Di Giampiero Paolo Cirillo
- Non è cosa facile tentare una sintesi degli interventi ascoltati, che, per la diversa provenienza scientifica degli autori, hanno fatto confluire nel dibattito profili legati non solo alle scienze economiche e urbanistiche, ma anche a esperienze concrete di vita politico- amministrativa, come quelle dei sindaci di Livorno e di Pisa. Quindi non sono affatto sicuro che il giurista, o almeno io, possa assolvere l’arduo compito. Ci proviamo.
Nella relazione iniziale dell’avvocato Sanfilippo si ritrovano tutti i temi poi sviluppati dagli interventi successivi, ossia la possibile rivalutazione del bene comune, il trust come istituto giuridico che può fornire un importante contributo all’attuazione dell’interesse generale e ad una riorganizzazione delle istituzioni pubbliche e private e, infine, il cooperativismo come possibile meccanismo di aggregazione delle persone intorno ad un interesse specifico.
Il professor Morroni, con esemplare chiarezza, ha fornito le nozioni economiche che si profilano quando si discute di bene comune, che ha le caratteristiche della non escludibilità, ma che tuttavia rimane un bene rivale. Molto interessante è stato il passaggio dedicato al fatto che il problema di oggi non è tanto quello del sovrasfruttamento ma il contrario, ossia il sottosfruttamento dei beni comuni.
Il professor Masini ha messo in rilievo, tra l’altro, come la crisi dello Stato sovrano non riesca più a governare i beni collettivi e che quindi bisogna fare leva sui soggetti che condividono il bisogno di creare il bene comune.
La professoressa Passalacqua ha messo efficacemente in rilievo come sia stato sopravvalutato il tema della titolarità dei beni comuni, proponendo di seguire una nuova e diversa classificazione, ossia quella di Giannini, per cui chi affronta il tema dei beni pubblici debba rispondere alla domanda a chi e a che cosa servono i beni pubblici. Questo ha portato a ritenere che la sentenza del 2011 della Corte di cassazione finisce con l’indugiare ancora sul tema della titolarità dei beni, mentre invece oggi c’è bisogno di fare riferimento alle modalità del loro uso. Inoltre, l’insistito riferimento agli articoli 43 e 118 della Costituzione le ha consentito di precisare che non è necessario inventarsi un terzo genere oltre l’interesse generale e l’interesse pubblico
L’avvocato Sibilla, ha fornito un documentato spaccato dello sviluppo della società italiana, dove l’innalzamento della vecchiaia implica la necessità di un innalzamento del Welfare. Così come ha messo in relazione la necessità della diminuzione del patrimonio pubblico, legata alla crisi economica, al bisogno di crescita della funzione sociale all’utilizzo condiviso delle risorse e dei beni. Nella parte finale del suo intervento ha fornito molte indicazioni utili sugli istituti della fondazione, del trust e della società commerciale.
La breve rassegna degli interventi consente di individuare una linea di fondo che ora tento di percorrere.
Per estrema sintesi, mi pare che il dibattito abbia ruotato intorno a tre concetti giuridici fondamentali: le nuove frontiere dell’oggetto del diritto e in particolare del bene comune; il pluralismo e l’autonomia collettiva, quali valori costituzionali insostituibili; il ruolo della funzione amministrativa nel nuovo quadro che si va delineando.
- Secondo le vecchie classificazioni, soggetto e oggetto dei diritti sono i termini esterni del rapporto giuridico. Pertanto il bene preesiste al rapporto, tutto fondato sul concetto di interesse, giuridicamente protetto, diretto a difendere o conseguire il bene medesimo. L’articolo 810 del codice civile, nel definire i beni come le cose che possono formare oggetto di diritto, non ha escluso la possibilità di ammettere, accanto alle cose materiali, anche beni che non sono cose. Da qui la possibilità di includere tra i beni anche Internet.
