La rissa del 59 d.C. NELL’ANFITEATRO POMPEIANO
alla luce di un NUOVO RITROVAMENTO ARCHEOLOGICO
Matteo De Bernardi
Ricercatore confermato e professore aggregato di Istituzioni di Diritto Romano
nell’Università degli Studi di Milano; avvocato del Foro di Milano
Abstract: Il contributo tratta della rissa verificatasi in età neroniana nell’anfiteatro di Pompei durante uno spettacolo gladiatorio, alla luce di un’epigrafe funeraria rinvenuta nel 2017 che sembrerebbe poter portare nuovi dati utili alla sua ricostruzione. Vengono quindi riesaminate le fonti a noi pervenute, a cominciare da Tac., Annales 14.17, e la dottrina che se ne è occupata, nel tentativo di identificare le cause degli scontri, ricollegabili a preesistenti contrasti tra Pompeiani e Nocerini che esplosero comunque nel contesto dell’evento sportivo, e di mettere a fuoco le sanzioni conseguentemente irrogate, articolate in tre direzioni: una sorta di squalifica del campo ante litteram, lo scioglimento dei collegia costituiti in modo illegale e la condanna all’esilio dei soggetti che a vario titolo furono considerati responsabili dei fatti. Sebbene Tacito non ne faccia alcun cenno, è verosimile che tra i condannati ci fossero anche i duoviri locali; e d’altra parte è possibile che a questi ultimi, e solo a loro, dopo qualche tempo fosse stato poi concesso dal princeps di ritornare a Pompei.
Parole chiave: Pompei – anfiteatro – rissa – Tacito – iscrizione funeraria
Sommario : 1. Pompei, 59 d.C.: la rissa e le conseguenti sanzioni – 2. I nuovi riscontri offerti da un ritrovamento archeologico del 2017 – 3. Spunti di riflessione.
- Pompei, 59 d.C.: la rissa e le conseguenti sanzioni
Il fenomeno degli atti di violenza commessi in occasione di manifestazioni sportive[1], oggi spesso alla ribalta delle cronache, non è certo proprio soltanto dei nostri giorni[2]. Quanto all’antica Roma, in particolare, abbiamo notizia soprattutto grazie agli Annales di Tacito della violenta rissa verificatasi nel 59 d.C. nell’anfiteatro di Pompei:
Tac., Ann. 14.17:
“Sub idem tempus levi initio[3] atrox caedes orta inter colonos Nucerinos Pompeianosque gladiatorio spectaculo, quod Livineius Regulus, quem motum senatu rettuli, edebat. Quippe oppidana lascivia in vicem incessentes probra, dein saxa, postremo ferrum sumpsere, validiore Pompeianorum plebe, apud quos spectaculum edebatur. Ergo deportati sunt in urbem multi e Nucerinis trunco per vulnera corpore, ac plerique liberorum aut parentum mortis deflebant. Cuius rei iudicium princeps senatui, senatus consulibus permisit. Et rursus re ad patres relata, prohibiti publice in decem annos eius modi coetu Pompeiani collegiaque, quae contra leges instituerant, dissoluta; Livineius et qui alii seditionem conciverant exilio multati sunt”.
Racconta lo storico[4] che, durante uno spettacolo gladiatorio allestito da Livineio Regolo, una contesa originata da futili motivi – ”levi initio” – tra Nocerini e Pompeiani degenerò in una tremenda strage. I rivali, “oppidana lascivia”[5], dapprima si scambiarono insulti, poi sassate, infine misero mano alla spada. Prevalsero i Pompeiani, quelli presso i quali si svolgeva lo spettacolo: ossia, come diremmo oggi, “i padroni di casa”. Molti dei Nocerini furono riportati nella loro città[6] mutilati dalle ferite e parecchi piangevano la morte dei figli o dei genitori.
L’imperatore affidò il giudizio sull’accaduto al senato[7] e il senato a sua volta incaricò dell’indagine i consoli, in funzione istruttoria. Poi, riportata la questione al senato[8], vennero adottati tre diversi provvedimenti sanzionatori: furono vietate per dieci anni ai cittadini di Pompei simili “riunioni” pubbliche; furono sciolti i collegia[9] costituiti in modo illegale; e Livineio e gli altri che avevano provocato il tumulto[10] “exilio multati sunt”. Si tratta verosimilmente di notizie che Tacito aveva attinto dalla lettura degli Acta Senatus, ai quali egli quale membro dell’assemblea dei patres poteva accedere: e infatti i suoi resoconti dei procedimenti senatori risultano perlopiù assai precisi e dettagliati[11]. Quali le ragioni della violenta rissa? Tra Pompeiani e Nocerini c’era “un’antica ruggine probabilmente a causa di questioni di confini e di pretesi diritti violati”[12]. Dopo la guerra sociale a Nuceria, rimasta fedele a Roma a differenza di Pompei, era stato attribuito il territorio di Stabiae; in età neroniana la colonia di Nocera venne rafforzata con l’immissione di nuovi veterani[13] e le vennero assegnate nuove terre[14], mentre Pompei si vide privare, suo malgrado, di parte del proprio territorio agricolo, destinato da Nerone alla stessa Nocera: circostanze che ingenerarono e inasprirono i risentimenti nell’animo di molti Pompeiani[15]. Per converso, è verosimile che ai Nocerini non facesse affatto piacere che la città rivale disponesse di quell’imponente anfiteatro, tanto ampio da arrivare ad ospitare circa ventimila persone.
Le tensioni esplosero in occasione dello spettacolo di gladiatori organizzato da Livineio Regolo, un personaggio che Tacito aveva già riferito[16] essere stato espulso dal senato. Forse Livineio Regolo, organizzando nel prestigioso anfiteatro di Pompei combattimenti di gladiatori, come noto molto apprezzati all’epoca e strumento di cui spesso i politici si avvalevano per conquistare fama e consenso tra il popolo, sperava di riconciliare Pompeiani e Nocerini e di guadagnarsi l’apprezzamento della corte imperiale; forse, chissà, al contrario sapeva che la presenza nell’impianto di folte rappresentanze delle due città rivali, in quel clima e in quel contesto, avrebbe potuto scatenare degli scontri e auspicava che in tale ipotesi avrebbe potuto ergersi egli stesso a capopopolo e assumere di nuovo una posizione importante sul piano politico, almeno a livello locale.
Le cose non andarono però come Livineio Regolo si augurava. Tacito racconta che in seguito a quei gravi scontri furono condannati all’esilio lui stesso “et qui alii seditionem conciverant”: l’uso di tali parole autorizza a congetturare che egli potesse avere avuto un diretto ruolo, effettivo o solo supposto, nel contribuire a provocare i disordini, è possibile però che fosse stato punito esclusivamente in quanto organizzatore di quel funesto spettacolo. Non emerge dal racconto dello storico quali altri soggetti oltre a Livineio vennero condannati all’exilium.
Ma, come detto, prima ancora di riferire delle sanzioni inflitte alle persone responsabili dei fatti Tacito scrive che “prohibiti publice in decem annos eius modi coetu Pompeiani”; e che vennero sciolti i “collegia” “quae contra leges instituerant”. Le “riunioni pubbliche di tal genere” proibite per dieci anni ai Pompeiani erano verosimilmente le edizioni di spettacoli gladiatori: un divieto che a ben vedere costituisce un esempio ante litteram di “squalifica del campo” nell’antichità. Tale “squalifica” venne in seguito ridotta, forse a due anni[17], molto probabilmente anche a seguito dell’intervento di Poppea, che era molto legata a Pompei e pare possedesse da quelle parti una villa: identificata oggi perlopiù in quella rinvenuta a Oplonti[18], nel territorio dell’odierna Torre Annunziata.
Otto iscrizioni pompeiane inneggianti alcune ai iudicia Augusti[19] o Neronis[20] o Caesaris Augusti[21], altre – affiancando all’imperatore Poppea – ai iudicia Augusti et Augustae[22] o ai iudicia Augusti patris patriae et Poppaeae Augustae[23], sono state ricollegate in dottrina[24] proprio al provvedimento con cui Nerone[25] revocò il divieto decennale disposto a seguito della rissa del 59.
Quanto ai collegia istituiti contra leges che vennero sciolti, ricordo che l’espressione “collegium” è frequentemente usata nelle fonti romane di età repubblicana e di età imperiale per indicare le svariate manifestazioni del fenomeno associativo: dalle associazioni a scopo di culto alle corporazioni professionali, alle cooperative funerarie, alle conventicole elettorali, ai circoli di divertimento. La lex Iulia de collegiis[26] aveva disposto la soppressione di tutte le associazioni esistenti salvo alcune, a carattere professionale, specificamente indicate, proibendo altresì la costituzione di nuove associazioni che non fossero state giustificate da un evidente motivo di pubblico interesse[27]; con ogni probabilità ad essere sciolti nell’occasione furono dunque i collegia costituiti in violazione di quella legge e delle procedure autorizzative e di controllo dalla stessa stabilite.
