a cura di Gianni Toscano

SOMMARIO: 1. Il caso in esame. – 2. Il regime di incompatibilità dei pubblici dipendenti nell’attuale panorama normativo di riferimento. – 3. (segue) L’incompatibilità con il ruolo di amministratore di fatto. – 4. Considerazioni conclusive.

1. Il caso in esame.

La sentenza in commento[1] offre l’occasione per alcune riflessioni sul regime delle incompatibilità per i dipendenti pubblici e sul relativo apparato sanzionatorio, con particolare riferimento ai profili di responsabilità erariale.

La vicenda trae origine da una nota del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza, Sezione Tutela Spesa Pubblica, con la quale era stato segnalato alla Procura Regionale della Corte dei Conti “l’esercizio in fatto di un’attività di impresa edile, asseritamente vietata e incompatibile in senso assoluto con il rapporto di pubblico impiego ai sensi delle vigenti disposizioni di legge”, da parte di due dipendenti pubblici.

In particolare, secondo la prospettazione attorea, i due convenuti, unici soci fondatori di una s.r.l. operante nel settore delle costruzioni e dell’intermediazioni, avrebbero continuato ad agire al suo interno quali amministratori di fatto, anche successivamente alla cessazione dalla titolarità delle cariche sociali.

Difatti, le indagini della Guardia di Finanza avevano acclarato il coinvolgimento personale, diretto, continuativo e significativo dei due convenuti nella gestione di suddetta società.

Il tutto, in palese contrasto con lo status di dipendenti pubblici ed in violazione dell’art. 60 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, che vieta l’esercizio del commercio e dell’industria, anche in relazione all’esercizio di cariche in società costituite a fine di lucro.

In ordine al danno risarcibile, riteneva l’attore che quest’ultimo avrebbe dovuto essere parametrato al fondo riserva straordinario, formato nel tempo dagli utili accantonati e non distribuiti dai soci, ed agli importi corrispondenti ai prelievi effettuati nel corso degli anni da parte dei convenuti su proventi non contabilizzati dalla società.

I convenuti si sono tempestivamente costituiti in giudizio, contestando quanto ex adverso sostenuto dall’attore e chiedendo, in buona sostanza, per quel che rileva maggiormente ai nostri fini, l’assoluzione da ogni formulata imputazione, attesa “l’inconfigurabilità e/o l’insussistenza della figura dell’amministratore di fatto, nonché comunque il dato per cui le attività svolte non avrebbero ricevuto compenso alcuno, con conseguente non integrabilità della fattispecie di cui all’art. 53, c. 7, d.lgs. n. 165/2001”.

All’esito dell’istruttoria, la Corte dei Conti ha parzialmente accolto la domanda attorea, ritenendo integrati gli estremi dell’illecito contestato tanto sul piano oggettivo (l’effettivo svolgimento di attività in qualità di amministratori di fatto), quanto sul piano soggettivo (“cosciente violazione dei doveri di servizio”).

Tuttavia, sul piano risarcitorio, ha condiviso solo in parte la ricostruzione di parte attrice, ritendendo che il quantum debeatur a titolo di danno erariale avrebbe dovuto essere determinato soltanto in relazione ai prelievi di denaro effettivamente posti in essere dai convenuti ed accertati in corso di causa.

Non ha pertanto trovato accoglimento l’ulteriore criterio indicato dall’attore, parametrato al fondo di riserva straordinario, formato nel tempo dagli utili accantonati e non distribuiti dai soci.

Lo stesso, infatti, a giudizio della Corte, “pur astrattamente condivisibile, nell’ottica di valorizzare il nesso eziologico che correla l’utile alla virtuosa gestione dell’impresa, sconta l’assenza, agli atti, di ogni prova degli incassi e, quindi, del giuridico, indefettibile, presupposto dell’obbligo di riversamento di cui all’art. 53, c. 7-bis, d.lgs. n. 165/2001”.

2. Il regime di incompatibilità dei pubblici dipendenti nell’attuale panorama normativo di riferimento.

La disamina del decisum della Corte dei Conti presuppone una breve ricostruzione delle disposizioni vigenti in materia di incompatibilità dei pubblici dipendenti.