Nicolò Lipari, in un suo libro recente “Le categorie del diritto civile”, nel denunciare la crisi tradizionale della teoria dei beni, ha scritto: <<il bene, sempre più di frequente, non preesiste alla qualificazione giuridica, limitandosi il diritto a comporre gli interessi (della più varia natura) che si indirizzano al medesimo bene, ma viene creato in funzione degli interessi. Si moltiplicano quindi le situazioni in cui il bene nasce per effetto della conformazione giuridica con conseguente rapporto quasi riflessivo tra posizione giuridica soggettiva e bene. Non è più soltanto il diritto che nasce in funzione della posizione giuridica rispetto al bene, ma è altresì il bene che emerge in chiave giuridica in conseguenza della proiezione dinamica del soggetto a realizzare un certo interesse. E l’interesse, a sua volta, non può più essere inteso, secondo l’ottica del diritto, come semplice proporzione di idoneità di un soggetto rispetto a un bene, ma semmai come una sua attenzione a crearlo, a far nascere una rilevanza giuridica altrimenti inesistente>>.
Per far comprendere meglio il concetto, l’illustre giurista fa riferimento alla figura della multiproprietà e ai cosiddetti <<prodotti derivati>> nel settore finanziario, ossia quegli strumenti fondati su contratti volti a governare i rischi connessi ad altre operazioni economiche.
Sicché <<il bene non precede il contratto; esso sorge con e nel contratto; quest’ultimo non presuppone necessariamente l’avvenuta produzione di merci ma spesso esso stesso a creare merci, sino al punto da divenire a sua volta una merce. Si registra un rapporto di circolarità dell’esecuzione sia di utilità sia di porzioni soggettive giuridicamente rilevanti, le quali a loro volta rilevano come beni nell’intero processo di produzione di beni e affidato all’autonomia privata>>. E ancora: <<il valore di scambio del bene è determinato dalla dialettica degli interessi fra coloro che intendono valersi di quel valore d’uso>>.
Nella nuova dinamica dei rapporti giuridici si assiste quindi al superamento della distinzione tra beni pubblici beni privati.
In questo quadro <<il bene tende sempre più a svincolare la propria tutela dal profilo della titolarità per proiettarla sul piano dell’utilizzazione o del godimento. Emblematici di questa realtà sono i cosiddetti beni comuni, destinati per loro natura ad una fruizione diffusa e quindi intrinsecamente sottratti ad ogni forma di titolarità sia di natura pubblica che privata. L’articolo 43 non consente di superare, come pure si vorrebbe (inciso mio), l’alternativa pubblico privato, poiché nel riservare la titolarità a comunità di lavoratori o di enti di imprese o categorie di imprese relative a servizi essenziali o fonti di energia, non esclude che la titolarità discenda pur sempre da un procedimento espropriativo e non può quindi riconnettersi alla natura del bene Inoltre l’idea di bene comune si sottrae a qualsiasi dialettica con ipotesi di segno solidaristico (pur tuttavia costantemente richiamate nelle discussioni sul bene), posto che queste suppongono pur sempre una scelta dell’individuo che sacrifichi proprie esigenze o interessi a motivazioni di rilievo collettivo>>.
Lipari avverte la difficoltà di delineare uno statuto condiviso dei beni comuni.
Infatti, non sembra più avere senso la qualificazione tradizionale che indicava come connotato peculiare delle cose comuni l’essere fuori commercio, in quanto le comunità avvertono sempre di più l’esigenza di fruire del bene comune e sono sempre più interessati a goderne; così che impedirne o comprimerne la tutela significherebbe comprimere gli interessi della collettività e negarne la rilevanza. Per il chiaro Autore non si può prescindere dall’ampiezza del gruppo interessato al godimento del bene comune. Sicché <<per i beni ad estensione massima (fondali marini, l’atmosfera, Internet o la conoscenza scientifica) la tutela sarà prevalentemente volta ad impedire che si determinino compromissioni del bene o in proprie limitazioni del suo ambito di godimento; per quelli riferiti a comunità più limitate si tratta prioritariamente di definire l’ambito soggettivo cui si riferisce la tutela. Naturalmente questa dipende anche dalla quantità del bene comune si presenta all’utilizzazione della collettività che intende goderne, perché l’uso da parte di alcuni può certamente limitare o impedire l’uso da parte di altri>>.