- Della Corte, ravvisando qualche analogia tra le sanzioni che Tacito riferisce essere state inflitte a seguito della rissa di Pompei e l’apparato sanzionatorio descritto dal giurista di età severiana Callistrato in D. 48.19.28.3[28], aveva congetturato che la rissa nell’anfiteatro fosse nata da una sommossa di iuvenes e che dai due testi fosse desumibile l’applicazione di un’unica norma databile almeno al I secolo dell’Impero: le pene (dell’esilio) inflitte a Livineio e alle altre persone riconosciute come responsabili dei fatti di Pompei sarebbero “quelle della legge registrata e tramandata da Callistrato per i casi di recidiva specifica”[29]. In realtà, come evidenziato poi in dottrina[30], nulla autorizza ad ipotizzare l’esistenza di un fondamento giuridico comune, a maggior ragione considerando la differenza esistente tra l’attività giurisdizionale del senato nel primo secolo dopo Cristo e la cognitio extra ordinem dei funzionari imperiali al tempo dei Severi; e ciò che scrive Tacito su quei collegia, costituiti contra leges, fa apparire improbabile che la rissa di Pompei si fosse svolta tra iuvenes, le cui organizzazioni, volute da Augusto, erano ben viste dall’autorità e certamente autorizzate. Anzi, ribadisce efficacemente Randazzo[31], non soltanto nel passo di Tacito non vi è alcun cenno a iuvenes, ma egli “non si riferisce nemmeno implicitamente a collegia iuvenum, considerando invece sodalizi non riconosciuti, costituitisi contra leges, cioè contro i divieti della lex Iulia de collegiis, probabilmente da identificare in gruppi di facinorosi gravitanti attorno al particolare mondo degli spettacoli di gladiatori, giochi del tutto diversi dai ludi iuvenum e certamente tali da fornire frequentemente occasione per risse popolari”[32].
Mi sentirei pertanto di escludere che uno dei collegia costituiti contra leges cui fa riferimento Tacito possa identificarsi nell’associazione di Iuvenes Venerii Pompeiani[33], che del resto non risulta avere cessato di svolgere attività dall’anno 59; e reputo improbabile che a provocare la rissa e a venire poi conseguentemente sanzionata con lo scioglimento fosse stata un’associazione di altri iuvenes, costituita dai discendenti delle vecchie famiglie sannite che abitavano originariamente la città di Pompei, ma non legalmente costituita a differenza dei predetti Iuvenes Venerii Pompeiani e anzi in contrasto con essi[34]. Dato che Tacito nella sua narrazione utilizza le espressioni “oppidana lascivia” e “validiore Pompeianorum plebe”, si può supporre che i protagonisti principali della violenta zuffa fossero di classi umili; è probabile che i collegia non autorizzati in cui essi si erano riuniti seguissero abitualmente i combattimenti tra i gladiatori e costituissero gruppi di supporto alle loro attività, quali appassionati, “fan” analoghi a quelli che nella Roma imperiale accompagnavano spesso le corse dei carri[35]. Ciò non esclude affatto, a mio avviso, che anche altre persone non di basso ceto sociale presenti quel giorno nell’anfiteatro potessero avere preso parte agli scontri.
Ritengo, in definitiva, che verosimilmente “tifosi” di Pompei e di Nocera si fossero da tempo riuniti in collegia[36] non autorizzati, quindi non leciti; che in quell’occasione, trovandosi le opposte tifoserie fianco a fianco ad assistere allo spettacolo che vedeva fronteggiarsi gladiatori o scuole di gladiatori[37], la profonda rivalità e le ruggini esistenti dovettero esplodere violentemente[38]; e che la sconcertante rissa nell’anfiteatro indusse a disporre lo scioglimento di quei collegia.
Fanno riferimento alla rissa anche un bell’affresco che la raffigura, rinvenuto a Pompei nel peristilium – portico colonnato con giardino – della Casa di Actius Anicetus e attualmente conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli[39], realizzato con ogni probabilità tra lo stesso 59 ed il 79 d.C.; e l’iscrizione epigrafica “Campani Victoria una cum Nucerinis peristis”, riportata nel Corpus Inscriptionum Latinarum[40].
- I nuovi riscontri offerti da un ritrovamento archeologico del 2017
Una scoperta archeologica di grande rilevanza avvenuta nel 2017 nell’area di Pompei sembrerebbe però poter apportare nuovi elementi utili alla ricostruzione di quegli eventi. Nel corso degli scavi per la ristrutturazione degli edifici demaniali di San Paolino, nei pressi della necropoli di Porta Stabia, è stata infatti rinvenuta una tomba monumentale con un’epigrafe in marmo lunga quattro metri – la più grande mai trovata in quell’area -, risalente con ogni probabilità agli ultimi anni della vita della città, forse al 78 o addirittura al 79, che raccontando le gesta del defunto, un personaggio importante della Pompei dell’età neroniana, e la sua ascesa nella scala sociale, pare fare riferimento anche alla rissa dell’anno 59 e alle sanzioni adottate a seguito della stessa.
Massimo Osanna, direttore del Parco archeologico di Pompei, ha anticipato in alcune conferenze i primi risultati delle ricerche e ha presentato il testo dell’epigrafe, al momento per quanto mi risulta ancora non pubblicato, nel convegno in ricordo di Enzo Lippolis “Studium erga populum. Studium erga sapientiam”, tenutosi a Napoli e proprio a Pompei il 12 e il 13 luglio 2018, esponendo nella relazione dal titolo “La Tomba di Gneus Alleius Nigidius Maius” l’ipotesi di lettura sulla quale egli sta lavorando. Il personaggio al quale l’epigrafe è dedicata, il cui nome, verosimilmente riportato in un pannello andato distrutto, in essa non compare, è stato identificato da Osanna appunto in Gneus Alleius Nigidius Maius, soprannominato «princeps coloniae»[41] dal popolo, un liberto adottato dalla famiglia degli Alleii, tra i maggiori e forse il più noto organizzatore di spettacoli gladiatorii della colonia romana, che arrivò a ricoprire varie cariche compresa quella di duoviro nel 55/56 d.C. Nell’iscrizione, composta da sette righe che lo studioso ha letto e commentato per intero, sono ricordati alcuni momenti significativi della sua vita, quali l’assunzione della toga virile e la celebrazione delle nozze, e vengono descritte attività munifiche che egli svolse: un banchetto pubblico offerto alla cittadinanza pompeiana, la distribuzione di pane, elargizioni di denaro, l’organizzazione di giochi gladiatori e combattimenti con animali feroci.
In attesa della pubblicazione dell’epigrafe e degli atti del convegno, e premesso che lo studioso ha evidenziato come la sua lettura costituisca semplicemente una proposta destinata ad essere discussa e approfondita riservandosi di modificarla in seguito egli stesso, ci interessa in particolare, quanto al tema oggetto del presente contributo, la frase che si legge alle linee 5 e 6:
“… et, cum Caesar omnis familias ultra ducentesimum ab urbe ut abducerent iussisset, uni / huic ut Pompeios in patriam suam reduceret permisit …”.
Nella ricostruzione proposta da Osanna tale frase andrebbe tradotta così: “e poiché Cesare aveva dato ordine di deportare dalla città tutte le famiglie (condannate), concesse solo a costui di ricondurre in patria i Pompeii”. L’epigrafe identificherebbe quale ulteriore merito del defunto l’avere ottenuto, lui solo, dall’imperatore Nerone il rientro in patria dei Pompeii, ossia di Cn. Pompeius Grosphus e di Cn. Pompeius Grosphus Gavianus, rispettivamente padre e figlio adottivo, dopo che essi erano stati esiliati al pari delle altre famiglie condannate in conseguenza della rissa dell’anno 59. Ha precisato Osanna: è vero che “Pompeios” potrebbe essere un complemento di moto a luogo anziché un complemento oggetto, però non appare logico che nell’epigrafe, nel decantare le gesta del defunto, si evidenziasse che l’imperatore avesse concesso a lui solo di ritornare “a Pompei” ripetendo subito dopo “nella sua patria”, con un’inutile duplicazione.
Così interpretato, il periodo si correlerebbe bene a quello precedente, “Munere suo quod ante / senatus consult(um) edidit, ominibus diebus lusionum et compositione promiscue omnis generis bestias venationibus dedit” (linee 4 e 5), tradotto da Osanna con queste parole: “In occasione del suo spettacolo che aveva organizzato prima del senatoconsulto, per tutti i giorni dei giochi, per ogni tipo di combattimento (in programma) fornì animali di tutte le specie senza distinzione alle cacce”. Il senatoconsulto cui si fa lì riferimento, con un semplice accenno perché ben noto a tutti a Pompei, sarebbe quello emesso a seguito della rissa del 59; il merito ascritto al defunto, dopo che nella prima parte dell’epigrafe si era esaltata la grandiosità e la magnificenza di uno spettacolo da lui offerto cui avrebbero preso parte ben 416 gladiatori (linee 1 e 2), consisterebbe nell’avere fornito, fino al bando disposto con quel senatoconsulto, anche ogni genere di animali: quindi egli avrebbe offerto senza badare a spese combattimenti fra gladiatori, combattimenti fra soli animali e venationes, mentre, sempre secondo la lettura di Osanna, dopo i provvedimenti adottati a seguito della rissa avrebbe ottenuto dall’imperatore (linee 5 e 6, appunto) di poter ricondurre in patria Cn. Pompeius Grosphus e Cn. Pompeius Grosphus Gavianus.
