di Andrea Lestini
Sommario: 1. Premessa – 2. Rimedi contrattuali, autonomia privata e clausola di irresolubilità– 3. La c.d. clausola di irresolubilità per inadempimento – 4. Deroga convenzionale agli artt. 1463 e 1464 c.c. e suoi limiti – 5. Conclusioni
1. Premessa
In un precedente scritto [1], ripercorrendo i problemi affrontati dalla dottrina civilistica in ordine alle sopravvenienze contrattuali determinate dalla pandemia, si introduceva quale ulteriore tema d’indagine quello relativo ai limiti imposti all’autonomia privata in ordine alla disciplina legale della risoluzione.
In tale contesto, assume particolare rilievo la problematica inerente la disponibilità convenzionale ed anticipata dei rimedi previsti dalla disciplina della risoluzione, rispetto al momento in cui si verificano i presupposti per la loro attivazione, la quale si traduce usualmente nell’interrogarsi circa la validità della clausola di irresolubilità [2].
Ci si chiede, dunque, se la disciplina legale della risoluzione del contratto possa essere derogata dalle parti, nel senso che il rischio riguardante gli effetti della sopravvenienza possa essere integralmente addossato a un contraente, tenuto in ogni caso ad adempiere.
Il patto di irresolubilità, inserendosi nella peculiarità di ciascuna operazione negoziale, può infatti assolvere a significativi interessi delle parti, volti a privilegiare – pur a fronte di patologie della fase esecutiva – la conservazione e stabilizzazione del rapporto contrattuale [3].
A tal fine, dopo aver brevemente inquadrato il fenomeno e circoscritto l’ambito di indagine (par. 2), si procederà distinguendo l’ipotesi della clausola di irresolubilità per inadempimento (par. 3) da quella per impossibilità sopravvenuta ed eccessiva onerosità (par. 4).
2. Rimedi contrattuali, autonomia privata e clausola di irresolubilità
Ebbene, posto che la tematica dei rimedi comprende numerosi e molteplici profili, occorre preliminarmente circoscrivere, al fine di una sua più precisa individuazione, l’ambito di indagine.
Infatti, da un lato ci si deve chiedere se l’autonomia privata possa modulare diversamente la scansione normativa dei rimedi sinallagmatici, in particolare disciplinando in modo difforme dalla legge l’alternativa tra tutela satisfattiva (domanda di adempimento) e tutela risolutoria, ovvero regolando diversamente le condizioni di esercizio di quest’ultima; dall’altro lato ci si può interrogare sulla possibilità dei privati di predisporre convenzionalmente congegni risolutori diversi da quelli normativamente previsti, e dunque alternativi alla risoluzione ordinaria (come ad esempio la condizione di inadempimento) [4].
La modifica all’ordinaria disciplina dei rimedi, inoltre, riguarda un giudizio che si focalizza sui costi derivanti dalla risoluzione del contratto e sui benefici ad essa associati. Del resto, il rimedio risolutorio è escluso o disincentivato – già a livello legislativo – in situazioni in cui non solo si intendono evitare abusi della parte non inadempiente, ma si ritiene che i costi determinati dallo scioglimento unilaterale del vincolo e al rispristino della situazione antecedente alla conclusione dello stesso siano maggiori dei benefici che verrebbero a prodursi in capo al contraente fedele [5].
3. La c.d. clausola di irresolubilità per inadempimento
Ciò posto, al fine di considerare se la normativa in tema di risoluzione per inadempimento sia derogabile ed eventualmente in quale misura da parte dell’autonomia privata, si rende opportuno considerare che tale autonomia privata può muoversi in diverse direzioni, mediante la predisposizione di adeguate clausole sia di gestione dei rischi di inadempimento, sia di restrizione del relativo potere di azione e di impugnazione del contratto al fine di circoscriverlo e limitarlo [6].
L’intervento dell’autonomia privata modificativo del sistema legale dei rimedi sinallagmatici [7] può essere volto ad escludere, con riguardo alsingolo rapporto contrattuale, la tutela risarcitoria; può, viceversa, rendere esclusiva quella tutela, prevedendo che in caso di inadempimento il contraente in bonis non possa agire per l’adempimento; infine, può limitarsi a modificare i presupposti di attivazione del rimedio risolutorio.