Dalla lezione di Lipari si apprende, in conclusione, che l’individuazione del bene e la sua tutela tende sempre più ad allontanarsi sia dal paradigma dominicale di tipo individualistico sia da quello autoritario proprio dello Stato, anche nella sua versione assistenziale. La disciplina pertanto deve basarsi sulla conservazione del godimento e della fruibilità, e il bene finisce per avere valore solo in relazione ai modi e ai fini della sua utilizzazione.
La fonte principale di ricchezza della società in cui saremo chiamati a vivere è la conoscenza. Per il giurista <<sono essenziali i criteri che conducono a selezionare le strutture di fruizione del sapere offrendo all’interprete ampi spazi di manovra nella scelta fra tutele individuali e collettive in un’ottica che certamente rompe i vecchi paradigmi riferiti ai beni immateriali>>.
Credo non si debba aggiungere altro per capire qual’è lo stato dell’arte in materia di teoria generale dei beni.
- Dagli interventi ascoltati è possibile individuare il problema riguardante la difficoltà di assegnare un ruolo prevalente ai cosiddetti beni comuni e al rapporto tra essi e i soggetti della collettività che intendono utilizzarli o comunque fruirne.
Bisogna precisare che, nonostante la crisi del rapporto tra bene e titolarità, il giurista deve comunque qualificare il rapporto tra la collettività dei soggetti e bene comune, quantomeno ai fini della tutela possibile.
È utile ricordare come nella tradizione giuridica il bene comune è stato sempre visto come una eccezione al sistema fondato sulla proprietà come diritto soggettivo assoluto. Non a caso le forme di proprietà collettiva, quali il legnatico lo stallatico gli usi civici e così via, erano tutto sommato marginali anche presso l’economia delle comunità agricole del passato.
A ciò bisogna aggiungere che altre forme aggregative come il condominio hanno sempre goduto nella tradizione romanistica di un certo sfavore, legato alla concezione romanistica secondo cui ciascuno dei condomini è proprietario della quota ideale in cui è scomponibile il bene. A tale concezione si contrapponeva quella di tipo germanico secondo cui la titolarità era in capo al gruppo e non era scomponibile in quote, per cui il rapporto titolarità-bene comune era più resistente nel tempo, ma anche più rispettosa della vocazione all’uso collettivo del bene.
Inoltre, la nostra tradizione giuridica ha sempre disconosciuto l’ammissibilità generalizzata della c.d. causa fiduciae, ossia la possibilità di trasferire la sola gestione del bene senza trasferirne anche la titolarità. E’ noto che nel negozio fiduciario il trasferimento del bene al fiduciario era reale, anche se corretto dal negozio interno da cui nasceva l’obbligo di ritrasferimento.
D’altronde, il riconoscimento del trust nel nostro ordinamento è avvenuto, se è avvenuto, in tempi relativamente recenti, con l’introduzione dell’art. 2645 ter nel codice civile, dove l’atto di destinazione, così come il trust, ha la struttura di un negozio in cui l’effetto giuridico fondamentale è quello della segregazione o separazione di parte del patrimonio generale della persona. La segregazione patrimoniale non è finalizzata a se stessa ma è sempre collegata ad uno scopo da realizzare. Questo è il motivo della analogia con il negozio di fondazione, l’unico conosciuto in passato per ottenere l’effetto segregativo per la realizzazione di scopi ideali e sociali. Anche se è bene ricordare che per ottenere più o meno lo stesso risultato del trust venivano utilizzati anche gli istituti del mandato senza rappresentanza, dell’usufrutto, del contratto a favore di terzi.