Con loro sarebbero state inoltre condannate all’esilio altre “famiglie”: forse componenti di famiglie importanti nella Pompei dell’epoca.
Al convegno “Studium erga populum. Studium erga sapientiam” anche Arturo De Vivo ha tenuto il 12 luglio una interessante relazione, proprio su “Tacito e la rissa nell’Anfiteatro del 59 d.C.”. Lo studioso ha osservato che la narrazione degli eventi dell’anno 59 si chiude, in un capitolo del 14° libro degli Annales, con alcuni avvenimenti che non rientrano nel filone narrativo principale di cui Tacito si occupa nel libro, incentrato su Nerone e soprattutto sul modo con cui egli si libera della madre Agrippina e si trasforma in tiranno: tra di essi appunto la esposizione della famosa rissa; e ha evidenziato che lo storico si interessava comunque dell’Urbe, non della cronaca locale. L’utilizzo della parola seditio vale a connotare la dimensione che assunsero quegli scontri e a giustificare l’intervento del Senato di Roma e il fatto che lo storico la ricomprenda tra le res illustres degne di essere narrate nei suoi Annales: ma non era evidentemente intenzione di Tacito fornirne un resoconto dettagliato, che in quell’opera sarebbe apparso anzi eccessivo.
In tale prospettiva, non stupisce che il suo racconto sull’episodio appaia almeno in parte lacunoso e che i provvedimenti punitivi che riferisce essere stati adottati non trovino adeguato riscontro nel testo. E non stupisce nemmeno che egli non faccia alcun cenno ai duoviri di Pompei, magistrati importanti ma pur sempre “locali”, benché a seguito di quell’evento fossero stati con ogni probabilità rimossi dal loro incarico e, pare desumersi dall’iscrizione presentata da Osanna, esiliati. Iscrizione di cui De Vivo ha rimarcato la notevole importanza, condividendo nella sua relazione la lettura che ne ha dato Osanna e accettando in particolare l’ipotesi che essa ascriva al defunto il merito di avere ottenuto lui solo dall’imperatore che fossero richiamati dall’esilio i rappresentanti di una delle famiglie colpite dal provvedimento, i Pompeios, che sarebbero dunque proprio Pompeius Grosphus e Pompeius Grosphus Gavianus.
Nel medesimo convegno Elio Lo Cascio e Marco Maiuro, ai quali Osanna aveva precedentemente fornito il testo dell’epigrafe, nella relazione intitolata “Le evergesie di Cn. Allieus Nigidius Maius: demografia, economia e società nella Pompei giulio-claudia”, oltre a dissentire su altri punti dalla sua interpretazione (non peraltro sulla parte in cui egli ha identificato nel senatoconsulto emesso a seguito della rissa del 59 quello prima del quale l’onorato avrebbe fornito per lo spettacolo animali di ogni specie), hanno affermato che, sulla base di una prima lettura, riterrebbero invece di escludere che la frase “et, cum Caesar omnis familias ultra ducentesimum ab urbe ut abducerent iussisset, uni huic ut Pompeios in patriam suam reduceret permisit” abbia un legame con la rissa del 59. Per una serie di ragioni: perché il provvedimento cui lì si fa cenno, riconducibile molto probabilmente a Nerone, non sarebbe un senatoconsulto, bensì un provvedimento imperiale volto a salvaguardare la sicurezza di Roma, che avrebbe disposto il bando dal territorio italico entro duecento miglia da Roma di tutte di tutte le familiae, da intendersi come familiae di gladiatori; perché Pompeios sarebbe non un accusativo ma un complemento di moto a luogo, senza preposizione come di norma per i nomi di città, retto da “reduceret”, come in altre fonti letterarie; perché sarebbe strano che si facesse riferimento ai due magistrati senza indicarne nemmeno la carica; perché scrivere che soltanto a Nigidio sarebbe riuscito di ottenere dal princeps il privilegio di una concessione ad personam, in deroga al bando generale, avrebbe significato evidenziare pubblicamente che altri notabili locali avessero tentato senza successo la medesima impresa.
Lo Cascio e Maiuro tradurrebbero dunque in modo ben diverso da Osanna la predetta frase, se ho ben inteso così: “E avendo Cesare ordinato che tutte le famiglie gladiatorie fossero allontanate ad oltre duecento miglia da Roma, a lui solo fu permesso di ricondurle a Pompei nella propria patria”.
Di questo iussus Caesaris che avrebbe bandito le familiae gladiatorie, certo nell’ipotesi di breve e limitata applicazione, analogo ad un bando di espulsione di gladiatori e di schiavi in vendita da parte di Augusto nell’anno 6 di cui riferiscono Svetonio e Dione Cassio[42], nulla sappiamo: ciò che costituisce l’aspetto più debole di tale ipotesi, come riconosciuto dagli stessi Lo Cascio e Maiuro, i quali hanno congetturato – ma trattasi di “mera suggestione”, ha detto Maiuro – che possa avere avuto qualcosa a che fare con l’episodio di insurrezione dei gladiatori nel ludus di Praeneste di cui dà notizia Tac., Ann. 15.46.
Sulla tesi di Osanna e su quella nel frattempo esposta da Lo Cascio e Maiuro si è poi espressa nello stesso convegno Carla Masi Doria, nell’interessante relazione dal titolo “Ab urbe abducere – in patriam reducere”.
La studiosa ha definito “una scoperta strepitosa” quella dell’epigrafe ed è apparsa propensa anch’ella, come De Vivo, ad accogliere l’interpretazione di Osanna circa il significato delle linee 5 e 6 e la riferibilità alle sanzioni per la rissa nell’anfiteatro, osservando fra l’altro che se “Pompeios” fosse un complemento di moto a luogo mancherebbe l’oggetto al verbo reducere, oggetto invece presente nelle costruzioni apparentemente analoghe addotte a sostegno della pur suggestiva ipotesi di Lo Cascio e Maiuro. Quanto alla condanna emessa a seguito della rissa, l’assemblea dei patres sembra avere avuto un ruolo solo preparatorio rispetto ad essa; così come avvenuto, nell’età di Tiberio, in occasione del famoso senatoconsulto “de Cn. Pisone patre” per due complici di Pisone, anche nel caso in esame non l’avrebbe pronunciata direttamente: nel senso che certo il senatoconsulto diede la base della repressione, ma parrebbe non avere emesso direttamente i provvedimenti punitivi. L’iscrizione confermerebbe ora la pluralità dei condannati: gli alii, non nominati da Tacito, che avrebbero fomentato la seditio e che con Livineio sarebbero stati colpiti dal provvedimento punitivo, andrebbero identificati proprio in membri di familiae (termine che, ha osservato Carla Masi Doria, si può intendere anche proprio come “gruppi familiari”, posto che “familia” è usato con il significato di gens già in Cicerone e nello stesso Tacito) e tra di loro figurerebbero anche due componenti della gens Pompeia, i duoviri che erano allora in carica ma che vennero destituiti prima della scadenza naturale del loro mandato, evidentemente a seguito del provvedimento neroniano, se non altro per non avere esercitato il dovuto controllo in relazione ad una rissa avvenuta nel corso di un evento che si svolgeva pubblicamente.
Ab urbe abducere è espressione utilizzata in un’elegia di Tibullo, e per lui l’urbs è certamente Roma. Si è chiesta la relatrice: forse urbs, che di per sé può indicare anche altre comunità, nella linea in esame dell’epigrafe potrebbe alludere a Pompei, e quindi ad un esilio da Pompei, cioè all’allontanamento oltre duecento miglia da Pompei? Improbabile, perché poco sopra, alla linea 2, urbs indica Roma … ma perché allora i responsabili della rissa sarebbero stati banditi, allontanati da Roma e non dal locus commissi delicti, ossia da Pompei? E ha trovato la risposta da un lato nella considerazione che Pompei si trovava nelle duecento miglia da Roma, sicché i condannati venivano così banditi comunque pure da Pompei; dall’altra nel fatto che tra di loro, anzi in posizione centrale nella vicenda e nel provvedimento repressivo, c’era quel Livineio Regolo, già espulso dal senato, che ben si può comprendere apparisse necessario quantomeno allontanare anche da Roma dopo che si era reso nuovamente protagonista di un comportamento assai riprovevole.
In fonti letterarie “in patriam reducere” designa il rientro dei fuoriusciti e degli esiliati per merito di qualcuno, mentre per indicare il semplice ritorno in patria si utilizza in genere il verbo redire. Ebbene, grazie a Nigidius Maius i Pompeii avrebbero ottenuto non certo la remissione completa della pena – forse consistente soltanto in una sorta di relegazione, un provvedimento di ordine pubblico tale da impedire ai soggetti banditi di andare a Roma e di tornare a Pompei, senza che perdessero la cittadinanza né i propri beni -, bensì un vantaggio speciale, cioè la possibilità di ritornare nella propria città, non risultando affatto dall’epigrafe che potessero recarsi a Roma.
