Di Antonio Marra
Magistrato del Tar Lazio
1. Principio di trasparenza
e finalità dell’accesso
L’accesso ai documenti amministrativi rappresenta un principio generale dell’attività amministrativa, diretto a favorire la partecipazione dei cittadini all’azione pubblica e ad assicurare l’imparzialità e la trasparenza della stessa.
La trasparenza è un principio generale che alimenta l’intera azione amministrativa.
D’altro canto, non vi è dubbio che l’implementazione della trasparenza è argine principale alla corruzione in quanto gli affari illeciti preferiscono, come ha sintetizzato recentemente il Presidente dell’ANAC, l’oscurità e non amano la luce e la trasparenza.
E’ stato merito della dottrina e della giurisprudenza più accorte l’elaborazione del canone di trasparenza, tramite la compiuta analisi del tessuto normativo complessivamente disciplinante l’attività dei pubblici poteri in Italia, distinguendolo dai già noti principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione, consacrati espressamente nell’art. 97 della Carta fondamentale, e conferendogli una propria autonoma dignità giuridica.
Secondo l’affermazione più ricorrente, esso si sostanzierebbe nell’attribuzione ai cittadini del potere di esercitare un controllo democratico sullo svolgimento dell’azione amministrativa, onde accertarne la conformità tanto agli interessi pubblici alla cui cura la suddetta azione è preordinata, quanto ai precetti normativi regolanti quest’ultima.
Definitiva consacrazione di tale principio – la cui esistenza già si desumeva per implicito, precedentemente, da alcune norme di legge, quali, ad esempio, l’art. 26 L. 816/85 (che sanciva il diritto dei cittadini di prendere visione degli atti comunali) e l’art. 14 L. 349/86 (sul diritto di accesso agli atti contenenti dati ambientali) – si è avuta con l’entrata in vigore della L. 241/90 detta comunemente “sulla trasparenza amministrativa”.
Per la prima volta, infatti, il legislatore, ha disciplinato in via generale ed astratta qualunque tipologia di procedimento amministrativo avviato da una p.a. ed ha introdotto – tra i principi generali dell’azione amministrativa – quello di pubblicità.
Peraltro, è bene sottolineare che la trasparenza, nel senso innanzi inteso, non si assicura unicamente mediante lo strumento dell’accesso, ma al suo raggiungimento concorrono numerosi altri principi ed istituti, quali – ad esempio – l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi (stabilito dall’art. 3 L. 241/90), e la partecipazione dei privati al procedimento che li coinvolge (artt. 7-13 L. cit.).
E’ infatti ovvio che solo un concreto e diretto coinvolgimento dei destinatari del provvedimento finale nell’iter procedimentale, e solo l’idoneità del provvedimento stesso a rendere manifeste le ragioni logico-giuridiche che ne hanno permesso l’emanazione, rendono possibile garantire il controllo democratico dei cittadini nei confronti dell’azione amministrativa.
In linea generale, l’art. 10 del D. Lgs. 267/2000 e gli artt. 22 e ss. della L. 241/90 riconoscono il diritto di accesso ai documenti amministrativi a tutti i soggetti titolari di una situazione giuridicamente rilevante. Lo stesso art. 22 della L. 241/90 individua poi un concetto ampio di documento amministrativo, comprensivo degli atti provenienti da soggetti diversi dalla stessa amministrazione.
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con le decisioni 4 e 5 del 1999, ha chiarito che la disciplina dell’accesso si estende anche agli atti di diritto privato, purchè correlati al perseguimento degli interessi pubblici affidati alla cura dell’amministrazione.
Pertanto, la normativa di rango statale afferma l’ampia portata della regola dell’accesso, la quale rappresenta la coerente applicazione del principio di trasparenza che governa i rapporti tra amministrazione e cittadini. Il significato delle disposizioni sopra citate è chiaro: la L. 241/90 ha ridimensionato l’ambito operativo del segreto d’ufficio il quale ora non esprime più un canone generale dell’azione dei pubblici poteri, ma rappresenta un’eccezione al principio di trasparenza, rigorosamente circoscritta ai soli casi in cui viene in evidenza la necessità obiettiva di tutelare particolari e delicati settori dell’amministrazione.
In passato, la p.a. invocava costantemente l’art. 15 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, ai sensi del quale all’impiegato pubblico era precluso fornire a chi non ne avesse diritto “… informazioni o comunicazioni relative a provvedimenti od operazioni amministrative di qualsiasi natura e notizie delle quali sia venuto a conoscenza a causa del suo ufficio, quando possa derivarne danno per l’Amministrazione o per i terzi”. Il vago timore di recare un pregiudizio all’amministrazione finiva, nella pratica, per favorire un’applicazione estensiva della disposizione.
