di Debora Bellocco

1. Il concetto di disabilità alla luce della definizione proposta dall’organizzazione mondiale della sanità.

La nostra società è testimone di un cambiamento radicale grazie al quale, i soggetti con disabilità, vedono affermati i propri diritti nell’ambito educativo, lavorativo e del tempo libero1. Ma la storia ci racconta che non è stato sempre così. Nel mondo greco, in cui regnava l’ideale del corpo perfetto, la disabilità suscitava disprezzo e, quindi condanna: ricordiamo che per Platone la città perfetta deve essere abitata solo da individui sani. Nelle prime società greche le persone disabili sono il frutto dell’ira degli Dei, quindi nati come castigo divino. Proprio per questo motivo la maggior parte di essi vengono uccisi alla nascita, mentre gli altri diventano capri espiatori: nel caso di catastrofi naturali viene scelto tra essi, il disabile più ripugnante da immolare agli Dei. Anche le società ebraiche non accettano i disabili, basti pensare che nell’antico testamento si legge che i mostri non possono avvicinarsi a Dio. Nella civiltà Romana, nella quale, come in quella greca, regna il culto del bello, la mostruosità di un figlio è un disonore per tutta la stirpe; quindi appena nato veniva buttato nell’immondizia e lasciato morire. Addirittura nel medioevo la disabilità del nato rifletteva le colpe della madre: quindi entrambi venivano arsi sul rogo. In questo quadro di emarginazione la Chiesa non faceva altro che alimentare tale visione negativa della disabilità considerandola, perfino espressione del demonio. Ora se è vero che il primo passo nel segno dell’inclusione sociale degli individui disabili si ha in Francia nel 1784, lì dove varie istituzioni incominciano ad accogliere i bambini con disabilità, le cose cambiano, davvero, solo, con l’avvento dell’Illuminismo che porta con sé i principi della scienza e del progresso: per la prima volta nel corso della storia il soggetto colpito da malformazione fisica non è considerato un indegno. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani firmata a Parigi il 10 dicembre del 1948, sancisce il principio di uguaglianza per tutti gli uomini. Infatti il primo articolo recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti [..…]. Il secondo articolo poi specifica: “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza di nascita o di altra condizione”.2 Da allora ad oggi è stata percorsa tanta strada nel segno di una nuova visione del mondo della disabilità tanto da considerare la stessa come una speciale normalità. Ma cos’è la disabilità? Non è semplice dare una risposta omnicomprensiva alla suddetta domanda. Infatti la disabilità non è, certo, un concetto universale ma un termine generale che comprende diverse situazioni di menomazione. E’ un fenomeno complesso che riflette la relazione tra il corpo della persona e la società in cui la medesima vive. La stessa definizione di disabilità muta in base al contesto socio-culturale in cui il fenomeno si presenta. Preso atto di quanto appena detto, ci si rende subito conto che trovare una definizione univoca di disabilità è di importanza primaria perché proprio dal modo in cui si comprende la disabilità derivano i possibili modelli di intervento rivolti alla protezione dei diritti delle persone disabili. E’ l’Organizzazione mondiale della Sanità ad occuparsi dell’elaborazione di un concetto di disabilità unificato. Un primo documento dell’OMS sulla classificazione della disabilità viene pubblicato nel 1980 con il titolo International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps (ICIDH). Il suddetto documento si basa su un modello sequenziale che distingue fra menomazione, disabilità ed handicap, conseguenti ad una malattia. La menomazione è la perdita o anormalità a carico di strutture o funzioni psicologiche, fisiologiche o anatomiche con natura permanente. La disabilità è definita come la limitazione o perdita della capacità di compiere un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per essere umano; quindi, dipende dall’attività che il soggetto si trova a svolgere. L’handicap, infine, rappresenta il danno che il soggetto presenta rispetto ad un individuo sano ed è definito come la condizione di svantaggio vissuta da una determinata persona in conseguenza di una menomazione o di una disabilità che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio a quella persona. L’ ICIDH contempla nove gruppi (assi) di menomazioni, suddivisi, a loro volta, in sottocategorie fino ad arrivare ad una classificazione a tre cifre. Poi contempla nove assi per la disabilità suddivise come le menomazioni, e sette per gli handicap, ognuno dei quali divise in una scala di nove categorie. Alla base del documento dell’OMS del 1980 vi è una concezione della disabilità che si fonda, esclusivamente, sul modello cosiddetto biomedico, il quale guarda l’individuo disabile da un punto di vista della malattia, non della persona. Il disabile è considerato “ un oggetto” incapace di prendersi cura di sé. Il problema è personale. La terapia è di tipo medico ed il trattamento è sull’individuo.