Al riguardo, l’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 prevede che “resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3”.

Pertanto, lo speciale regime di incompatibilità trova il suo principale referente normativo all’interno delle richiamate disposizioni[2].

In particolare, secondo quanto previsto dall’art. 60 del d.P.R. n. 3/1957, “l’impiegato non può  esercitare  il  commercio,  l’industria,  né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di  privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro”.

La ratio di tale divieto è rinvenibile nel principio costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa in favore del datore di lavoro pubblico, di cui all’art. 98 Cost., volto a preservare le energie del lavoratore e tutelare il buon andamento della p.a., “che risulterebbe turbato dall’espletamento da parte di propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto”[3].

Un analogo divieto non è invece operante nell’ambito del settore privato, in cui il legislatore si limita a vietare esclusivamente le attività extralavorative in concorrenza con quella del datore di lavoro (art. 2105 c.c.)[4].

Per quanto concerne il profilo sanzionatorio, l’art. 63 del d.P.R. n. 3/1957 prevede che, in caso di violazione delle disposizioni in materia di incompatibilità, il dipendente pubblico debba essere diffidato dal datore di lavoro a cessare la situazione di incompatibiltià.

Decorsi quindici giorni dalla diffida senza che la incompatibilità sia cessata, si verifica la decadenza dall’impiego, che viene (oggi) dichiarata dal soggetto posto al vertice dell’Amministrazione di riferimento.

Viceversa, l’adempimento della diffida impedisce il verificarsi della decadenza, ma non preclude la possibilità per l’amministrazione di adottare eventuali provvedimenti di natura disciplinare.

Sul piano ricostruttivo,  occorre interrogarsi sulla natura giuridica della richiamata decadenza.

Al riguardo, si evidenzia che i più recenti orientamenti della giurisprudenza ne hanno escluso la natura disciplinare.

Essa infatti opera automaticamente e non è la conseguenza di un inadempimento, ma scaturisce dalla perdita dei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità che, se fossero mancati ab origine, avrebbero precluso la stessa costituzione del rapporto di lavoro[5].

Emblematico, al riguardo, quanto già osservato dalla giurisprudenza amministrativa: “il provvedimento di decadenza dall’impiego, disciplinato in linea generale dagli artt. 60 e 63 T.U. 10 gennaio 1957 n. 3, non essendo correlato alla violazione di un obbligo derivante dal rapporto di impiego, ma ad una situazione oggettiva di incompatibilità in cui versa il pubblico dipendente, non ha natura disciplinare né contenziosa e non è quindi assimilabile ad un licenziamento disciplinare[6].

Sembra dunque di assistere ad un’ipotesi di risoluzione ipso iure del rapporto di lavoro, assimilabile alla diffida ad adempiere ex art. 1454 c.c.

Non a caso, anche nella superiore disposizione codicistica, analogamente a quanto previsto dall’art. 63 cit., decorso inutilmente il termine assegnato alla parte inadempiente (non inferiore a quindici giorni), il contratto si risolve di diritto.

Pertanto, sul piano procedurale, ai fini dell’operatività della decadenza, è indispensabile che il l’amministrazione diffidi il suo dipendente in relazione alla cessazione della situazione di incompatibilità.

A questo punto, sarà onere di quest’ultimo rimuovere la rilevata incompatibilità entro il termine di quindici giorni, decorso infruttuosamente il quale si verificherà l’automatica decadenza dal servizio[7].

In un’ottica di maggior tutela del dipendente, nel silenzio della legge, si ritiene che comunque  l’amministrazione, prima di procedere alla diffida, dovrebbe quantomeno notiziarlo sulla (presunta) situazione di incompatibilità, al fine di potersi difendere oralmente o mediante la presentazione di eventuali memorie scritte.

Difatti, ove un tale preliminare confronto dovesse mancare, un’eventuale erronea diffida risulterebbe pregiudizievole per il lavoratore, comportando nella migliore delle ipotesi (in caso di adempimento) la cessazione di una situazione non vietata dalla legge e, nella peggiore (in caso di inadempimento), la decadenza dal servizio, non essendo l’effetto risolutorio nella disponibilità delle parti.

