LA MEDIAZIONE CIVILE E COMMERCIALE:
LA VIA ITALIANA ALLA RISOLUZIONE ALTERNATIVA DELLE CONTROVERSIE
di STEFANO CARABETTA
PROFESSORE AGGREGATO DI DIRITTO PRIVATO COMPARATO – UNIVERSITA’ DI MESSINA
- Premessa.
Il sistema italiano degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (c.d. ADR, alternative dispute resolution) ha trovato largo sviluppo negli ultimi anni soprattutto per impulso dell’azione europea mirata a introdurre nei Paesi membri metodi extragiudiziali di risoluzione delle liti. La ratio è quella di garantire un migliore accesso alla giustizia in quanto procedure e accordi costruiti sulla base della volontà delle parti e rispondenti alle esigenze delle stesse consentono una definizione conveniente e rapida dei contenziosi. Nel novero degli strumenti di ADR si inserisce la mediazione civile e commerciale, introdotta dal d.lgs. n. 28 del 4 marzo 2010 [1]. L’obiettivo perseguito dal legislatore è quello di conseguire una maggiore efficienza del sistema processuale civile, ovviando ai problemi della lentezza del processo per il tramite della semplificazione e del miglioramento dell’accesso alla giustizia [2]. Si punta, in tale direzione, a deflazionare il rito ordinario del processo, riducendo la mole del contenzioso gestita dalla giustizia ordinaria ed utilizzando una logica cooperativa, opposta a quella tipicamente antagonista che stimola le parti della vicenda processuale. La mediazione si propone ad un tempo di coniugare le istanze di accessibilità alla giustizia con quelle di deflazione del processo ordinario civile nonché di accelerazione della definizione delle liti[3]. Pur con le differenze connesse alle diverse tipologie di mediazione (obbligatoria, facoltativa/volontaria, concordata, provocata o sollecitata ecc.), il legislatore della riforma non esclude il ricorso agli strumenti ordinari della giustizia civile, ma, d’altra parte, prevede il preliminare esperimento di un tentativo di mediazione in taluni casi come condizione di procedibilità dell’azione civile, in tali altri casi come scelta opzionale cui ricorrono spontaneamente i litiganti. Tanto nell’uno quanto nell’altro caso l’esito positivo della procedura di mediazione dipende – oltre che dalla sensibilità delle parti e dalla loro disponibilità a trovare una soluzione compromissoria degli interessi confliggenti – anche dalle conseguenze che discendono dalla mancata adesione alla proposta conciliativa formulata dal mediatore. Diversamente, la mediazione sarebbe destinata a ridursi ad un “burocratico adempimento fine a se stesso” idoneo unicamente a rendere un controproducente quanto deleterio allungamento dei tempi della giustizia[4]. Invero, soltanto con riferimento ad alcuni casi, peraltro tassativamente indicati all’art. 5 (rubricato Condizione di procedibilità e rapporti con il processo), è prevista l’obbligatorietà della mediazione. Quest’ultima poi è vincolante solo nella procedura, non anche con riguardo al risultato della medesima, posto che le parti, pur essendo tenute a promuovere la mediazione, non sono parimenti obbligate ad addivenire ad un accordo conciliativo né tanto meno ad aderire alla proposta formulata dal mediatore. In tale prospettiva, in ossequio al quattordicesimo considerando della direttiva 2008/52/CE, il legislatore delegato – pur facendo salvo il diritto di accesso al sistema giudiziario – ha corredato il ricorso alla mediazione di alcuni incentivi, idonei a promuovere e favorire l’utilizzo di tale procedura, e di correlative sanzioni, tese a punire l’abuso del processo[5].
(1) Sono le cc.dd. A.D.R. (alternative dispute resolution). Per uno studio nel diritto anglosassone delle adr vedi N. Andrews, I metodi alternativi di risoluzione delle controversie in Inghilterra, in L’altra giustizia, Varano (a cura di), Milano, 2007. Cfr. pure AA.VV., I contratti di composizione delle liti, Torino 2005.