In questo contesto, vanno richiamati gli istituti del volontariato, delle ONLUS e dell’impresa sociale.
La ragione per cui questi istituti sembrano ritornati di nuovo in auge è dovuta al fatto che si cerca di individuare gli strumenti per realizzare finalità generali da parte di soggetti privati in concorso con gli strumenti propri della funzione amministrativa; e ciò nel momento in cui sulla scena entrano l’economia dell’informazione e l’economia digitale.
- L’era digitale che caratterizza ‘l’odierno futuro’ impone al giurista di rimodellare gli strumenti giuridici a disposizione, partendo dalle basi del nostro sistema costituzionale.
E’ noto, ma spesso si tende a dimenticarlo, che la Costituzione è fondata sul pluralismo, sulle autonomie locali e sul decentramento amministrativo; la legislazione deve sempre tenere conto delle esigenze che quelle formule organizzatorie esprimono (art. 5). A ciò va aggiunto il principio della sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, ultimo comma, della Costituzione.
Nel disegno costituzionale, i privati e le istituzioni pubbliche debbono armonicamente agire per la realizzazione dell’interesse generale della comunità nazionale e delle comunità locali, di cui la prima si compone.
Se l’indicato disegno viene calato nella nuova realtà, dove la rete di Internet sembra aspirare ad eliminare ogni differenza, per via della portata globale e senza frontiere delle relazioni umane e (quindi giuridiche) che ivi si instaurano, viene naturale ripensare al nuovo ruolo degli Stati nazionali della comunità internazionale.
Così come viene naturale ripensare non solo i rapporti tra le amministrazioni pubbliche locali e nazionali, ma anche quelli tra le burocrazie nazionali e quelle internazionali, e in particolare quelli con le amministrazioni sovranazionali della Comunità europea.
Proviamo a svolgere alcune riflessioni
- La prima riflessione riguarda la posizione dell’ordinamento italiano, così come disegnato dalla giurisprudenza e dalla dottrina, circa il rapporto tra l’individuo e la realtà virtuale (INTERNET).
Una prima configurazione di Internet tende a sottolinearne la normalità, nel senso che è possibile applicare le regole generali posti a presidio della libertà dell’individuo come singolo e dei suoi diritti-doveri nella vita di relazione.
Tuttavia, Internet è anche uno dei “luoghi” in cui si realizza la personalità dell’individuo.
Sicché, si pone il problema se Internet vada costruito come una semplice dimensione individuale di sviluppo della personalità oppure se la navigazione all’interno dello strumento costituisca espressione dell’appartenenza a una comunità, identificabile in una “formazione sociale” composta da tutti gli utenti.
Va da sé che non può non venire in rilievo l’articolo 2 della Costituzione italiana, laddove stabilisce che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. A ciò va aggiunto anche l’articolo 3, secondo comma, laddove stabilisce che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico sociale che impediscono il pieno sviluppo della personalità umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica economica e sociale del Paese, che, nel caso di specie, si traduce nel fare in modo che tutti i cittadini possano utilizzare agevolmente lo strumento telematico.
Tuttavia, una volta assicurata l’accessibilità a tutti ad Internet, l’articolo 2 va associato alle varie altre norme in cui si concretizza lo sviluppo della personalità umana, ossia l’articolo 15, allorché si ponga un problema di rispetto delle comunicazioni interpersonali; l’articolo 21, per la tutela della libertà di espressione; l’articolo 33, per i progetti e-learning o per i collegamenti tra scienziati; l’articolo 41, per un’attività imprenditoriale on line, e così via.
Il punto giuridico più interessante riguarda proprio la possibilità di stabilire se Internet da un “non luogo” per antonomasia, almeno nella visione di taluni sociologi, possa assurgere a formazione sociale intermedia tra l’individuo e lo Stato.
I maggiori studiosi della materia hanno individuato tre elementi, in presenza dei quali si può parlare di “formazione sociale”.