In questa prospettiva, si inserisce dunque l’esigenza di verificare, a fronte della pluralità delle forme di tutela apprestate dall’ordinamento contro l’inattuazione del contratto, la validità di una clausola di irresolubilità.
Ciò che emerge nella prassi commerciale interna ed internazionale è, in tal senso, un interesse a redigere contratti stabili, anche a fronte di inadempimenti di una delle parti.
Come è stato osservato da parte della dottrina, ci si può in particolar modo chiedere «se, nella costruzione del regolamento contrattuale, al fine di prevenire o mitigare il rischio dell’inadempimento, la preventiva esclusione convenzionale dei rimedi contrattuali possa costituire essa stessa un rimedio contrattuale: anzi l’unico» [8].
Al riguardo, parte della dottrina esclude l’ammissibilità del patto con cui i contraenti rinuncino preventivamente a far valere, a fronte dell’inadempimento della controparte, il diritto alla risoluzione, vuoi sostenendo la natura sanzionatoria e conseguentemente inderogabile della disciplina dettata dal legislatore [9], vuoi affermando che una tale pattuizione trasformerebbe l’accordo contrattuale in due promesse autonome, nel senso che esse prenderebbero a comportarsi come se fossero promesse gratuite o dedotte in gioco [10]. Questa sfiducia nell’autonomia privata, si è detto [11], è legata al problema e al dibattito teorico dedicato al fondamento della risoluzione, e dunque con l’idea di una intangibilità del collegamento funzionale, causale, delle prestazioni.
Altro e diverso orientamento dottrinale ha manifestato un atteggiamento possibilista, purché rimangano operanti i rimedi rivolti all’adempimento e al risarcimento del danno, e venga rispettato l’art. 1229 c.c. [12].
L’indagine [13] può prendere le mosse dalla considerazione secondo cui le parti possono innanzitutto, attribuire la qualifica di “non scarsa importanza” a taluni specifici inadempimenti individuati con precisione, in modo da superare in un eventuale futuro giudizio la valutazione di cui all’art. 1455 c.c.; in tal modo si raggiungerebbe un risultato sostanzialmente analogo a quello che si sarebbe ottenuto attraverso la pattuizione di una clausola risolutiva espressa, con la precisazione però che il contraente che intende risolvere il contratto deve ricorrere alla risoluzione giudiziale.
Una clausola contrattuale potrebbe, in secondo luogo, “depotenziare” taluni specifici inadempimenti attribuendo loro la qualifica di “scarsa importanza”. Ebbene, in tal caso si ritiene che non sussistano dubbi in ordine alla validità ed efficacia della clausola, in quanto una parte valuta preventivamente il proprio interesse in relazione a taluni specifici inadempimenti e li qualifica come di scarsa importanza.
Ulteriore questione, riguarda la validità di una preventiva rinuncia alla risoluzione per inadempimento, la quale sia riferita solo a taluni specifici inadempimenti; tale clausola, nella sostanza, significa che tali inadempimenti sono ritenuti – come nell’ipotesi precedente – di scarsa importanza dai contraenti.
Ciò posto, l’aspetto più problematico della questione riguarda dunque l’ipotesi in cui la preventiva rinuncia alla risoluzione non sia delimitata quanto agli inadempimenti deducibili, e pertanto assuma una portata di carattere generale.
Al riguardo, parte della dottrina [14] distingue il caso in cui la preventiva rinuncia alla risoluzione avviene ad opera del soggetto che ha diritto a ricevere una prestazione pecuniaria, rispetto all’ipotesi in cui tale rinuncia riguardi il creditore della prestazione caratteristica. Infatti, si ritiene che solo in quest’ultimo caso l’interesse del contraente non inadempiente sarebbe quello di liberarsi dal vincolo contrattuale e recuperare la prestazione eseguita, oltre al risarcimento del danno; laddove nel primo caso egli avrebbe interesse a mantenere il contratto e ad agire per l’adempimento e per i danni.
