Proteggeremo chi ci sta proteggendo? Una lettura ortopedica e “pandemisticamente”
orientata dell’art. 2236 cod. civ.
Di Valentina Lo Voi
2 marzo 2020
“La somma era paurosa. In pochi giorni appena, i casi mortali si moltiplicarono, e fu palese, a
quelli che si preoccupavano dello strano morbo, che si trattava di una vera epidemia” [A. Camus,
La peste, 1947].
A più di settant’anni dalla pubblicazione di una delle più famose e inquietanti opere della letteratura
mondiale, ci ritroviamo in un’Italia del tutto paragonabile alla città di Orano descritta da Camus.
Nel 2020 l’emergenza pandemica è stata in grado di ricordare all’intera umanità come la diffusione
di agenti patogeni nuovi e invasivi possa, ancora, modificare radicalmente rapporti, relazioni, vita
sociale e culturale, economia e diritti.
Il dottor. Rieux, protagonista del romanzo di Camus, si aggirava tra morbi e pestilenze, dormendo
tre ore a notte, senza chiedersi se fosse opportuno esporsi in quel modo, ma facendo ciò che era
giusto in quel momento; consapevole di poter morire, senza rivedere il sorriso della moglie, che si
era dovuta allontanare da Orano prima dello scoppiare della calamità.
Ebbene, in Italia, di dottori Rieux, in queste settimane, ve n’è tantissimi.
Tanti medici e tanti infermieri, che, quotidianamente, devono confrontarsi con una realtà ben
diversa da quella che avevano immaginato il giorno della laurea o quello della specializzazione.
Ma chi penserà a questi medici, per adesso riempiti di allori e solidarietà, quando, una volta
terminata la situazione emergenziale, potrebbero essere destinatari di richieste di risarcimento per
presunti inadempimenti accaduti in questo periodo? Come si valuterà la diligenza nell’esecuzione
delle prestazioni richieste a medici e case di cura durante la fase emergenziale?
Si terrà conto del fatto che molte strutture sanitarie stanno riconvertendo interi reparti per garantire
assistenza ai pazienti affetti da COVID-19?
Come saranno considerate le scelte dei direttori sanitari che stanno operando molteplici
“dirottamenti” delle più diverse professionalità per cercare di arginare l’emergenza?
Ecco che forse sarà necessaria una rilettura, “pandemisticamente-orientata”, delle norme civilistiche
in materia di diligenza nell’adempimento.
Il pensiero va, quindi, all’art. 2236 cod. civ. che, come noto, pone una limitazione di responsabilità
del prestatore d’opera, circoscrivendola ai soli casi di dolo o colpa grave, qualora si trovi di fronte a
problemi tecnici di speciale difficoltà.
La norma era stata infatti pensata dal legislatore proprio per consentire al professionista di assumere
un incarico anche se difficile, laddove una responsabilità illimitata lo avrebbe spinto a rifiutarlo.
Il par. 917 della Relazione al codice civile parla infatti di ‘‘due opposte esigenze, quella di non
mortificare l’iniziativa del professionista, col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in
caso di insuccesso, e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli
inerzie del professionista”.
A tracciare il confine di operatività della norma è stato, poi, il Giudice delle Leggi [C. Cost.,
28.11.1973, n. 166, in Foro it., 1974, I, 19], il quale ha espressamente limitato l’operatività della
norma in esame alle ipotesi di imperizia, ovvero di errore professionale tecnico, escludendo del
tutto i profili della negligenza e della imprudenza, cioè le ipotesi di errore dovuto a «violazione
della normale diligenza o prudenza richiesta per quella prestazione, con riferimento alla natura
professionale dell’attività esercitata dal debitore (criteri ordinari riconducibili all’art. 1176 c.c.)». In
altri termini la disposizione favorevole al professionista, non deve preoccupare perché non va letta
come privilegium principis, bensì come legittima limitazione di responsabilità per attività che si
presentano come “difficili”, per le quali pertanto l’ordinamento accorda un minor rigorismo
sanzionatorio.
La stessa locuzione «problemi tecnici di speciale difficoltà» è stata peraltro, nell’ambito della
responsabilità medica, interpretata in senso restrittivo, non accogliendosi un’interpretazione per così
dire oggettiva, cioè legata alla natura dell’intervento, bensì collegando l’attività medica alle
conoscenze tecniche al momento acquisite dalla scienza e alle stesse possibili variazioni rapportate
alla personalità psico-fisica del paziente. Pertanto la Suprema Corte ha affermato che l’art. 2236 c.c.
si applica «quando il caso affidato al medico è straordinario ed eccezionale, in misura tale da non
essere adeguatamente studiato dalla scienza e sperimentato dalla pratica, oppure quando nella
scienza medica siano al riguardo proposti e dibattuti diversi ed incompatibili sistemi diagnostici e
terapeutici fra i quali debba in concreto operare la scelta» [Cass., sez. III, 10.5.2000, n. 5945, in Dir.
e giustizia, 2000, fasc. 19, 51].
Ecco che, ad avviso di chi scrive, tutte le prestazioni sanitarie effettuate durante l’emergenza
pandemica dovrebbero, eventualmente, essere valutate quali prestazioni “straordinarie ed
eccezionali”, non solo con riferimento alle cure da somministrare ai pazienti affetti da COVID-19,
ma con riferimento a tutte le patologie che, in questo momento di necessità, sono state oggetto di
cure mediche da parte di strutture sanitarie e di professionisti impegnati a fronteggiare
un’emergenza senza precedenti.
Sarebbe quindi utile addivenire ad una lettura “ortopedica” della diligenza nell’adempimento,
facendo ampio ricorso all’art. 2236 cod. civ., norma che, a più voci, è stata ritenuta principio di
razionalità e regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso
concreto imponga la soluzione di problemi di particolare difficoltà o qualora si versi in una
situazione di emergenza [Cass. pen., Sez. un., 22 febbraio 2018, n. 8770].
In fondo, come ad Orano, alla fine, anche la “nostra” peste degraderà, si attenuerà, perderà
virulenza. La quarantena sarà annullata. E la vita riprenderà a scorrere tra gli italiani come avvenne
tra gli oranesi. I paesi saranno in festa, tutti balleranno ma le solitudini resteranno. Coppie estatiche
attesteranno “col trionfo e con l’ingiustizia della felicità, che la peste sarà [era] finita e che il terrore
avrà [aveva] fatto il suo tempo”.
E sarà allora che si dovrà pensare a proteggere chi, durante il terrore, ha protetto e garantito tutti noi
cittadini.