Il primo è l’elemento materiale, dato dalla riferibilità ad un insieme di soggetti, persone fisiche. Esso, nel caso di Internet, sembra sussistere, non potendo esistere se non fosse alimentato dagli apporti di persone e della fruizione di questi apporti.
Il secondo è l’elemento teleologico, rappresentato dallo scopo comune di tali aggregazioni, che nel caso di Internet è molto difficile da cogliere, essendo gli scopi indeterminati sul piano quantitativo e molto poliedrici sul piano della qualità. Tuttavia tra tanti fini possibili, ce n’è uno comune a tutti gli utenti, ossia quello di creare uno strumento tecnologico che abbatte le barriere spazio-temporali di una comunità di utenti, offrendo informazioni prodotti servizi nuovi e così via.
Il terzo elemento consiste in un requisito psicologico interno ai componenti della formazione sociale, ossia la volontà di ciascuno di farne parte e di voler perseguire gli scopi che essa si propone. Anche su questo terzo elemento c’è una qualche perplessità, essendo diverso l’atteggiamento psicologico di chi entra a far parte di un’associazione e chi invece accede ad Internet.
Tuttavia, l’atteggiamento psicologico tra chi genericamente accede ad Internet e chi entra a far parte di un social-network è diverso, poiché la comunità che si realizza in quest’ultimo caso, oltre ad essere più ristretta sul piano dei numeri, si forma intorno a finalità specifiche e con modalità predeterminate di accesso.
- La seconda riflessione riguarda la posizione che le amministrazioni pubbliche tendono ad assumere nell’era digitale.
Con un sano empirismo, il legislatore tende ad agire sul procedimento e sul processo amministrativo, in base alla giusta considerazione che Internet è solo uno strumento, anche se la sua pervasività può incidere sulla forma e la sostanza dell’azione amministrativa.
Indubbiamente, la stagione di riforme che interessa la pubblica amministrazione ne sta cambiando il volto. Il pluralismo ha profondamente inciso sulla soggettività pubblica, attraverso la valorizzazione dei centri di riferimento di interessi pubblici, che tende a travalicare la distinzione tra pubblico e privato. Basti pensare a nuove soggettività giuridiche come le fondazioni di partecipazione o alle reti di impresa, alla conferenza di servizi telematica e all’introduzione dei sistemi informatici della giustizia amministrativa e contabile (PAT).
Peraltro la strategia Europa 2020 richiede agli Stati membri di perseguire politiche pubbliche tese a modernizzare la pubblica amministrazione ed ad aumentare la capacità dell’azione pubblica attraverso interventi sulla qualità dei servizi e sull’organizzazione.
Bisogna tuttavia considerare che l’amministrazione pubblica non è più l’apparato operativo dello Stato, o almeno solo dello Stato, il quale, per ciò che riguarda i rapporti esterni, avendo ceduto molto della sua sovranità a favore delle burocrazie europee, affida alle amministrazioni domestiche il compito di tutelare gli interessi dei cittadini anche nei confronti delle strutture transnazionali. Sono spesso le burocrazie nazionali ad essere “intermedie” rispetto ai poteri transnazionali; esse possono, quindi, diventare uno strumento per i cittadini laddove, azionando il procedimento amministrativo, portano in rilievo il proprio interesse personale e concreto.
Nelle relazioni interne, invece, lo Stato centrale ha finito con l’essere quasi minoritario nella imputazione e nella cura degli interessi pubblici, mentre le pubbliche amministrazioni sono diventate sempre più autonome e policentriche, essendo state chiamate a curare la grande messe dell’eterogeneità degli interessi della sfera pubblica, non sempre in una veste autoritaria, com’era ai primordi dello stato moderno. La frantumazione dell’interesse pubblico in tanti interessi, quanti sono i portatori, avvicina molto il campo dell’autonomia collettiva a quello della potestà pubblica.