Accanto ai richiami bibliografici di cui appresso, si menzionano i seguenti scritti sulla mediazione: E. Autorino, Le ADR: profili generali, in P. Stanzione (a cura di), Comparazione e diritto civile. Annali 2010-2011, vol. I., Torino, 2012, pp. 377-396; Armone, Porreca, La mediazione tra processo e conflitto, in Foro it., 2010, V, 95; G. De Stefano, Contributo alla dottrina del componimento processuale, Milano 1959; S. Giacomelli (a cura di), La via della conciliazione, Milano 2003; F.P. Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, pp. 1201 ss. e in Studi in onore di G. Tarzia, Milano 2005, pp. 2059 ss.; Id., Conciliazione (voce), in Il Diritto – Enciclopedia giuridica del sole 24 ore, 3, pp. 498 ss.; C.A. Nicoletti, La conciliazione nel processo civile, Milano 1963; A. Greco, La via italiana alla mediazione alla luce del d.lgs. 4.3.2010, n. 28 e del d.m. 18.10.2010, n. 180.
Pur riconoscendo il carattere fondamentale del principio dell’accesso alla giustizia, il Consiglio europeo nella riunione di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999, al fine di agevolare un miglior accesso alla giustizia, ha invitato gli Stati membri ad istituire procedure extragiudiziali e alternative. Lo rammenta espressamente il “considerando” n. 2 della direttiva 2008/52/CE relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale.
(2) Sottolineano tali esigenze M. Caradonna, C. Regis, F. Ruscetta, F. Silla, Mediazione civile: un nuovo strumento giuridico di gestione delle liti per una maggiore efficienza della giustizia in Italia, in Riv. dott. comm., 2010, 04, pp. 735 ss.
(3) Siffatta finalità costituisce un espresso principio e criterio direttivo della legge delega laddove al punto a) dell’art. 60 si prevede che il Governo deve «prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia».
(4) Così D. Chindemi, Tecniche conciliative, in tema di mediazione, con riferimenti ai sinistri stradali, in Resp. civ. e prev., 2011 p. 3.
(5) Tra essi si annoverano lo strumento contenuto nell’ultimo comma dell’art. 8 del decreto legislativo sulla media-conciliazione, che attribuisce al giudice la facoltà di trarre argomenti di prova ex art. 116, secondo comma c.p.c. dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, come pure quelli di carattere fiscale contenute negli artt. 17 e 20 del decreto.
2. Gli incentivi alla mediazione.
Nell’ambito degli incentivi al ricorso alla mediazione si inserisce la norma sulle spese processuali di cui all’art. 13 del decreto 28/2010 (6). Il primo comma contempla l’ipotesi in cui le parti, rifiutata l’adesione alla proposta conciliativa formulata dal mediatore ai sensi dell’art. 11, agiscano in sede giudiziaria, ottenendo all’esito un provvedimento interamente corrispondente al contenuto della proposta prima rifiutata. In tale caso il giudice è tenuto: a) ad escludere la ripetizione delle spese – relative al periodo successivo alla formulazione della proposta – sostenute dalla parte vincitrice che abbia rifiutato la proposta de qua; b) a condannare la parte vincitrice al rimborso delle spese (riferibili allo stesso periodo) sostenute dalla parte soccombente; c) a condannare la parte vincitrice al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma ulteriore corrispondente al contributo unificato dovuto. Le medesime regole si applicano alle spese di indennità corrisposte al mediatore e di compenso per la prestazione dell’esperto nominato ai sensi dell’art. 8, comma 4 del decreto in esame. Affinché possano applicarsi gli effetti previsti dall’art. 13 del d.lgs. 28/2010 è richiesto, però, che vi sia l’integrale corrispondenza tra il contenuto della proposta conciliativa, da un lato, e il provvedimento che definisce il giudizio dall’altro. Il secondo comma dell’art. 13 del d.lgs. 28/2010 attribuisce al giudice la facoltà di escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto nell’ipotesi in cui non vi sia piena corrispondenza tra il provvedimento finale del giudizio e quello della proposta conciliativa. In tal caso è necessario che siano indicate esplicitamente nella motivazione le ragioni del provvedimento sulle spese. L’art. 13 riprende – quasi pedissequamente – il principio e criterio direttivo contenuto nell’art. 60, terzo comma, lettera p) della legge delega n. 69 del 18 giugno 2009, recante Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile(7).
