A cura di Dott.ssa Antonella Memeo

Sommario:

1. Premessa – 2. La corruzione “amministrativa” e l’etica pubblica – 3. Strumenti di prevenzione della corruzione – 4. La trasparenza amministrativa – 5. La trasparenza intesa come pubblicità nel d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 – 6. La trasparenza intesa come accesso civico nel d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 – 7. Il diritto alla conoscibilità dell’azione amministrativa secondo il modello del Freedom of Information Act – 8. Disciplina normativa dell’accesso civico generalizzato – 9. I limiti all’accesso civico generalizzato – 10. Il diritto di accesso civico generalizzato nei pubblici appalti – 11. Considerazioni conclusive

1. Premessa

La legge 6 novembre 2012, n. 190 recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” nasce dall’esigenza del nostro Paese di rafforzare l’efficacia del contrasto al fenomeno corruttivo, tenendo conto delle indicazioni derivanti dalle Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia (la Convenzione di Merida delle Nazioni Unite del 2003, ratificata dall’Italia nel 2009 e la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla corruzione del 1999, ratificata dall’Italia nel 2012).

Tale legge ha intrapreso la lotta alla corruzione partendo dai principi di legalità, imparzialità, etica e trasparenza della P.A., attraverso strumenti non solo di natura repressiva, ma anche preventiva.

La legge n. 190/2012, c.d. legge anticorruzione, ha fatto del principio di trasparenza uno degli assi portanti delle politiche di prevenzione della corruzione ed è sul principio di trasparenza nella declinazione del diritto di accesso alle informazioni detenute dalla P.A. su cui si concentrerà il presente contributo.

Dal d.lgs. 14 marzo 2013, 33, “Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle amministrazioni”, modificato dal d.lgs. n. 97/2016, si apprende che la trasparenza è intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, quale livello essenziale delle prestazioni ai sensi dell’art. 117 Cost., in funzione della realizzazione di un’amministrazione aperta e al servizio del cittadino.

Dapprima con l’accesso civico e successivamente con l’accesso civico generalizzato, il Governo ha provveduto a consolidare l’idea della trasparenza intesa come accesso alle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, al fine di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche; ne è emerso che la trasparenza è uno strumento nella lotta alla corruzione, non già un semplice fine.

Garantire l’accesso nella Pubblica Amministrazione significa partecipare alla vita pubblica, costruendo una società più democratica e contribuendo così alla ripresa economica e sociale del Paese.

Tuttavia, occorre coniugare la ratio dell’istituto con altri interessi contrapposti in gioco, al fine di evitare le conseguenze patologiche dell’attuazione della trasparenza.

Al riguardo, nel telaio dei valori costituzionali la trasparenza si incrocia con la tutela della privacy e l’operatore del diritto deve effettuare un attento contemperamento tra gli interessi in gioco, aiutato dai limiti ai diritti di accesso previsti dal d.lgs. 33/2013 e dal diritto “liquido” consolidatosi con la giurisprudenza amministrativa.

Ad ogni modo, nonostante gli sforzi compiuti dal legislatore tanto attraverso la previsione di strumenti preventivi quanto di strumenti repressivi finalizzati a neutralizzare i fenomeni corruttivi, molto dovrà fare la società civile, investendo quotidianamente nella cultura della legalità.

2. La corruzione “amministrativa” e l’etica pubblica

La corruzione è un fenomeno multidimensionale e, in quanto tale, può assumere una diversa connotazione a seconda che l’analisi sia condotta da giuristi, sociologi e economisti; in generale, può essere definita come “una forma di abuso della propria posizione per il conseguimento di un vantaggio personale[1].

Nel Piano Nazionale Anticorruzione[2] l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) ha evidenziato che le situazioni rientranti nel fenomeno corruttivo sono più ampie della fattispecie penalistica disciplinata negli artt. 318, 319 e 319-ter c.p. e ricomprendono non solo i delitti contro la Pubblica Amministrazione disciplinati dal Titolo II, Capo I, del codice penale, ma anche tutte le situazioni penalmente irrilevanti in cui si manifesta “un malfunzionamento dell’amministrazione a causa dell’uso a fini privati delle funzioni attribuite ovvero l’inquinamento dell’azione amministrativa ab externo”.

Pertanto, i comportamenti corruttivi rientrerebbero nel più ampio concetto di “maladministration”, intesa come assunzione di decisioni devianti dalla cura dell’interesse generale a causa del condizionamento improprio da parte di interessi particolari, pregiudicando l’affidamento dei cittadini nell’imparzialità delle amministrazioni e dei soggetti che svolgono attività di pubblico interesse.

La “maladministration” coinciderebbe con la corruzione amministrativa ricomprendente condotte fonte di responsabilità extrapenale e sgradite all’ordinamento giuridico: conflitti di interesse, clientelismo, assenteismo ecc.ecc. Sotto il profilo soggettivo, a differenza delle fattispecie penali, la corruzione amministrativa interessa non solo i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio, ma tutti i pubblici dipendenti, in senso ampio.

Come affermato da Sabino Cassese, la corruzione pubblica si manifesta quando “la funzione pubblica viene svolta non nell’interesse del pubblico, ma nell’interesse dei privati, per assicurare loro guadagno” ed è il motivo per il quale le Istituzioni non vengono percepite come fonti di “potere impersonale e neutrale, bensì come uno strumento di parte[3].

Tale nozione incide sulla tipologia di intervento alla lotta alla corruzione; invero i fenomeni corruttivi possono e devono essere contrastati non solo tramite interventi a carattere penale di natura repressiva, ma anche mediante controlli preventivi di carattere amministrativo.

L’idea di correttezza dei rapporti tra amministrazione e cittadini va oltre la sanzione di comportamenti che possono rivestire rilievo penale; è necessario, quindi, prevenire e/o vietare tutta una serie di episodi che pongono a repentaglio la “mission” istituzionale e il concetto stesso di “etica pubblica”, intesa come “il complesso delle regole che garantiscono il risultato di scelte pubbliche, non in sé giuste, ma imparziali, non impropriamente condizionate da interessi particolari[4].

Purtroppo, la prevenzione non sempre raggiunge il suo scopo, in tali casi è necessaria anche la repressione che da un lato assicura una riparazione sociale e persegue il risarcimento di un danno, dall’altro è anch’essa un deterrente alla commissione di futuri illeciti.

In tale quadro, assumono rilevanza ex multis l’allargamento ai reati di corruzione dell’istituto della confisca e del sequestro per equivalente in sede penale; l’inversione dell’onere della prova di cui all’art. 12-sexies del d.lgs. 306/92 e la l. 3/2019 “spazzacorrotti”.

Le pratiche corruttive si inseriscono tra i cd. white collar crimes, categoria elaborata da Edwin Sutherland nel 1940, con la quale si individuano i reati commessi da persone di elevato status sociale nel corso della loro attività professionale.[5]

Secondo la sua teoria il successo nel mondo degli affari e la notorietà influiscono, con funzione deterrente, sulla concreta punibilità della corruzione, giungendo quasi a giustificare, nel solco di una profonda crisi dei valori, il ricorso alle logiche corruttive.

Soltanto una disamina dei costi diretti e riflessi sulla società e le prime relazioni parlamentari fecero emergere l’ingente cifra oscura del fenomeno corruttivo e la società cominciò a sensibilizzarsi.

Un approccio interessante è quello di Shover[6] e Bryant i quali ritengono che il numero di crimini economici sia da ricondursi ad una serie di fattori legati al mercato, alle politiche statali, alle strategie e ai mezzi di controllo.

Sarebbero tre i fattori che intervengono nel processo decisionale e valutativo di opportunità/rischi di chi decide di commettere un crimine economico: la pressione esercitata dal contesto; la percezione della sanzione e il suo grado di severità; l’ambiente nell’ambito del quale opera l’autore.

Se ne infierisce l’importanza dell’humus sociale e culturale e allo stesso tempo del controllo: dove il controllo è carente o assente, l’azione illegale presenta costi inferiori; quando invece c’è un elevato controllo, l’azione illegale sarà percepita come più rischiosa e meno conveniente.

Un altro studioso, Merton[7], sosteneva che i comportamenti devianti fossero il frutto delle contraddizioni delle società moderne e del contrasto tra i fini e i mezzi. Al riguardo, l’individuo moderno interiorizza degli obiettivi di scalata sociale e, in mancanza di opportunità e mezzi per conseguirla, si generano frustrazioni che possono agevolare la tendenza al crimine economico o comunque al fenomeno corruttivo.

Più di recente, la General Strain Theory[8] sostiene che quando l’individuo è incapace di raggiungere obiettivi sociali ed economici, perde l’autostima facendolo cadere in forme di illegalità; tale teoria, quindi, introduce elementi emotivi e soggettivi alla base dei comportamenti devianti.

Alla luce di tali teorie, è facile comprendere l’importanza di azioni e strumenti che mirino a ridurre i rischi di devianza attraverso controlli mirati di natura preventiva all’interno delle pubbliche istituzioni.

La repressione penale deve rappresentare l’ultima arma e, qualora dovesse intervenire come extrema ratio, dovrebbe essere dotata di assoluta credibilità.

3. Strumenti di prevenzione della corruzione

Il principale strumento preventivo è costituito dalla Legge n. 190/2012 “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” adottata con lo scopo di prevenire la corruzione commessa a danno della stessa P.A., dell’ente o della società pubblica, anche dai suoi stessi dipendenti.

Più specificamente, tra i principali strumenti di prevenzione della corruzione edell’illegalità nella pubblica amministrazione si annoverano il Piano Nazionale Anticorruzione (c.d. P.N.A.), rectius la pianificazione anticorruzione; i codici di comportamento; la rotazione del personale; l’obbligo di astensione nel caso di conflitto di interessi; il pantouflage; la disciplina delle incompatibilità nelle commissioni di gara; la disciplina sulla tutela del dipendente che effettua segnalazioni di illecito (whistleblower) e la trasparenza.

In sintesi, la legge n.  190  del  2012  ha  disegnato una  fitta  «rete  di  piani  anticorruzione»  articolati  su  un  doppio livello, centrale e periferico, dando vita ad un vero e proprio sistema giuridico[9].

