di Sergio Basile

Sommario: – Abstract; 1. Premessa; 2. Le indagini finanziarie; 3. Il reddito dei lavoratori autonomi ed il reddito d’impresa: sintesi; 4. L’uguaglianza tributaria; 5. La sentenza n. 228/2014 della Corte Costituzionale; 5.1. Profili applicativi.

ABSTRACTCon la sentenza n. 228 del 2014 la Corte Costituzionale ha statuito che, in base al principio di uguaglianza tributaria, la presunzione costi-ricavi nelle indagini finanziarie può valere solo per il reddito d’impresa e non per il reddito di lavoro autonomo, stante il diverso apparato organizzativo delle due categorie.
Tale statuizione, data la natura retroattiva delle pronunce d’accoglimento della Consulta, è destinata a produrre i suoi effetti non solo sull’attività futura dell’Amministrazione Finanziaria, ma anche sui rapporti giuridici ancora pendenti, dovendosi tuttavia rilevare che con detta declaratoria d’incostituzionalità non è venuta meno, in termini assoluti, la possibilità di utilizzare i prelevamenti nell’ambito dell’attività di controllo dei lavoratori autonomi.

1. Premessa.
Anche se le figure dell’imprenditore e del lavoratore autonomo sono per molti versi affini nel diritto interno come nel diritto comunitario, esistono specificità di quest’ultima categoria che inducono a ritenere arbitraria l’omogeneità di trattamento prevista dall’articolo 32, comma 1, numero 2), secondo periodo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, alla cui stregua anche per essa il prelevamento dal conto bancario corrisponderebbe ad un costo a sua volta produttivo di un ricavo. Ne consegue l’illegittimità costituzionale della citata disposizione limitatamente alle parole «o compensi», in quanto in contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione.
É questo il principio espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 228 del 6 ottobre 2014 (1). Al riguardo, di seguito si andranno ad evidenziare le ragioni della pronuncia attraverso l’analisi degli istituti ad essa sottesi, nonché, conclusivamente, si metteranno in rilievo i risvolti applicativi che la declaratoria d’incostituzionalità è destinata a produrre sull’attività dell’Amministrazione Finanziaria.

2. Le indagini finanziarie.
L’articolo 32, primo comma, numero 2, secondo periodo, del d.P.R. n. 600 del 1973, rubricato “Poteri degli uffici”, prevede che: “I dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati rispettivamente a norma del numero 7) e dell’articolo 33, secondo e terzo comma, o acquisiti ai sensi dell’articolo 18, comma 3, lettera b), del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504”, ossia i dati relativi a rapporti ed operazioni finanziarie, “sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni”. La presunzione normativa testé riportata, tanto per i versamenti quanto per i prelevamenti, trova applicazione anche ai fini Iva; e ciò nonostante l’articolo 51, secondo comma, numero 2), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (2), presenti una formulazione letterale più sintetica rispetto al corrispondente articolo 32 (3), con la differenza, però, che la presunzione riguardante i prelevamenti non giustificati, in ambito Iva, opera in modo diverso, in quanto non determina un maggiore volume d’affari, ma configura un’ipotesi di acquisti in nero sanzionabili ex articolo 6, comma 8, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 (4).
In virtù di dette disposizioni, le operazioni bancarie (e/o finanziarie) danno origine ad una presunzione legale relativa di maggiori ricavi o di maggiori imponibili Iva non dichiarati, con onere liberatorio posto a carico del contribuente il quale, a suo discarico, deve provare “…che i versamenti sono registrati in contabilità e che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili(5).
Così sintetizzata la disciplina generale, passando più specificamente all’analisi dei prelevamenti di cui al citato articolo 32, occorre osservare come questi, al contrario degli importi riscossi (i quali sono indice di elementi attivi non fatturati), rappresentino di per sé stessi dei costi, cosicché la ratio normativa si può comprendere e va rinvenuta in una doppia presunzione: in primo luogo, che il prelevamento sia stato utilizzato per un acquisto inerente all’attività, nonché, in secondo luogo, che a detto costo non contabilizzato corrisponda un ricavo parimenti non contabilizzato.
