quindi, il creditore si trova in una posizione di grande vantaggio rispetto al debitore, perché egli si limita a provare l’esistenza della fonte del rapporto obbligatorio.

A fondamento di questa soluzione del conflitto, la Corte di Cassazione pone il principio della vicinanza della prova , secondo il quale si pone l’obbligo della prova a carico del soggetto che meglio può adempierlo, perché il creditore non potrebbe provare il fatto negativo, cioè il fatto di non avere ricevuto l’adempimento, dal momento che il fatto negativo non può essere provato; al contrario, il debitore può provare di avere adempiuto tanto più che egli ha anche diritto al rilascio della quietanza di avvenuto pagamento e, prescindendo dalla quietanza , egli è in grado di provare il fatto positivo dell’adempimento o di dimostrare di non avere potuto adempiere per causa a lui non imputabile. Le Sezioni Unite hanno, però, precisato che l’onere della prova si inverte con riferimento alle obbligazioni negative, nelle quali è il creditore che deve dimostrare l’esistenza del titolo  e il fatto che il debitore abbia violato l’obbligo di non fare.

Francesca Dimundo