- Spunti di riflessione
Come attestano le tavolette cerate del banchiere Cecilio Giocondo, Cn. Pompeius Grosphus e Cn. Pompeius Grosphus Gavianus ricoprivano la carica di duoviri il 10 luglio dell’anno 59, ma non la mantennero sino al 30 giugno dell’anno 60, scadenza naturale del mandato, in quanto l’8 maggio del 60 i duoviri di Pompei erano invece Sandelius Balbus e P. Vedius Sirius, fra l’altro affiancati da un magistrato straordinario, il praefectus iure dicundo Sex. Pompeius Proculus [43].
Che essi fossero stati rimossi proprio in conseguenza della grave zuffa, era una deduzione ovvia e già diffusa[44]; se la ricostruzione di Osanna fosse esatta, i due “Pompeius” sarebbero stati condannati all’esilio[45] e, circostanza del tutto nuova rispetto alle conoscenze che si avevano e alle congetture che si potevano prima formulare, sarebbero potuti dunque ritornare in patria proprio grazie all’intervento di Gneus Alleius Nigidius Maius presso Nerone.
Con loro inoltre avrebbero subito la condanna altre “famiglie”: forse membri di famiglie importanti nella Pompei dell’epoca. Se fra i condannati a seguito della rissa c’erano anche due alti, anzi i più alti magistrati locali quali i duoviri, cosa che Tacito non dice affatto limitandosi a scrivere che exilio multati sunt Livineio Regolo e qui alii seditionem conciverant, v’è da chiedersi se i duoviri siano da ricomprendersi tra coloro che avevano provocato gli scontri o se invece, più semplicemente, fossero stati ritenuti responsabili per non essere stati in grado di controllare la situazione e di evitare quegli eventi. Nel primo caso si potrebbe addirittura ipotizzare, come mi pare adombri Osanna[46] sebbene nella relazione del 12 luglio scorso non si sia dilungato sul punto, che la rissa, lungi dall’essere occasionale, fosse stata originata da una cospirazione nei confronti dei Nocerini ordita da cittadini pompeiani di prestigio – se davvero varie famiglie furono condannate all’esilio per le responsabilità in essa avute -, tra i quali i magistrati stessi.
Per verificare l’attendibilità dell’affascinante tesi di Osanna, occorre anzitutto chiedersi se essa possa reggere al vaglio delle critiche acutamente mosse da Lo Cascio e Maiuro, a cominciare da quella sul significato della parola familias nell’espressione “cum Caesar omnis familias ultra ducentesimum ab urbe ut abducerent iussisset”, chiedendoci se possa riferirsi soltanto a familiae gladiatoriae o se invece possa essere davvero inteso come l’ha inteso Osanna.
Il termine “familia”, come attesta D. 50.16.195 (Ulp., l. 46 ad edictum), ha molteplici significati; anche i vocabolari e i lessici moderni ne riportano in effetti numerose accezioni[47]. Attenendomi per una sintesi al Gaffiot[48], ”familia” significa anzitutto “servitù, servi, il complesso degli schiavi della casa”; può significare poi appunto “famiglia”, nelle espressioni quali pater, mater, filius e filia familias, ma anche come ramo della gens; e in terzo luogo “gruppo, corpo, setta, brigata scuola”. In questa terza accezione, ecco la familia gladiatoria[49] come compagnia dei gladiatori, ma la parola è affiancata dal genitivo gladiatorum o dall’aggettivo gladiatoria.
Certo, proprio le iscrizioni parietali – cfr. ad esempio «CIL.» 4.1183; 4.1184; 4.1186; 4.1188; 4.1189; 4.1190; 4.1191; 4.1192; 4.7987; 4.9968a -, gli edicta munerum, “le locandine” con i programmi degli spettacoli gladiatorii esposte sui muri degli edifici della Pompei dell’epoca, utilizzano l’espressione “familia gladiatoria”[50] ad indicare la compagnia di gladiatori: ma per quanto ho potuto verificare quasi sempre aggiungendovi il termine “gladiatoria”, non usando il sostantivo familia da solo[51].
E’ vero che il passo di Svetonio (Aug. 42.3) addotto da Lo Cascio e Maiuro riferisce di un bando di gladiatori e di schiavi – nell’ipotesi analogo a quello, ignoto, cui alluderebbe l’epigrafe alle linee 5 e 6 – usando il termine familias, però vi si specifica “venalicias et lanistarum” familias, ben diversamente da quanto si legge nell’epigrafe. Secondo me l’argomento più difficilmente confutabile addotto da Lo Cascio e Maiuro consiste nel rilievo che l’epigrafe menziona un provvedimento imperiale, mentre della rissa nell’anfiteatro si occupò il senato. Peraltro, come notato da Carla Masi Doria, la relatio ad patres che si ebbe a seguito della rissa sembra corrispondere ad una cognitio senatus coordinata con il princeps, in cui il senatoconsulto potrebbe avere avuto un ruolo solo preparatorio rispetto alle sanzioni pronunciate, delle quali pose senza dubbio le basi ma probabilmente senza emetterle direttamente[52]: sicché l’ipotesi di lettura prospettata da Osanna, che naturalmente potrà essere meglio esaminata dopo la pubblicazione dell’epigrafe e degli atti del citato convegno, resta a mio parere sostenibile.
Nulla prova in contrario la circostanza che il provvedimento sanzionatorio menzionato nell’epigrafe consistesse non nell’allontanamento da Pompei ma nel divieto di stare entro duecento miglia da Roma, dato che in tale area territoriale era ricompresa anche Pompei e che il primo soggetto destinatario della condanna era Livineio Regolo, già espulso in precedenza dal senato, che occorreva tenere lontano da Roma.
Riguardo al “Pompeios”, se fosse un complemento di moto a luogo mancherebbe l’oggetto al verbo reducere, oggetto invece presente nelle costruzioni apparentemente analoghe addotte in via esemplificativa da Lo Cascio e Maiuro a sostegno della propria interpretazione[53]: in particolare, “exercitum” nella frase tratta da Cesare[54], “copias” in quella di Livio[55], “exsules” in quella di Cicerone[56].
Ritengo inoltre che se il provvedimento menzionato nelle linee 5 e 6 dell’epigrafe funeraria non avesse a che fare con le sanzioni conseguenti alla rissa nell’anfiteatro e consistesse invece in un più generale bando delle familiae gladiatoriae, stupirebbe che non ne abbiamo affatto notizia da altre fonti, visto che nell’ipotesi esso avrebbe avuto appunto carattere generale e quindi non circoscritto. Tantomeno vi si fa riferimento nella lastra funeraria: la quale invece proprio nella frase precedente menziona un senatoconsulto che con ogni probabilità è proprio quello emesso a seguito della rissa nell’anfiteatro, tanto noto a Pompei che non era neppure necessario definirlo in termini più espliciti. Il collegamento di quell’ipotetico bando con la rivolta di Praeneste del 64 è una mera congettura, come ammesso dallo stesso Maiuro.
A ragione Lo Cascio e Maiuro osservano che evidenziare pubblicamente che soltanto a Nigidio – “uni huic” – sarebbe riuscito di ottenere dal princeps, in deroga al bando generale, il privilegio di una concessione ad personam, potesse significare far notare che invece altri notabili locali avevano tentato senza successo la medesima “impresa”: ma non è detto affatto a mio avviso che ciò dovesse scoraggiare colui che scrisse l’epigrafe dal farne menzione, anche perché ovviamente non compaiono i nomi di coloro che non avevano conseguito analogo risultato.
Che l’imperatore avesse accordato a Cn. Pompeius Grosphus e a Cn. Pompeius Grosphus Gavianus, grazie all’intervento di Alleio Nigidio Maio, un simile privilegio non mi sembra cosa del tutto anomala, dato che anche la squalifica decennale venne revocata relativamente presto: la clemenza dimostrata verso i Pompeiani pare del resto dimostrata dalle sopra citate[57] epigrafi inneggianti allo stesso Nerone – e alcune con lui pure a Poppea -.
Già era stato ipotizzato in dottrina che un altro celebre editor di spettacoli, Decimo Lucrezio Satrio Valente, avesse interceduto presso Nerone per ottenere la riapertura anticipata dell’anfiteatro[58]: perché Alleius Nigidius Maius[59] non potrebbe dunque avere ottenuto da lui quella concessione?
Inoltre il fatto che proprio due magistrati di nome Pompeius[60] fossero stati rimossi prima del giugno 60 rende credibile l’ipotesi di Osanna: la coincidenza, pur non impossibile, sarebbe altrimenti assai curiosa e singolare.
Che Tacito non faccia cenno alla rimozione dei duoviri a seguito della rissa e alla loro probabile condanna si spiega certamente con le considerazioni addotte da Arturo De Vivo: la rissa nell’anfiteatro di Pompei era evento di assoluto rilievo, tale da giustificare l’intervento del Senato di Roma e da essere narrato nei suoi Annales, ma non era intenzione dello storico trattare diffusamente nella sua opera di più specifiche vicende attinenti alla cronaca e a magistrati locali.