Una maggiore apertura si rinviene nella impostazione di chi [15] – al fine di consentire l’anticipazione della scelta tra adempimento e risoluzione, dal tempo dell’inadempimento a quello della stipulazione – si chiede come mai l’eventualità in cui venga anticipatamente esclusa la tutela satisfattivo-esecutiva, non debba destare analoghi dubbi, attesa la previsione di cui all’art. 2932 c.c.
In realtà, per comprendere la questione occorre rilevare come il fondamento dell’ammissibilità delle clausole che consentono all’autonomia privata di intervenire sulla disciplina legale della risolubilità, si rinviene in una pluralità di ragioni legate alle singole e concrete negoziazioni [16].
L’attività d’impresa è, infatti, soggetta a situazioni che producono instabilità ed aleatorietà nella gestione degli affari, soprattutto quando si tratta di operazioni economiche complesse [17], nelle quali non è infrequente la predisposizione di clausole, dette di «sole remedy», che escludono la proponibilità di domande o di eccezioni sinallagmatiche, tra cui quelle di inadempimento.
L’interesse delle parti è, dunque, anche quello di circoscrivere (o escludere) la possibilità di risolvere il contratto e quindi di farne caducare gli effetti, in quanto «desiderano (…) risolvere autonomamente tra loro le possibili contestazioni o controversie mediante la previsione in contratto di procedure e regole “endocontrattuali” della crisi» [18].
Le parti si affidano pertanto al contratto «nel tentativo di un sostanziale “autogoverno stragiudiziale della sua crisi”, attuato mediante la predisposizione di apposite clausole ad hoc» [19].
Del resto, come anticipato, tra gli argomenti a favore di pattuizioni sulla risoluzione, si fa riferimento a diverse regole – previste nel nostro codice civile e nella legislazione speciale, nonché in fonti di diritto internazionale privato materiale e in fonti extra-statali, prodotte da organizzazioni private – da cui si desumerebbe un generale favor del nostro ordinamento per la conservazione del rapporto contrattuale [20].
Rispetto alle norme di diritto interno, il legislatore da un lato in talune fattispecie – si pensi, con riferimento al contratto di appalto, agli artt. 1667 e 1668 c.c. – innalza la soglia della scarsa importanza dell’inadempimento che giustifica la risoluzione; dall’altro, esclude ad esempio l’operatività del rimedio della risoluzione con riferimento alla disciplina dei conguagli tra condividenti, del contratto di rendita vitalizio e di transazione.
Dall’altro lato ancora, emergono situazioni in cui l’impiego del rimedio è disincentivato, in quanto lo stesso è offerto in alternativa ad altro rimedio [21], ovvero è concepito quale ultimo tra i rimedi esperibili nell’ambito di un ordine imperativo [22] o è subordinato alla sussistenza di presupposti particolarmente restrittivi [23].
Restano da considerare, da ultimo, i rapporti tra la clausola di irresolubilità e le limitazioni di responsabilità del debitore, in ordine ai quali la dottrina ha espresso posizioni alquanto divergenti, essendo oggetto di discussione se la stipulazione della clausola incida in qualche modo sul regime della responsabilità per inadempimento.
A tal riguardo, infatti, secondo un primo orientamento [24], i due istituti si muoverebbero su piani distinti e indipendenti, in quanto la risoluzione riguarda il sinallagma tra le prestazioni, mentre la clausola di cui all’art. 1229 c.c. le conseguenze negative che l’inadempimento potrebbe causare al patrimonio del creditore. A tale impostazione – che nega che la disattivazione del rimedio risolutorio possa considerarsi idonea a limitare la responsabilità in senso tecnico – si contrappone tuttavia la tesi secondo cui la clausola di irresolubilità dovrebbe considerarsi valida proprio nei limiti segnati dall’art. 1229 c.c. [25].
Le pur rapide considerazioni svolte consentono, dunque, di cogliere il radicale elemento di novità che gli sviluppi evolutivi, che si sono venuti delineando, hanno apportato rispetto alla tradizionale concezione sfavorevole rispetto alla rinuncia preventiva al rimedio risolutorio.
4. Deroga convenzionale agli artt. 1463 e 1464 c.c. e suoi limiti
Anche con riferimento alle disposizioni di cui agli artt. 1463 e 1464 c.c. si ritiene che le parti possano, non avendo tali norme natura inderogabile, disciplinare un’allocazione dei rischi in maniera affatto diversa rispetto al criterio legale [26].
