nel “Pensare” di Vittorio Frosini, ovvero il diritto come Forma
Di Roberta Travia
“Il diritto non è la norma che dorme nel codice,
ma la legge a cui si pone mano che così cessa
di essere generale e diventa azione individuale”
- Croce, Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, p. 41
“Il diritto consiste in una alienazione dell’azione dal soggetto agente, in una sua obbiettivazione od estraneazione di fronte alla volontà individuale, che è per suo proprio istinto volubile, particolare, perché mutevole secondo la necessità, le opportunità, le emozioni. Il diritto costituisce una logica delle azioni umane, l’insieme delle forme, che conferiscono una sua struttura all’agire sociale”[1].
Questa affermazione di Vittorio Frosini, è l’avvio per questo studio, che attraverso l’analisi della sua opera “la struttura del diritto”, si domanda se e in che misura il concetto di struttura possa contribuire ad una corretta concezione del diritto.
E’ forse possibile comprendere e cogliere la sostanza del diritto partendo dalla forma?
Sicuramente attraverso l’utilizzo del concetto di struttura è possibile staccarsi dal positivismo normativistico mettendo in evidenza le relazioni variabili, ma al contempo inscindibili, che legano la norma ad altri elementi istitutivi dell’esperienza sociale.
Va comunque osservato che, al contrario del formalismo, lo strutturalismo rifiuta di opporre il concreto all’ astratto ed altresì rifiuta di accordare, a quest’ultimo, una posizione di privilegio. La forma si definisce per opposizione a una materia che le è estranea, ma la struttura non ha contenuto distinto: essa è il contenuto stesso, colto in una organizzazione logica concepita come proprietà del reale. Per cui ha ragione Frosini a sostenere che “il concetto di struttura rappresenta un prezioso strumento di orientazione e di interpretazione che si contrappone a quello di forma, intesa come esterna all’azione, vuota di contenuto, identificata nella parola della norma”. Ha ragione, a mio avviso, nella misura in cui affermando che il diritto è struttura Frosini vuole sottolineare che il significato della norma giuridica non può mai scindersi dal suo contenuto che è la prassi, l’insieme delle azioni dei soggetti che rintracciano nelle norme una regolare tipizzazione.
Ed è appunto l’impiego del concetto di struttura il più idoneo a mettere in risalto la connessione giuridica interdipendente tra la norma, i valori del singolo ordinamento e la prassi. La struttura ha in sé sottesi, oltre ai predetti elementi la c.d. relazione di funzionalità che va a formare un sistema che si sostituisce interamente alla relazione di causa ed effetto e che attraverso la continua modificazione dei suoi fondamenti intrinseci va inevitabilmente a modificarne i restanti.
Frosini, allontanandosi dalla prospettiva formalistica[2] crea una visione del diritto come “morfologia della prassi”[3], ovvero come “complesso di strutture in cui si attua l’alienazione dell’azione dalla volontà dell’agente”[4]. Tale frase esprime il passaggio da una concezione formalistica dell’esperienza giuridica ad una concezione naturalistica fondata sulla effettualità della prassi.
Il diritto è “azione obbiettivata”, e pertanto da considerarsi -per sua stessa natura- azione anonima, trasmissibile, identificabile e perciò è l’unica categoria cui doversi ricondurre ogni singola azione. Tornano, ancora una volta, le parole di Frosini: “Il diritto non è dunque mera praticità; esso è, sì, azione, ma azione che si è data una struttura, che ha cioè ricevuto un’espressione o definizione pratica: questo comportamento è giuridico (…), in quanto esso è conforme ad una forma originaria (…), ad una struttura; vale a dire, l’azione giuridica perché in essa si riflette una forma agendi, perché essa è modellata, configurata, (…) da quell’azione (…) regolata e sancita dal diritto[5].
Il diritto è una realtà di fatto, la realtà delle azioni umane e delle relazioni tra tali azioni. L’ordinamento è composto di elementi reali: i soggetti che agiscono o patiscono nella dialettica dei diritti e dei doveri, i fatti che si verificano, le norme che simboleggiano i comportamenti e un complesso di valori.
In questa prospettiva, scrive Vittorio Frosini, “un ordinamento giuridico non è un’ entità chiusa ed ordinata, ma è un procedimento di continua ricomposizione dei rapporti fra gli ordini di cui consiste in composizione di precario equilibrio[6]”.