E’ poi appena il caso di ribadire che così come interpretata da Osanna la frase in questione si correlerebbe bene a quella immediatamente precedente nell’epigrafe, che identifica un altro merito del defunto nell’avere fornito per lo spettacolo offerto “prima del senatoconsulto”, conosciuto da tutti in città, ogni genere di animali; in un momento successivo, cioè dopo che le editiones di spettacoli gladiatori erano state vietate ai Pompeiani, egli ben potrebbe avere ottenuto dall’imperatore di poter ricondurre in patria due dei condannati, Pompeius Grosphus e Pompeius Grosphus Gavianus.
Andrei cauto però sull’ipotesi che l’eventuale cospirazione avesse coinvolto anche loro: ritengo assai più verosimile che i duoviri, i più alti magistrati in carica della colonia, fossero stati condannati (soltanto) per non essere stati in grado di evitare e controllare gli eventi, cosa che fra l’altro renderebbe più facilmente comprensibile la clemenza che Nerone avrebbe in seguito manifestato nei loro confronti consentendo a Nigidio di ricondurli in patria.
La rissa nell’anfiteatro pompeiano fu determinata certamente dalla profonda rivalità tra Nocerini e Pompeiani, originata ed incrementata da motivi politici ed anche economici, frammisti a sentimenti, risentimenti e rancori: lo spettacolo gladiatorio divenne l’occasione, o il pretesto, per sfogare la violenza. Posto che evidentemente nell’anfiteatro erano state portate delle armi[61], considerati le proporzioni che assunse la contesa e il fatto che all’esilio furono condannati appunto non il solo Livineio Regolo ma anche altre persone che vennero riconosciute colpevoli di avere provocato il tumulto, già sulla base del racconto di Tacito e dei pochi ulteriori riscontri disponibili sino al 2017 sull’episodio si poteva porre il sospetto che personaggi appartenenti alle classi più danneggiate dalla politica coloniale di Nerone avessero voluto approfittare della presenza di molti Nocerini per attaccarli, o che tra gli spettatori vi fossero degli “infiltrati” intervenuti proprio per dar loro man forte e/o per provocare e sobillare gli animi.
Stando al racconto di Tacito, nell’anfiteatro per futili motivi (“levi initio”) si verificarono dei contrasti che diedero fuoco alla miccia: l’intemperanza propria dei provinciali (“oppidana lascivia”) li trasformò nella violenta rissa. Moeller ha letto diversamente tali parole, ravvisando un tono ironico nell’espressione “oppidana lascivia” in contrapposizione al termine seditio usato alla fine del passo[62]. Personalmente non colgo invece ironia nella narrazione di Tacito: anzi, proprio l’antitesi tra il levi initio e la atrox caedes che ne deriva sembra dare la misura dell’assurdità di quella forma di incontrollata violenza, ben attagliantesi ad una genesi nel contesto dell’evento sportivo, e quasi stupire lo storico. Tacito non formula apertamente alcun giudizio al riguardo, ma a mio avviso le espressioni che nella sua consueta sinteticità utilizza sono indicative dell’implicita condanna che egli ne dà[63].
Dallo scambio di insulti al lancio dei sassi, all’uso delle armi, con scontri iniziati all’interno dell’impianto sportivo che continuarono con ogni probabilità in modo non meno acceso e violento al di fuori di esso, come documentato dal citato affresco conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli[64]: la rapida successione degli eventi, nella sua gradualità, appare tipica di un litigio scoppiato in modo “quasi” occasionale e poi degenerato in una furibonda rissa e addirittura in una strage.
Certo, il ritrovamento archeologico in esame potrebbe apportare ora un buon argomento a supporto dell’ipotesi[65], prima fondata solo su indizi più labili, che lo scontro potesse essere preordinato.
Non vedo però un contrasto insanabile tra l’eventualità che alcuni Pompeiani avessero teso un agguato ai Nocerini, che l’epigrafe almeno secondo la lettura di Massimo Osanna supporta, e la più ampia e diffusa escalation di violenza che si scatenò quel giorno a margine dello spettacolo gladiatorio. E’ verosimile che taluni, probabilmente soprattutto membri di famiglie altolocate, fossero andati nell’anfiteatro armati avendo in animo di attaccare i Nocerini; ma con ogni probabilità, viste le dimensioni della zuffa e la molteplicità delle persone coinvolte – di entrambe le parti – che si evincono dall’affresco e dal racconto di Tacito (il quale, oltre ad utilizzare l’espressione “oppidana lascivia”, fa espresso riferimento alla Pompeianorum plebs protagonista vincente della rissa, dunque a persone appartenenti a classi umili, non certo altolocate), agli scontri presero parte attiva anche altri individui, “tifosi” già ostili verso i rivali che in quel contesto si fecero prendere la mano.
Sebbene alla base della rissa vi fossero ragioni di natura politica ed economica, frammiste a risentimenti e rancori, che trovarono nello spettacolo gladiatorio l’occasione, o il pretesto, per dare sfogo alla violenza, si può quindi a mio avviso continuare ad inquadrare almeno in buona parte l’episodio quale espressione del fenomeno della violenza posta in essere da tifosi nell’ambito di manifestazioni sportive e a considerarlo un lontano “precedente” degli atti di violenza negli stadi odierni[66].
Va ribadita in ogni caso l’eccezionale importanza dell’epigrafe funeraria recentemente rinvenuta, fondamentale per la ricostruzione degli ultimi decenni della vita di Pompei e probabilmente utile anche per una più completa comprensione delle cause della rissa del 59 nell’anfiteatro, delle sanzioni irrogate a seguito della stessa e della loro effettiva applicazione.
[1] Mi riferisco in questo articolo non agli atti di violenza commessi dagli atleti nei confronti di avversari, né alle lesioni provocate in qualche caso dagli atleti stessi a terzi (su tali temi: A. Wacke, Incidenti nello sport e nel gioco in diritto romano e moderno, in «Index», 19, 1991, pp. 359 ss.), ma alle violenze poste in essere da tifosi o comunque da soggetti diversi dagli atleti in gara.
[2] Cfr. M. De Bernardi, Atti di violenza in occasione di manifestazioni sportive: alcuni «precedenti» nell’epoca dell’Impero romano, in «Rivista di Diritto Romano», XI (2011), pp. 1 ss. (estr.) e Supporters Violence at Sporting Events in Roman Times, in cinese (trad. Zhao Yi), in «Tiyu Yu Kexue (Sports & Science)», CCX (2014), pp. 1 ss.
[3] Il Codice Mediceus II riporta “intentio”, altri codici “contentione”; la correzione della parola “intentio” in “initio”, recepita da tutte le edizioni attuali del testo, venne proposta in J.A. Ernesti, Cornelii Taciti opera ex recens. Joh. Aug. Ernesti denuo curavit Jer. Jac. Oberlinus, Lipsiae, 1801, ad loc.
[4] Sul passo, tra gli altri, W.O. Moeller, The Riot of A.D. 59 at Pompeii, in «Historia», 19 (1970), pp. 84 ss.; H. Galsterer, Politik im römischen Städten: die ‘seditio’ des Jahres 59 n. Ch. in Pompei, in Studien zur antiken Sozialgeschichte. Festschrift für Friedrich Vittinghoff, Köln-Wien, 1980, pp. 323 ss.; C.W. Weber, Panem et circenses. La politica dei divertimenti di massa nell’antica Roma, Milano, 1989 (trad. di A. Martini Lichtner dall’originale Panem et circenses, Düsseldorf-Wien, 1983), pp. 11 ss.
[5] In Cornelio Tacito, Annali, vol. III (= Libri XIII – XVI). Testo latino, introduzione, versione e note di A. Resta Barrile, Bologna, 1974 e in Publio Cornelio Tacito, Annali, vol. II (= Libri XI – XVI), trad. di B. Ceva. Testo latino a fronte, 6^ ed., Milano, 1993, questa espressione viene tradotta rispettivamente con le parole “con la petulanza che è propria dei provinciali” (p. 99) e con le parole “con l’insolenza propria dei provinciali” (p. 635); similmente in Annali di Tacito a cura di A. Arici, 2^ ed., Torino, 1969, si legge: “I provinciali, con l’intemperanza loro propria” (p. 781).
[6] Nella grande maggioranza delle traduzioni, ivi comprese le tre citate nella nota precedente, il testo viene interpretato così, cioè nel senso che essi vennero riportati o trasportati nella propria città, ossia a Nocera. Non si può peraltro escludere che Tacito intendesse dire invece che i Nocerini gravemente feriti vennero trasportati a Roma: come sostenuto nell’edizione del 1978 de «Les Belles Lettres», a cura di P. Wuilleumier (Tacite, Annales, Livres XIII – XVI), che riporta la parola “Urbem” con l’iniziale maiuscola (p. 84: “deportati sunt in Vrbem multi e Nucerinis…”), a differenza anche dell’edizione del 1957 della stessa «Les Belles Lettres» a cura di H. Goelzer (Tacite, Annales, Livres XIII – XVI, p. 421) e di quella della Teubner (ed. H. heubner, Tom. I, 1994, p. 318); e che traduce “Aussi transporta-t-on dans la Ville beaucoup de Nucériens…”, chiarendo nella nota 7 che sarebbero stati trasportati a Roma “pour les soins et pour l’enquête judiciarie”.