A ben vedere, però, l’art. 13 si discosta dalla delega in quanto l’esclusione dalla ripetizione delle spese, concepita come meramente potenziale nella delega, diviene nella norma delegata un vero e proprio dovere per il giudice. Diversamente da quanto accadeva nel rito societario(8) e da ciò che era inizialmente previsto nella legge di delegazione, il legislatore ha praticamente annullato lo spatium deliberandi concesso al giudice, optando per la modalità deontica del dovere: a fronte della piena sovrapponibilità tra provvedimento giudiziale e proposta conciliativa, l’organo giudicante, piuttosto che di una facoltà discrezionale, diviene titolare di una situazione di dovere che gli impone, sussistendo i presupposti legali, di escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta nonché di adottare le altre misure sanzionatorie indicate dalla norma.
Taluno ha stigmatizzato come eccesso di delega siffatta opzione legislativa, ravvisando nella categoricità di tale norma un vero e proprio vizio di ultra-attuazione da parte del legislatore delegato anche in ragione del fatto che lo stesso ha superato il limite fissato dalla lett. a) dell’art. 60, terzo comma della l. n. 69/2009, secondo cui la mediazione non deve precludere l’accesso alla giustizia (9).
Ad ogni modo, la previsione costituisce una deroga al principio generale della soccombenza di cui all’art. 91 c.p.c., in virtù del quale le spese processuali devono seguire la soccombenza ed essere, perciò, addebitate al soggetto che risulta non vittorioso nella causa. La ratio perseguita dal legislatore è di tipo promozional-persuasivo, mirando ad incentivare l’adesione alla conciliazione tutte le volte in cui possa ritenersi che la proposta conciliativa – secondo il canone della ragionevolezza ed in virtù di un giudizio prognostico probabilistico ex ante ed in concreto – potrebbe avere un contenuto coincidente o prossimo a corrispondere al dispositivo del provvedimento finale del futuro eventuale giudizio. Il ruolo svolto dall’art. 13 è sostanzialmente sanzionatorio e, ad un tempo, incentivante, finalizzato com’è a reprimere le condotte vietate e, per ciò stesso, a promuovere i comportamenti favoriti.
Va da sé, invero, che in mancanza di una norma di tal fatta, la portata deflattiva dell’intero meccanismo media-conciliativo sarebbe agevolmente eludibile attraverso comportamenti esclusivamente dettati da istanze di gratuito ostruzionismo e da esigenze meramente dilatorie, di partecipazione passiva alla mediazione e dolosamente preordinata a provocare inutili perdite di tempo.
Tale previsione deve essere letta alla luce della ratio che ispira la media-conciliazione, assiologicamente orientata alla tutela, fra l’altro, di interessi che esorbitano dal mero ambito privatistico. Occorre, infatti, tenere nel debito conto che l’esigenza sottesa al meccanismo mediatorio e conciliativo non è unicamente quella di offrire la possibilità ai contendenti di una risoluzione celere del contenzioso. Vi è un’intima quanto indissolubile fusione e commistione tra l’esigenza – a rilevanza interna e privatistica – dei singoli a perseguire rapidamente e con il minore dispendio di economie l’obiettivo della giustizia e l’istanza – extrasingolare, ascrivibile ad una sfera di rilevanza superiore – di decongestione della macchina processuale.
Che vi sia la lesione di un interesse anche superindividuale si evince, altresì, dalla previsione dell’art. 13, primo comma, del d.lgs. 28/2010, laddove si dispone che il giudice deve condannare la parte vincitrice che abbia rifiutato la proposta conciliativa, fra l’altro, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto.
Salutata con favore da alcuni, la norma in commento è stata criticata da chi ha messo in evidenza che la portata minatoria della stessa è tale da distrarre l’attenzione del mediatore e delle parti dal piano degli interessi e delle necessità dei medianti – come dovrebbe correttamente essere in un sistema conciliativo puro – a quello della fondatezza delle pretese dei litiganti (10).
(6) L’art. 13 evoca l’art 96 della ZPO tedesca, a norma del quale “le spese per l’utilizzo infruttuoso di un mezzo di attacco o di difesa possono essere imputate alla parte che lo ha fatto valere anche se vittoriosa nel merito” nonché l’istituto dell’order of aggravated cost previsto dall’ordinamento processuale inglese per il caso di irragionevole o immotivata mancata evasione di un ADR order. Per un commento sull’art. 13 vedi A. Bandini, Spese processuali (commento all’art. 13 d.lgs. 28/2010), in AA.VV., La nuova disciplina della mediazione delle controversie civili e commerciali (commentario), a cura di A. Bandini e N. Soldati, Milano 2010.