L’anzidetta previsione presuntiva, peraltro, è stata dichiarata costituzionalmente legittima (in relazione alla censura di violazione dell’articolo 53 della Costituzione) “…risolvendosi, quanto alla destinazione dei prelievi non risultanti dalle scritture contabili, in una presunzione di ricavi iuris tantum suscettibile, cioè, di prova contraria attraverso la indicazione del beneficiario dei prelievi(6).
Sempre con riferimento ai prelevamenti, va ulteriormente specificato che il summenzionato articolo 32, nella sua attuale formulazione, fa espressamente riferimento (oltreché ai ricavi, anche) ai compensi professionali, mentre nella sua formulazione precedente, in vigore fino al 31 dicembre 2004, la norma in esame prevedeva i soli “ricavi” come oggetto del controllo, ingenerando dubbi interpretativi sulla possibilità di estendere tale forma di controllo anche ai lavoratori autonomi (dubbi poi fugati dal legislatore con la legge n. 311 del 2004, la quale ha modificato l’articolo 32 aggiungendo l’esplicito riferimento ai “compensi”). Nonostante il mancato riferimento letterale ai compensi, tuttavia, la prevalente giurisprudenza di legittimità aveva più volte statuito che detta presunzione, anche per l’accertamento delle annualità precedenti alla modifica apportata dalla citata legge n. 311 del 2004, riguardasse sia le imprese che i lavoratori autonomi, principio, questo, in particolare espresso nella sentenza n. 14041 del 27 giugno 2011, con la quale la Corte di Cassazione statuiva che: “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la presunzione, di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, secondo cui sia i prelevamenti sia i versamenti operati sui conti correnti bancari vanno imputati ai ricavi conseguiti dal contribuente nella propria attività, se questo non dimostra di averne tenuto conto nella base imponibile oppure che sono estranei alla produzione del reddito – ha portata generale (nonostante l’utilizzo, nella versione applicabile ratione temporis, dell’accezione ricavi e non anche di quella compensi) ed è applicabile, non solo al reddito di impresa, ma anche al reddito da lavoro autonomo e professionale (Cfr. Cass. 11750/08, 430/08, 4601/02)”.

3. Il reddito dei lavoratori autonomi ed il reddito d’impresa: sintesi.
Ai sensi dell’articolo 53 del Tuir (7), costituiscono redditi di lavoro autonomo quelli derivanti da arti o professioni, ossia dall’esercizio per professione abituale, ma non necessariamente esclusiva, di attività di lavoro autonomo (purché diverse da quelle produttive di redditi d’impresa, così come individuate nel relativo Capo VI del Tuir).
A norma dell’articolo 55 del Tuir (8), sono redditi d’impresa, in linea generale, quelli derivanti dall’esercizio di imprese commerciali, ossia dall’esercizio per professione abituale (ancorché non esclusiva) delle attività di cui all’articolo 2195 del codice civile (1. attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; 2. attività intermediaria nella circolazione di beni; 3. attività di trasporto; 4. Attività bancaria o assicurativa; 5. Attività ausiliarie delle precedenti). Le menzionate attività, ai fini fiscali, sono produttive dei redditi in parola “anche se non organizzate in forma d’impresa”. È il caso, ad esempio, di alcune figure ausiliarie dell’imprenditore commerciale, come gli agenti ed i rappresentanti di commercio (articolo 2195, n. 5), che per l’ordinamento tributario sono imprenditori anche se non operano in forma organizzata. Tuttavia, va osservato che il reddito d’impresa, generalmente, si caratterizza per una qualche organizzazione di fattori produttivi (cd. etero-organizzazione), pur non richiedendo il legislatore tributario, come detto, la forma organizzata quale requisito essenziale.
Lo stesso articolo 55, poi, al secondo comma prevede l’ulteriore inclusione nel reddito d’impresa, per ciò che qui interessa, delle attività dirette alla prestazione di servizi che, pur non rientrando nel succitato articolo 2195 c.c., sono comunque organizzate in forma d’impresa (9).