[7] C.W. Weber, Panem et circenses. La politica dei divertimenti di massa, cit., p. 12, osserva che Roma aveva certamente motivi molti validi per delegare a sé il processo: dall’alto numero delle vittime, alla volontà di spegnere o comunque di non attizzare ulteriormente la rivalità tra Pompei e Nocera, all’intenzione di esercitare un severo controllo e di evitare il ripetersi di simili incidenti in occasione dei combattimenti dei gladiatori.
[8] Sulle attribuzioni giurisdizionali del senato si veda, per tutti, B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, 2^ ed., Milano, 1998, pp. 233 ss.; è noto che l’assemblea dei patres era ormai divenuta all’epoca, insieme al tribunale imperiale, “il più importante organo di cognizione dei crimini politici” (cfr. F. Botta, in Storia giuridica di Roma, a cura di A. Schiavone, Torino, 2016, p. 353). Un breve cenno al procedimento in Arduino Maiuri, La giurisdizione criminale in Tacito. Aspetti letterari e implicazioni politiche, Roma, 2012, p. 185.
[9] N. Tran, Les membres des associations romaines. Le rang social des collegiati en Italie et en Gaules, sous le haut-empire, Roma, 2006, pp. 18 s., accenna rapidamente al passo di Tacito qui esaminato evidenziando che i collegia avrebbero avuto un ruolo importante nell’episodio, cui egli attribuisce anche una valenza verosimilmente politica, “dont la responsabilité incombe à un aristocrate”.
[10] Così viene resa la parola “seditio” nelle traduzioni di A. Resta Barrile (p. 101) e di B. Ceva (p. 635) da me sopra citate; limitandomi alle altre versioni già menzionate, quella a cura di A. Arici la traduce con “massacro” (p. 781), le due edizioni de «Les Belles Lettres» con “sédition”, quella della Teubner con “outbreak” (p. 135). Il termine “seditio”, usato – variamente declinato – 40 volte negli Annales e complessivamente 96 volte nei passi a noi pervenuti delle opere di Tacito (Concordantia Tacitea. A Concordance to Tacitus, a cura di D.R. Blackman e G.G. Betts, II, Hildesheim, 1986, pp. 1622 s.), in generale oltre che “dissenso, divisione” significa spesso “sollevazione, rivolta” riferita soprattutto a fatti politici o militari o, in senso figurato, “agitazione, sconvolgimento, perturbazione, rivolta” (cfr. ad es. L. Castiglioni – S. Mariotti, IL vocabolario della lingua latina, 4^ ed., Torino, 1996 – rist. 2014, s.v. “seditio”); analogamente nell’Oxford Latin Dictionary a cura di P.G.W. Glare, fasc. V, Oxford, 1976, s.v. “seditio”, vengono riportati i significati di “violent political discord” e di “turmoil, discord”.
[11] Sugli Acta Senatus quale fonte primaria cui Tacito spesso attinge: C.W. Mendell, Tacitus. The man and his work, Binghamton, 1957, p. 212.
[12] L. Jacobelli, Gladiatori a Pompei. Protagonisti, Luoghi, Immagini, Roma, 2003, p. 106.
[13] Tac., Ann. 13.31.
[14] Cfr. ad es., sul punto, F. Ruffo, Pompei, Nola, Nuceria: assetti agrari tra la tarda età repubblicana e la prima età imperiale. Documentazione archeologica e questioni di metodo, in «Annali Università degli Studi Suor Orsola Benincasa», 2011-2012, vol. I, pp. 53 ss. e in part. 83, con numerose citazioni bibliografiche.
[15] Sulle ragioni dei contrasti fra Pompeiani e Nocerini si vedano anche Amedeo Maiuri, Pompei e Nocera, in «Rendiconti della Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti», n.s., XXXIII (1958), pp. 35 ss.; E. Savino, Nerone, Pompei e il terremoto del 63 d.C., in Interventi imperiali in campo economico e sociale: da Augusto al Tardoantico, Bari, 2010, p. 240; F. Ruffo, Pompei, cit., p. 106 nt. 103; R.R. Benefiel, Pompeii, Puteoli, and the status of a colonia in the mid-first century AD, in Pompei, Capri e la Penisola Sorrentina. Atti del quinto ciclo di conferenze di geologia, storia e archeologia. Pompei, Anacapri, Scafati, Castellammare di Stabia, ottobre 2002 – aprile 2003, Capri, 2004, pp. 349 ss. e in part. 363.
[16] Lo ricorda egli stesso: ne trattava evidentemente (cfr. Annali di Tacito a cura di A. Arici, cit., p. 780 nt. 2 sub cap. 17) in uno dei libri a noi non pervenuti.
[17] Secondo alcuni studiosi l’effettiva ripresa dei giochi gladiatori nell’anfiteatro si sarebbe avuta entro un diverso arco temporale, che oscilla da pochi mesi a cinque anni secondo le varie ipotesi: cfr. L. Jacobelli, Gladiatori a Pompei, cit., p. 106. Sul contenuto del bando e sulla sua effettiva durata P. Sabbatini Tumolesi, Gladiatorium Paria. Annunci di spettacoli gladiatorii a Pompei, Roma, 1980, pp. 33, 45 e 140; H. Mouritsen, Elections, Magistrates and Municipal Élite: Studies in Pompeian Epigraphy, Roma, 1988, p. 189 nt. 148; H. Mouritsen – I. Gradel, Nero in Pompeian Politics. Edicta Munerum and Imperial Flaminates in Late Pompeii, in «ZPE.», 87 (1991), pp. 152 s. e nt. 25; J.L. Franklin, Jr., Pompeis Difficile Est. Studies in the Political Life of Imperial Pompeii, Ann Arbor, 2001, pp. 123 ss., con richiami ad altra bibliografia alla nt. 75 di p. 123.
[18] Sul punto J.L. Franklin, Jr., Pompeis Difficile Est, cit., p. 119 e nt. 65.
[19] «CIL.» 4.3525, 4.528, 4.670, 4.1612.
[20] «CIL.» 4.671a-b.
[21] «CIL.» 4.820a.
[22] «CIL.» 4.1074.
[23] «CIL.» 4.3726. Tale iscrizione e quella indicata nella nota precedente, proprio in quanto menzionano l’Augusta Poppea, sono databili tra il 63 e il 65 d.C.
[24] J.L. Franklin, Jr., Pompeis Difficile Est, cit., pp. 121 ss.; H. Mouritsen – I. Gradel, Nero in Pompeian Politics, cit., pp. 145 ss. e in part. 152 s.; R.R. Benefiel, Pompeii, Puteoli, and the status of a colonia, cit., p. 360; E. Savino, Nerone, Pompei e il terremoto del 63, cit., pp. 235 ss., con indicazioni bibliografiche alle ntt. 56 e 58 di p. 236.
[25] Il quale fra l’altro nei primi mesi dell’anno 64 visitò Pompei (peraltro E. Savino, cit., pp. 225 ss., ipotizza che la visita di Nerone a Pompei fosse avvenuta invece tra la fine di gennaio e il febbraio del 63 e sostiene essersi verificato proprio in quell’anno il catastrofico terremoto che la gran parte della dottrina data usualmente al 62).
[26] «CIL.» 6.4416.
[27] Cfr. per tutti F.M. de Robertis, “Collegium”, in «NNDI.», III, Torino, 1959, pp. 484 ss. e più in generale sui collegia Id., Storia delle corporazioni e del regime associativo nel mondo romano, I e II, Bari, 1971 e Il fenomeno associativo nel mondo romano. Dai Collegi della Repubblica alle Corporazioni del Basso Impero, Roma, 1981. Sulle fonti e per una rapida sintesi delle problematiche relative alla lex Iulia del collegiis si veda R. Laurendi, Riflessioni sul fenomeno associativo in diritto romano. I collegia iuuenum tra documentazione epigrafica e giurisprudenza: Callistrato de cognitionibus D. 48.19.28.3, in «AUPA.», LIX (2016), pp. 269 s. e ntt. 31, 32 e 33. Un quadro riassuntivo della normativa romana in tema di associazioni sino all’età di Adriano, con vari riferimenti bibliografici, è tratteggiato da R. Mentxaka, Lex Rivi Hiberiensis, derecho de asociación y gobernador provincial, in «RIDROM», II (2009), pp. 11 ss.
[28] “Solent quidam, qui volgo se iuvenes appellant, in quibusdam civitatibus turbulentis se adclamationibus popolarium accommodare. qui si amplius nihil admiserint nec ante sint a praeside admoniti, fustibus caesi dimittuntur aut etiam spectaculis eis interdicitur. quod si ita correcti in eisdem deprehendantur, exilio puniendi sunt, nonnumquam capite plectendi, scilicet cum saepius seditiose et turbulente se gesserint et aliquotiens adprehensi tractati clementius in eadem temeritate propositi perseveraverint”.