Molte sono state le critiche mosse all’ICIDH: sotto il profilo concettuale si è, soprattutto, evidenziata l’assenza della dimensione ambientale nella valutazione dell’handicap e la descrizione delle diverse situazioni in termini negativi; sotto il profilo tecnico, invece, si è accusato l’ICIDH di utilizzare termini obsoleti e di sovrapporre le diverse categorie, creando, così, confusione. Ma la critica più importante mossa al documento dell’OMS del 1980 è che la sequenza descritta (menomazione, disabilità, handicap) non riflette sempre la realtà dei fatti: infatti, l’handicap può essere conseguenza di una menomazione, senza la mediazione di una situazione di disabilità; inoltre, una persona può essere menomata senza essere disabile e disabile senza essere handicappata. Dunque, presto ci si è resi conto che tanti sono i fattori che possono influire sulla disabilità dell’individuo perché gli aspetti della vita sono tutti concatenati tra loro. Allora si è proceduto ad una revisione dell’ICIDH ed il 22 maggio 2001, 191 Stati membri dell’OMS ( tra cui l’Italia) hanno approvato l’International Classification of Functioning, Disability and Health( ICF) che ha sostituito l’ICIDH. Già il titolo denota un mutamento di prospettiva nel modo di valutare la disabilità. Nello stesso, infatti, non compare più il termine Handicap che viene sostituito con quello di salute. Una novità importante, poi, è che l’ICF non ha come destinatari, solo, i soggetti diversamente abili, ma si pone come documento avente valore universale, ovvero la teoria è che ogni individuo può venire a trovarsi in una situazione di disabilità, in un qualsiasi momento della propria vita. Oggi l’ICF (acronimo di classificazione Internazionale della Disabilità e della Salute) rappresenta la direttiva di riferimento in tema di disabilità con lo scopo principale di fornire un linguaggio standard e unificato che serva da modello di riferimento per la descrizione della disabilità dell’uomo4e degli stati ad essa correlati. Grazie a tale documento si stabilisce un linguaggio comune e ciò rende possibile anche il confronto fra i dati raccolti in diversi Paesi. L’ICF ci offre, senza alcun dubbio, un metodo di approccio nuovo alla disabilità, la quale non è più conseguenza delle malformazioni fisiche del soggetto, ma deriva dal rapporto tra il disabile e la società in cui lo stesso vive. Dunque, la disabilità è il risultato della relazione tra la salute del soggetto ed i fattori sociali. L’ICF non è una classificazione delle persone, ma delle caratteristiche della salute delle persone valutate alla luce delle loro situazioni di vita personale e del contesto ambientale in cui vivono. Procediamo ad analizzare più da vicino la sua struttura. L’ICF racchiude tutti gli aspetti relativi alla salute umana ed alcune componenti importanti della salute che vengono definiti rispettivamente come domini della salute (ad esempio: la vista, l’udito etc ) e domini ad essa correlati (istruzione, trasporto etc). Il documento organizza tutte le informazioni in due parti: la prima si occupa di funzionamento e di Disabilità (comprende i fattori organici) e la seconda, invece, di fattori contestuali. A loro volta ogni parte è composta da due componenti. Le componenti della prima parte sono: a) strutture e funzioni corporee; b) Attività e Partecipazione. Le componenti della seconda parte sono fattori Ambientali e Personali. Ciascuna componente può esprimersi sia in termini positivi che negativi. Mi sembra opportuno, a questo punto, aprire una parentesi ed evidenziare la nuova prospettiva con cui si guarda al mondo della disabilità: appare subito chiaro come i termini di menomazione, disabilità e handicap, utilizzati dall’OMS nel documento del 1980, vengano sostituiti, completamente dai termini funzioni, strutture ed attività permettendo così la descrizione non più in termini negativi ma positivi. Passiamo all’analisi delle singole componenti. Le funzioni corporee sono le funzioni fisiologiche dei sistemi corporei, comprese quelle psicologiche. Le strutture sono le parti strutturali o anatomiche del corpo. Le attività è l’esecuzione di un compito da parte di un soggetto ed è la prospettiva individuale del funzionamento. La partecipazione è il coinvolgimento di un soggetto in una determinata situazione di vita ed è la prospettiva sociale del funzionamento; le restrizioni alla partecipazione sono i problemi che un individuo incontra nel coinvolgimento delle situazioni di vita. I fattori Ambientali riguardano, invece, gli aspetti del contesto esterno della vita di un soggetto e, naturalmente, hanno un impatto sul funzionamento della persona. Comprendono l’ambiente fisico e tutte le sue caratteristiche (le altre persone, i valori, le leggi etc ). I fattori personali non sono classificati nell’ICF e rappresentano le caratteristiche individuali di una persona (ad esempio: sesso, razza, età, stile di vita etc ) anche se non fanno parte delle sue condizioni di salute bisogna comunque tenerli in considerazione. L’ICF interpreta le componenti del funzionamento e della disabilità attraverso quattro costrutti separati, ma correlati tra loro e che vengono resi operanti mediante l’utilizzo di qualificatori. I costrutti della parte prima sono: cambiamento nella funzione corporea, cambiamento nella struttura corporea, capacità (ovvero abilità di un individuo di eseguire un’azione), performance (ovvero ciò che un soggetto fa nel suo ambiente attuale). I costrutti della parte seconda sono: facilitatori nei fattori ambientali (ovvero fattori che mediante la loro presenza o assenza migliorano il funzionamento e riducono la disabilità), barriere nei fattori ambientali (fattori che attraverso la loro presenza o assenza limitano il funzionamento e creano disabilità). L’ICF nel procedere alla classificazione delle forme di disabilità, a differenza dell’ICIDH che si basa sul modello medico, ha abbracciato la concezione bio-psico-sociale configurando la disabilità come l’interazione tra la società e l’individuo. L’essere umano è considerato come un organismo complesso formato da diversi apparati (l’apparato cardiaco, scheletrico, etc…) che vive all’interno di un altrettanto complesso sistema (scuola, famiglia etc…). Scomponendo il termine bio-psico-sociale ci rendiamo subito conto del fatto che tale modello prende in considerazione i fattori biologici, quelli psicologici ed, infine, i fattori sociali. Quindi, con l’ICF ci si preoccupa di capire qual è l’atteggiamento della società rispetto al disabile, aspetto, questo, che in passato non viene assolutamente preso in considerazione. Il soggetto disabile non è quello che presenta una menomazione fisica o mentale ma quello che trova di fronte a sé una società non inclusiva. Detto in altre parole, sono gli oggetti che l’individuo disabile usa, gli ambienti che frequenta e le persone che incontra a sviluppare o a limitare le sue possibilità di partecipare alla vita sociale.