Come accennato, l’ottemperanza alla diffida non pone comunque il dipendente al riparo da un’eventuale azione disciplinare.

In tal caso, ad ogni modo, troveranno applicazione tutte le garanzie procedurali e sostanziali previste dalla legge.

Di conseguenza, la sua condotta verrà valutata ed eventualmente sanzionata soltanto all’esito di apposito procedimento disciplinare ed in ossequio al principio di proporzionalità.

Per completezza espositiva, è appena il caso di evidenziare che l’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, accanto alle ipotesi di divieto assoluto di cui sopra, contempla tutta una serie di attività astrattamente compatibili con lo status di pubblico dipendente, alcune delle quali però sottoposte ad un regime autorizzatorio.

Più nel dettaglio, secondo quanto previsto dal comma 7, “i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza”, la quale, ai fini dell’autorizzazione, “verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi”.

La disposizione, dunque, sembrerebbe sottoporre ad un regime autorizzatorio soltanto gli incarichi retribuiti.

Invero, tale previsione desta qualche perplessità, dal momento che potrebbero verificarsi delle situazioni di conflitto d’interessi o altre situazione di incompatibilità con il rapporto di pubblico impiego anche in relazione ad attività a titolo gratuito.

Ad ogni modo, la verifica per il rilascio dell’autorizzazione non può prescindere da una valutazione in ordine all’occasionalità dell’attività e alla sua compatibilità con l’impiego pubblico del dipendente.

Le attività che invece non richiedono alcuna autorizzazione, alla stregua di quelle a titolo gratuito, sono espressamente individuate dal comma 6 e sono rappresentate, a titolo esemplificativo, dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili ovvero dalla partecipazione a convegni e seminari.

Com’è facilmente intuibile, le stesse non comportano un impegno continuativo, ma devono comunque essere in concreto compatibili con la prestazione lavorativa del dipendente pubblico.

Da ultimo, ulteriori deroghe al regime di incompatibilità sono espressamente previste per il personale in part time c.d. “ridotto” (con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno), dei docenti universitari a tempo definito e delle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali (art. 53, comma 6, cit.).

3. (segue) L’incompatibilità con il ruolo di amministratore di fatto.

L’art. 60 del d.P.R. n. 3/1957, come visto, pone per i dipendenti pubblici un divieto assoluto in relazione alla titolarità di cariche in società costituite a fine di lucro.

È evidente che un tale regime trovi applicazione nei confronti degli amministratori di società aventi scopo di lucro, ivi compresi – per quel che rileva maggiormente ai nostri fini – gli amministratori “di fatto”[8].

Invero, sulla nozione di amministratore di fatto, la giurisprudenza solo in tempi relativamente recenti ha avuto modo di assestarsi su posizioni prettamente sostanziali e funzionali, scevre da rigidi formalismi.

Difatti, nelle prime pronunce in argomento, si era registrato un approccio al tema di tipo formalistico, che riteneva indispensabile, per qualificare un soggetto quale amministratore di fatto, la presenza di una investitura assembleare, anche se irregolare, invalida o implicita (ad es. perché contenuto in altra deliberazione avente un diverso contenuto)[9].

Di diverso avviso, invece, la giurisprudenza penale, la quale riservava alla fattispecie un diverso approccio funzionalistico, considerando sufficiente, ai fini della qualificazione di un soggetto quale amministratore di fatto, il concreto esercizio di funzioni amministrative e gestorie[10].

In seguito, anche la giurisprudenza civile ha abbandonato i rigidi schemi formalistici, aderendo ad un approccio funzionalistico, incentrato sulle concrete funzioni svolte dal soggetto-amministratore di fatto.

Nell’occasione, in particolare, ha iniziato a farsi strada l’idea di una responsabilità da contatto sociale dell’amministratore di fatto[11].

Ad ogni modo, la Suprema Corte non ha inteso operare nei confronti dell’amministratore di fatto una piena estensione delle disposizioni che regolano l’attività degli amministratori, essendosi limitata a richiamare quelle “poste a tutela del corretto esercizio dell’amministrazione dell’ente societario[12].