[29] M. Della Corte, Iuventus. Un nuovo aspetto della vita pubblica di Pompei finora inesplorato, studiato e ricostruito sulla scorta dei relativi documenti epigrafici, demografici, artistici e religiosi, Arpino, 1924, p. 38 e passim. Cfr. anche E. Ziebarth, s.v. Iuvenes, in «PWRE.», suppl. VII (1940), p. 316, W. Liebenam, Zur Geschichte und Organization des römischen Vereinswesens, Leipzig, 1890, rist. Aalen, 1964, p. 35, W.O. Moeller, The Riot of A.D. 59 at Pompeii, cit., pp. 84 ss. e J. Gebhardt, Prügelstrafe und Züchtigungsrecht im antiken Rom und in der Gegenwart, Köln-Weimar-Wien, 1994, pp. 20 ss.
[30] M. Vanzetti, «Iuvenes» turbolenti, in «Labeo», XX (1974), pp. 77 ss. e in part. 81 s.
[31] S. Randazzo, «Collegia iuvenum». Osservazioni in margine a D. 48.19.28.3, in «SDHI.», LXVI (2000), pp. 201 ss.
[32] S. Randazzo, «Collegia iuvenum», cit., pp. 210 s.; alla nt. 46 di p. 211 lo stesso Autore fa cenno a due testimonianze epigrafiche che potrebbero dimostrare non essere quello di Pompei un caso isolato. Sul brano di Callistrato si vedano anche M. Corbier, Iuuenis, iuuenes, iuuentus, in «Iuris Antiqui Historia», 4 (2012), p. 15 ss. e R. Laurendi, Riflessioni sul fenomeno associativo in diritto romano, cit., pp. 261 ss., con ampia bibliografia, nonché alcune considerazioni (in parte riprese in queste pagine) di M. De Bernardi, La strage di Tessalonica e la violenza a margine delle corse dei carri nell’Impero romano del IV secolo, in «Antologia giuridica romanistica ed antiquaria», II, a cura di L. Gagliardi, Milano, 2018, pp. 231 ss.
[33] Congettura avanzata appunto da M. Della Corte, Iuventus, cit., pp. 36 ss.
[34] Ipotesi, questa, avanzata da L. Richardson Jr., Pompeii: The Casa dei Dioscuri and its Painters, in «Memoirs of the American Academy in Rome», 23 (1955), pp. 88 ss.: tale associazione non autorizzata di iuvenes avrebbe avuto nella sua ricostruzione la denominazione di Campani.
[35] In questo senso anche W.O. Moeller, The Riot of A.D. 59, cit., pp. 89 ss., il quale richiama i “collegia of gladiatorial fans” la cui esistenza sarebbe attestata quantomeno in un’altra parte dell’Impero, e precisamente a Efeso; e ipotizza che il gruppo di appassionati pompeiani avesse la denominazione di Campani per distinguerli dai tradizionali rivali nocerini, provenienti dalle colline.
[36] Sarebbe interessante, ma non me ne occupo in questo scritto, chiedersi entro quali limiti quei collegia di sostenitori possano costituire una sorta di “antenati” dei club di tifosi delle squadre, calcistiche e non, di oggi. Gli iuvenes turbolenti di cui al passo di Callistrato, che come dicevo non risultano però avere a che fare con i collegia protagonisti nell’anno 59 della rissa nell’anfiteatro, vengono accostati da P. Ginestet, Les organisations de la jeunesse dans l’Occident romain, Bruxelles, 1991, p. 187 ai giovani che ai giorni nostri “se groupent pour manifester dans les tribunes des stades de football”; E. Franciosi, Athletae, agitatores, venatores. Aspetti del fenomeno sportivo nella legislazione postclassica e giustinianea, Torino, 2012, pp. 113 s., affermando che nei primi tre secoli dell’Impero il termine iuvenes indicava gruppi organizzati in associazioni dedicate all’atletica o ad altri sport, osserva che assai probabilmente in progresso di tempo tali associazioni, dapprima riservate ai praticanti, si sarebbero trasformate in club di sostenitori, punto di partenza per organizzare le tifoserie dei vari colori, indipendentemente dall’estrazione dei singoli individui.
[37] Secondo l’ipotesi ricostruttiva di W.O. Moeller, The Riot of A.D. 59, cit., in part. p. 91 e p. 94, quel gladiatorium spectaculum sarebbe consistito in un incontro non tra “professional gladiators”, bensì tra collegia iuvenum di Pompei e di Nocera e la rissa sarebbe scoppiata tra i collegia dei rispettivi sostenitori, a differenza dei primi costituiti illegalmente e da persone non certo di alto rango sociale. Inoltre, le sanzioni adottate a seguito della rissa avrebbero avuto una portata assai più limitata e circoscritta di quanto usualmente si ritiene: in particolare, sarebbe stato sciolto il collegio illecito dei Campani, sostenitori degli Iuvenes Venerii Pompeiani e primi responsabili della rissa, e a Pompei sarebbero stati proibiti per dieci anni non tutti gli spettacoli gladiatori, ma solo gli incontri pubblici tra collegia iuvenum. Ma da un lato nel passo di Tacito, come già evidenziato, il termine iuvenes non compare nemmeno; dall’altro lo storico afferma che furono sciolti i collegia, al plurale, costituiti contra leges, sicché non credo possibile sostenere che fosse stato sciolto il solo collegium dei Campani come pare ritenere Moeller, e a quanto risulta (si veda P. Sabbatini Tumolesi, Gladiatorium Paria, cit., p. 33) almeno per alcuni anni dopo quella rissa nell’anfiteatro di Pompei i combattimenti gladiatorii, prima assai frequenti, non si svolsero affatto.
[38] Ancora W.O. Moeller, The Riot of A.D. 59, cit., p. 90, osserva che già dalla tarda età repubblicana sia le fazioni del circo, sia i fautores del teatro “were deeply involved in politics”, sicché non vi sarebbe alcuna ragione per dubitare che, analogamente, tra gli appassionati che gravitavano attorno alle arene gli spettacoli gladiatorii potessero diventare occasione per dare sfogo a campanilismi ed ostilità.
[39] Sul sito web del museo, all’indirizzo https://www.museoarcheologiconapoli.it/it/sale-e-sezioni-espositive/affreschi-2/, è possibile visualizzare l’affresco, che faceva parte di un fregio con combattimenti tra gladiatori e riproduce con immediatezza espressiva la rissa, ormai dilagata anche all’esterno dell’anfiteatro, nonché leggerne una breve descrizione. Su detto affresco: V. Huet, La représentation de la rixe de l’amphithéâtre de Pompéi: une préfiguration de l’«hooliganisme»?, in «Histoire urbaine», 10 (2004/2), pp. 89 ss., con bibliografia.
[40] «CIL.» 4.1293. Si sono occupati di tale iscrizione, tra gli altri, E. Magaldi, I ‘judicia Augusti’ e la rissa nell’anfiteatro, in «Rivista di Studi pompeiani», II.I (1936), pp. 82 ss. e in part. 87, che individuò allusioni alla rissa anche in ulteriori brevi iscrizioni perlopiù dipinte; I. Sgobbo, Un complesso di edifici sannitici ed i quartieri di Pompei per la prima volta riconosciuti, in «Memorie della Reale Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli», 6 (1942), pp. 15 ss.; nonché appunto L. Richardson Jr., op. e loc. cit. e W.O. Moeller, The Riot of A.D. 59, cit., pp. 88 ss.
[41] Su di lui, ricco ed influente cittadino che si meritò anche l’appellativo di princeps munerariorum, si vedano in particolare A.W. Van Buren, Cnaeus Alleius Nigidius Maius Pompeianus, in «American Journal of Philology», 68 (1947), pp. 382 ss.; W.O. Moeller, Gnaeus Alleius Nigidius Maius, Princeps Coloniae, in «Latomus», XXXII (1973), pp. 515 ss.; P. Sabbatini Tumolesi, Gladiatorium Paria, cit., pp. 32 ss., con altri riferimenti bibliografici a p. 34; M. Fora, I munera gladiatoria in Italia. Considerazioni sulla loro documentazione epigrafica, Napoli, 1996, pp. 24 e nt. 33, 38 e nt. 111; J.L. Franklin, Jr., Cn. Alleius Nigidius Maius and the Amphiteatre:“Munera“ and a Distinguished Career at Ancient Pompeii, in «Historia», 46 (1997), pp. 434 ss.
[42] Svet., Aug. 42.3 e Dio 55.26.1.
[43] Tab. Iuc., 143 e Tab. Iuc., 144, riportate nel Suppl. 1 del quarto volume del Corpus Inscriptionum Latinarum: «CIL.» 4.3340, pp. 389 ss. Si veda J. Andreau, Les affaires de Monsieur Jucundus, Roma, 1974, pp. 54 ss. e 333 s.
[44] Cfr. ad es. E. Magaldi, I ‘iudicia Augusti’, cit., p. 84, e in tempi più recenti lo stesso J. Andreau, Les affaires, cit., p. 56 nt. 1 e P. Sabbatini Tumolesi, Gladiatorium Paria, cit., pp. 32 s.
[45] Ipotesi, questa, già prospettata in dottrina: J.L. Franklin, Jr., Pompeis Difficile Est, cit., pp. 132 s. e 197.