A livello centrale è stata prevista l’adozione, da parte di Anac, di un «Piano nazionale anticorruzione» con valenza pluriennale. Il Piano Nazionale Anticorruzione è un atto di indirizzo per le P.A. e, ai sensi dell’art.1 comma 2 bis della legge 190/2012 il quale individua le attività, i settori e gli uffici esposti al rischio di corruzione, prevede obblighi di informazione nei confronti del responsabile della prevenzione della corruzione, definisce le modalità di monitoraggio del rispetto delle prescrizioni e definisce le modalità di aggiornamento dello stesso.

A livello periferico è, invece, prescritta l’adozione da parte delle singole amministrazioni di «Piani triennali anticorruzione» chiamati a recepire nel concreto le indicazioni del piano nazionale.

Le misure disegnate dai piani spaziano dalla previsione di specifiche ipotesi di incompatibilità a meccanismi di rotazione del personale, alla tutela del whistleblower, alla creazione di meccanismi, anche automatizzati, di verifica delle operazioni.

La pianificazione anticorruzione, sia centrale che periferica, fa applicazione, nell’ottica della corruzione come rischio, della metodologia del risk management.[10]

Essa vede più fasi distinte che vanno dall’analisi del contesto (esterno e interno) in cui l’organizzazione opera per giungere all’individuazione e programmazione  delle specifiche  misure  amministrative di prevenzione. Ad una fase ricostruttiva segue, così, quella precettiva, modellata sulla precedente, in cui sono operate le scelte.

Anche l’istituzione della stessa Anac costituisce un importante strumento di prevenzione. L’Autorità svolge funzioni composite sicché, oltre a partecipare direttamente alla pianificazione attraverso il Piano Nazionale Anticorruzione, assolve a compiti giusdicenti ed opera come raccordo con l’Autorità giudiziaria ordinaria; ha potestà regolatorie e di indirizzo attraverso lo strumento delle  linee  guida.

 I codici di comportamento regolano il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità, individuano quale comportamento sono tenuti ad avere i dipendenti ed indirizzano l’azione amministrativa. I codici sono in grado di svolgere non solo una funzione “preventiva” con finalità di ausilio, indirizzo e di orientamento valoriale delle condotte, ma anche “repressiva”, assicurata dal fatto che il codice è ora assistito da sanzioni, in primo luogo disciplinari.

La rotazione del personale è una misura rivolta ai settori della Pubblica Amministrazione particolarmente esposti al rischio di corruzione, prevedendo in tali contesti la rotazione dei dirigenti e dei funzionari.

Il Responsabile della prevenzione della corruzione (RPCT) deve verificare, d’intesa con il dirigente competente, l’effettiva rotazione degli incarichi negli uffici preposti allo svolgimento delle attività nel cui ambito è più elevato il rischio che siano commessi reati di corruzione.

Questo tipo di rotazione, definita “ordinaria” è da tenere ben distinta dalla rotazione “straordinaria”, già prevista dal d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, c.d. Testo Unico sul pubblico impiego (art. 16, comma 1, lettera l-quater), che prevede, infatti, come misura di carattere successivo al verificarsi di fenomeni illeciti, la rotazione «del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o disciplinari per condotte di natura corruttiva».

L’alternanza tra più professionisti nell’assunzione delle decisioni e nella gestione delle procedure, infatti, riduce il rischio che possano crearsi relazioni particolari tra amministrazioni ed utenti, con il conseguente consolidarsi di situazioni di privilegio.

È del tutto evidente che l’istituto della rotazione può determinare gravi inefficienze e malfunzionamenti negli enti piccoli, dove sarà necessario ragionare dell’efficacia di misure alternative, tra le quali, un rilevante peso, è determinato dall’obbligo di evitare il controllo esclusivo, sui procedimenti amministrativi, da parte della figura apicale, per il quale non si sia provveduto alla rotazione dell’incarico.

La rotazione del personale, che deve comunque essere attuata in modo tale da garantire l’efficacia e l’efficienza dell’azione amministrativa, deve tenere conto delle professionalità esistenti nella pubblica amministrazione.

L’obbligo di astensione riguarda il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche ed i provvedimenti i quali devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale.

Inoltre, al momento dell’accettazione dell’incarico o in una fase antecedente, i commissari di gara devono dichiarare l’inesistenza delle cause di incompatibilità o di astensione; trattasi della misura dell’incompatibilità nelle commissioni di gara.

La ragione dell’obbligo di astensione va ricondotta nel principio di imparzialità dell’azione amministrativa e trova applicazione ogni qualvolta esista un collegamento tra il provvedimento finale e l’interesse del titolare del potere decisionale.

Peraltro, il riferimento alla potenzialità del conflitto di interessi mostra la volontà del legislatore di impedire ab origine il verificarsi di situazioni di interferenza, rendendo assoluto il vincolo dell’astensione, a fronte di qualsiasi posizione che possa, anche in astratto, pregiudicare il principio di imparzialità.

L’obbligo di astensione, dunque, non ammette deroghe ed opera per il solo fatto che il dipendente pubblico risulti portatore di interessi personali che lo pongano in conflitto con quello generale affidato all’amministrazione di appartenenza.

Ulteriore misura di prevenzione della corruzione è costituita dalla tutela del dipendente che effettua segnalazioni di illecito (whistleblower).

Al riguardo, l’Italia ha introdotto nel proprio ordinamento norme a tutela della persona che segnala condotte illecite prevedendo che il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.

Le condotte illecite, di cui il dipendente sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, possono essere inviate: al Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT) ove si è verificata la condotta illecita; all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC); all’Autorità giudiziaria ordinaria o contabile.

L’attività di vigilanza anticorruzione dell’Autorità si svolge ai sensi e nei limiti di quanto previsto dalla legge n. 190/2012, in un’ottica di prevenzione e non di repressione di singoli illeciti.

L’Autorità, qualora ritenga la segnalazione fondata nei termini chiariti dalla Delibera n. 469 del 9 giugno 2021 «Linee guida in materia di tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti (c.d. whistleblower)», in un’ottica di prevenzione della corruzione, può avviare un’interlocuzione con il Responsabile della Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (RPCT) dell’Amministrazione oggetto di segnalazione o disporre l’invio della segnalazione alle istituzioni competenti, quali ad esempio l’Ispettorato per la Funzione Pubblica, la Corte dei conti, l’Autorità giudiziaria, la Guardia di Finanza.

Attraverso l’istituto del pantouflage si prevede un vincolo per tutti i dipendenti che negli ultimi tre anni di servizio hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle P.A., di non poter svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri, al fine di evitare situazioni di conflitto di interessi.

Alla base di tale divieto si ravvisa il principio costituzionale di trasparenza, imparzialità, buon andamento ex art. 97 Cost.

4. La trasparenza amministrativa

Un potente strumento contro la corruzione è rappresentato dalla trasparenza nella Pubblica Amministrazione.

La trasparenza rappresenta una garanzia delle libertà individuali e collettive; integra il diritto ad una buona amministrazione (art. 41 Carta di Nizza); concorre alla realizzazione di un’amministrazione aperta al completo servizio dei cittadini; costituisce uno dei principali mezzi di coinvolgimento e di controllo sociale sui comportamenti posti in essere dagli amministratori pubblici.

Tanto premesso, da più parti si è ritenuto che il possesso esclusivo della conoscenza fosse fonte di ogni potere in quanto “potere e sapere si implicano l’un l’altro[11]”; pertanto, la trasparenza implica conoscenza intesa come disponibilità effettiva delle informazioni che deve essere garantita al cittadino “in funzione dei poteri ad esso spettanti in quanto sovrano nei confronti del temporaneo detentore di poteri pubblici[12]”.

Sul potere della conoscenza si fonda lo stretto collegamento tra la trasparenza e la democrazia, in quanto “non può esserci vera democrazia senza trasparenza e viceversa[13]”; il governo democratico è dunque il governo del potere visibile o, per usare una felice definizione di Norberto Bobbio, “il governo del potere pubblico in pubblico”.

Nonostante il notevole rilievo della trasparenza, tale principio non trova un testuale riconoscimento costituzionale; invero il principio di conoscibilità dell’azione dei pubblici poteri è espressamente previsto soltanto con riferimento alla funzione legislativa, si vedano gli artt. 64, 73, 123 e 136 Cost.

Ciò nonostante, posto che il principio di trasparenza risulta inscindibilmente connesso con il principio democratico, appare opportuno annoverarlo tra i principi costituzionali immanenti nel nostro ordinamento, fondandosi in primo luogo sull’interpretazione sistematica dei principi fondamentali della carta costituzionale: i principi di libertà-dignità della persona ex art. 2 Cost; di uguaglianza ex art. 3 Cost. e di imparzialità ex art. 97 Cost.

Il principio di trasparenza trova una sua fonte anche nella normativa sovranazionale.

In particolare, il Trattato sulla Unione Europea (TUE) afferma all’art. 11, co.2: “Le istituzioni mantengono un dialogo aperto, trasparente e regolare con le associazioni rappresentative e la società civile”.

Anche il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) all’art. 15 prescrive comportamenti aperti e trasparenti degli organismi dell’UE per favorire una buona e corretta amministrazione delle istituzioni comunitarie e la vita democratica dei cittadini dell’Unione (“Al fine di promuovere il buon governo e garantire la partecipazione della società civile, le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’Unione operano nel modo più trasparente possibile”).

Tuttavia, è stato il Trattato di Amsterdam adottato il 2 ottobre 1997 ed entrato in vigore il 1° maggio 1999 ad elevare la trasparenza a diritto primario. Al riguardo, l’art. 1 afferma che si intende creare “un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano prese nel modo più trasparente possibile e il più vicino possibile ai cittadini”.

Inoltre, l’art. 191 conferisce ai cittadini e ai residenti nell’Unione Europea il diritto di accesso ai documenti delle tre istituzioni: Parlamento, Consiglio e Commissione.

Successivamente, la Convenzione del Consiglio d’Europa sull’Accesso ai documenti ufficiali del 2009 riconosce il diritto generale di accesso ai documenti detenuti dalle autorità pubbliche, obbligando gli Stati membri ad adottare misure per riconoscerlo ed introdurlo nel proprio diritto interno.

Premesse le basi normative del principio di trasparenza, appare opportuno rilevare che la trasparenza assume una duplice declinazione: trasparenza intesa come fine ossia obiettivo a cui tendere legato al valore democratico della funzione amministrativa e trasparenza come strumento vale a dire come mezzo per porre in essere un’azione amministrativa efficace e conforme ai canoni costituzionali.