La disabilità viene concepita come la conseguenza di una relazione complessa tra le condizioni di salute di un individuo, i fattori personali e quelli ambientali. Dunque è la società che deve adeguarsi alla diversità. Con la pubblicazione dell’ICF si assiste al passaggio dal modello biomedico a quello Bio -Psico –Sociale, ovvero dal riconoscimento dei bisogni al riconoscimento dei diritti delle persone disabili. Il tutto nel segno della loro inclusione ed integrazione. Un’altra classificazione dell’OMS che, assieme all’ICF, compone la famiglia delle Classificazioni Internazionali dell’OMS (WHO Family of International Classifications/WHO-FCI) è la classificazione ICD-10 (International Statistical Classification of diseases and Related Health Problems). L’ICD- (acronimo di classificazione internazionale delle malattie, 10° revisione) classifica le condizioni di salute in quanto tali e si limita a fornire la diagnosi; invece l’ICF descrive le componenti della salute e degli stati ad essa correlati in termini di funzionamento e di esperienza di salute. L’ICD-10 e l’iCF sono pertanto strumenti complementari che devono essere usati insieme. Da quanto sopra detto ed alla luce delle informazioni contenute nell’ICF, siamo adesso in grado di rispondere alla domanda iniziale, ovvero cos’è la disabilità? La disabilità è la condizione di “coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”. Tale definizione è contenuta nell’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità approvata nel Dicembre dell’anno 2006, nelle Nazioni Unite la quale, a sua volta, si ispira ai principi di non discriminazione, uguaglianza, rispetto dell’identità personale contenuti nella Dichiarazione Universale dei diritti Umani. Nel suddetto documento la disabilità è definita come: “il risultato dell’interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impedisce la loro piena ed efficace partecipazione nella società su una base di parità con gli altri”.