Frosini si servì del concetto di struttura per arrivare a descrivere -e comprendere- il diritto non in maniera statica, quindi facendo esclusivo riferimento al dato normativo, ma considerandolo continuamente determinato da un rapporto che l’ordinamento giuridico, necessariamente e costantemente, intrattiene con il corso degli eventi e con l’evoluzione sociale nel quale viene ad inserirsi.
Il senso di qualsivoglia ordinamento è dunque quello di ricreare un ambiente di interazione non statica bensì di apertura e confronto, il cui fine è quello di essere sempre allineato alla sua origine, pur trasformandosi necessariamente in nuove forme.
Ed invero il concetto di “ordinamento giuridico” può essere, a mio avviso, immaginato come quell’ammortizzatore posto tra il concetto di oggettività del reale ed il concetto di soggettività riferibile alla persona.
La definizione morfologica[7] vuole quindi annunciare una visione metodologica che si evolve attraverso l’esplorazione di un processo sempre in moto che conduce ad una incessante spiegazione dei comportamenti e dei loro paradigmi normativi attraverso la loro scambievole ascendenza.
Prendendo abbrivio da considerazioni di carattere generale circa la struttura del diritto, e della sua necessaria e successiva enucleazione dal punto di vista “morfologico”, inteso quest’ultimo come “forma interna all’azione stessa” [8]è possibile affermare che l’intuizione di Frosini, seppur azzardata, rileva il tentativo di comprendere non ciò che il diritto “ha”, nel suo insieme di norme, bensì ciò che il diritto “è” nella realtà delle umane azioni.
In questa direzione Frosini rappresenta il diritto come contenuto inscindibile dell’azione.
L’azione, nella sua fisionomia, ruota intorno a due fulcri: il soggetto come bersaglio dell’azione e la struttura quale “forma interna all’azione stessa”.
L’interazione di questi due oggetti ci spinge verso un esito non scontato e cioè che la razionalità del diritto trova la sua genesi, non già in un sistema etero imposto, bensì, per sua stessa natura, trova origine nell’individualità delle azioni compiute dal soggetto. Il concetto stesso di “razionalità” viene dunque veicolato dal soggetto, libero da ogni ordine imposto[9].
Il giurista, pertanto, è posto di fronte ad una razionalità del diritto[10], ad una giuridicità concreta, ma non ancora codificata. In altri termini, nello studioso, la visione della struttura del diritto si dovrà tradurre nell’assunzione di un atteggiamento costante, di una coscienza che si trasforma da giuridica a nomologica, antecedente e capace di informare di sé ogni successivo lavoro.
A riguardo Frosini richiama magistralmente la distinzione espressa da Kant fra quid juris e quid jus e considera queste due posizioni metodologiche connotate da una diametrale diversità ermeneutica ma conservanti vicendevolmente una reciproca integrazione.
Alla luce di ciò per poter comprendere la domanda sul quid ius e quid iuris non è possibile prescindere dalla figura del giurista che deve essere visto, appunto, non più come figura sociale ma come coscienza problematica o nomologica.
Non dobbiamo pertanto considerare questi “quid” come due diversi obbiettivi d’indagine in quanto la distinzione è mera (…) convenzione. (…) in verità però non potrebbe mai darsi una risposta alla domanda quid iuris se non si presupponesse già data quella al quid ius, se cioè l’interprete (…) non facesse esplicito riferimento alla sua intera sfera di realtà [11].
L’attenzione del giurista, pertanto, deve virare dall’esperienza immediata del diritto, alla realtà delle situazioni giuridiche e all’effettività dei comportamenti individuali che vengono posti come “criterio di lavoro adottato, coscienza critica dunque, al pari della più avanzata coscienza generale scientifica.”[12] .
In questa direzione, osserva Cananzi,[13](…) se il giurista (…) ha da espletare il solo controllo formale della validità procedurale, anche il diritto ha semplicemente la funzione immunitaria di espletamento delle procedure. In questi termini “il diritto nasce dal fatto e non dall’idea”[14].