Inoltre, il principio di trasparenza, oltre ad essere qualificato quale principio generale, si fa sostanza nell’ordinamento giuridico declinandosi quale accesso e pubblicità, ma ne rappresenta un quid pluris in quanto richiede all’amministrazione il dovere di agire correttamente, al di là delle prescrizioni formali della norma in materia di accesso e obbligo di pubblicità.

Attraverso tale duplice declinazione, la trasparenza amministrativa si concretizza nel passaggio dalla conoscibilità del documento e/o dato alla conoscenza degli stessi; l’obiettivo finale rimane quello del controllo sull’azione amministrativa intesa come “esercizio della sovranità popolare anche nello spazio pubblico rappresentato dall’amministrazione”.[14]

La svolta fondamentale nella democratizzazione dei rapporti tra amministrazione e cittadini in termini di partecipazione e di trasparenza è costituita dalla legge sul procedimento amministrativo (legge 7 agosto 1990, n. 241), attraverso la previsione del diritto di accesso documentale.

La legge in oggetto sancisce il riconoscimento della pubblicità e della trasparenza quali criteri generali dell’azione amministrativa che il diritto di accesso ai documenti amministrativi contribuisce a realizzare.

Tanto premesso, il comma 2 dell’art. 22 L. 241/1990, come sostituito dall’art. 10, comma 1, lett. a), L. n. 69/2009, statuisce che “L’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza”.

Per diritto di accesso documentale si intende “il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi” (art. 22, comma 1, lett. a), L. 241/1990).

Tale tipologia di accesso risponde più alla finalità di consentire la partecipazione del titolare di interesse legittimo (interesse qualificato) al procedimento, anche in un’ottica deflattiva del contenzioso.

La trasparenza diventa principio amministrativo di accessibilità all’attività della pubblica amministrazione, da realizzarsi attraverso la pubblicazione delle informazioni e dei documenti più rilevanti, solo attraverso il d.lgs.14 marzo 2013, n. 33.

5. La trasparenza intesa come pubblicità nel d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33

La legge 190/2012, la c.d. anticorruzione, ha previsto una serie di strumenti finalizzati alla prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione oltre che, attraverso il comma 35 dell’art. 1, una delega in favore del governo finalizzata ad un riordino della “disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni da parte della pubblica amministrazione”.

La prima affermazione della pubblicità come esemplificazione della trasparenza è nel d.lgs. 150/2009, in attuazione di una delega di riforma della pubblica amministrazione data al governo con la legge 15/2009. Nel decreto 150, definito decreto Brunetta, la trasparenza diventa un principio amministrativo di “accessibilità totale”[15]all’attività della pubblica amministrazione, da realizzarsi attraverso la pubblicazione delle informazioni e dei documenti più rilevanti.

Il d.lgs.14 marzo 2013, n. 33riordina la materia, prevedendo in un unico testo tutti gli obblighi legislativi di pubblicazione.

Tali obblighi prevedono un elevato impegno dell’amministrazione, la quale non solo dovrà pubblicare le informazioni previste obbligatoriamente dalla legge, ma dovrà tenere costantemente aggiornate le informazioni e i documenti pubblicati; oltre a ciò le informazioni pubblicate dovranno avere il formato amministrativo di tipo aperto cosi come definito dall’art. 68 del Codice dell’Amministrazione digitale (art.7) e garantire la fruizione e il riutilizzo attraverso l’utilizzo delle tecnologie informatiche più comuni e diffuse.

Gli obblighi di pubblicazione riguardano l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni; l’utilizzo delle risorse pubbliche; le prestazioni offerte e servizi erogati e i settori speciali (i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture; attività di pianificazione e governo del territorio; il servizio sanitario nazionale; gli interventi straordinari e di emergenza che comportano deroghe alla legislazione vigente).

Il nuovo articolo 2-bis conferma l’applicazione piena della disciplina della trasparenza alle pubbliche amministrazioni, come definite dall’art. 1, co.2, del d.lgs. n. 165 del 2001.[16]

In questa categoria di soggetti sono ricomprese anche le autorità amministrative indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione che vengono menzionate espressamente in aggiunta, diversamente dalla prima versione del d.lgs. de quo, il quale prevedeva una sostanziale deroga agli obblighi di trasparenza per le autorità indipendenti. Ciò che avrebbe potuto giustificare la sostanziale deroga agli obblighi di trasparenza delle autorità indipendenti (ovvero le modalità di azione caratterizzate da ampia partecipazione dei soggetti interessati) finisce ora per diventare un elemento di rafforzamento delle garanzie di trasparenza.

La medesima disciplina prevista per le pubbliche amministrazioni di cui al comma 1 si applica anche, in quanto compatibile: a) agli enti pubblici economici e agli ordini professionali; b) alle società in controllo pubblico come definite dal decreto legislativo emanato in attuazione dell’articolo 18 della legge 7 agosto 2015, n. 124. Sono escluse le società quotate come definite dallo stesso decreto legislativo emanato in attuazione dell’articolo 18 della legge 7 agosto 2015, n. 124; c) alle associazioni, alle fondazioni e agli enti di diritto privato comunque denominati, anche privi di personalità giuridica, con bilancio superiore a cinquecentomila euro, la cui attività sia finanziata in modo maggioritario per almeno due esercizi finanziari consecutivi nell’ultimo triennio da pubbliche amministrazioni e in cui la totalità dei titolari o dei componenti dell’organo d’amministrazione o di indirizzo sia designata da pubbliche amministrazioni.

La medesima disciplina prevista per le pubbliche amministrazioni di cui al comma 1 si applica, in quanto compatibile, limitatamente ai dati e ai documenti inerenti all’attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell’Unione europea, alle società in partecipazione pubblica come definite dal decreto legislativo emanato in attuazione dell’articolo 18 della legge 7 agosto 2015, n. 124, e alle associazioni, alle fondazioni e agli enti di diritto privato, anche privi di personalità giuridica, con bilancio superiore a cinquecentomila euro, che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici.

La legge anticorruzione del 2012, n. 190 ha istituito all’interno delle Pubbliche Amministrazioni la figura del “Responsabile della prevenzione della corruzione” con il compito di svolgere un’attività di controllo sull’adempimento da parte dell’amministrazione degli obblighi di pubblicazione su richiamati, assicurando l’aggiornamento delle informazioni pubblicate e di segnalare casi di inadempimento all’ufficio di disciplina ai fini della valutazione della responsabilità disciplinare e dell’attivazione del procedimento disciplinare.

Tanto premesso, la trasparenza è declinata secondo la logica della pubblicità in virtù della quale il carattere pubblico di un documento esprime la qualità dell’atto che è naturalmente disponibile per chiunque e versa in una situazione permanente di conoscibilità.

Tuttavia, nel momento in cui l’aspirazione all’informazione diviene suscettibile di essere frustrata per effetto del confronto con altri interessi pubblici e/o privati, tale pretesa perde il suo carattere assoluto.

6 . La trasparenza intesa come accesso civico nel d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33

È soltanto con il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, adottato in attuazione della delega di cui ai commi 35 e 36 dell’art. 1 della legge 6 novembre 2012, n. 190, di contrasto alla corruzione ed all’illegalità nelle Pubbliche Amministrazioni,  che il principio della trasparenza amministrativa subisce una vera e propria mutazione genetica in quanto la trasparenza, in attuazione del principio democratico, viene ad essere intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle Pubbliche Amministrazioni, al dichiarato fine di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche; nasce così l’istituto giuridico dell’accesso civico.[17]

Il diritto di accesso civico rende la trasparenza un diritto soggettivo, riconosciuto a chiunque intenda richiedere documenti, informazioni o dati, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione da parte dell’amministrazione obbligata.

Tanto premesso, al comma 1 dell’art. 5 d.lgs. 33/2013, si legge “L’obbligo previsto dalla normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione”.

Dalla lettura del dato normativo sopra riportato si rileva che chiunque ha il diritto di richiedere alle Pubbliche Amministrazioni la pubblicazione di quei documenti, quelle informazioni o quei dati per i quali sussiste lo specifico obbligo di pubblicazione da parte delle stesse, nell’eventualità in cui esse non vi abbiano già spontaneamente provveduto.

La voluntas legis è, pertanto, quella di far corrispondere al dovere di pubblicazione gravante in capo alle Pubbliche amministrazioni il diritto dei privati di accedere ai documenti, ai dati e alle informazioni interessati all’inadempienza.

Una peculiarità dell’accesso civico de quo si ravvisa nel fatto che in capo al richiedente non vi sia alcun onere di motivare l’istanza di accesso e questa circostanza trova la sua ratio nel fatto che oggetto della richiesta di ostensione siano proprio quei documenti che devono essere pubblicati, ex lege, dalle Pubbliche amministrazioni all’interno dell’apposita sezione “Amministrazione trasparente” presente sui siti istituzionali di ciascuna di esse. Trattasi, dunque, dell’accesso a quegli atti e a quei documenti di per sé pubblici ed in quanto tali conoscibili e fruibili gratuitamente da parte di “ogni cittadino”.

Pertanto, il diritto di accesso civico si realizza in due fasi: 1) la pubblica amministrazione deve adoperarsi per pubblicare quanto richiesto dalla legge; 2) il cittadino partecipa alla res pubblica mediante un controllo sull’operato dei pubblici poteri.

Il diritto di accesso civico sublima la trasparenza in un diritto soggettivo riconosciuto a chiunque intenda richiedere documenti, informazioni o dati nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione da parte dell’amministrazione obbligata.

In altre parole, il diritto di accesso civico si atteggia in maniera del tutto differente rispetto al diritto di accesso ai documenti amministrativi ex art. 22 l.241 del 1990 con il quale non condivide l’ambito soggettivo di legittimazione (il soggetto richiedente non deve dimostrare di detenere un interesse diretto, concreto ed attuale connesso all’istanza di accesso) e l’ambito oggettivo (l’oggetto dell’accesso può essere anche un dato o un’informazione, non già solamente un documento in possesso della p.a.).

In tal modo, il diritto di accesso civico non risponde ad esigenze deflattive del contenzioso come l’accesso documentale, ma persegue il più ambizioso obiettivo dell’interesse generale alla correttezza dell’azione amministrativa, che si compendia “nella cultura del rispetto e della lealtà verso i destinatari dell’esercizio della funzione amministrativa[18].