2. Il fondamento dell’integrazione scolastica dei disabili nella Costituzione.

Cosa significa integrazione scolastica dell’alunno disabile? Come si concretizza nella realtà di tutti i giorni? Integrarsi per un allievo disabile non significa, semplicemente, inserirsi nel contesto scolastico e convivere con gli altri alunni normodotati. Integrarsi richiede un quid pluris: e, questo qualcosa in più si realizza in una partecipazione alle attività scolastiche ed extrascolastiche, in una complicità delle emozioni provate dagli altri alunni della classe. Integrarsi significa giocare insieme, lavorare insieme, ascoltare insieme anche quando il senso dell’udito non funziona come dovrebbe. La buona integrazione è quella che permette di capire che non stiamo vivendo in presenza di una diversità come una sfortuna, ma come una realtà; così l’integrazione nel contesto scolastico ci porta a non considerare, più, gli allievi portatori di handicap come allievi inseriti in un elenco particolare, ma alunni al pari di quelli normodotati.3 L’integrazione del disabile, infine, è legata alla gestione sociale della scuola, alla professionalità del maestro ed alla struttura architettonica dell’edificio scolastico che deve sapere ospitare alunni normodotati e non. Prima di analizzare, specificatamente, le disposizioni costituzionali nelle quali si fonda il diritto all’integrazione scolastica degli alunni disabili, è opportuno fare un rapido excursus delle tappe legislative relative alla normativa italiana emanata nel settore prima e dopo la promulgazione della Nostra Carta Costituzionale e fino all’emanazione della legge 104 del 1992, che rappresenta il riferimento legislativo “ per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone andicappate”. Verso la fine dell’800 sulla scorta delle idee illuministiche, l’istruzione è intesa come bene nazionale e, nel 1859 è promulgata la legge Casati, atto di nascita della scuola italiana e con la quale si sancisce il diritto dovere dello Stato di intervenire in materia scolastica, sostituendo ed affiancando la Chiesa, fino ad allora, unica titolare del monopolio dell’istruzione. Con tale legge, si afferma la gratuità ed obbligatorietà dell’istruzione elementare e l’uguaglianza dei due sessi di fronte alla necessità della formazione. Ma in questo periodo storico il diritto all’istruzione delle persone con disabilità non è, ancora, riconosciuto. E’, solo, nel secondo dopoguerra che matura la consapevolezza che l’inserimento e l’integrazione delle persone disabili nella società non può prescindere dal loro diritto dall’istruzione e formazione. Tale consapevolezza dà l’avvio alla stagione dell’attenzione normativa al settore dell’istruzione ed integrazione scolastica delle persone disabili. La prima disposizione normativa relativa all’inserimento di bambini con deficit nella scuola è il Regio Decreto n. 3126 del 1923 (cosiddetta Riforma Gentile) il quale estende l’obbligo scolastico fino al 14° anno di età a tutti i ragazzi, compresi i ciechi ed i sordomuti purchè “in assenza di altre patologie che ne impediscano l’ottemperanza”. Il decreto però sancisce l’educazione separata: i ciechi e gli ipovedenti devono frequentare le scuole elementari e, talvolta, le scuole medie, in strutture separate da quelle riservate ai soggetti normodotati, con personale specializzato, avendo la possibilità di confrontarsi con altri ragazzi affetti dalla stessa minorazione; questo comporta, però, l’allontanamento del bambino dal suo ambiente familiare e sociale e l’impossibilità di confrontarsi con i coetanei normodotati, con ciò trascurando l’importantissimo principio dell’educazione al riconoscimento della diversità. Dieci anni più tardi con il R.D. 786 del 1933, nascono le classi differenziali (ospitate nei normali plessi scolastici) per gli alunni con lievi ritardi e le scuole speciali per i sordi ciechi ed anormali psichici, situati in plessi distinti. Questa fase che si protrae fino agli anni sessanta, non a caso, viene chiamata dagli storici del settore “fase dell’esclusione”: infatti la logica prevalente è quella della separazione , in cui l’allievo disabile è considerato come un potenziale elemento di disturbo all’interno della classe e, quindi , deve essere affidato ad un maestro-medico. Le normative che si succedono in quegli anni, pur nel tentativo di regolamentare l’attività scolastica dei disabili’ hanno, quindi un’impostazione rivolta all’esclusione ed alla delega del soggetto disabile ad altri istituti, magari religiosi o medici. Nel 1948 entra in vigore la costituzione italiana e, nel periodo successivo alla sua entrata in vigore, si compiono i primi tentativi per un concreto inserimento dei disabili nella scuola. Degna di essere citata in particolare è la circolare n. 1771/12 dell’11 marzo del 1953 che recita: “le classi speciali per i minorati e quelle di differenziazioni didattica sono istituti scolastici nei quali viene impartito l’insegnamento elementare ai fanciulli aventi determinate minorazioni fisiche e psichiche ed istituti nei quali vengono adottati speciali metodi didattici per l’insegnamento ai ragazzi anormali, es. scuola Montessori. Le classi differenziali, invece, non sono istituti scolastici a se stanti ma funzionano presso le comuni scuole elementari ed accolgono gli alunni nervosi, instabili i quali rivelano l’inadattabilità alla disciplina comune ed ai normali ritmi e metodi di insegnamento e possono raggiungere un livello migliore solo se l’insegnamento viene ad essi impartito con metodi e forme particolari”. Successivamente con la legge n. 1859 del 1962 si istituisce la scuola media unica, obbligatoria e gratuita, che rappresenta la vera svolta nel sistema scolastico dal dopoguerra in poi: l’art. 11 prevede “classi di aggiornamento” per gli alunni che presentano difficoltà di apprendimento e l’art. 12 prevede l’istituzione di “classi differenziali” per alunni disadattati scolastici. Nell’anno 1968 la legge n. 444 istituisce la scuola materna ed, in relazione ai disabili, afferma: “per i bambini dai tre ai sei anni affetti da disturbi dell’intelligenza o del comportamento, da menomazioni fisiche o sensoriali, lo Stato istituisce sezioni speciali presso scuole materne statali e, per i casi più gravi scuole materne speciali”. Tuttavia in quegli anni comincia a farsi strada l’idea che il problema dei disabili deve essere affrontato in maniera più precisa e che le classi differenziali portano alla ghettizzazione di coloro che, per particolari motivi, non sono uguali agli altri. E’ questo il periodo in cui si comincia a parlare dell’inserimento dell’alunno disabile nella scuola di tutti. La prima legge che affronta il problema dell’inserimento dei disabili nella scuola pubblica è la legge n. 118 del 1971. Si tratta di una legge a favore dei mutilati ed invalidi civili dove gli articoli 27 e 28 trattano , rispettivamente, dell’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici di nuova costruzione e dell’obbligo di istruzione che deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, salvi i casi in cui il soggetto sia affetto da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tali gravità da impedire o da rendere molto difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento nelle predette classi normali. La fase dell’inserimento è iniziata, ma la scuola, in realtà non ha ancora fatto propri quei programmi necessari per un intervento mirato all’inserimento del soggetto con disabilità e la sua presenza