(7) Per un’analisi della direttiva cfr. V. Vigoriti, La direttiva europea sulla mediation. Quale attuazione?, in Riv. arb., 2009, 1 ss.
L’art. 13 dispone testualmente: “p) prevedere, nei casi in cui il provvedimento che chiude il processo corrisponda interamente al contenuto dell’accordo proposto in sede di procedimento di conciliazione, che il giudice possa escludere la ripetizione delle spese sostenute dal vincitore che ha rifiutato l’accordo successivamente alla proposta dello stesso, condannandolo altresì, e nella stessa misura, al rimborso delle spese sostenute dal soccombente, salvo quanto previsto dagli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile, e, inoltre, che possa condannare il vincitore al pagamento di un’ulteriore somma a titolo di contributo unificato ai sensi dell’articolo 9 (L) del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115.”
(8) Il d.lgs. 28/2010 all’art. 23 ha abrogato gli articoli da 38 a 40 del d.lgs. 231/2007.
Sulla conciliazione in materia societaria vedi F. De Santis, La conciliazione in materia societaria. Fondamenti negoziali, contrafforti pubblicistici e riflessi sul processo ordinario, in Giurisprudenza italiana, 2004, p. 457 ss.; G. Miccolis, Della conciliazione stragiudiziale (commento agli artt. 38-40 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5), in La riforma delle società. Il processo, a cura di B. Sassani, Torino, 2003, p. 357 ss. D. Dalfino, Dalla conciliazione societaria alla «mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali», in www.iudicium.it.
(9) Cfr. G. Monteleone, La mediazione «forzata», in www.Judicium.it, 1, il quale intravede margini di incostituzionalità della normativa de qua per contrasto con l’art. 24 della Costituzione. Vi sarebbe un intralcio al libero esercizio dell’azione civile poiché «minacciare sanzioni e condanne alle spese alla parte vittoriosa, per il solo fatto che abbia rifiutato la proposta conciliativa poi recepita in sentenza, non ha altra funzione che ostacolarle l’accesso alla giustizia con strumenti di coazione indiretta».
(10) Facendo riferimento a tali aspetti, censura il regime delle spese introdotto dall’art. 13 del d. lgs. 28/2010 come “moneta buona che scaccia quella cattiva” F.P. Luiso nella prefazione a AA.VV., La nuova disciplina della mediazione delle controversie civili e commerciali (commentario), cit., p. XII.
Anche secondo il Consiglio Nazionale Forense l’art. 13 del decreto 28/2010 sarebbe tra le norme da ripensare. Il Cnf preferirebbe richiamare semplicemente la disciplina ordinaria sulle spese processuali (articolo 91 cpc) come modificata in via generale dalla legge 69/2009, richiamando, cioè, la regola che prevede per la parte che ha rifiutato senza giusti motivo la proposta di conciliazione.