Quanto detto implica che il reddito, per rientrare nella categoria del lavoro autonomo, deve essere prodotto dal preminente lavoro intellettuale del titolare e non dalla gestione, da parte sua, di un’organizzazione di fattori produttivi per la fornitura di servizi (si pensi, a tal proposito, ad un medico titolare di un laboratorio di analisi che, pur svolgendo anche le attività tipiche della professione, trae i suoi guadagni principalmente dal coordinamento dei servizi resi dai suoi – numerosi – subordinati e collaboratori e quindi, in definitiva, da un’autonoma struttura organizzativa, nell’ambito della quale la prestazione del professionista medesimo rimane un singolo fattore produttivo, con conseguente qualificazione degli introiti quali redditi d’impresa –1011 -).
In buona sostanza, si ritiene che nelle professioni intellettuali la presenza di un’organizzazione (beni strumentali, lavoratori e collaboratori) non vale a qualificare l’attività come impresa fino a quando l’organizzazione stessa mantenga un ruolo servente rispetto all’apporto intellettuale del professionista, con prevalenza, quindi, delle capacità di lavoro personale (cd. auto-organizzazione).
Concludendo in punto di sintesi, pare opportuno osservare come i sopra esposti principi valgano unicamente per distinguere e qualificare (ai fini reddituali) le attività svolte dalle persone fisiche, visto che per le società commerciali (di capitali o di persone) l’intera attività è per definizione attività d’impresa (12).

4. L’uguaglianza tributaria.
La potestà normativa tributaria va incontro ai limiti posti dalle norme costituzionali, tra le quali assume particolare rilievo, in questa sede, l’articolo 53.
La citata norma della Costituzione, in particolare, al primo comma esprime il principio per cui “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.” Si tratta di un principio cardine dell’ordinamento tributario che, da un lato, assolve alla funzione solidaristica per cui tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche e, dall’altro, assume una funzione garantista, imponendo al legislatore di chiamare al concorso solo coloro i quali hanno un’effettiva capacità economico-contributiva.
La funzione legislativa tributaria, tuttavia, è limitata non solo da norme costituzionali che la riguardano in modo specifico, ma anche dall’insieme del testo costituzionale. In particolare, in argomento assume preminente rilievo l’articolo 3 della Costituzione, in virtù del quale tutti i cittadini, senza alcuna distinzione, sono uguali davanti alla legge (13). Al riguardo, la lettura che la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha dato del principio di uguaglianza ha portato ad enucleare un generale principio di “ragionevolezza”, alla luce del quale la legge deve regolare in maniera uguale situazioni uguali ed in maniera razionalmente diversa situazioni diverse (14).
Ciò posto, occorre rilevare come la giurisprudenza costituzionale consideri il principio di capacità contributiva come una proiezione, in ambito tributario, del principio di uguaglianza. Più specificamente, detto assunto è espresso nella sentenza n. 155 del 13 dicembre 1963, con la quale la Corte Costituzionale qualificava espressamente l’articolo 53 come “armonico e specifico sviluppo del principio d’eguaglianza contenuto nell’art. 3 della Costituzione”, esprimendo l’esigenza “di imposizione eguale per redditi eguali e di imposizione diversa per redditi diversi”.
In altri termini, dal combinato disposto degli articoli 3 e 53 della Costituzione emerge il principio per cui “a situazioni uguali devono corrispondere uguali regimi impositivi e, correlativamente, a situazioni diverse un trattamento tributario disuguale(15).
Il principio di capacità contributiva, dunque, integra il principio di uguaglianza in quanto, esprimendo in ambito tributario il criterio con cui valutare se due situazioni meritano o no parità di trattamento, impone la tassazione uguale di situazioni uguali sotto il profilo della capacità economico-contributiva e, di contro, impone trattamenti diseguali laddove la capacità contributiva è diversa (16).

5. La sentenza n. 228/2014 della Corte Costituzionale.
Come anticipato in premessa, con la sentenza in commento veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione di cui all’articolo 32, primo comma, numero 2, secondo periodo, del d.P.R. n. 600 del 1973, limitatamente alle parole “o compensi”, in quanto lesiva dei principi di uguaglianza e di capacità contributiva.