Le parti potrebbero dunque derogare alla disciplina legale nel senso che il rischio riguardante gli effetti di una causa di impossibilità sopravvenuta potrebbe essere integralmente addossato a un contraente, tenuto in ogni caso ad adempiere (indipendentemente, cioè, dalla valvola di sicurezza prevista dal secondo comma dell’art. 1256 c.c.), una volta venuta meno la sospensione del contratto [27].
La giurisprudenza ammette, invero, che «al di fuori dei contratti tipicamente aleatori, la previsione da parte dei contraenti del rischio di un evento comporta l’assunzione dell’alea in relazione ad ogni fatto incidente su di esso, con la conseguenza che le norme sulla sopravvenuta impossibilità della prestazione e sulla eccessiva onerosità della stessa non sono applicabili nei confronti della parte in danno della quale si sia risolto quell’evento» [28].
Tuttavia, in ragione degli specifici interventi normativi che, in determinati settori, hanno disposto l’applicabilità ai contratti in corso dell’istituto dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione è lecito domandarsi se tale orientamento possa trovare applicazione (anche) nella situazione di emergenza attuale.
Ebbene, non può non ritenersi che la legislazione emergenziale intervenuta in materia [29] assuma carattere imperativo e inderogabile [30], con la conseguenza che non si potrebbero ritenere validi eventuali patti che dovessero derogare alla applicabilità degli artt. 1463 e 1464 c.c.
Ne discende, come rilevato in dottrina, «che eventuali patti contenuti nei contratti in corso, che escludano il rimedio dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione, addossando al contraente tutte le conseguenze negative della perdita definitiva della controprestazione o della minor utilità ricavabile dalla stessa, a causa della sospensione del contratto per il carattere temporaneo della impossibilità, dovrebbero considerarsi tamquam non essent» [31].
5. Conclusioni
Per concludere, può osservarsi come quella proposta rappresenta, ovviamente, una chiave di lettura da intendere in senso problematico, come dimostra il fatto che le parti, nella fissazione delle rispettive forme di regolazione dei patti devono rispettare i limiti segnati dai principi di buona fede, di ragionevolezza e di proporzionalità, trattandosi di limitazioni del diritto e del potere di azione.
In tale contesto, l’alternativa sembra essere non più tra assolute affermazioni di principio circa la generale validità o invalidità della clausola di irresolubilità, quanto piuttosto nella ricerca di una soluzione che proceda attraverso valutazioni caso per caso circa la ragionevolezza della preventiva rinuncia in rapporto alla concreta condotta del contraente debitore.
Infatti, è stato sostenuto che «tali clausole, non alterano il nesso di corrispettività del contratto, privandolo della propria causa ovvero incidendo sulla stessa oltre i limiti di elasticità del tipo, ma, per mezzo della elisione ovvero riduzione ab origine della possibilità di esperire i rimedi manutentivi o sospensivi, assolvono il diverso e limitato compito di modificare per via convenzionale le modalità mediante le quali possono realizzarsi i concreti effetti negoziali e regolare in tal modo anche il manifestarsi della misura della funzione di scambio e la sua disciplina concreta» [32].
[1] A. Lestini, in questa Rivista, Sopravvenienze e rimedi contrattuali: l’intervento del giudice “nel” contratto.
[2] B. Sirgiovanni, Autonomia privata e risoluzione del contratto per inadempimento, CEDAM, 2019.
[3] F. Delfini, Autonomia privata e risoluzione del contratto per inadempimento, in NLCC, 3/2014.
[4] G. Amadio, Inattuazione e risoluzione: la fattispecie, in Trattato del contratto, a cura di V. Roppo, vol. V, t. 2, Giuffrè, 2006.
[5] A. Gallarati, Il contratto irresolubile o quasi. Profili di sostenibilità della clausola «exclusive remedy» nell’economia del contratto, in Contr. Impr., 2016.
[6] E. Gabrielli, Autonomia privata ed esclusione dei rimedi contrattuali. (Brevi spunti di riflessione sulla clausola di exclusive remedy, in Riv. dir. comm., 2018.