Ad ogni modo, occorre evidenziare che i due istituti convivono nel nostro ordinamento giuridico con le loro peculiari caratteristiche poiché rispondono a diverse finalità.

Infatti, l’accesso documentale è uno strumento volto a tutelare posizioni individuali di cui possono beneficiare solo i soggetti portatori di una situazione giuridicamente rilevante e legittimante l’accesso di cui al Capo V, legge n. 241 del 1990 con esclusione delle finalità di controllo democratico che rappresentano il punto qualificante dell’accesso civico.

Tuttavia, nel corso degli anni nelle amministrazioni pubbliche è prevalsa una logica di mero adempimento formale degli obblighi in tema di trasparenza[19], mentre per un concreto miglioramento in tema di trasparenza dell’azione pubblica, occorrerebbe un profondo mutamento culturale orientato a rendere l’amministrazione effettivamente più trasparente.

L’adozione del d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97, noto come “decreto FOIA” segna una tappa importante in questo cammino.

7. Il diritto alla conoscibilità dell’azione amministrativa secondo il modello del Freedom of Information Act

La burocratizzazione della trasparenza attraverso l’imposizione di obblighi di pubblicazione ha irrigidito le procedure organizzative delle amministrazioni le quali non sono riuscite ad adattarsi ai cambiamenti imposti dai nuovi istituti.[20]

In tale contesto, il d.lgs. n. 97 del 2016, introducendo il nuovo accesso civico generalizzato (meglio conosciuto come FOIA), amplia la portata del principio di trasparenza, ora declinato come accessibilità totale dei dati e dei documenti detenuti dalle pp.aa., finalizzata non solo “a favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”, ma anche a garantire una maggiore tutela dei diritti dei cittadini e a promuovere la partecipazione dei medesimi allo svolgimento dell’attività amministrativa. (art. 1, comma 1, d.lgs. n. 33 del 2013).

Il d.lgs. n. 97 del 2016 estende i confini di conoscibilità dell’azione amministrativa a tutti i dati e i documenti detenuti dalla Pubblica Amministrazione, eliminando il riferimento specifico alle informazioni concernenti l’attività e l’organizzazione per le quali assume rilievo l’accesso civico c.d. semplice, a distinguerlo dell’accesso civico generalizzato de quo.

Il menzionato accesso è quindi esteso anche ai dati per i quali non sussiste uno specifico obbligo di pubblicazione, con il riconoscimento a chiunque del diritto di presentare una specifica istanza di accesso ai dati e ai documenti anche diversi da quelli oggetto di pubblicazione, che l’amministrazione detiene, senza necessità di indicare le specifiche motivazioni.

Il FOIA, in effetti, si fonda sul riconoscimento del “diritto di conoscere” (right to know), non ha un oggetto predefinito, non richiede alcuna preventiva dimostrazione circa la sussistenza di un interesse concreto ed attuale.

L’introduzione dell’istituto dell’“accesso civico generalizzato” rappresenta una tappa fondamentale di una lunga evoluzione normativa indirizzata a rendere la P.A. come una trasparente “casa di vetro”.

Il riconoscimento di un vero e proprio diritto di accesso totale rappresenta la più significativa novità introdotta dalla riforma, dal momento che consente il superamento del tradizionale principio di pubblicità limitata alle informazioni, favorendo la c.d. full disclosure.

La full disclosure rende il diritto di accesso uno strumento di prevenzione dei fenomeni corruttivi, avvicinando il cittadino alla pubblica amministrazione, nell’ambito di una visione più ampia dei diritti fondamentali sanciti dall’art. 2 della Costituzione che non può prescindere dalla partecipazione ai pubblici poteri.

Il diritto di accesso civico generalizzato diviene fonte di legittimazione e di responsabilizzazione dell’operato dei pubblici uffici e, al contempo, favorisce l’informazione e la partecipazione dei cittadini, nonché la fiducia di questi ultimi nelle istituzioni.

Non a caso, il secondo comma dell’art. 1 del d.lgs. n. 33 del 2013 specifica che “La trasparenza, nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di segreto d’ufficio, di segreto statistico e di protezione dei dati personali, concorre ad attuare il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche, integrità e lealtà nel servizio alla nazione.

Essa è condizione di garanzia delle libertà individuali e collettive, nonché dei diritti civili, politici e sociali, integra il diritto ad una buona amministrazione e concorre alla realizzazione di una amministrazione aperta, al servizio del cittadino”.

8. Disciplina normativa dell’accesso civico generalizzato

Il diritto di accesso civico generalizzato (art. 5, comma 2) si configura come diritto a titolarità diffusa, potendo essere attivato da chiunque e non essendo sottoposto a nessuna limitazione soggettiva; inoltre l’istanza non richiede motivazione ossia la motivazione non costituisce requisito necessario ma può configurarsi come elemento facoltativo.

Nel caso in cui l’amministrazione debba applicare le eccezioni all’accesso, la motivazione potrebbe costituire un valido strumento al fine di bilanciare le ragioni dell’accesso rispetto a quelle a supporto del diniego.

Ai sensi dell’art. 5, co.2, la richiesta di accesso civico generalizzato può riguardare i dati e i documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione.

L’istanza identifica i dati, le informazioni e i documenti richiesti, facendo con ciò supporre che il richiedente possegga già contezza delle informazioni nella disponibilità dell’amministrazione ed escludendo, quindi, la formulazione di un’istanza a carattere meramente esplorativo.[21]

La richiesta di accesso civico generalizzato può riguardare solo i dati e i documenti già detenuti dalla Pubblica Amministrazione (art. 5, co.2); ne consegue che l’amministrazione non è tenuta a formare, raccogliere o procurarsi informazioni che non siano già in suo possesso.

Relativamente a costi, il passaggio dallo schema di decreto al testo definitivo ha comportato anche il passaggio dal principio del “rimborso del costo sostenuto” al principio di “gratuità”, salvo riproduzione su supporto materiale.

L’istanza deve essere evasa dall’amministrazione destinataria con provvedimento espresso e motivato nel termine di trenta giorni dalla presentazione dell’istanza (art. 5, co.6) con conseguente dovere dell’amministrazione di esplicitare e giustificare le ragioni delle proprie determinazioni a tutela tanto dell’interesse a conoscere dell’istante in caso di diniego, quanto dell’interesse della parte controinteressata nel caso di accoglimento.

Qualora l’amministrazione rimanga inerte oltre la scadenza dei termini prescritti, si realizza il c.d. silenzio-inadempimento della p.a.; in tal caso l’istante può percorrere la strada della tutela di carattere giurisdizionale.

In caso di presenza di controinteressati alla richiesta di accesso ai sensi dell’art. 5-bis, comma 2, l’amministrazione deve consentire la loro partecipazione al procedimento; invero gli stessi possono presentare entro dieci giorni dalla comunicazione dell’istanza una motivata opposizione all’accesso.

I controinteressati sono coloro che potrebbero subire in termini potenziali un pregiudizio diretto ad uno dei seguenti interessi: a) la protezione dei dati personali; b) la libertà e la segretezza della corrispondenza; c) gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto di autore e i segreti commerciali.

Occorre sottolineare che l’individuazione dei controinteressati deve essere effettuata entro il novero dei soggetti che possono subire dalla disclosure un pregiudizio diretto, con esclusione dei pregiudizi arrecati in via indiretta e mediata.

Limitatamente alla tutela contenziosa, l’art. 5, co 6 del d. lgs. 33/2013 prevede, con riguardo alla decisione dell’amministrazione, che «Il procedimento di accesso civico deve concludersi con provvedimento espresso e motivato nel termine di trenta giorni dalla presentazione dell’istanza con la comunicazione al richiedente e agli eventuali controinteressati».

Come è evidente, a differenza dell’art. 25, co. 4, della l. 241/1990 (che prevede una ipotesi di silenzio significativo, di segno negativo, in caso di silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di accesso ai documenti), la disciplina in tema di accesso civico generalizzato, sopra citata, non prevede un’ipotesi di silenzio-rigetto: a fronte di una istanza di accesso civico, quindi,  se l’amministrazione non risponde nel termine assegnato, anche nell’ipotesi di riesame, non si concretizza una ipotesi di silenzio significativo, stante la mancanza di tipizzazione legislativa del silenzio.

La norma non fa alcun riferimento all’inerzia dell’amministrazione, ma prevede un obbligo per la stessa di adottare, a fronte dell’istanza di accesso civico, un provvedimento espresso.

L’art. 5, co. 7, del d. lgs. 33/2013 prevede che avverso la decisione dell’amministrazione competente o, in caso di richiesta di riesame, avverso quella del responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, il richiedente può proporre ricorso al Tribunale amministrativo regionale ai sensi dell’articolo 116 del Codice del processo amministrativo, secondo il rito dell’accesso.

La norma impone in sostanza di qualificare l’inerzia della pubblica amministrazione come silenzio non significativo e cioè come silenzio-inadempimento (silenzio-rifiuto).

La mancanza di una tipizzazione legislativa del silenzio e cioè la possibilità che si formi un rigetto per silentium,  pone il problema del rito da intentare in caso di inerzia dell’amministrazione e  cioè se deve ritenersi che essa sostanzi una ipotesi di silenzio-inadempimento, la cui illegittimità deve essere fatta valere con un ricorso (avverso il silenzio) da proporre ex art. 117 c.p.a., con la possibilità di chiedere un (eventuale) accertamento sulla fondatezza della pretesa (art. 31, co. 3 del c.p.a.) ovvero se occorra attivare comunque il rito dell’accesso ex art. 116 c.p.a. per come previsto dalla norma (art. 5, co. 8 del d.lgs. 33/2013), che si riferisce, tuttavia, ai soli provvedimenti espressi.

Il co. 3 dell’art. 31 del c.p.a. prevede, inoltre, che il giudice amministrativo si pronunci sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio «quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione».

Non avendo il legislatore previsto, a fronte dell’inerzia dell’amministrazione sull’istanza di accesso generalizzato, il formarsi di un “provvedimento tacito negativo”, se ne dovrebbe trarre l’avviso per cui il richiedente, decorsi i termini di legge, dovrebbe adire il giudice amministrativo proponendo un ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione, per vederne dichiarata l’illegittimità e veder ordinato all’amministrazione di provvedere sull’istanza di accesso civico proposta.