Più in particolare, il giudice rimettente argomentava la violazione dei succitati principi costituzionali rilevando che per i redditi da lavoro autonomo non potevano ritenersi valevoli le correlazioni logico-presuntive tra costi e ricavi tipiche del reddito d’impresa.
La Consulta, nel dichiarare fondata la questione di legittimità costituzionale in riferimento alle censure di cui agli articoli 3 e 53 della Costituzione, poneva a sostegno della propria decisione il diverso apparato organizzativo (oltreché il diverso sistema contabile) delle due categorie reddituali e, più specificamente, osservava che: “Anche se le figure dell’imprenditore e del lavoratore autonomo sono per molti versi affini nel diritto interno come nel diritto comunitario, esistono specificità di quest’ultima categoria che inducono a ritenere arbitraria l’omogeneità di trattamento prevista dalla disposizione censurata, alla cui stregua anche per essa il prelevamento dal conto bancario corrisponderebbe ad un costo a sua volta produttivo di un ricavo. Secondo tale doppia correlazione, in assenza di giustificazione deve ritenersi che la somma prelevata sia stata utilizzata per l’acquisizione, non contabilizzata o non fatturata, di fattori produttivi e che tali fattori abbiano prodotto beni o servizi venduti a loro volta senza essere contabilizzati o fatturati. Il fondamento economico-contabile di tale meccanismo è stato ritenuto da questa Corte (sentenza n. 225 del 2005) congruente con il fisiologico andamento dell’attività imprenditoriale, il quale è caratterizzato dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi. L’attività svolta dai lavoratori autonomi, al contrario, si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e la marginalità dell’apparato organizzativo. Tale marginalità assume poi differenti gradazioni a seconda della tipologia di lavoratori autonomi, sino a divenire quasi assenza nei casi in cui è più accentuata la natura intellettuale dell’attività svolta, come per le professioni liberali [omissis]. Pertanto nel caso di specie la presunzione è lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito(17).
La appena innanzi esposta declaratoria di incostituzionalità, intervenuta dopo quasi un decennio di applicazione del citato articolo 32 – così come modificato dalla legge finanziaria n. 311 del 2004 -, non è peraltro una novità assoluta in argomento, essendosi la Corte Costituzionale già pronunciata in merito alle differenze d’apparato organizzativo esistenti tra attività d’impresa e di lavoro autonomo e, conseguentemente, in merito alla necessità di disciplinare in modo differente le due categorie reddituali. Nello specifico, si tratta della sentenza n. 42 del 26 marzo 1980, con la quale la Consulta, in merito all’Ilor (Imposta locale sui redditi oggi abrogata), dopo avere individuato nei redditi di provenienza patrimoniale il presupposto del tributo, osservava che “una significativa componente patrimoniale…manca addirittura per ciò che riguarda una maggior parte dei redditi da lavoro autonomo. E’ infatti ben noto che i beni strumentali generalmente necessari per produrre i redditi stessi non hanno, di massima, natura e dimensioni economiche tali che il legislatore tributario ne possa ragionevolmente tenere conto, ai fini di un’imposta del tipo dell’Ilor”. La Corte, quindi, prendendo a parametro i summenzionati articoli 3 e 53 della Costituzione, concludeva dichiarando l’illegittimità costituzionale delle disposizioni di riferimento (articolo 4, n. 1, della legge n. 825 del 1971 e articolo 1 del d.P.R. n. 599 del 1973) “…nella parte in cui tali norme non escludono i redditi di lavoro autonomo, che non possano venire assimilati ai redditi d’impresa.