Inoltre, le amministrazioni stanno diventando il punto di riferimento dei singoli cittadini anche in relazione a quelle istanze sociali e politiche, un tempo affidate esclusivamente, ed in antitesi, alle espressioni della società civile (partiti politici, sindacati e così via).
Pertanto, l’attenzione si deve spostare sul procedimento che in concreto si apre e non sulla natura pubblica o privata del soggetto che lo amministra.
In quest’ottica è destinata ad assumere grande rilievo la norma dettata dall’articolo 7, comma 2, del codice del processo amministrativo, laddove stabilisce che: <<per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo>>.
La norma diventa centrale nell’economia del sistema almeno per tre ragioni: la prima, in quanto contribuisce a sancire il definitivo declino della funzione qualificante del soggetto presso cui si articola il procedimento, spostandola su quest’ultimo; la seconda, in quanto attribuisce una forza dirompente al procedimento amministrativo, che può essere svolto anche da soggetti non formalmente pubblici; la terza, in quanto la semplice osservanza dei principi del procedimento amministrativo da parte di quei soggetti, che comunque siano tenuti ‘per legge’ a rispettarli, determina di per sé le situazioni giuridiche soggettive proprie del diritto amministrativo e quindi la giurisdizione del giudice degli interessi legittimi.
Pertanto, favorire l’apertura, e controllarne lo svolgimento, di un procedimento amministrativo presso un soggetto collettivo che, di fatto o per legge, cura un interesse che coinvolge anche quello particolare del cittadino, costituisce per i privati uno dei pochi strumenti di democrazia che “dal basso” consente loro di partecipare alla vita della collettività.
La cura dell’interesse pubblico può essere intrapresa da un qualunque soggetto rientrante nell’autonomia collettiva ma, se esso vuole utilizzare gli strumenti del diritto amministrativo, vi deve essere una norma che, almeno a certi fini, lo abiliti ad utilizzare il procedimento e le sue regole.
Il sistema ordinamentale pone al centro il procedimento sostanziale, in quanto, contrariamente allo strumento contrattuale, è potenzialmente aperto a tutte le istanze individuali e sociali possibili ed è l’unico in grado di comporre e bilanciare l’eterogeneità degli interessi (individuali collettivi e generali) con il vantaggio che la tutela costitutiva, ossia l’annullamento dell’atto amministrativo o della deliberazione associativa, fondatizia o societaria, destinati ad incidere sulle situazioni soggettive omogenee o diffuse, al di là delle possibili azioni collettive previste per taluni settori, può aspirare a diventare la regola, senza cedere totalmente il passo alla tutela risarcitoria.
E ancora, proprio la necessaria presenza di un’attività procedimentalizzata ogniqualvolta si provveda alla cura unilaterale di un interesse collettivo, con il rischio inevitabile di incidere su situazioni giuridiche soggettive, comporta un ineluttabile avvicinamento, nel concreto della dinamica dei rapporti giuridici, dei soggetti pubblici e privati.
- In conclusione, l’utilizzazione per finalità di interesse generale di istituti civilistici quali i beni comuni, le fondazioni, il trust , le società, le associazioni di fatto, impone un ripensamento del diritto amministrativo, come diritto dei rapporti complessi.
E questo non per diluirlo nel diritto privato, ma per farlo, anzi, diventare il nuovo diritto comune, in cui non solo il diritto civile ed i suoi strumenti, oltrepassando gli stretti confini dei rapporti tra privati, vengono utilizzati anche nella cura degli interessi pubblici, ma anche quel diritto che induce a riguardare le due discipline da una prospettiva completamente nuova, a cominciare dalla soggettività e dalla teoria dei beni, che non sembrano più riconoscersi nella dicotomia pubblico-privata.
Gianpiero Paolo Cirillo
Presidente di Sezione del Consiglio di Stato
Coordinatore dell’Ufficio studi della G.A.
*Relazione conclusiva, tenuta al convegno di Lari (Pisa) il 25 novembre 2017 dal titolo “Festival dei beni comuni”.