Tale scelta sembrerebbe quella più in linea con la volontà del legislatore di prevedere che, a fronte di ogni istanza di accesso generalizzato, si abbia una decisione motivata dell’amministrazione avendo appunto previsto che «il procedimento di accesso civico deve concludersi con provvedimento espresso e motivato».  

Seguendo tale soluzione dovrebbe conclusivamente ritenersi che, in caso di diniego espresso, differimento o accesso parziale, il richiedente potrà adire il giudice amministrativo invocando il rito dell’accesso previsto all’art. 116 c.p.a. (in quanto espressamente voluto solo per avversare “decisioni” esplicite), mentre in caso di silenzio dell’amministrazione/RPCT sull’istanza proposta potrà ricorrere al giudice amministrativo secondo il rito del silenzio con la riconosciuta possibilità di chiedere una espressa pronuncia sulla fondatezza della pretesa in caso di attività vincolata. 

Tuttavia, potrebbero verificarsi due differenti fattispecie: quella in cui il giudice decide un ricorso riferito a istanza rispetto alla quale, in ragione della natura dei documenti richiesti e di come la loro eventuale conoscenza impatta sull’esercizio dell’azione amministrativa, alla p.a. non è attribuita (o non residua) alcuna discrezionalità nel concedere o meno l’accesso, venendo, quindi, in gioco una attività vincolata e quella in cui decide in esito a una richiesta di accesso rispetto alla quale l’attività dell’amministrazione non presenta i connotati della vincolatività ma piuttosto della discrezionalità.

In relazione a tale ultimo profilo, appare opportuno ricordare l’art. 34 c.p.a., comma 2, secondo cui “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”[22].

Una diversa soluzione, che attribuisse al giudice amministrativo il potere di ordinare l’esibizione documentale anche in caso di poteri discrezionali, implicherebbe la qualificazione della giurisdizione amministrativa in tema di accesso come giurisdizione di merito non nominata e atipica ex 134 c.p.a.

Per tali ragioni, la tutela offerta dall’art. 117 c.p.a. potrebbe incontrare difficoltà.

Un parte della dottrina[23] sostiene che, avendo il legislatore previsto la possibilità di attivare il rito dell’accesso ex art. 116 c.p.a. avverso la decisione dell’amministrazione competente, potrebbe considerarsi attratta sotto tale rito anche l’ipotesi di tutela avverso l’inerzia e cioè quando alcuna decisione è presa dall’amministrazione.

Invero, il rito in materia di accesso è costruito come rito impugnatorio. L’azione, tuttavia, presenta i caratteri di un giudizio di accertamento, in cui il giudice dispone di ampi e penetranti poteri cognitori ed è  chiamato  a  valutare  se  sussistono  i presupposti per l’ostensione degli atti richiesti. In definitiva, il giudizio in materia di accesso agli atti della P.A., pur seguendo il rito impugnatorio, non ne ha sostanzialmente la natura, ma si atteggia come rito rivolto all’accertamento della sussistenza o meno del diritto dell’istante all’accesso medesimo; esso è dunque un giudizio sul rapporto, come del resto si evince dall’art. 116, comma 4, del d.lgs. n. 104 del 2010, secondo cui “il giudice, sussistendone i presupposti, ordina l’esibizione  e,  ove  previsto,  la  pubblicazione  dei documenti richiesti”.

La scelta del rito in materia di accesso dovrebbe essere, quindi, quella da preferire anche nella ipotesi di silenzio serbato dall’amministrazione.

Tuttavia, l’esperienza processuale in materia di silenzio-inadempimento maturata sulle istanze di accesso generalizzato dimostra che per il ricorrente non è sempre agevole la individuazione del rito da percorrere, considerata anche la poca chiarezza del dato normativo, per cui inevitabilmente per il giudice l’attenzione si sposta più sul tipo di risposta che si può dare al cittadino e ciò sia che si attivi l’art. 117 c.p.a. sia che si attivi l’art. 116 c.p.a. 

Prima di analizzare i limiti dell’accesso civico generalizzato, dopo aver ripercorso per brevi cenni la disciplina delle diverse forme di accesso agli atti (accesso documentale, civico e generalizzato) previste e disciplinate dal nostro ordinamento, occorre precisare che ciascuna di esse è applicabile a diverse e specifiche fattispecie e non possono essere utilizzate indiscriminatamente.

Il principio di diritto condiviso è il seguente: “Si tratta di istituti a carattere generale ma ognuno con oggetto diverso, e sono applicabili ognuno a diverse e specifiche fattispecie: ne segue che ognuno di essi opera nel proprio ambito di azione senza assorbimento della fattispecie in un’altra, e senza abrogazione tacita o implicita ad opera della disposizione successiva poiché diverso è l’ambito di applicazione di ciascuno di essi. Ognuno di questi presenta caratteri di specialità rispetto all’altro” (si vedano le sentenze: Tar Lazio, sez. II bis, 2 luglio 2018, n. 7326; TAR Toscana, sentenza del 20.12.2019, n. 1748; TAR Lazio, 425 del 14 gennaio 2019; Consiglio di Stato, sez. V, 2 agosto 2019, n. 5503).

Di conseguenza “laddove il richiedente abbia espressamente optato per un modello è precluso all’Amministrazione qualificare diversamente l’istanza, al fine di individuare la disciplina applicabile. Correlativamente il richiedente, una volta effettuata la propria istanza motivata dai presupposti di una specifica forma di accesso, non potrà effettuare una conversione della stessa in corso di causa. Questa infatti si radica su una specifica richiesta e sulla relativa risposta negativa dell’Amministrazione che concorrono a formare l’oggetto del contendere. Non può quindi ammettersi un mutamento del titolo giuridico dell’accesso in corso di controversia poiché il rapporto tra richiedente ed Amministrazione (o soggetto equiparato) si è formato non attorno ad un generico (asserito) diritto del primo di accedere a una determinata documentazione ma su una richiesta precisamente connotata nei suoi presupposti giuridici e fattuali” (TAR Toscana, sentenza del 20.12.2019, n. 1748 che si uniforma alla ivi esplicitamente citata sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, 2 agosto 2019 n. 5503).

Trattasi, pertanto, di istituti destinati a coesistere ognuno con la propria disciplina e applicabili a differenti fattispecie.

9. I limiti all’accesso civico generalizzato

La regola dell’accessibilità da parte di chiunque a tutte le informazioni detenute dalle amministrazioni risulta temperata dalla previsione legislativa di alcune eccezioni poste a tutela di interessi pubblici e/o privati che potrebbero essere danneggiati dalla disclosure.

L’accesso generalizzato è escluso nei casi indicati al co. 3 dell’art. 5 bis, nei casi cioè in cui una norma di legge, sulla base di una valutazione preventiva e generale, per tutelare interessi prioritari e fondamentali, dispone sicuramente la non ostensibilità di dati, documenti e informazioni ovvero la consente secondo particolari condizioni, modalità e/o limiti. Solo una fonte di rango legislativo può giustificare la compressione del diritto a conoscere cui ora il nostro ordinamento è improntato.

Dette esclusioni (eccezioni assolute) ricorrono in caso di: a) segreto di Stato; b) negli altri casi di divieto di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche modalità o limiti, inclusi quelli di cui all’art. 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990.

Al di fuori dei casi sopra indicati, possono ricorrere, invece, limiti (eccezioni relative o qualificate) posti a tutela di interessi pubblici e privati di particolare rilievo giuridico elencati ai commi 1 e 2 dell’art. 5-bis del decreto trasparenza.

Il legislatore non opera, come nel caso delle eccezioni assolute, una generale e preventiva individuazione di esclusioni all’accesso generalizzato, ma rinvia a una attività valutativa che deve essere effettuata dalle amministrazioni con la tecnica del bilanciamento, caso per caso, tra l’interesse pubblico alla disclosure generalizzata e la tutela di altrettanto validi interessi considerati dall’ordinamento.

L’amministrazione, cioè, è tenuta a verificare, una volta accertata l’assenza di eccezioni assolute, se l’ostensione degli atti possa determinare un pregiudizio concreto e probabile agli interessi indicati dal legislatore. Affinché l’accesso possa essere rifiutato, il pregiudizio agli interessi considerati dai commi 1 e 2 deve essere concreto quindi deve sussistere un preciso nesso di causalità tra l’accesso e il pregiudizio.

L’amministrazione, in altre parole, non può limitarsi a prefigurare il rischio di un pregiudizio in via generica e astratta, ma dovrà: a) indicare chiaramente quale – tra gli interessi elencati all’art. 5 bis, co. 1 e 2 – viene pregiudicato; b) valutare se il pregiudizio (concreto) prefigurato dipende direttamente dalla disclosure dell’informazione richiesta; c) valutare se il pregiudizio conseguente alla disclosure è un evento altamente probabile, e non soltanto possibile.[24]

Tanto premesso, l’amministrazione non può limitarsi a prefigurare il rischio di un pregiudizio in via ipotetica/astratta, ma dovrà dimostrare che in concreto potrebbe arrecare un pregiudizio all’interesse protetto. Tra l’altro, il diniego non è giustificato qualora fosse possibile tutelare l’interesse con il semplice differimento.

Pertanto, si può affermare che uno dei caratteri della concretezza del pregiudizio è la sua attualità e la relazione che lega il momento della disclosure ed effetto pregiudizievole per l’interesse protetto.

Inoltre, l’amministrazione deve valutare se la tutela dell’interesse protetto possa essere assicurata dal semplice diniego di una parte soltanto del documento o dell’informazione richiesta.

Occorre anche che vi sia un nesso di causalità che colleghi la disclosure al pregiudizio e che sia non solo possibile, ma anche probabile che il pregiudizio si verifichi.

In relazione all’indagine in concreto che l’amministrazione deve compiere nel ponderare gli interessi in gioco, con la sentenza n. 2486 del 2019, il Tar Campania fornisce un’interessante disamina del funzionamento concreto dell’accesso civico generalizzato, in particolare laddove vengano in rilievo i limiti previsti a tutela di interessi pubblici e privati, in presenza dei quali la PA, in astratto, potrebbe negare l’ostensione degli atti richiesti.

Nella pronuncia su citata si legge che “l’amministrazione nell’esercizio dell’attività discrezionale (attività che esercita quando è chiamata a decidere se dare in ostensione i documenti e in che termini, al fine di proteggere gli interessi pubblici e privati previsti) è chiamata, infatti, non solo a considerare e verificare la serietà e la probabilità del danno all’interesse-limite, ma anche a contemperarlo con l’interesse alla conoscenza del richiedente”.