nella scuola si risolve, nella maggior parte dei casi, in un semplice parcheggio. Allora, si avvertì la necessità di preparare adeguatamente il corpo docente in merito al problema ed, a tal fine si istituirono corsi teorico-pratici di specializzazione. Nel 1975, è emanato il DPR n. 970 che introduce la figura dell’insegnante di sostegno, preparato nelle tecniche didattiche differenziali idonee al trattamento delle diverse forme di disabilità; lo stesso, fornito dalla scuola, deve essere presente in classe per aiutare l’alunno nello svolgimento delle attività didattiche e deve aggiornarsi continuamente. E’ emanata, poi, la legge n. 360 del 1976 che consente alle famiglie dei bambini non vedenti di operare una scelta circa l’istruzione dei loro figli che può avvenire in scuole speciali o classi ordinarie di scuola comune. Successivamente, la legge n. 517 del 1977 prevede la realizzazione della programmazione educativo-didattica attuando le classi aperte ed eliminando i voti, sostituiti da giudizi motivati; abolisce, altresì le classi differenziali e di aggiornamento e prevede forme di integrazione a favore di alunni portatori di handicap nella scuola elementare e media: si elimina, così, ogni forma di ghettizzazione. Il diritto ad avere l’insegnante di sostegno all’interno della classe si realizza, effettivamente, con la legge 270 del 1982 e con la sentenza della Corte costituzionale n. 215 del 1987 rispettivamente per gli alunni disabili della scuola dell’infanzia e della scuola media superiore. Alla legge 517 seguono altre leggi, decreti e circolari ministeriali prima di arrivare all’emanazione della legge quadro n. 104 del 1992. Tale ultima normativa affronta la problematica dell’handicap a livello scolastico mediante un approccio fondato sul necessario coinvolgimento di varie istituzioni: famiglia, scuola, ASL, enti locali, associazioni di volontariato che, nella specialità delle loro competenze concorrono a realizzare il diritto all’integrazione scolastica degli allievi disabili. Conclusa la disanima storia sulle tappe legislative in materia di integrazione scolastica dei disabili ci soffermeremo, adesso, sulle disposizioni costituzionali nelle quali è sancito il diritto all’istruzione ed integrazione scolastica. Le disposizioni costituzionali che devono essere richiamate sono quelle di cui agli articoli 3,34,38. Per l’art. 3 “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale “ senza distinzione” di condizioni personali e sociali; per l’art. 34” la scuola è aperta a tutti . L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. I capaci ed i meritevoli anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti dell’istruzione. Per l’articolo 38, infine : “ Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale”. La Costituzione, negli articoli menzionati, parla di dignità sociale, a prescindere dalle condizioni personali e sociali, di uguaglianza formale e sostanziale, ossia di trattamenti diversi non dovuti ad atteggiamenti di discriminazione ingiustificata, di scuola aperta a tutti, di obbligo di istruzione per almeno otto anni e poi, entrando nello specifico, all’articolo 38, afferma, chiaramente , il diritto all’educazione anche per gli inabili e minorati senza alcuna discriminazione all’interno della categoria dei disabili, siano essi fisici o psichici. L’integrazione degli alunni con handicap nelle scuole di ogni ordine e grado trova, pertanto, i suoi fondamenti nel dettato costituzionale; e per la realizzazione del diritto allo studio di cui all’art. 34, il dovere di rimuovere gli ostacoli ( di cui all’articolo 3) non incombe solo sugli operatori scolastici , ma si connette con il diritto all’educazione ( di cui agli articoli 30 e 38) ed il diritto all’assistenza ed all’avviamento professionale ( di cui all’articolo 38) diritti, questi che estendono, anche, alla famiglia ed ai servizi sociali una eguale responsabilità nei confronti dell’alunno disabile. Non a caso, nell’ottica costituzionale relativa ai rapporti sociali la formazione scuola è direttamente collegata alla famiglia. In primo luogo, è responsabile la famiglia poiché è all’interno di essa che il soggetto riceve le prime stimolazioni educative. Ma, successivamente, tra le agenzie sociali che intervengono sullo sviluppo del soggetto, un posto di primo piano appartiene, sin dagli anni dell’infanzia alla scuola. Quest’ultima ha il compito di predisporre e controllare gli strumenti necessari affinchè ciascun alunno possa sviluppare, nel modo migliore, le proprie potenzialità. Ed il costituente nel disporre che la scuola è aperta a tutti, ha voluto coniugare il diritto allo studio con il principio di uguaglianza di cui all’articolo 3. E’ necessario, pertanto, attuare tra gli uomini l’uguaglianza di fronte a tale diritto: questa è la condizione necessaria affinchè si raggiunga la dignità di ciascun individuo e lo sviluppo della personalità sia del soggetto normodotato, sia di quello portatore di handicap. A distanza di tanti anni dall’entrata in vigore della Costituzione, ci si chiede se il diritto costituzionale all’istruzione ed all’integrazione scolastica si sia davvero realizzato per tutti. Al nostro paese va, certamente, riconosciuto il primato normativo in materia di disabilità. Da un punto di vista normativo, infatti, l’attuazione dei principi costituzionali è stata all’avanguardia nel panorama internazionale (basti pensare che alle direttive tracciate in Italia si è avvicinata la Convenzione Delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006). Ma è sotto il profilo attuativo che il sistema italiano di integrazione scolastica non offre risultati positivi. Infatti tra la norma e la pratica sussiste una differenza di tempo rilevante e, quando si compie l’attuazione normativa, continuano, pur sempre, ad esistere nella realtà di tutti i giorni difficoltà organizzative che rendono vano il diritto all’istruzione ed integrazione dei disabili. Un dato è, comunque certo: i soggetti disabili, se ben supportati, raggiungono buone capacità di crescita complessiva e buoni livelli di inserimento nel mondo scolastico concorrendo, così al progresso della società, dovere questo previsto dalla Costituzione, all’articolo 4. Ci sono soggetti che pur con gravi disabilità, sono, tuttavia, in grado di esprimere modelli di pensiero eccellenti. In essi, infatti, esistono potenzialità conoscitive, operative e relazionali, spesso, limitate dagli schemi del costume sociale. L’impegno della scuola è quello di favorire lo sviluppo di queste potenzialità poiché la funzione dell’istituzione scolastica è quella di sviluppare, sotto il profilo culturale, sociale, civile, la possibilità di crescita di ogni bambino e di ogni giovane. L’impegno ad investire in fiducia non riguarda, però, solo la scuola ma coinvolge tutti: le famiglie, le forze sociali, gli enti locali, gli specialisti e, infine, il cittadino qualunque, che condivide un’atmosfera culturale. Sin dall’emanazione della Costituzione Repubblicana, viene affermato che l’integrazione scolastica dei soggetti in situazione di Handicap rappresenta una questione che richiede azioni sinergiche tra diversi enti istituzionali. E’ superfluo sottolineare, dunque, che i miglioramenti strutturali della scuola non sono, da soli, sufficienti a superare i rischi dell’emarginazione scolastica e sociale dei bambini disabili. Occorre coinvolgere la società in questo impegno, poiché l’emarginazione sociale nasce, anche, da modelli culturali e di costume.