L’approccio funzionalistico è stato tendenzialmente recepito dal legislatore all’interno dell’art. 2639 c.c., il quale prevede che, per le fattispecie di reato espressamente individuate, “al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”.

Tratti essenziali della figura dell’amministratore di fatto sono dunque la continuatività e la significatività dell’esercizio dei poteri gestori.

Quanto al primo elemento, può osservarsi come la continuatività consiste nella protrazione nel tempo di atti gestori tipici, non potendosi al contrario ritenere sufficienti sporadici ed isolati atti di gestione.

La significatività invece si concreta nell’intensità dell’attività posta in essere, la quale non può atteggiarsi a meramente accessoria o comunque di scarsa rilevanza in relazione allo specifico oggetto sociale.

Peraltro, come puntualmente osservato anche nella sentenza in commento, la gestione della società “non implica, tuttavia, che l’amministratore di fatto vanti una sorta di esclusiva sul compimento degli atti gestori”.

È evidente, infatti, che determinati poteri vengano comunque esercitati dall’amministratore di diritto, “che non può non coabitare con quello di fatto[13].

Pertanto, dall’equiparazione tra le due figure, discendono significativi effetti sul piano della responsabilità, anche contabile, dell’amministratore di fatto.

4. Considerazioni conclusive.

Una volta definito il regime delle incompatibilità dei pubblici dipendenti e l’evoluzione normativa e giurisprudenziale attorno alla figura dell’amministratore di fatto, è giunto il momento di procedere ad una conclusiva disamina della sentenza in commento.

Come accennato, nel caso in esame, è stata accolta parzialmente la domanda attorea, con condanna  dei due pubblici dipendenti al risarcimento del danno erariale, parametrato alle somme effettivamente incassate da questi ultimi nella qualità di amministratori di fatto della società dagli stessi fondata.

Il rigoroso percorso argomentativo seguito dalla Corte, arricchito dal richiamo di numerosi precedenti giurisprudenziali in argomento, risulta pienamente condivisibile.

È stata infatti analiticamente messa in rilievo, in punto di fatto, la sussistenza di tutti gli elementi tipici che consentono di attribuire ad un soggetto la qualifica di amministratore di fatto.

In particolare, sono emersi plurimi atti, sistematicamente ripetuti nel tempo e di significativa rilevanza, sintomatici della gestione di fatto della società.

Il riferimento è, più nel dettaglio, alla molteplicità di incarichi tecnici svolti dai convenuti nel periodo oggetto dell’azione di responsabilità, nonché ai numerosi rapporti intrattenuti ad esempio con clienti e fornitori.

Muovendo da tale presupposto, quoad effectum, è stata correttamente posta in capo ai due convenuti una responsabilità di tipo erariale per violazione delle disposizioni vigenti in materia di incompatibilità dei pubblici dipendenti.

Un ultimo profilo da mettere in rilievo concerne la quantificazione del danno, che è stato parametrato esclusivamente alle somme effettivamente incassate dai convenuti nello svolgimento dell’attività gestoria (di fatto) della società.

Invero, l’ulteriore criterio invocato da parte attrice per determinare il quantum debeatur, relativo al fondo di riserva straordinario, formato dagli utili accantonati e non distribuiti dai soci, sebbene astrattamente condivisibile, non poteva trovare applicazione nel caso di specie, in ragione dell’insussistenza di prove sul materiale incasso delle somme accantonate.

Anche sotto tale aspetto, dunque, la sentenza merita di essere ampiamente condivisa.


[1] Corte dei Conti, sez. giurisdizionale per la regione Emilia Romagna, n. 81/2021 (Pres. T. Maiello – Ref. rel. A. Giordano).

[2] Con riferimento alle incompatibilità del pubblico dipendente, cfr. in particolare M. Martone, Rapporto di lavoro e prevenzione della corruzione: concorsi e prove selettive, incompatibilità, inconferibilità degli incarichi e codici di comportamento, in ADL, 6, 2017, pp. 1432 ss.