Ciò detto, a chiosa di quanto sin qui esposto pare opportuno ulteriormente rilevare come la declaratoria di incostituzionalità in commento, così come nella parte più sopra rimarcata, abbia soltanto fatto venire meno la presunzione legale relativa prevista dal più volte menzionato articolo 32, mentre non è venuta meno, in termini assoluti, la possibilità di utilizzare i prelevamenti con riferimento all’attività di controllo dei lavoratori autonomi. E difatti, l’Amministrazione Finanziaria, in presenza di ulteriori (e necessari) elementi di prova, può comunque continuare a presumere che ai prelevamenti non giustificati corrispondano compensi sottratti a tassazione, assunto, questo, che si fonda sul generale potere accertativo facente capo all’Amministrazione e che trova conferma, peraltro, nei principi già espressi in materia di valori OMI dalla Corte di Cassazione la quale, in particolare, con la sentenza n. 20914 del 3 ottobre 2014 ha giustappunto osservato che: “[…] se può ritenersi corretta l’affermazione della società ricorrente secondo cui le valutazioni OMI “connotate da indici e dati statistici periodicamente aggiornati e adeguati alle quotazioni di mercato”…, non possono più costituire prova sufficiente “ex se” a dimostrare la inattendibilità del prezzo indicato dalle parti nel contratto, essendo venuta meno – con la L. 7 luglio 2009, n. 88, art. 24, comma 4, lett. f) e comma 5– la “presunzione legale” di maggior reddito fondata sulla difformità del prezzo di cessione immobiliare dal “valore normale” – di mercato – del bene…non può, invece, essere condivisa la conclusione cui intende pervenire la società ricorrente laddove…omette di rilevare che, nella specie, accanto all’indizio costituito dalla difformità del prezzo rispetto al valore rilevato nel listino OMI, l’Ufficio ha indicato ulteriori indizi – tra di essi e con il primo convergenti – individuati specificamente: 1 – nella anomala concessione di mutui bancari per importi superiori al prezzo dell’immobile indicato in contratto… 2 – nella vendita di altri immobili da parte della società, nel corso dello stesso anno 2004, per i quali era stato accertato “un prezzo complessivo nettamente inferiore a quello di mercato” (con percentuali di ricarico praticamente esigue e non in linea con le medie di settore […](18).

5.1. Profili applicativi.
Chiariti i termini della questione, quanto all’efficacia temporale della sentenza n. 228/2014 occorre conclusivamente osservare, in via generale, come la declaratoria di incostituzionalità di una disposizione normativa produca effetti retroattivi, nel senso che la disposizione stessa viene incisa sin dalla sua entrata in vigore e, conseguentemente, vengono meno sin dall’origine tutti gli effetti ad essa collegati (19).
E tuttavia, il principio di cessazione ex tunc dell’efficacia di una disposizione dichiarata incostituzionale incontra il limite dei “rapporti esauriti”, i quali si realizzano: o per effetto di sentenze passate in giudicato; o in conseguenza di atti amministrativi non più impugnabili (come avviene nell’ipotesi in cui intervenga un’adesione od una conciliazione); o, ancora, in virtù dello spirare del termine di sessanta giorni previsto a pena di decadenza per la proposizione del ricorso giurisdizionale oppure, sempre in un’ottica decadenziale, a seguito dello scadere dei termini previsti per la presentazione dell’istanza di rimborso di versamenti diretti; o, infine, nel caso in cui siano spirati i termini prescrizionali, decorrenti, ad esempio, dalla formazione del silenzio rifiuto su una domanda di rimborso (20).
Diversamente, per i rapporti giuridici ancora pendenti, come detto, la norma dichiarata incostituzionale non può più trovare applicazione, cosicché, per l’effetto della sentenza d’incostituzionalità in commento, in mancanza di ulteriori elementi di prova non possono più essere considerati come compensi (posti alla base di accertamenti ancora in corso) i prelevamenti non giustificati da parte dei lavoratori autonomi e, pertanto, l’Amministrazione Finanziaria – in sede di esercizio del potere di autotutela, di accertamento con adesione, di mediazione, contenzioso e conciliazione – è tenuta a recepire i suddetti principi nello svolgimento della propria attività (21).
Note:
(1). Sentenza liberamente reperibile sul sito www.cortecostituzionale.it
(2). Più in dettaglio, l’articolo 51, secondo comma, numero 2), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, prevede che: “[…] I dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati rispettivamente a norma del numero 7) e dell’articolo 52, ultimo comma, o dell’articolo 63, primo comma, o acquisiti ai sensi dell’articolo 18, comma 3, lettera b), del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504, sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 54 e 55 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili; sia le operazioni imponibili sia gli acquisti si considerano effettuati all’aliquota in prevalenza rispettivamente applicata o che avrebbe dovuto essere applicata […].