Il passaggio dalla legge 30 marzo 1971, n.218 alla legge 04 agosto 1977, n. 517, l’attuazione del principio di inserimento scolastico.

Durante gli anni sessanta, come abbiamo appena visto, si sviluppa una concezione sempre più consapevole a favore dei diritti dei disabili e del dovere della società di considerarli come persone con gli stessi diritti dei soggetti normodotati e, di conseguenza, matura una riflessione circa gli aspetti negativi della differenziazione didattica, che si traduce nell’emarginazione e ghettizzazione dei soggetti disabili. Così, nel giro di pochi anni e, precisamente nel 1971, il principio della differenziazione scolastica viene messo in crisi: infatti, in quell’anno, il Parlamento emana la legge n. 118 del 30 marzo, rubricata “Conversione in legge del D.L 30 gennaio 1971, n. 5e nuove norme in favore dei mutilati e degli invalidi civili”. La legge, come si evince dallo stesso titolo, viene emanata a tutela degli invalidi e dei mutilati civili, tra i quali sono compresi gli irregolari psichici e gli insufficienti mentali. E’ opportuno, prima di procedere nella trattazione, soffermarsi sulla nozione di invalidi civili di cui alla suddetta legge. In particolare, l’art. 2, comma 2 definisce invalidi civili “ i cittadini affetti da minorazione congenite o acquisite, anche a carattere progressivo, compresi gli irregolari psichici per oligofrenie di carattere organico o dismetabolico, insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore ad un terzo o, se minori di anni 18, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età.” L’articolo in esame, dunque, fa rientrare nel concetto di invalido civile, anche, coloro che sono affetti da minorazioni esclusivamente psichiche ovvero da insufficienza mentale legata ad insufficienze sensoriali o funzionali. Pertanto, a differenza della terminologia usta nella legge 625 del 1966 che, all’articolo 5, escludeva il malato psichico puro dalla categoria dagli aventi diritto, l’articolo 2 della legge n. 118 del 1971 ampliala categoria degli invalidi civili a tutti i cittadini affetti da una minorazione psichica pura, dal momento che rientra tra le minorazioni congenite o acquisite. Tale orientamento è, successivamente, ampliato dalla giurisprudenza maggioritaria sia di merito che di legittimità, la quale stabilisce che gli invalidi per cause di malattie psichiche, di qualsiasi natura, sono considerati invalidi civili e, quindi godono di tutti i benefici previsti dalla legge n. 118 del 1971. Il riconoscimento delle minorazioni psichiche di qualunque natura, ha trovato, poi, una soluzione con il D.M 25luglio 1980 che ha approvato la tabella indicativa delle percentuali di invalidità per le malattie invalidanti, nelle quali sono state inserite, senza nessun limite le minorazioni psichiche. Anche, l’articolo 1 del D. lgs, n. 509 del 1988, dispone, poi, che le minorazioni congenite o acquisite, di cui all’art. 2, co 2 della legge 30 marzo del 1971, n. 118 comprendono le infermità fisiche e/o psichiche e sensoriali che comportano un danno funzionale permanente. Da questa breve analisi dell’art. 2 della legge n.118 del 1971, possiamo riassumere che sono considerati invalidi civili tutti i cittadini affetti da minorazioni congenite o acquisite, fisiche e/o psichiche e sensoriali che comportano un danno funzionale permanente ed i minori di 18 anni che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età. 5