Ne consegue che l’esistenza di un pregiudizio concreto a uno degli interessi pubblici e privati dovrebbe rappresentare solo una condizione necessaria, ma non sufficiente, per negare l’ostensione.

Sul punto viene richiamata la giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui “la P.A. intimata dovrà in concreto valutare, se i limiti ivi enunciati siano da ritenere in concreto sussistenti, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza, a garanzia degli interessi ivi previsti e non potrà non tener conto, nella suddetta valutazione, anche le peculiarità della posizione legittimante del richiedente” (Cons. Stato, sez. IV, 12 agosto 2016, n. 3631).

In altri termini, l’amministrazione dovrà operare una valutazione comparativa, secondo il principio di proporzionalità, fra il beneficio che potrebbe arrecare la disclosure richiesta e il sacrificio causato agli interessi pubblici e privati contrapposti. 

Viene in gioco il principio di proporzionalità il quale impone all’amministrazione di valutare le esigenze di tutti i titolari degli interessi presenti nell’azione amministrativa, compreso quello del richiedente, al fine di ricercare la soluzione che comporti il minor sacrificio per tutti gli interessi coinvolti.

Quanto alla possibilità per le amministrazioni di individuare limiti ulteriori, secondo un primo orientamento giurisprudenziale, il sindacato del giudice amministrativo sulle richieste di accesso generalizzato può estendersi anche alla verifica delle finalità soggettive della richiesta, con la conseguenza che non sarebbero ammissibili le richieste di accesso civico generalizzato per le quali non sussistano le finalità indicate dall’art.5 comma 2 del D.lgs 33/13, ovvero quelle di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, (Cfr. TAR Lazio sez. II del 07 ottobre 2019 n.11593; TAR Lazio sez III-quater, 17 settembre 2019, n.11024; TAR Lazio, sez. II-bis, 2 luglio 2018, n. 7326) “sicché  sono oggetto di  accesso generalizzato esclusivamente  documenti attinenti a  tali  finalità” (TAR  lazio,  sez. iii-bis, 24  novembre  2017,  n. 11628).

Scrive il Consiglio di Stato sulle finalità dell’istituto: “Il nuovo accesso civico, che attiene alla cura dei beni comuni a fini d’interesse generale, si affianca senza sovrapposizioni alle forme di pubblicazione on line del 2013 ed all’accesso agli atti amministrativi del 1990, consentendo, del tutto coerentemente con la ratio che lo ha ispirato e che lo differenzia dall’accesso qualificato previsto dalla citata legge generale sul procedimento, l’accesso alla generalità degli atti e delle informazioni, senza onere di motivazione, a tutti i cittadini singoli ed associati, in guisa da far assurgere la trasparenza a condizione indispensabile per favorire il coinvolgimento dei cittadini nella cura della “Cosa pubblica”, oltreché mezzo per contrastare ogni ipotesi di corruzione e per garantire l’imparzialità e il buon andamento dell’Amministrazione” (Cons. di Stato sez. III, 06 marzo 2019, n.1546).

Considerate tali finalità di carattere generale, per l’orientamento giurisprudenziale in esame, non sarebbe accogliibile una richiesta di accesso da cui non emerga un bisogno conoscitivo del ricorrente comunque preordinato al controllo generalizzato sul buon andamento della PA e dunque sul perseguimento delle funzioni istituzionali dell’ente nonché sull’utilizzo corretto delle risorse pubbliche, ma esclusivamente  privato,  individuale,  egoistico o  peggio  emulativo  che, lungi  dal  favorire  la  consapevole partecipazione  del  cittadino  al  dibattito  pubblico, rischierebbe  di compromettere le  stesse  istanze  alla  base  dell’introduzione dell’istituto.

Diversamente, secondo la tesi opposta, le finalità della legge non possono trasformarsi in limiti “impliciti”: l’amministrazione non potrà negare un accesso generalizzato ritenendo che la conoscenza dei documenti richiesti non sia utile alle finalità della legge ovvero che l’ostensione richiesta non risulti finalizzata al controllo diffuso; così interpretando il dato normativo si corre, infatti, il rischio di introdurre limiti alla libertà di informazione non previsti espressamente dal legislatore.

Alla luce di quanto argomentato, quindi, anche richieste di accesso civico presentate per finalità “egoistiche” possono favorire un controllo diffuso sull’amministrazione, se queste consentono di conoscere le scelte amministrative effettuate. (cfr. TAR Campania, sez. VI, 9 maggio 2019, n. 2486).

Sempre in tema di limiti alla full disclosure, con la circolare n. 1/2019 emanata dal Dipartimento della Funzione pubblica, a seguito di una meditata riflessione avviata con il Garante per la protezione dei dati personali e l’A.N.A.C, sono state diramate aggiornate indicazioni sull’attuazione delle norme sull’accesso civico generalizzato.

In tale sede è stato riaffermato che “con il d.lgs. n. 97 del 2016 l’ordinamento italiano ha riconosciuto la libertà di accedere alle informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni come diritto fondamentale, in conformità all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Dal carattere fondamentale del diritto di accesso generalizzato deriva che, nel definire le modalità di attuazione di questo istituto con regolamento o circolare, le pubbliche amministrazioni possono disciplinare esclusivamente i profili procedurali e organizzativi di carattere interno, ma non i profili di rilevanza esterna che incidono sull’estensione del diritto.

Ne consegue che esiste una vera e propria riserva di legge in tema di eccezioni al diritto di accesso generalizzato desumibile dall’art. 10 della CEDU.

Di conseguenza le amministrazioni non possono individuare con fonti subordinate di natura regolamentare categorie di atti sottratte all’accesso generalizzato, come previsto invece per l’accesso documentale di cui all’art. 24, comma 2, l. n. 241 del 1990.

Ciò posto, il Consiglio di Stato ha chiarito che “l’accesso civico ‘generalizzato’ permane un settore ‘a limitata accessibilità’, nel quale continuano ad applicarsi le più rigorose norme della legge 241/1990 e se è vero che ormai è legislativamente consentito a chiunque di conoscere ogni tipo di documento o di dato detenuto da una pubblica amministrazione (oltre a quelli acquisibili dal sito web dell’ente, in quanto obbligatoriamente pubblicabili), nello stesso tempo, qualora la tipologia di dato o di documento non può essere resa nota per il pericolo che ne provocherebbe la conoscenza indiscriminata, mettendo a repentaglio interessi pubblici ovvero privati, l’ostensione di quel dato e documento sarà resa possibile solo in favore di una ristretta cerchia di interessati in quanto titolati, secondo le tradizionali e più restrittive regole recate dalla legge 241/1990 (…) pur introducendo nel 2016 (d.lg. 97/2016) il nuovo istituto dell’accesso civico ‘generalizzato’, espressamente volto a consentire l’accesso di chiunque a documenti e dati e quindi permettendo per la prima volta l’accesso (ai fini di un controllo) diffuso alla documentazione in possesso delle amministrazioni (e degli altri soggetti indicati nella norma appena citata) e privo di un manifesto interesse da parte dell’accedente, ha però voluto tutelare interessi pubblici ed interessi privati che potessero esser messi in pericolo dall’accesso indiscriminato. Il legislatore ha quindi operato per un verso mitigando la possibilità di conoscenza integrale ed indistinta dei documenti detenuti dall’ente introducendo dei limiti all’ampio accesso (art. 5 bis, commi 1 e 2, d.lg. 33/2013) e, per altro verso, mantenendo in vita l’istituto dell’accesso ai documenti amministrativi e la propria disciplina speciale dettata dalla legge 241/1990 (evitando accuratamente di novellare la benché minima previsione contenuta nelle disposizioni da essa recate), anche con riferimento ai rigorosi presupposti dell’ostensione, sia sotto il versante della dimostrazione della legittimazione e dell’interesse in capo al richiedente sia sotto il versante dell’inammissibilità delle richieste volte ad ottenere un accesso diffuso» (Cons. St., sez. VI, 31 gennaio 2018, n. 651). Secondo l’ANAC “Tenere ben distinte le due fattispecie è essenziale per calibrare i diversi interessi in gioco allorché si renda necessario un bilanciamento caso per caso tra tali interessi. Tale bilanciamento è, infatti, ben diverso nel caso dell’accesso 241 dove la tutela può consentire un accesso più in profondità a dati pertinenti e nel caso dell’accesso generalizzato, dove le esigenze di controllo diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in profondità (se del caso, in relazione all’operatività dei limiti) ma più esteso, avendo presente che l’accesso in questo caso comporta, di fatto, una larga conoscibilità (e diffusione) di dati, documenti e informazioni.”

Per i casi di diniego connessi all’esistenza di limiti di cui ai co. 1 e 2 che per quelli connessi all’esistenza di casi di eccezioni assolute di cui al co. 3, l’amministrazione è tenuta a una congrua e completa motivazione; la motivazione è necessaria anche in caso di accoglimento dell’istanza, specie nelle ipotesi in cui la richiesta lambisce diritti di soggetti terzi che, come controinteressati, sono stati coinvolti ai sensi dell’art. 5 co. 5 del decreto trasparenza.

Entrando nel merito della categoria delle eccezioni, una prima categoria di eccezioni è prevista dalla legge ed ha carattere tassativo.

Come anticipato, si tratta di eccezioni poste da una norma di rango primario a tutela di interessi pubblici e privati fondamentali e prioritari rispetto a quello del diritto alla conoscenza diffusa. In presenza di tali eccezioni l’amministrazione è tenuta a rifiutare l’accesso (segreto di Stato o divieto di divulgazione) ovvero a consentirlo secondo condizioni modalità e limiti previsti da norme di legge.

Nella valutazione dell’istanza di accesso, l’amministrazione deve quindi verificare che la richiesta non riguardi atti, documenti o informazioni sottratte alla possibilità di ostensione o ad accesso “condizionato” in quanto ricadenti in una delle fattispecie indicate nell’art. 5-bis co. 3.