[3] In questi termini, V. Tenore, Le attività extraistituzionali e le incompatibilità per il pubblico dipendente, in LPA, 6, 2007, p. 1097. Sulla ratio di tale divieto, cfr. altresì M. D’Aponte, L’autorizzazione dei dipendenti pubblici allo svolgimento di incarichi esterni dopo la Riforma Brunetta, in LPA, 6, 2011, pp. 965 ss., spec. par. 3.

[4] Sul generale obbligo di fedeltà del lavoratore, si rinvia in particolare alle autorevoli riflessioni di M. Persiani, Contratto di lavoro e organizzazione, Padova, 1966, pp. 216 ss., nonché, più di recente, a E. Fiata, voce Fedeltà del lavoratore (obbligo di), in Enc. Giur. Treccani, Aggiornamento, Roma, 2002, pp. 1 ss.

[5] Cass. Civ., 19 gennaio 2006, n. 967, in Foro it., I, 2006, c. 2346.

[6] T.A.R. Campania, Napoli, 22 gennaio 2002, n. 389, in Foro amm., 2002, p. 202.

[7] Osserva sul punto M. Dallacasa, Le incompatibilità del pubblico dipendente tra decadenza e licenziamento disciplinare, in Lav. giur., 6, 2015, p. 615 che “se il termine trascorre senza che la situazione d’incompatibilità sia rimossa, l’impiegato decade, producendosi un effetto risolutivo immediato del rapporto, rispetto al quale il provvedimento successivo che lo accerta ha solo rilevanza dichiarativa”.

[8] Sulla figura dell’amministratore di fatto, si registrano numerosi contributi dottrinali, tra i quali si rinvia, a mero titolo indicativo, a: A. Ippolito, Amministratore di fatto, holding di fatto e abuso di attività di direzione e coordinamento, in Società, 8-9, 2019, pp. 973 ss., F. Riganti, Amministratore di fatto e di diritto: ricorrenza e responsabilità, in Giur. it., 6, 2017, pp. 1394 ss.; ID., L’estrinsecazione della funzione gestoria, tra forma e sostanza, in Giur. it., 1, 2017, pp. 105 ss.; S. Cassani, Responsabilità dell’amministratore di diritto e dell’amministratore di fatto, in Società, 10, 2013, pp. 1057 ss.; F. Bruno, La responsabilità dell’amministratore di fatto nella giurisprudenza di legittimità e di merito, in Corr. giur., 11, 2010, p. 1435; G. Valcavi, Sulle responsabilità degli amministratori di fatto verso la società e i soci, in Dir. fall., I, 2001, p. 313; F. Guerrera, Gestione “di fatto” e funzione amministrativa nelle società di capitali, in Riv. dir. comm., 1-4, 1999, p. 131.

[9] V. Cass. Civ., 12 gennaio 1984, n. 234, in Giur. comm., II, 1985, p. 182, con nota di F. Bonelli, La prima sentenza della Cassazione civile sull’amministratore di fatto.

[10] V. Cass. Pen., 17 gennaio 1996, n. 3333, in Fisco, 1996, p. 6318. Cfr. altresì Trib. Torino, 5 luglio 1988, in Giur. it., I, 2, 1988, p. 716, in cui si precisa che non occorre un formale atto di nomina nei confronti del soggetto.

[11] V. Cass. Civ., 6 marzo 1999, n. 1925, in Banca dati DeJure e Cass. Civ., 14 settembre 1999, n. 9795, in Giur. comm., II, 2000, p. 168, con nota di N. Abriani, Dalle nebbie della finzione al nitore della realtà: una svolta nella giurisprudenza civile in tema di amministratore di fatto.

[12] Cass. Civ., 6 marzo 1999, n. 1925, cit. Come rilevato da A. Ippolito, Amministratore di fatto, holding di fatto e abuso di attività di direzione e coordinamento, cit., p. 978, “a ben vedere la Corte di Cassazione non ha validato un’applicazione tout court delle disposizioni relative all’amministratore di fatto, ma ne ha per così dire promosso “un’estensione selettiva”.

[13] Il riferimento è, per esempio, all’approvazione del progetto di bilancio, alla convocazione dell’assemblea e, comunque, più in generale, a tutti gli adempimenti di spettanza dei soggetti provvisti di formale investitura.