Le intuizioni di Frosini, come è noto del resto, furono discusse, apprezzate e riprese da innumerevoli studiosi, tra i quali, con particolare riferimento a questo ambito d’indagine, va ricordato il filosofo del diritto Giuseppe Capograssi, al quale è da riconoscersi il merito di “una originale e profonda introspezione del mondo dell’esperienza giuridica, condotta avvalendosi dell’intuizione Goethiana delle forme o strutture dell’azione”[15], ed invero, la sua concezione del diritto “come forma interna all’azione stessa, come sua struttura[16]”, introduce l’importanza che il termine “struttura” acquista nel modo di pensare della cultura giuridica tradizionale[17], intesa pertanto come “unità profonda di una forma vivente” nonché “forma organica di un organismo”[18].
In quest’ottica antikelseniana ed antiformalista perseguita dall’analisi di Frosini, emerge un principio di trasformazione ascrivibile, non già, alle vetuste forme giuridiche come elementi di conoscenza intellettualistica, bensì alla designazione del termine “struttura” quale “forma immedesimata alla realtà che si considera”.
Emerge pertanto, in Frosini, il concetto di “morfologia dell’azione”, ovvero “l’insieme delle forme o delle strutture che l’azione umana si è data, in cui essa si è definita e disciplinata” , secondo la “logica propria dell’esperienza giuridica, che è vivente in quanto nasce e procede con la vita che è azione”. Venendosi dunque a rifondare il concetto stesso di formalismo giuridico, quale metodo di applicazione ed interpretazione del diritto che si impone quale “forma” non già vuota ma immediatamente solubile nella realtà che oramai è da considerarsi interna alla materia stessa.
Orbene nell’indagare da ultimo i rapporti tra diritto e linguaggio[19], Frosini osserva come la legge appartenga al linguaggio operativo connesso all’azione, la quale non è soltanto oggetto di conoscenza, ma anche strumento di conoscenza giuridica della realtà sociale per la valutazione da compiersi dei fatti nei termini legali[20]. Della legge è necessaria la conoscenza da parte dei suoi destinatari, in quanto, essa stessa, altro non è che una manifestazione meramente simbolica trasposta in forma scritta, giustappunto per meglio essere conosciuta dai consociati.
Posto dunque il carattere pratico intrinseco alla legge stessa, quest’ultima, non è però dotata di autosufficienza linguistica ma è dotata di mera indicatività circa i comportamenti e le azioni da compiere o non compiere; il linguaggio[21] è senza dubbio riferito ad una struttura di parole/azioni, legate a doppio filo verso quelli che saranno i comportamenti, in quanto, la legge ha carattere pratico. Rileva Cananzi (…) come proprio per questa struttura, proprio per questa testualità il diritto abbia una consistenza artificiale, sia un prodotto artificiale. (…) prodotto artificiale (…) in quanto prodotto che non esiste in natura (…) Prodotto artificiale qui lo intendo svolgendo la formatività giuridica sotto l’aspetto della capacità costitutiva.
Ed infatti gli orizzonti operazionali riguardanti il concetto di struttura, appena dischiusi, pongono una costante dialettica tra formatività e costitutività. Costitutività perché, come ha ampiamente dimostrato Carcaterra, le norme hanno una “forza costitutiva” nel senso che costituiscono, performano, qualche cosa e la sua realtà[22]. La norma è dunque costitutiva di uno stato di cose nella realtà giuridica ed il soggetto della relazione di costituzione -la norma costitutiva- “costituisce” in quanto è esso stesso, prima di ogni altra cosa un atto.
Ed invero il fenomeno della costitutività, intesa come “forma dell’azione”-per come intuito da Frosini- viene ripreso, a più battute, da Carcaterra che puntualizza come, quest’ultima, non sia da considerarsi in una accezione meramente esecutiva.
A tal proposito concentrando “l’attenzione sull’aspetto imperativo della norma, si potrebbe essere indotti a concepire unilateralmente il diritto come mero limite all’azione umana, oscurando ciò che lo stesso senso comune avverte, ossia il fatto che dell’ azione umana il diritto rappresenta altresì un potenziamento: se da un lato esso riduce, attraverso comandi e divieti, le nostre scelte, dall’altro produce nuove dimensioni di vita e moltiplica perciò le nostre possibilità operative.