3. Mediazione e abuso del processo.
Il meccanismo introdotto dall’art. 13 del decreto in esame costituisce l’escamotage di cui si avvale il legislatore della riforma per garantire il pieno soddisfacimento del diritto alla tutela giurisdizionale, costituzionalmente tutelato dall’art. 24 Cost., con quello, di pari dignità, del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. La funzione pedagogico-deterrente svolta dall’art. 13 dovrebbe consentire di evitare o, comunque, di ridurre i casi di abuso del processo. Invero, al pari degli altri diritti, anche quello di accesso alla giustizia, può, nel suo concreto esercizio, prestarsi a situazioni di abuso. Il concetto di abuso del diritto deve essere tenuto distinto da quello di eccesso (11). Abbandonata ogni tentazione etica (12) – tesa a identificare l’abuso con l’uso riprovevole del proprio diritto – si sono registrate opinioni che hanno individuato l’abuso con l’uso “anormale” del diritto(13) , ovvero con la difformità tra fattispecie normativa e caso concreto (14), L’idea più convincente descrive l’abuso quale deviazione assiologica che, in concreto, realizza obiettivi e soddisfa interessi qualificabili in termini di estraneità rispetto a quelli perseguiti e realizzati in astratto dalla norma (15). Sebbene in linea teorica qui iure suo utitur neminem laedit, in concreto, avendo riguardo alle specifiche modalità di esercizio, l’uso improprio o scorretto (contrario a buona fede) del diritto può sortire effetti contrari a quelli consentiti. L’abuso, pertanto, può essere definito come esercizio funzionalmente distorto del diritto. Come lascia intendere l’etimo del termine (ab-usus), in tali casi il titolare del diritto dà attuazione allo stesso per un fine che è contrapposto o comunque differente rispetto a quello cui è istituzionalmente deputato. Si tratta di un principio che non è espressamente codificato, ma che si desume da alcune norme specifiche, quale l’art. 2 della Costituzione, che nell’alveo del dovere di solidarietà include il limite di ogni situazione giuridica soggettiva. Nello schema del codice vi era l’intento di inserire una norma ad hoc, ma poi si è preferito menzionare ipotesi specifiche quali quelle previste e disciplinate dagli artt. 330, 833, 2793 c.c. ecc. A livello europeo il divieto ha trovato un espresso riconoscimento nell’art 54 della Carta di Nizza, nella parte in cui, sotto la rubrica “Divieto dell’abuso del diritto” dispone che «Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Carta o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta». Che anche il diritto di accesso alla giustizia – costituzionalmente garantito all’art. 24 Cost. – possa prestarsi a forme di esercizio abusivo è ormai definitivamente acclarato (16). Intanto sono rinvenibili esempi di diritto positivo, come nell’ipotesi della fattispecie contemplata dall’art. 96 c.p.c. che disciplina l’azione e la resistenza temeraria in giudizio (17). Di recente, inoltre, la Corte di Cassazione ha qualificato alla stregua di abuso l’ipotesi nota come frazionamento del credito. Con la sentenza n. 23726 del 2007 le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno statuito che, nonostante l’interesse non necessariamente emulativo del creditore-attore, in siffatti casi vi è comunque la lesione del principio di correttezza e buona fede. Anche in virtù della novellazione dell’art. 111 Cost., la parcellizzazione giudiziale del credito si pone in contrasto con il precetto inderogabile del giusto processo, sub specie di principio della ragionevole durata del processo, «per l’evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della relativa durata». Afferma la Corte di Cassazione che il risultato perseguito dalla riforma costituzionale e teso a conseguire il c.d. giusto processo è inconciliabile con quelle forme di abuso del processo «per esercizio dell’azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che segna il limite, oltre che la ragione dell’attribuzione al suo titolare della potestas agendi». Il nuovo regime delle spese introdotto dall’art. 13 del d.lgs. 28/2010, avvalendosi del meccanismo tipico della punizione, mira a evitare l’abuso del processo. Segnatamente, la forma di abuso che il legislatore si propone di debellare è quella che ricorre nell’ipotesi in cui la parte rifiuta di aderire alla proposta conciliativa ed utilizza l’azione ovvero la resistenza in giudizio quale forma scorretta di esercizio del diritto di difesa per il soddisfacimento di interessi non già di giustizia, bensì meramente pregiudizievoli della istanze di controparte, cagionando a danno di questa un ingiustificato ritardo nella definizione della vertenza (18). Ciò risulta ancora più evidente sol che si rifletta sul contrasto che una simile condotta pone in relazione agli artt. 111 Cost. (che fissa il principio del c.d. giusto processo), 88 c.p.c., (che impone alle parti il dovere di lealtà e di probità) e 145 c.p.c., ai sensi del quale il giudice deve esercitare «tutti i poteri intesi al più sollecito svolgimento del procedimento» (19).
(11) Sulla distinzione tra eccesso e abuso del diritto vedi U. Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, p. 18 ss.
(12) È l’idea, fra gli altri, di M. Rotondi, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1923, pp. 105 ss., il quale nega la configurabilità della categoria giuridica dell’abuso e ascrive allo stesso la mera rilevanza di fenomeno sociale che l’ordinamento non può disciplinare nelle sue imprevedibili applicazioni.
(13) In tal senso S. Patti, Abuso del diritto, in Dig. disc. priv., Torino 1987, pp. 2 ss.
(14) Così C. Restivo, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Milano 2007, pp. 81 ss.; S. Romano, Abuso del diritto, in Enc. dir., I, Milano 1958, pp. 168 ss.