Ma la vera novità introdotta dalla legge 118 del 1971 è che la stessa, almeno nelle intenzioni del legislatore, segna la fine della separazione scolastica tra alunni normali ed alunni disabili, dando l’avvio al processo della loro integrazione scolastica. Tale legge, infatti, all’art. 28 dispone che: “…. L’istruzione dell’obbligo degli alunni in situazioni di handicap deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, salvo i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento nelle predette classi normali”. Per la legge n. 118 del 1971 il diritto del disabile all’istruzione dell’obbligo deve, dunque avvenire nelle classi normali della scuola pubblica anche se con esclusione dei soggetti affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l’inserimento nelle classi normali. Lo stesso articolo afferma che sarà facilitata, inoltre, la frequenza degli invalidi e dei mutilati civili alle scuole medie superiori ed universitarie e che le stesse disposizioni valgono per le istituzioni prescolastiche e per i doposcuola. E’ una norma di fondamentale importanza quella di cui all’art. 28 della legge n. 118 del 1971 perché permette il consolidamento delle prime esperienze volontarie di inserimento scolastico favorendo l’integrazione e perché è la prima legge ad applicare i principi sanciti dalla costituzione, in particolare l’art. 34 ( la scuola è aperta a tutti .L’istruzione inferiore impartita per almeno otto anni è obbligatoria e gratuita) e l’articolo 38 ( gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale). E’ bene ricordare che la legge n. 118 del 1971 stabilisce, altresì, che per favorire l’inserimento degli alunni con disabilità nelle classi comuni, deve essere agli stessi assicurato il trasporto, l’accesso agli edifici scolastici mediante il superamento delle barriere architettoniche e l’assistenza durante gli orari scolastici degli alunni più gravi. Infatti, l’articolo 28 afferma: “Ai mutilati ed invalidi civili che non siano autosufficienti e che frequentino la scuola dell’obbligo o i corsi di addestramento professionale finanziati dallo Stato vengono assicurati: Il trasporto gratuito dalla propria abitazione alla sede della scuola o del corso e viceversa, a carico dei patronati scolastici o dei consorzi dei patronati scolastici o degli enti gestori dei corsi; L’accesso alla scuola mediante accorgimenti per il superamento e la eliminazione delle barriere architettoniche che ne impediscano la frequenza; L’assistenza durante gli orari scolastici degli invalidi più gravi”. Con questa legge si supera, dunque, il modello delle scuole speciali e delle scuole differenziali che, tuttavia la stessa non abolisce, perché prescrive che l’inserimento degli alunni con disabilità nelle classi comuni debba, comunque avvenire su iniziativa della famiglia. Si hanno così i primi inserimenti nella scuola elementare di alunni disabili. L’incontro tra allievi normali ed allievi “diversi” cambia molto l’immagine dei giovani disabili nell’esperienza collettiva e la conoscenza diretta aiuta a superare molti pregiudizi. Ma la scuola è impreparata a riceve un gran numero di handicappati che reclamano il diritto all’istruzione nelle classi comuni e si verificano casi di rifiuto alla loro iscrizione. Spesso, l’inserimento nelle classi comuni si risolve in un parcheggio del disabile con qualche risultato, soltanto, sul piano della socializzazione, ma non dell’istruzione. Gli studiosi di settore, proprio per tale motivo, parlano spesso di inserimento selvaggio. Allora le famiglie cominciano a ribellarsi alle istituzioni che vengono rimproverati di discriminare i disabili; numerose sono, poi, le sentenze della magistratura che condannano il rifiuto delle scuole normali di accogliere tali soggetti: insomma tutta l’organizzazione scolastica è messa in crisi. A questo punto interviene il Ministero della Pubblica Istruzione, il quale, nel 1974, istituisce la Commissione Falcucci cosi chiamata dal nome del Ministro che la presiede. La suddetta commissione Falcucci redige un Documento, noto come “Documento Falcucci” , il quale offre la definizione di handicappato e fornisce indicazioni e suggerimenti per realizzare la piena integrazione scolastica degli alunni disabili ed il loro recupero sociale. Le indicazioni contenute nel Documento hanno dato origine alle scelte normative che hanno, a loro volta, consentito la diffusione dell’integrazione scolastica nel nostro Paese. In particolare nel documento si afferma il principio secondo il quale” il superamento di qualsiasi forma di emarginazione degli handicappati passa attraverso un nuovo modo di concepire la scuola e di attuare la scuola, così da poter veramente accogliere ogni bambino ed ogni adolescente per favorire il suo sviluppo personale, precisando per altro che la frequenza di scuole comuni da parte dei bambini handicappati non implica il raggiungimento di mete minime comuni”. A partire dal 1975 vengono emanate diverse circolari ministeriali che favoriscono il graduale inserimento degli alunni disabili nelle classi comuni (ricordiamo che, in questo periodo, viene introdotta la figura dell’insegnante di sostegno): tuttavia, l’integrazione scolastica non è sostenuta da interventi adeguati di didattica differenziata. Alla fine l’inserimento di cui alla legge n. 118 del 1971 non porta alla realizzazione dell’uguaglianza sostanziale di cui alla Nostra Carta Costituzionale che deve, invece, essere costruita con interventi della Repubblica, orientata a rimuovere gli ostacoli prodotti dalla disabilità, ad esempio attraverso la realizzazione di piani educativi adeguati allo sviluppo dell’alunno con deficit. Possiamo dire, dunque, che la legge n. 118 del 1971 si limita all’affermazione del principio dell’inserimento, ma non riesce ad andare oltre. E’ solo con la legge 04 agosto del 1977, n. 517, rubricata: “norme sulla valutazione degli alunni e sull’abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell’ordinamento scolastico” emanata a sei anni di distanza dalla legge 118 del 1971, che il legislatore stabilisce, con chiarezza, presupposti, condizioni e finalità per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, da attuarsi mediante la presa in carico del progetto di integrazione da parte di tutto il consiglio di classe e attraverso l’introduzione dell’insegnante specializzato per le attività di sostegno. Tale legge, agli articoli 2 e 7, statuisce l’ingresso, a pieno titolo, degli alunni disabili nelle classi normali rispettivamente di scuola elementare e media. Nello specifico l’art. 2 dispone, tra l’altro, che: “la scuola attua forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicap con la prestazione di insegnanti specializzati assegnati ai sensi dell’art. 9 del DPR 31 ottobre 1975, anche se appartenenti a ruoli speciali, o ai sensi del quarto comma dell’articolo 1della legge 24 settembre 1971 n. 820. Agli stessi devono, inoltre, essere assicurati la necessaria integrazione specialistica, il servizio socio-psico-pedagogico e forme particolari di sostegno secondo le rispettive competenze dello Stato e degli enti locali preposti, nei limiti delle relative disponibilità di bilancio e sulla base del programma predisposto dal consiglio scolastico Distrettuale”. L’articolo 7, riferito alla scuola media, recita, tra l’altro, che: “nell’ambito della programmazione di cui al precedente comma sono previste forme di integrazione e di sostegno a favore di alunni portatori di handicap da realizzare mediante l’utilizzazione dei docenti di ruolo o incaricati a tempo indeterminato , in servizio nella scuola media o in possesso di particolari titoli di specializzazione , che ne facciano richiesta , entro il limite di un’unità per ciascuna classe che accolga alunni portatori di handicap e nel numero massimo di sei ore settimanali. Le classi che accolgono alunni portatori di handicap sono costituite con un massimo di 20 alunni. In tali classi devono essere assicurati la necessaria integrazione specialistica, il servizio socio-psico-pedagogico e forme particolari di sostegno secondo le rispettive competenze dello Stato e degli enti locali preposti, nei limiti delle relative disponibilità di bilancio e sulla base del programma predisposto dal Consiglio scolastico distrettuale”. La legge 517 del 1977 ha rinnovato la scuola Italiana segnando un salto di qualità rispetto al modello tradizionale di classe, non solo perché con la legge de quo si sono superati i concetti di classe speciale e di classe differenziale, ma, anche, perché, con la medesima legge, si sono messi in evidenza i concetti di collegialità di programmazione e di interazione con il contesto sociale. La legge n. 270 del 1982 estende, poi, gli effetti della legge 517 del 1977 alla scuola materna, mentre il diritto alla frequenza delle scuole superiori di soggetti in situazioni di handicap è affermato dalla sentenza della Corte Costituzionale n 215 del 3 giugno 1987, di cui ci occuperemo specificatamente nel prossimo capitolo. Se è vero che con la legge n. 517 del 1977 si attua il principio di integrazione scolastica degli alunni disabili è, altrettanto, vero non è tutto così semplice. Innanzitutto, i primi ostacoli per gli alunni disabili sono rappresentati dalle stesse strutture scolastiche che presentano barriere architettoniche e, di conseguenza, risultano inaccessibili per gli studenti portatori di handicap. Ancora altre barriere riguardano i metodi didattici per costruire percorsi individualizzati e gli stessi docenti di sostegno, previsti dalla legge n.517 del 1977, spesso non hanno la preparazione adeguata. Altre difficoltà si manifestano all’interno delle famiglie che rifiutano il riconoscimento della condizione di disabile per i loro figlie, quindi, la collaborazione con la scuola. Negli anni successivi proprio nell’ottica del superamento di tali difficoltà, si produce un profondo cambiamento che porta alla costruzione di una cultura per l’handicap grazie alla stesura della programmazione ed alla capacità dei docenti di lavorare in squadra. L’obiettivo è quello di passare dalla socializzazione-inserimento- all’apprendimento-integrazione. Inoltre, a tale legge (n. 517 del 1977) succedono numerose circolari applicative del Ministero della Pubblica istruzione, tra le quali ricordiamo la C.M. n. 258 del 1983 relativa alle indicazioni sulle linee di intesa tra scuola ed enti locali in materia di integrazione scolastica degli alunni portatori di handicap nella scuola dell’obbligo. Con tale circolare si vogliono indicare le procedure per una vantaggiosa collaborazione tra scuola ed organismi territoriali, nonché le rispettive competenze e la predisposizione di piani di studio individualizzati per gli alunni portatori di handicap. Nel 1984 viene adottata l’O.M. del 14 luglio, che disciplina la formazione dei corsi di sostegno. Il 10 dicembre 1984, con D.M. viene regolamentato lo svolgimento delle prove di esame degli alunni portatori di handicap per il conseguimento del diploma di licenza media. La legge del 05 febbraio del 1992, n. 104 “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale ed i diritti delle persone handicappate”, raccoglie ed integra tali interventi legislativi divenendo il punto di riferimento normativo dell’integrazione scolastica e sociale delle persone con disabilità.