Tutto ciò -dice Cotta- può riassumersi nella semplice affermazione che il diritto ha anche carattere formativo; è, secondo l’espressione di Frosini, “forma dell’azione”: come la scienza naturale, descrivendo la “forma” degli esseri viventi (…) ci dà la misura dei loro limiti e delle loro capacità, “così pure il diritto, con le sue norme, rapporti e istituzioni, stabilisce –in modo questa volta non più descrittivo ma prescrittivo, costitutivo, – la “forma” giuridica dell’ uomo e delle sue azioni”. (…) Qui la costitutività è presentata insieme alla forza prescrittiva del diritto, ma è anche spiegata nel suo senso; la forma che il diritto imprime costitutivamente all’esperienza è quella, secondo Cotta, di cui parlava anche S. Tommaso sulla scorta di Aristotele: “forma dat esse rei”, “la forma è ciò che fa essere un essere quello che è”, egli afferma, “è ciò che individua i singoli enti e con ciò ne determina le modalità e le capacità”. Il senso di tutto il suo discorso è perciò proprio questo: il diritto non soltanto prescrive comportamenti, ma forma anche, è appunto “costitutivo”, (…) di modi di essere, proprietà, relazioni degli enti giuridici[23].
Proprio muovendo dalle espressioni di Frosini, Carcaterra rileva che “definire il diritto come “forma agendi” significa proprio sottolineare che la norma non è (…) soltanto imperativa quanto costitutiva rispetto all’azione. La teoria di Frosini non ripudia, (…) l’idea della norma (…) ma quella che respinge è piuttosto l’idea “della trascendenza della norma sull’azione”.
Accade dunque che determinati comportamenti, essendo dotati di “ forma giuridica” comprensiva di un sistema che abbraccia innumerevoli norme, diventino precursori di effetti. Detto modo di interpretare la costitutività apre, dunque, nuovi filoni interpretativi che tendono a creare nuove “dimensioni di vita” prima del tutto inesistenti e che vanno ad implementare quello che è il nostro ambito operativo. In questo senso Carcaterra, nello spirito di Frosini, insiste particolarmente sul fatto che le norme costitutive attribuiscano significato alle azioni, ed è proprio questo il presupposto dal quale si dipana la loro intrinseca capacità di apertura verso nuovi ambiti e possibilità di azione.
Le norme, in questa accezione, rendono significante l’azione appunto perché le attribuiscono una determinata condotta abbinata ad una fattispecie comportamentale e non sono dunque “costitutive”, per come erroneamente si potrebbe pensare, perché traccerebbero icto oculi gli stati di cose, le azioni ed i comportamenti sulle quali poggiano.
In questo senso, sottolinea Frosini (…) il diritto è una realtà di fatto, ossia una realtà pratica, di cui la norma non è che simbolo tecnico; essa consente infatti l’identificazione ed il collegamento di un’azione fra le azioni, (…) il diritto è una disciplina delle azioni fondata sul rispetto delle sue forme, e cioè sul dovere[24] .
In conclusione il punto su cui poggia l’evoluzione degli assunti sulla Struttura Del Diritto converge verso una nuova sintesi concettuale, per come teorizzato da Frosini, che attiene all’ interpretazione della legge, appannaggio di qualsivoglia soggetto che entri attivamente nel processo di creazione e di messa in opera del diritto stesso.
La questione, circa l’interpretazione della legge, consiste senz’altro nel modo con il quale l’interprete utilizza la propria coscienza, in particolar modo la coscienza sociale che altro non è che il prodotto dell’ambiente nel quale egli ha modo di rapportarsi; non è infatti casuale che, per i soggetti, il comune universo di valori sia un requisito irrinunciabile per il raggiungimento di un’ermeneutica giuridica slegata dagli eccessi tecnici della giurisprudenza.
L’interpretazione appare dunque, a parer mio, come quel momento nel quale l’interprete lubrifica la complessa struttura di una prassi palesemente “inceppata” dall’azione.
Arrivata fin qui capisco bene che il discorso appena concluso non rappresenta un punto di arrivo ma, piuttosto, un punto di partenza, verso una più giusta interpretazione delle norme nella di loro pienamente acclarata “non finitudine”; Mi auguro infine che, tale contributo, possa essere utile a comprendere appieno il raffinato sforzo intellettuale affrontato da Frosini; sforzo che lo ha spinto a tracciare il sentiero verso la somma consapevolezza della complessità del giuridico.