(15) V. Scalisi, Ingiustizia del danno e analitica della responsabilità civile, in Rivista di diritto civile, 2004, 1, pp. 29-56 ora in Categorie e istituti del diritto civile nella transizione al postmoderno, Milano 2005, p. 810 e ss., descrive l’abuso come la condotta “non legittima nel senso di comportamento deviante rispetto allo scopo conformativo”.
(16) La letteratura sul tema è ampia. Vedi, fra gli altri, F. Cordopatri, L’abuso del processo, I, Profili storici, II, Diritto positivo, Padova, 2000; Id., L’abuso del processo e la condanna nelle spese, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2005, p. 249; Id., L’abuso del processo, I-II, Padova, 2000, passim; Id., L’abuso del processo e la condanna alle spese, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2005, 249 e ss.; A. Dondi, Giussani, Appunti sul problema dell’abuso del processo civile nella prospettiva de iure condendo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2007, 197; M. TARUFFO, Elementi per una definizione di “abuso del processo”, in AA.VV., L’abuso del diritto, Padova, 1998, 435; A. Dondi, Manifestazioni della nozione di abuso del processo civile, in L’abuso del diritto, Padova, 1998, 459; Id. Cultura dell’abuso e riforma del processo civile negli Stati Uniti, in Riv. dir. proc., 1995, 787; G. Scarselli, Lealtà e probità nel compimento degli atti processuali, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1998, 91; V. Asanelli, Abuso del processo, in Digesto delle discipline privatistiche, sezione civile, Torino, 2007, 8; L.P. Comoglio, Abuso del processo e garanzie costituzionali, in Riv. dir. proc., 2008, 319; A. Graziosi, Pluralità di azioni a tutela dello stesso diritto (frazionato) o abuso del diritto di azione ?, in Corr. giur., 2009, 1133; M. DE Cristofaro, Infrazionabilità del credito tra buona fede processuale e limiti oggettivi del giudicato, in Riv. dir. civ., 2008, 335; M.F. Ghirga, La meritevolezza della tutela richiesta, Contributo allo studio sull’abuso dell’azione giudiziale, Milano, 2004.
Per la letteratura straniera vedi G.C. Hazard JR., Abuse of Procedural Rights: A Summary View of the Common Law Systems, in Abuse of Procedural Rights: Comparative Standards of Procedural fairness, International Association of Procedural Law, International Colloquium, New Orleans, 27-30 October 1998, The Hague-London-Boston, 1999, 36 e 50 ss.
(17) Oggi ancora più evidente, fra l’altro, alla luce: a) della riforma operata dalla legge n. 69 del 2009 che ha aggiunto all’art. 96 il comma 3, ai sensi del quale “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”; b) dell’art. 30 del d.lgs. n. 80/1998, oggi confluito nell’art. 64, comma 8, del testo unico sul pubblico impiego (d.lgs. n. 165/2001), che stabilisce che la Corte di cassazione, nel decidere dei ricorsi proposti contro le sentenze del Tribunale pronunciate al solo fine di interpretare il contratto collettivo, “può condannare la parte soccombente, a norma dell’art. 96 c.p.c., anche in assenza di istanza di parte”.
(18) L’ipotesi – che vede contrapposti gli interessi del soggetto che provoca abusivamente il processo civile e quello che fa capo alla parte che intende conseguire una celere definizione della lite – può esser qualificata come conflitto aquiliano del secondo tipo seguendo la schematizzazione teorica proposta da V. Scalisi, in Danno e ingiustizia nella teoria della responsabilità civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, pp. 785-819, ora in Categorie e istituti del diritto civile nella transizione al postmoderno, Milano 2005, in particolare p. 760 e ss; Id., Ingiustizia del danno e analitica della responsabilità civile, in Rivista di diritto civile, 2004, 1, pp. 29-56 ora in Categorie e istituti del diritto civile nella transizione al postmoderno, Milano 2005, p. 810 e ss.
(19) Cui fanno da pendant l’art. 6 del codice forense, secondo cui l’avvocato “deve svolgere la propria attività professionale con lealtà e correttezza” e “non deve proporre azioni o assumere iniziative in giudizio con mala fede o colpa grave” nonché l’art. 49, che vieta all’avvocato di aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte quando ciò non corrisponde ad effettive ragioni di tutela della parte assistita.