Relativamente alle esclusioni relative o qualificate al diritto di accesso generalizzato derivanti dalla tutela di interessi pubblici, la disciplina dell’accesso civico generalizzato prevede la possibilità di rigettare l’istanza qualora il diniego sia necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici elencati nel nuovo art. 5-bis, comma 1 del d.lgs. n. 33/2013, inerenti a: a) la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico; b) la sicurezza nazionale; c) la difesa e le questioni militari; d) le relazioni internazionali; e) la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello Stato; f) la conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento; g) il regolare svolgimento di attività ispettive.

Con riferimento alle esclusioni relative o qualificate al diritto di accesso generalizzato derivanti dalla tutela di interessi privati, il decreto trasparenza ha previsto, all’art. 5-bis, comma 2, che l’accesso generalizzato è rifiutato se il diniego è necessario per evitare il pregiudizio concreto alla tutela degli interessi privati specificamente indicati dalla norma e cioè: a) protezione dei dati personali b) libertà e segretezza della corrispondenza c) interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi proprietà intellettuale, diritto d’autore e segreti commerciali.

Con particolare riferimento alla protezione dei dati personali, occorre evidenziare che l’accesso generalizzato è servente rispetto alla conoscenza di dati e documenti detenuti dalla p.a. allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico (art. 5, comma 2, del d. lgs. n. 33/2013).

Ne consegue che quando l’oggetto della richiesta di accesso riguarda documenti contenenti informazioni relative a persone fisiche (e in quanto tali «dati personali») non necessarie al raggiungimento del predetto scopo, oppure informazioni personali di dettaglio che risultino comunque sproporzionate, eccedenti e non pertinenti, l’ente destinatario della richiesta dovrebbe accordare l’accesso parziale ai documenti, oscurando i dati personali ivi presenti.

Ai fini della valutazione del pregiudizio concreto, vanno prese in considerazione le conseguenze (di carattere anche morale, sociale e relazionale che potrebbero derivare all’interessato); per esempio,  potrebbe verificarsi il caso che l’interessato possa essere esposto a minacce, intimidazioni, ritorsioni o turbative al regolare svolgimento delle funzioni pubbliche o delle attività di pubblico interesse esercitate, che potrebbero derivare, a seconda delle particolari circostanze del caso, dalla conoscibilità di determinati dati.

Così come previsto dalle Linee Guida FOIA dell’Anac “per verificare l’impatto sfavorevole che potrebbe derivare all’interessato dalla conoscibilità da parte di chiunque delle informazioni richieste, l’ente destinatario della richiesta di accesso generalizzato deve far riferimento a diversi parametri, tra i quali, anche la natura dei dati personali oggetto della richiesta di accesso o contenuti nei documenti ai quali di chiede di accedere, nonché il ruolo ricoperto nella vita pubblica, la funzione pubblica esercitata o l’attività di pubblico interesse svolta dalla persona cui si riferiscono i predetti dati. Riguardo al primo profilo, la presenza di dati sensibili e/o giudiziari può rappresentare un indice della sussistenza del predetto pregiudizio, laddove la conoscenza da parte di chiunque che deriverebbe dall’ostensione di tali informazioni – anche in contesti diversi (familiari e/o sociali) – possa essere fonte di discriminazione o foriera di rischi specifici per l’interessato. In linea di principio, quindi, andrebbe rifiutato l’accesso generalizzato a tali informazioni, potendo invece valutare diversamente, caso per caso, situazioni particolari quali, ad esempio, quelle in cui le predette informazioni siano state deliberatamente rese note dagli interessati, anche attraverso loro comportamenti in pubblico. Analoghe considerazioni sull’esistenza del pregiudizio concreto possono essere fatte per quelle categorie di dati personali che, pur non rientrando nella definizione di dati sensibili e giudiziari, richiedono una specifica protezione quando dal loro utilizzo, in relazione alla natura dei dati o alle modalità del trattamento o agli effetti che può determinare, possano derivare rischi specifici per i diritti e le libertà fondamentali degli interessati (si pensi, ad esempio, ai dati genetici, biometrici, di profilazione, sulla localizzazione o sulla solvibilità economica, di cui agli artt. 17 e 37 del Codice). Tra gli altri fattori da tenere in considerazione ai fini della valutazione della sussistenza del pregiudizio in esame, merita rilievo anche la circostanza che la richiesta di accesso generalizzato riguardi dati o documenti contenenti dati personali di soggetti minori, la cui conoscenza può ostacolare il libero sviluppo della loro personalità, in considerazione della particolare tutela dovuta alle fasce deboli. Riguardo al secondo profilo, va considerato altresì che la sussistenza di un pregiudizio concreto alla protezione dei dati personali può verificarsi con più probabilità per talune particolari informazioni – come ad esempio situazioni personali, familiari, professionali, patrimoniali – di persone fisiche destinatarie dell’attività amministrativa o intervenute a vario titolo nella stessa e che, quindi, non ricoprono necessariamente un ruolo nella vita pubblica o non esercitano funzioni pubbliche o attività di pubblico interesse”.

Alla luce delle suesposte considerazioni, appare evidente come il bilanciamento tra trasparenza e privacy costituisca una sfida per il legislatore e per l’operatore del diritto; la trasparenza funzionalizzata alla lotta alla corruzione può arrestarsi dinanzi alla privacy che secondo Rodotà rappresenta “il diritto dei diritti”, quello che riassume in sé tutti i diritti di libertà, tutti quei diritti fondamentali legati al diritto del singolo di sviluppare liberamente la propria personalità.[25]

Privacy e trasparenza costituiscono due istanze parimenti apprezzabili ma non facilmente conciliabili tra cui occorre individuare un punto di equilibrio dal momento che “in uno Stato di diritto non sono ammesse prevaricazioni di una a discapito dell’altra”.[26]

10. Il diritto di accesso civico generalizzato nei pubblici appalti

La corruzione emerge preponderante nelle more dell’affidamento dei contratti pubblici e può assumere aspetti multiformi che oscillano dalla distrazione patologica delpotereconferito (in termini di pressione sul soggetto aggiudicatore) o in accordi che aggirano del tutto il soggetto pubblico (in relazione al vasto tema degli accordi anticoncorrenziali)[27].

Ne consegue che la trasparenza può essere fondamentale al fine di ridurre i fenomeni corruttivi in un ambito estremamente tecnico ed ermetico, come quello degli appalti pubblici.

Tanto premesso, il Codice dei contratti pubblici (D.lgs. 18 aprile 2016, n. 50) disciplina l’accesso agli atti nelle procedure di affidamento all’art. 53, sancendo che «salvo quanto espressamenteprevisto nelpresente codice, il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte, è disciplinato dagli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241».

La giurisprudenza amministrativa degli ultimi anni si è, dunque, chiesta se il mancato richiamo nel Codice degli appalti dell’istituto dell’accesso civico, comportasse l’esclusione dell’applicabilità di questa disciplina alle procedure di pubblica evidenza.

Sul punto, si sono susseguiti diversi contrapposti orientamenti giurisprudenziali.

Un primo indirizzo, secondo il noto brocardo latino: “ubi lex voluit, dixit, ubi noluit, tacuit”, propende per l’esclusione dell’applicabilità dell’accesso civico generalizzato, di cui all’ art. 5, comma 2, D.lgs. 33/2013, nelle procedure di affidamento ed esecuzione degli appalti, per via del mancato richiamo di detto istituto nell’art. 53, D.lgs. 50/2016 (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5503 del 2 agosto 2019).

Il Consiglio di Stato, III sezione, ha ritenuto, infatti, che la legge propende per l’esclusione assoluta della disciplina dell’accesso civico generalizzato in riferimento agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici.

In modo più particolare, Palazzo Spada sostiene che il rapporto tra i due istituti sia di genere a specie: la “specie” accesso agli atti di gara, disciplinata dall’art. 53 del codice dei contratti, prevale sul “genere” accesso civico generalizzato, in tal modo impedendo l’applicabilità di tale ultimo tipo di accesso sia agli atti della procedura, sia ai documenti contrattuali e di esecuzione.

 Al riguardo, si legge: “L’istituto dell’accesso civico è stato introdotto nell’ordinamento con il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, dunque anteriormente al vigente Codice dei contratti pubblici, istituito invece con d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50; inoltre, l’accesso civico c.d. generalizzato – ovvero il diritto di accesso non condizionato dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti (…) è stato introdotto nel corpo del d.lgs. n. 33 del 2013 con il d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97, sicché ben avrebbe potuto essere inserito nel Codice dei contratti con il c.d. correttivo di cui al d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56, se si fosse voluto consentire l’accesso civico generalizzato per la materia dei contratti pubblici; anche in applicazione del noto brocardo ubi lex voluit, dixit, ubi noluit, tacuit, la circostanza sarebbe indicativa della volontà di escludere tale materia dall’ambito di applicazione del predetto istituto. (…).  In una prospettiva teleologica e sistematica, andrebbe considerato che gli atti delle procedure di affidamento ed esecuzione dei contratti pubblici sono formati e depositati nel contesto di una disciplina speciale, che rappresenta un complesso normativo chiuso, comprendente anche la regolamentazione dell’accesso agli atti. In tale prospettiva, risulta giustificata la scelta di non consentire un accesso indiscriminato a soggetti non qualificati, trattandosi di documentazione da un lato assoggettata ad un penetrante controllo pubblicistico da parte di enti istituzionalmente preposti alla vigilanza e dall’altro coinvolgente interessi di natura economica ed imprenditoriale di per sé sensibili.”

Un secondo indirizzo contrapposto, invece, ritiene che l’accesso civico generalizzato debba essere applicato anche alla materia dei contratti pubblici (cfr. Consiglio di Stato, sez. III., 5.6.2019, n. 3780).

Secondo tale, più favorevole, orientamento, infatti, l’art. 5 bis, comma 3 del D.lgs. n. 33/2013, stabilisce che l’accesso civico generalizzato è escluso nei casi previsti dalla legge «ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti», ma tale prescrizione, nel limitare tale diritto, non fa riferimento alle “materie”. Diversamente, infatti, si rischierebbe di escludere dall’intera materia relativa ai contratti pubblici, la disciplina dell’accesso civico generalizzato, il quale mira a garantire il rispetto del fondamentale principio costituzionale di trasparenza.

L’Adunanza Plenaria del 2 aprile 2020, n. 10, aderisce all’orientamento più favorevole e dirime la vexata quaestio, ritenendo che l’interpretazione letterale data dalla Sezione V alle disposizioni in materia di accesso, seppure formalmente corretta, debba cedere il passo ad una lettura sistematica, costituzionalmente e convenzionalmente orientata, che impone un necessario approccio restrittivo ai limiti all’accesso civico.