[1] V. Frosini, La struttura del diritto, Milano, 1971, p.5.
[2] Bisogna naturalmente precisare che l’autore è animato da una forte avversione al formalismo giuridico, ed il suo scritto raccoglie l’eredità della dialettica gentiliana di volente e voluto, ripensandola, in rapporto al diritto, attraverso il filtro dell’esperienza giuridica capograssiana e del tardo istituzionalismo romaniano.
[3] Lucide ed insuperabili rimangono le osservazioni sul punto operate dalla concezione romaniana del diritto come forza organizzatrice, principio strutturale del corpo sociale e di ogni istituzione, tracciata in S. Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1967, pp. 43-52, e raffinata in S. Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, e utilizzata da Frosini come prototipo del superamento della distinzione tra “materia” e “forma” che avvia dunque il concetto di “ morfologia della prassi”.
[4] Ivi, p. 17.
[5] Ivi, p. 33.
[6] V. Frosini “Ordinamento giuridico” (Filosofia), p. 654.
[7] Tale formula rileva un’agile utilizzazione con il concetto di “forma” della Gestaltpsychologie e un attento sguardo verso lo strutturalismo francese contemporaneo.
[8] V. Frosini, La struttura del diritto, cit., p. 14.
[9] Sul punto, Frosini, supera nei suoi scritti sia la concezione che vede nella legge un imperativo della volontà anonima, il comando del sovrano o dell’autorità legislativa sui comportamenti da tenere, sia la concezione conoscitiva della legge quale elemento del giudizio giuridico e strumentale, non ai fini di un comando, ma di un ragionamento, per accogliere, invece quella nuova prospettiva di teoria del diritto secondo cui la legge consiste “in un messaggio metaforico delle strutture dei comportamenti sociali”; rinvio alla compiuta trattazione di V. Frosini, La lettera e lo spirito della legge, Milano, 1998, p.13, 42,156 ss., 160 s.; si veda poi anche Id., Saggi su Kelsen e Capograssi. Due interpretazioni del diritto, Milano, 1988.
[10] Osserva V. Frosini, “il duplice interrogativo, che si pone e si impone alla coscienza del giurista, quando egli debba superare il momento primario della conoscenza della legge nella sua immediatezza, perché sollecitato a risolvere un problema interpretativo, ad elevarsi al momento coscenziale, che riconosce nella legge un emblema del diritto nella sua struttura e finalità, è dunque quello di chiedersi se esista, ed in che cosa consista, lo spirito della legge come superiore alla legge stessa nella sua letteralità come giustificazione”.
[11] V. Frosini, La struttura del diritto, cit., p.202.
[12] Ivi, p.189.
[13] D.M. Cananzi, Interpretazione alterità giustizia, Torino, 2008, p. 399.
[15] V. Frosini, Il concetto di struttura in RIFD, 1959, p.175.
[17] Sulla stessa linea evolutiva S. Romano, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947, nell’intento di accentuare il concetto di diritto come forma plastica e aderente al corpo sociale, sostituisce il termine “istituzione” con il termine “struttura”.
[18] V. Frosini, Il concetto di struttura in RIFD, 1959, p.168.
[19] Osserva giustamente B. Romano (il diritto strutturato come il discorso, Roma, 1994 ) che “ il diritto si struttura come il linguaggio”.
[20] V. Frosini, la lettera e lo spirito della legge, cit., p. 11,25.
[21] Osserva in tale senso Cananzi, “La struttura – condivisa e parallela a quella del linguaggio-, del diritto,
inteso come fenomeno e non come fatto, si rende nella fenomenalità dell’in-formarsi, attraverso la
formatività. La formatività attiene al diritto e lo qualifica secondo la dimensione che è stata individuata come
estetica marcando, nel modo più netto, la distinzione tra formatività della forma- formante e formalismo della
forma-formata”, D. M. Cananzi, Interpretazione alterità e giustizia, cit., p.409.
[22] D.M. Cananzi, Formatività e norma, Torino, 2013, pp.155, 156.
[23] G. Carcaterra, Le norme costitutive, Torino, 2014, pp. 72, 73.