Le pronunce della Consulta

La vera svolta nella tutela dei diritti degli alunni in situazione di handicap è rappresentata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 215 del 3 giugno del 1987, avente ad oggetto il giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 28 comma 3 della legge 30 marzo del 1971 n. 118, rubricata “Conversione in legge del D.L. 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati e degli invalidi civili”. L’art. 28 comma 3 della legge 30 marzo del 1971 n. 118 intitolato “provvedimenti per la frequenza scolastica” come già evidenziato, dopo aver previsto nel primo comma, misure dirette ad agevolare l’accesso e la permanenza nella scuola (trasporto gratuito dalla abitazione alla scuola , accesso a questa mediante adatti accorgimenti ed eliminazioni delle barriere architettoniche, assistenza agli invalidi più gravi durante le ore scolastiche) prescrive nel secondo comma, che per quanto riguarda l’istruzione dell’obbligo, questa deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica salvi i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento nelle predette classi normali. Il terzo comma dispone, poi, che sarà facilitata, inoltre, la frequenza degli invalidi e mutilati civili alle scuole medie superiori ed universitarie. Dunque, quanto all’istruzione secondaria, il legislatore prevede che debba essere, semplicemente, “facilitata” la frequenza degli invalidi e dei mutilati civili alle scuole medie superiori ed universitarie. In tal modo, il diritto degli alunni disabili all’inserimento nelle classi normali viene, chiaramente, sancito solo per la scuola dell’obbligo e non per i successivi gradi scolastici. La Corte costituzionale, al fine di garantire agli alunni disabili, anche, l’istruzione superiore, interviene con la sentenza de quo dichiarando l’incostituzionalità del comma 3 dell’rt. 28 della l. n. 118/1971. Anche in seguito la Corte costituzionale non rinuncia ad operare ulteriori interventi correttivi in materia. Così nell’anno 2002 interviene con una pronuncia che estende l’indennità di accompagnamento anche ai bambini disabili che frequentano l’asilo nido, sul presupposto che “ La formazione e la socializzazione soddisfatte sin dai primi mesi di vita attraverso la partecipazione all’asilo nido si appalesano funzionali proprio ad un pieno e proficuo inserimento del bambino nella scuola, la cui frequenza è assicurata e favorita con le provvidenze economiche”. Ancora, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 80 del 20104 si pronuncia in materia dando una ulteriore qualificazione del diritto all’integrazione scolastica dell’alunno disabile e ricordando che non è possibile sacrificarlo in nome delle esigenze di bilancio. La corte rileva che è necessario fare un bilanciamento tra le prestazioni dovute e le risorse finanziarie disponibili, ma non bisogna dimenticare che il supporto didattico è una risorsa fondamentale per lo studente disabile poiché consente di realizzare “ interventi specializzati, centrati sulle caratteristiche e le risorse dell’allievo, a partire dalla conoscenza di metodologie particolari, che non siano in possesso dell’insegnante curricolare”. Alla luce di quanto sopra esposto, risulta evidente che la Corte costituzionale ha affermato, più volte, il principio del diritto all’integrazione scolastica dell’alunno disabile5.

1 SGAMBELLURI R. L’apprendimento trasformativo nei disabili, in Rivista formazione & insegnamento, Pensa Multimedia ed.2018.

2 Marzullo R. La dimensione pedagogica, filosofica e giuridica della dignità umana, in Rivista: “I problemi della pedagogia” – I. Volpicelli, 2017.

3 Sgambelluri R., “ Come interpretare i bisogni educativi speciali. La declinazione didattica del linguaggio ICF” casa ed. Aracne Roma 2016.

4 Nocera C., Integrazione scolastica. Sulla sentenza 80/2010 della Corte costituzionale, in www.edscuola.it; Pirozzoli A., La discrezionalità del legislatore nel diritto dell’istruzione del disabile, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

5 Furlan F., La tutela costituzionale del cittadino portatore di handicap, 2001.