La Plenaria risolve la predetta questione ritenendo che il rapporto fra le due discipline generali dell’accesso (documentale e civico) e quelle settoriali (fra cui l’art. 53 Codice appalti) non possa essere letto in termini di “specialità” delle seconde a scapito delle prime, ma secondo un canone di “completamento / inclusione”, in cui il rapporto vada indagato “caso per caso”.

Se ne infierisce che la disciplina dell’accesso civico generalizzato, fermi i divieti temporanei e/o assoluti di cui all’art. 53 del d. lgs. n. 50 del 2016, è applicabile anche agli atti delle procedure di gara e, in particolare, all’esecuzione dei contratti pubblici, fermo restando la verifica della compatibilità dell’accesso con le eccezioni relative di cui all’art. 5-bis, comma 1 e 2, a tutela degli interessi-limite, pubblici e privati, nel bilanciamento tra il valore della trasparenza e quello della riservatezza.

Di seguito i principi di diritto enunciati nella pronuncia:

 “a) la pubblica amministrazione ha il potere-dovere di esaminare l’istanza di accesso agli atti e ai documenti pubblici, formulata in modo generico o cumulativo dal richiedente senza riferimento ad una specifica disciplina, anche alla stregua della disciplina dell’accesso civico generalizzato, a meno che l’interessato non abbia inteso fare esclusivo, inequivocabile, riferimento alla disciplina dell’accesso documentale, nel qual caso essa dovrà esaminare l’istanza solo con specifico riferimento ai profili della l. n. 241 del 1990, senza che il giudice amministrativo, adìto ai sensi dell’art. 116 c.p.a., possa mutare il titolo dell’accesso, definito dall’originaria istanza e dal conseguente diniego adottato dalla pubblica amministrazione all’esito del procedimento;

b) è ravvisabile un interesse concreto e attuale, ai sensi dell’art. 22 della l. n. 241 del 1990, e una conseguente legittimazione, ad avere accesso agli atti della fase esecutiva di un contratto pubblico da parte di un concorrente alla gara, in relazione a vicende che potrebbero condurre alla risoluzione per inadempimento dell’aggiudicatario e quindi allo scorrimento della graduatoria o alla riedizione della gara, purché tale istanza non si traduca in una generica volontà da parte del terzo istante di verificare il corretto svolgimento del rapporto contrattuale”.

c) la disciplina dell’accesso civico generalizzato, fermi i divieti temporanei e/o assoluti di cui all’art. 53 del d. lgs. n. 50 del 2016, è applicabile anche agli atti delle procedure di gara e, in particolare, all’esecuzione dei contratti pubblici, non ostandovi in senso assoluto l’eccezione del comma 3 dell’art. 5-bis del d. lgs. n. 33 del 2013 in combinato disposto con l’art. 53 e con le previsioni della l. n. 241 del 1990, che non esenta in toto la materia dall’accesso civico generalizzato, ma resta ferma la verifica della compatibilità dell’accesso con le eccezioni relative di cui all’art. 5-bis, comma 1 e 2, a tutela degli interessi-limite, pubblici e privati, previsti da tale disposizione, nel bilanciamento tra il valore della trasparenza e quello della riservatezza.”

11. Considerazioni conclusive

La trasparenza nella duplice declinazione di pubblicità e accesso e, ancor di più, l’accesso inteso come accessibilità totale alle informazioni detenute dalla Pubblica Amministrazione costituisce una grande conquista, tipica di ogni moderna democrazia.

Il vero nemico della corruzione è la pubblicità e, infatti, quanto più si rendono pubbliche le attività della pubblica amministrazione (per esempio, erogazioni pubbliche, contratti pubblici, procedure concorsuali) tanto maggiore sarà il controllo e minore il rischio di corruzione, giacché la corruzione si commette all’oscuro.

Ciò nonostante, l’agire preventivo nella lotta alla corruzione spesso non basta, necessitando anche del momento repressivo penale e contabile.

Ma, la vera battaglia contro la corruzione è rappresentata dall’aspetto culturale: occorre che la società civile investa sulla formazione, sull’educazione civica, sull’osservanza delle norme, sul rispetto delle istituzioni delle generazioni future di pubblici amministratori ed imprenditori.


[1] A. Jannone, Corruzione, frodi sociali e frodi aziendali, FrancoAngeli, Milano, 2015.

[2] ANAC – Piano Nazionale 2013-2016, par. 2.1. “Definizione di corruzione”

[3] Cit. S. Cassese, “Maladministration e rimedi”, in Foro.it, 1992, V, c.243, pp.2-15

[4] F.Merloni, “Per un’etica pubblica”, in R. Cavallo Perin, F. Merloni, Al servizio della nazione. Etica e statuto dei funzionari pubblici, Milano, 2009.

[5] Sutherland E., White Collar criminality, in American sociological review, 1940, 5, p. 1 ss.

[6] N.Shover, K.M. Bryant, Thoretical explanations for corporate crime, 1993.

[7] Robert K. Merton, 1938.

[8] R. Agnew, “Building on the foundation of General Strain Theory”, in Journal of Research in Crime and Deliquency, vol. 38, 2001.

[9] L’idea della pianificazione e programmazione come «sistema giuridico» è stata acutamente sviluppata da I.M. MARINO, Aspetti giuridici della programmazione e La programmazione come sistema giuridico, entrambi oggi in A. BARONE (a cura di), Scritti giuridici, Napoli, 2015, p. 681.

[10] Condensata nelle norme tecniche UNI  ISO  31000:2010  in  tema  di  «Gestione  del  rischio.  Principi e linee guida» adottate nel 2010, impiegate proprio da Anac per la redazione dei piani nazionali anticorruzione.

[11] F.Rimoli, Sorveglianza tecnocratica e integrazione politica, in Conoscenza e potere. Le illusioni della trasparenza, a cura di F.Rimoli – G.M. Salerno, cit., 123, che richiama sul punto il pensiero di Foucault, secondo il quale “non esiste relazione di potere senza correlativa costituzione di un campo di sapere, né di sapere che non supponga e non costituisca nello stesso tempo relazioni di potere”.

[12] F.Merloni, Trasparenza delle istituzioni e principio democratico, in La trasparenza amministrativa, a cura di F.Merloni, Milano, 2008, 3.

[13] G.Arena, Trasparenza amministrativa e democrazia, in Gli istituti di democrazia amministrativa, a cura di G.Berti – G.C. De Martin, Milano 1996, 13.

[14] G.Arena, Le diverse finalità della trasparenza amministrativa, in La trasparenza amministrativa, a cura di F. Merloni, cit. 36, il quale sottolinea che la mancanza di trasparenza rappresenta “un ostacolo allo sviluppo di una società pluralista, informata e democratica”.

[15] E. CARLONI, La “casa di vetro” e le riforme. Modelli e paradossi della trasparenza amministrativa, in Dir. Pubb, 2010, II.

[16] Art. 1, co. 2, d.lgs. n. 165 del 2001 recita: “Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti i del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. Fino alla revisione organica della disciplina di settore, le disposizioni di cui al presente decreto continuano ad applicarsi anche al CONI.”

[17] Sull’istituto dell’accesso civico cfr. C. Santarelli, L’accesso civico: un diritto in carriera nella contesa di uno spazio giuridico, in Le nuove frontiere della trasparenza nella dimensione costituzionale, a cura di L. Califano – C. Colapietro, 209 e ss. e C. Colapietro – C. Santarelli, Accesso civico, in Libro dell’anno del Diritto 2014, Roma, 2014, 210 ss.

[18] Cfr. S. Toschei, Accesso civico e accesso ai documenti amministrativi, due volti del nuovo sistema amministrativo Italia, Intervento al Convegno “Anticorruzione e trasparenza: analisi dell’impatto normativo nell’ente locale” – Frascati, 15 luglio 2013, cui si rinvia per un’analisi delle assonanze e delle dissonanze tra accesso civico ed accesso documentale.

[19] Cfr. ANAC, Rapporto sul primo anno di attuazione della legge n. 190/2012, dicembre 2013.

[20] B.G.Mattarella, Il contesto e gli obiettivi della riforma, in Giorn.dir.amm.,n. 5/2015, 624, evidenzia come gli strumenti in materia di trasparenza amministrativa previsti dall’originaria versione del d.lgs. n. 33/2013 sono stati definiti ignorando il principio di semplificazione e gravando le amministrazioni e i privati di inutili oneri burocratici.

[21] Lo schema originario del decreto prevedeva che l’istanza di accesso avrebbe dovuto identificare chiaramente i dati, le informazioni o i documenti.

[22]  Sul punto vedi anche Cassazione, Sez. Unite, 10 aprile 2018, n. 8823.

[23] Anna Corrado, Il silenzio dell’amministrazione sull’istanza di accesso civico generalizzato: quale possibile tutela  processuale, in federalismi.it

[24] Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico di cui all’art. 5 co. 2 del d.lgs. 33/2013 Art. 5- bis, comma 6, del d.lgs. n. 33 del 14/03/2013 recante «Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni», Delibera ANAC n. 1309 del 28 dicembre 2016.

[25] S.Rodotà, Intervista su Privacy e Libertà, a cura di P.Conti, Roma-Bari, 2005.

[26] L. Califano, Il bilanciamento tra trasparenza e privacy nel d.lgs. 33/2013, Relazione alla XXX Assemblea Anci – Firenze, 24 ottobre 2013, in www.garanteprivacy.it, nella quale ricorda che la pubblica amministrazione rappresenta nel nostro paese il più importante settore di trattamento dei dati, per cui individuare strumenti di pubblicità dell’attività amministrativa rispettosi della riservatezza degli individui coinvolti “significa modellare in maniera soddisfacente il potere pubblico nell’equilibrio tra conoscenza dell’attività e riservatezza delle persone”.

[27] Sul tema, cfr. M. D’Alberti, Corruzione, in Treccani. Enciclopedia Italiana, IX Appendice, 2015, «la gara, in sé del tutto regolare, può essere distorta a causa di un coordinamento preventivo tra le imprese partecipanti, che può dar luogo a turbativa d’asta, censurabile in sede penale, o a violazioni della normativa antitrust: vicende connesse a scambi di favori tra operatori economici e, dunque, a corruttela».