[7] G. Amadio, Inattuazione e risoluzione: la fattispecie, cit.
[8] E. Gabrielli, Autonomia privata ed esclusione dei rimedi contrattuali, cit., il quale rileva che «se infatti non può dare luogo a dubbi la circostanza che esse siano rinunciabili, dopo che siano state fatte valere nel giudizio, non altrettanto è a dirsi per quanto attiene sia alla preventiva dichiarazione di non volersene avvalere, sia al fatto che le parti possano ab origine nel contratto stabilirne l’esclusione convenzionale, in ragione della presenza nel nostro ordinamento di un generale divieto di preventiva rinuncia ad opporre eccezioni».
[9] G. Auletta, La risoluzione per inadempimento, Giuffrè, 1942.
[10] R. Sacco, Il contratto, in Trattato di diritto civile italiano dir. da Vassalli, vol. VI, t. 2, Utet, 1975.
[11] R. Sacco, G. De Nova, Il contratto, Utet, 2016.
[12] F. Delfini, I patti sulla risoluzione per inadempimento, Milano, 1998.
[13] U. Carnevali, La risoluzione del contratto per inadempimento. Premesse generali, in U. Carnevali, E. Gabrielli e M. Tamponi, Il contratto in generale. La risoluzione, vol. XIII, t. VIII, in Trattato di Diritto Privato diretto da M. Bessone, Torino, 2011.
[14] U. Carnevali, La risoluzione del contratto per inadempimento. Premesse generali, cit.
[15] G. Amadio, Inattuazione e risoluzione: la fattispecie, cit.
[16] E. Gabrielli, Autonomia privata ed esclusione dei rimedi contrattuali, cit.
[17] Si pensi alle operazioni di project financing, ai contratti di engineering, alle operazioni di factoring, alle operazioni di outsourcing, alle operazioni di acquisizione societaria. Sul punto si veda, in particolare, F. Delfini, Autonomia privata e risoluzione del contratto per inadempimento, cit.
[18] E. Gabrielli, Autonomia privata ed esclusione dei rimedi contrattuali, cit.
[19] E. Gabrielli, Autonomia privata ed esclusione dei rimedi contrattuali, cit.
[20] A. Gallarati, Il contratto irresolubile o quasi. Profili di sostenibilità della clausola «exclusive remedy» nell’economia del contratto, cit.
[21] Si pensi all’art. 1492 c.c., in tema di compravendita e all’art. 1578 c.c., in tema di locazione.
[22] È il caso dell’art. 130 del d. lgs. 6 settembre 2005 n. 206.
[23] La logica per cui la risoluzione è limitata a situazioni eccezionali (vale a dire in cui l’inadempimento assume connotati particolarmente lesivi delle attese del creditore) coinvolge gli artt. 1668, 1480, 1486, 1489 c.c.
[24] U. Carnevali, La risoluzione del contratto per inadempimento. Premesse generali, cit.
[25] «Una riflessione esaustiva sul tema ha potuto concludere a favore della validità della clausola, purché rimangano operanti i rimedi rivolti all’adempimento e al risarcimento del danno, e venga rispettato l’art. 1229, nei confini suoi propri»: così R. Sacco, in Sacco e De Nova, Il contratto, in Tratt. Sacco, III ed., t. 2, Torino, 2004. In tal senso, si veda altresì P. Gallo, Trattato del contratto, III, Torino, 2010.
[26] Cfr. R. Sacco, G. De nova, Il contratto, cit.
[27] Così S. Verzoni, Gli effetti, sui contratti in corso, dell’emergenza sanitaria legata al COVID19, cit.
[28] Cass., 23 giugno 1984, n. 3694, in Giust. civ., 1985, I, 93.
[29] Si tratta dell’art. 88, d.l. n. 18 del 2020 e dell’art. 28, d.l. n. 9 del 2020.
[30] Sul punto, S. Verzoni, Gli effetti, sui contratti in corso, dell’emergenza sanitaria legata al COVID19, cit.
[31] S. Verzoni, Gli effetti, sui contratti in corso, dell’emergenza sanitaria legata al COVID19, cit.
[32] E. Gabrielli, Studi sulle tutele contrattuali, cit.