[46] Cfr. le notizie giornalistiche accessibili via internet, in particolare agli indirizzi https://www.madeinpompei.it/2018/04/12/attesa-per-la-conferenza-di-osanna-che-svelera-i-segreti-della-tomba-di-gneus-alleius-nigidius-maius/, https://www.madeinpompei.it/2018/06/27/scavi-lannuncio-del-direttore-osanna-presto-apriremo-al-pubblico-la-necropoli-di-porta-stabia/ e http://pompeiisites.org/press-kit/rebus-dalla-storia/.
[47] Cfr. Thesaurus Linguae Latinae, vol. VI, I, F, Lipsiae, 1912-1922, s.v. “familia”.
[48] F. Gaffiot, Dizionario illustrato latino-italiano, ed. it. a cura di I. Pin – I. Pinto – C. Sorge, Padova, 1973, s.v. “familia”.
[49] Nella predetta voce del Thesaurus Linguae Latinae indicata sub B2, “de corpore gladiatorum” (col. 232).
[50] Su tale espressione, anche comparata a quella – analoga – di paria gladiatorum, P. Sabbatini Tumolesi, Gladiatorium Paria, cit., p. 140.
[51] Una parziale eccezione laddove (cfr. «CIL.» 4.7994) viene citata una “familia Capiniana”: che P. Sabbatini Tumolesi, Gladiatorium Paria, cit., pp. 102 s. traduce come “compagnia «Capiniana»”, forse da un Capinius il quale potrebbe avere fornito ai suoi concittadini di Pozzuoli una compagnia gladiatoria stabile che avrebbe in seguito mantenuto e addestrato a sue spese, ottenendone “l’onore di legare in perpetuo il suo nome alla familia Capiniana di Pozzuoli”.
[52] Del resto più in generale, nei giudizi avanti al tribunale senatorio, l’imperatore, considerate da un lato la sua posizione di princeps senatus e dall’altro la sua possibilità di intervenire anche dall’esterno sulla cognitio senatus in forza della propria tribunicia potestas, spesso indirizzava la decisione dell’assemblea e comunque poteva sempre impedire la receptio dell’accusa o la pronuncia della sentenza, nonché avocare a sé il giudizio o assumere un provvedimento di clemenza: cfr. F. Botta, in Storia giuridica di Roma, cit., pp. 353 s., B. Santalucia, Studi di diritto penale romano, Roma, 1994, p. 220 e Id., La giustizia penale in Roma antica, Bologna, 2013, pp. 102 ss.
[53] Considerazioni, anche queste ultime, espresse già da C. Masi Doria nel suo citato intervento.
[54] Caes., de bello gall. 7.59.3: “…incolumem exercitum Agendicum reduceret…”.
[55] Liv. 28.5.15.3: “…Scotussam copias reducit”.
[56] Cic., pro Sest. 26.56: “…reducti exsules Byzantium …”.
[57] Al § 1.
[58] Si veda L. Jacobelli, Gladiatori a Pompei, cit., pp. 43 e 106.
[59] A. Baldi, Un graffito pompeiano inedito, in «Latomus», XXVI (1967), pp. 480 ss., e sulla sua scia W.O. Moeller, Gnaeus Alleius Nigidius Maius, cit., pp. 516 ss. e H. Galsterer, Politik im römischen Städten, cit., pp. 333 ss., argomentando da un graffito che sembra accostare alla sua figura un Regulus, hanno ipotizzato un legame di Nigidius Maius con il Livineio Regolo menzionato in Tac., Ann. 14.17 e che egli potesse avere avuto qualche responsabilità nella rissa: sul punto si veda inoltre P. Sabbatini Tumolesi, Gladiatorium Paria, cit., pp. 32 s., secondo la quale peraltro le sue eventuali responsabilità sarebbero state limitate o quantomeno ben celate e tali da non comportare alcuna sanzione nei suoi confronti. Ma, come evidenziato da H. Mouritsen, Elections, Magistrates and Municipal Élite, cit., p. 189 nt. 147, quell’iscrizione è per la maggior parte illeggibile e dal significato tutt’altro che chiaro, il Regulus che vi compare potrebbe non essere affatto Livineio e il nome di Nigidio Maio parrebbe riportato in essa soltanto per datarla, insieme al nome dell’altro duoviro quinquennale in carica al momento: cfr. anche H. Solin, Pompeiana, in «Epigraphica», XXX (1968), pp. 122 s., P. Castrén, Ordo Populusque Pompeianus: Polity and Society in Roman Pompeii, in «Acta Instituti Romani Finlandiae» , Roma, 1975, pp. 172 s. e J.L. Franklin, Jr., Cn. Alleius Nigidius Maius, cit., pp. 438 ss. Concordo con la conclusione che tale ultimo Autore ne trae (pp. 439 s.): “Yet with the correct reading of this graffito, the supposed alliance of Maius and Regulus – as well as Maius’s putative connection with the riot – disappears”. Alleio Nigidio Maio comunque non subì alcun provvedimento punitivo, dato che anche dopo quell’evento (L. Jacobelli, Gladiatori a Pompei, cit., p. 44) è protagonista della vita sociale e politica di Pompei.
[60] Sebbene per la verità Cn. Pompeius Grosphus e Cn. Pompeius Grosphus Gavianus, spesso nominati insieme, siano detti “duo Grosphi” (non “Pompeii”) in Tab. Iuc., 143 («CIL.» 4.3340, a p. 391 del citato Suppl. 1). “Grosphos” sembrerebbe leggersi anche in «CIL.» 4.1178 (P. Sabbatini Tumolesi, Gladiatorium Paria, cit., p. 41), però quella parte dell’iscrizione non è affatto chiara e, come evidenzia il commento a p. 71, forse nel testo esisteva un punto prima della “s” e vi era scritto invece “Grospho. s[alutem]”; non escludo che l’epigrafe funeraria recentemente rinvenuta ne possa suggerire una nuova interpretazione, con riferimento al rapporto fra Alleio Nigidio Maio e i due magistrati.
[61] Rilevando che “era assolutamente vietato portare armi in luoghi pubblici”, L. Jacobelli, Gladiatori a Pompei, cit., p. 106, ne deduce che “verosimilmente l’attacco fu premeditato”.
[62] W.O. Moeller, The Riot of A.D. 59, cit., p. 95.
[63] Osservo che nell’età imperiale, in diversi momenti storici, letterati di varia estrazione ebbero a rilevare con sconcerto l’abnormità e la mancanza di adeguate giustificazioni della violenza che talora si scatenava in occasione di manifestazioni sportive e a stigmatizzarle: ad esempio Dione Crisostomo, orat. 32.41-43 ss., racconta (seconda metà del I sec. d.C.) che gli Alessandrini, pazzi per le corse, diventavano incontrollabili dentro l’ippodromo e ancor più fuori, tanto che scatenavano risse e provocavano incendi e distruzioni per più giorni prima di riacquistare l’uso della ragione; Plinio il Giovane, in epist. 9.6, descrive con sconcerto la passione dei romani per i giochi circensi, che gli appare incomprensibile; l’apologeta cristiano Tertulliano, negli ultimi anni del II sec. d.C., riferisce, in de spect. 16, dell’atmosfera di ingiustificato odio e di pazzia che si respirava al circo, raccomandando ai cristiani di starne lontani; lo storico pagano Ammiano Marcellino, raccontando in r. gest. 15.7.2 che nell’anno 355 la plebs di Roma insorse in difesa dell’auriga Filoromo come se fosse stato un proprio figlio attaccando con terribile violenza Leonzio, il praefectus urbi che aveva avuto l’ardire di arrestarlo, definisce ”vilissima … et levis”, cioè del tutto trascurabile e futile, la causa per la quale scoppiò la ribellione (si veda E. Franciosi, Athletae, agitatores, venatores, cit., pp. 126 s.). E ancora nel sesto secolo lo storico Procopio, in Pers. 1.24.3 ss., condanna con pesanti parole la futilità dei motivi per i quali le fazioni degli Azzurri e dei Verdi si scontravano giungendo addirittura a rischiare la vita: cfr. M. De Bernardi, Atti di violenza, cit., pp. 5 s. e 11 e Id., La strage di Tessalonica, cit., pp. 234 ss.
[64] Sempre al convegno “Studium erga populum. Studium erga sapientiam” M. Iadanza, il 13 luglio 2018 a Pompei, nella relazione “L’Area dell’Anfiteatro tra archeologia ed iconografia” (da lei predisposta con T. Virtuoso), sottolineando la cura posta dall’artista nella riproduzione della scena, ha riferito che la recente scoperta archeologica e i relativi studi hanno condotto a confermare che all’epoca della rissa davanti all’anfiteatro, tra la cavea e la palestra grande, sorgeva davvero anche quel piccolo edificio a pianta rettangolare che figura nell’affresco e sulla cui esistenza non si avevano in precedenza riscontri precisi.
[65] Sostenuta in particolare da W.O. Moeller, The Riot of A.D. 59, cit., pp. 84 ss. e da H. Galsterer, Politik im römischen Städten, cit., pp. 323 ss.
[66] M. De Bernardi, Atti di violenza, cit., pp. 2 e 10 ss.