(3). In tal senso si veda, tra le più recenti, la sentenza della Corte di Cassazione n. 16325 del 17 luglio 2014.
(4). Sul punto, e per una ricognizione generale sull’argomento, si veda la Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 32/E del 19 ottobre 2006 (in ispecie: Parte III, capitolo quinto, par. 5.1).
(5). Così la sentenza della Corte di Cassazione n. 17250 del 12 luglio 2013.
(6). Principio espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 225 dell’8 giugno 2005.
(7). Nello specifico, l’articolo 53 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, intitolato “Redditi di lavoro autonomo”, al primo comma dispone che: “Sono redditi di lavoro autonomo quelli che derivano dall’esercizio di arti e professioni. Per esercizio di arti e professioni si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di attività di lavoro autonomo diverse da quelle considerate nel capo VI, compreso l’esercizio in forma associata di cui alla lettera c) del comma 3 dell’articolo 5”.
(8). Più precisamente, l’articolo 55 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, relativo ai redditi d’impresa, prevede espressamente che: “Sono redditi d’impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali. Per esercizio di imprese commerciali si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell’articolo 2195 c.c., e delle attività indicate alle lettere b) e c) del comma 2 dell’articolo 32 che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma d’impresa”.
(9). In particolare, al comma secondo, lettera a), del citato articolo 55 è contenuto il principio per cui: “Sono inoltre considerati redditi d’impresa: a) i redditi derivanti dall’esercizio di attività organizzate in forma d’impresa dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’articolo 2195 c.c.
(10). In tal senso si veda la sentenza della Corte di Cassazione n. 3901 del 3 aprile 1995.
(11). Sempre in argomento e più di recente, si veda la sentenza della Corte di Cassazione n. 13509 del 29 maggio 2013.
(12). Per uno sguardo generale sull’argomento, si rinvia ai seguenti manuali: Tesauro F., Istituzioni di diritto tributario – parte speciale, UTET giuridica, Milano 2012, Cap.2, sezz. 4 e 5; Falsitta G., Manuale di diritto tributarioparte speciale, CEDAM, Milano 2014, Cap. 2, sezz. 6 e 7.
(13). A norma dell’articolo 3 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Si tratta, in particolare, del principio di uguaglianza formale, che si rivolge agli organi cui è devoluto il potere legislativo, vietando ad essi di approvare leggi che compiano ingiustificate differenziazioni tra cittadini.
Il secondo comma, diversamente, enuncia il principio di uguaglianza sostanziale, sancendo il concreto impegno, gravante sui pubblici poteri, di combattere le disparità di condizioni che inevitabilmente si vengono a creare sul piano fattuale tra gli individui (o tra le categorie di individui), così mirando a creare effettive condizioni di eguaglianza tra i cittadini, a prescindere dalla loro condizione economica o sociale (al riguardo si veda: Celotto A., Costituzione ragionata, Neldiritto Editore, ed. 2015). Nello specifico, il comma in parola recita che: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
(14). In tal senso si veda, tra le tante, la sentenza della Corte Costituzionale n. 163 del 15 aprile 1993.
(15). Così la Corte Costituzionale con la sentenza n. 120 del 6 luglio 1972.
(16). Per una visione d’insieme dell’argomento, si rinvia alla parte generale dei succitati manuali, ovvero: Tesauro F., Istituzioni di diritto tributario – parte generale, UTET giuridica, Milano 2011, Cap. 4, sez. 1; Falsitta G., Manuale di diritto tributario – parte generale, CEDAM, Milano 2012,Cap. 6, sez. 2.
(17). Detti principi hanno trovato recente applicazione nella sentenza della Corte di Cassazione n. 12021 del 10 giugno 2015.
(18). Negli stessi termini si esprime la Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 18/E del 14 aprile 2010.
(19). In tema si veda la Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 56/E del 24 settembre 2008, par. 7.2.1.
(20). Sul punto si veda, tra le tante, la sentenza della Corte di Cassazione n. 9223 del 21 aprile 2011 e, più in generale, la sentenza n. 26275 del 14 dicembre 2007.
(21). In tal senso, e per un sintetico sguardo d’insieme sull’argomento, si veda la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 2/E del 3 gennaio 2005.