Oggi, l’art. 28 della L. 241/90 ha invertito il rapporto regola-eccezione, confinando il segreto d’ufficio entro ambiti alquanto circoscritti ed in particolare limitandolo ai soli casi espressamente indicati dalla normativa sull’accesso.
Il fondamento costituzionale del diritto di accesso è stato individuato sia nell’art. 97 – che costituisce diretta attuazione dei canoni di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione – sia nell’art. 21, che riconosce il diritto all’informazione sul versante passivo e cioè il diritto ad essere informati quali potenziali destinatari.
L’istituto dell’accesso assolve ad una triplice funzione:
permette una più diffusa conoscenza dei processi decisionali, nell’ottica della partecipazione;
favorisce il coinvolgimento diretto degli amministrati ed il loro controllo sul comportamento dei soggetti pubblici, che sono stimolati ad agire responsabilmente e correttamente osservando i canoni di legalità e compiendo attività qualitativamente migliori;
riduce il peso dei giudizi, perché la conoscenza dei documenti può persuadere della legittimità delle determinazioni assunte dalla p.a. o comunque dell’inopportunità dell’impugnazione, tenuto conto che l’interessato potrà far valere in sede amministrativa eventuali rimostranze
1.1. Evoluzione normativa dell’istituto
L’evoluzione dell’istituto può essere così succintamente delineata.
Prima dell’entrata in vigore della L. n. 241/1990, vigeva la regola della segretezza dell’attività amministrativa, consacrata peraltro nell’art. 15 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo Unico delle disposizioni concernenti gli impiegati civili dello Stato): tale regola si concretizzava nel silenzio dei funzionari, nel rifiuto di fornire informazioni e nel diniego di visionare i documenti amministrativi. Erano dunque “eccezionali” le norme che garantivano l’accesso ai documenti amministrativi, per come previste in relazione ad alcuni settori dell’azione amministrativa (tra questi, si segnala quello dell’amministrazione degli enti locali, ex art. 25 della L. n. 816/1985, e quello dell’urbanistica, ex artt. 9 della L. n. 1150/1942 e 10, comma 9, della L. n. 765/1967).
L’introduzione della L. n. 241/1990 ha invece segnato il passaggio da un sistema incentrato sulla segretezza ad un sistema basato sui principi di pubblicità e di trasparenza dell’attività amministrativa, a loro volta espressione dei principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione codificati nella Carta Costituzionale.
Il successivo d.P.R. 27 giugno 1992, n. 352, ha individuato in sede regolamentare sia le modalità di esercizio del diritto di accesso, sia i casi di esclusione del diritto di accesso ai documenti amministrativi.
L’evoluzione dell’istituto “generale” dell’accesso è stata completata dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, che ha modificato la maggior parte delle disposizioni del Capo V della L. n. 241/1990, apportandovi quelle correzioni e quelle integrazioni scaturite, da un lato, dalle elaborazioni dottrinarie e dalle pronunce giurisprudenziali e, dall’altro, dalle innovazioni del sistema costituzionale e normativo nel frattempo intervenute. Nello stesso anno, con Legge 14 maggio 2005, n. 80, il Legislatore ha espressamente devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative all’accesso ai documenti amministrativi. In seguito alle incisive novità normative del 2005, il diritto di accesso ha subito una profonda rimodulazione: invero, «attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse», il diritto di accesso viene adesso considerato quale «principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza» (art. 22, comma 2, L. n. 241/1990). Tali finalità devono necessariamente essere combinate con un ulteriore principio cardine della materia, quello secondo cui «Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni» (art. 24, comma 3, L. n. 241/1990).
Il percorso evolutivo dell’istituto è successivamente proseguito con l’introduzione, in sede regolamentare, della disciplina relativa alle modalità di esercizio del diritto di accesso: sicché con d.P.R. 12 aprile 2006, n. 184, è stato emanato il «Regolamento recante disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi», chiamato sostanzialmente a sostituire il precedente d.P.R. n. 352/1992.
Con la Legge 18 giugno 2009, n. 69, poi, il Legislatore ha provveduto a “trasportare” dall’art. 22, comma 2, della L. n. 241/1990, all’art. 29, comma 2-bis, della stessa legge, il principio per il quale l’obbligo per la pubblica amministrazione di assicurare l’accesso alla documentazione amministrativa attiene ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione.
Nel 2010 il legislatore ha iscritto il rito dell’accesso ai documenti amministrativi nel novero dei riti speciali del giudizio amministrativo, collocando la relativa disciplina nell’opportuno contesto “processuale” inaugurato con il Codice del processo amministrativo (D.lgs. n. 104/2010, art. 116): per effetto del novello c.p.a., comunque, il rito in materia di accesso ai documenti amministrativi è stato codificato senza particolari innovazioni rispetto alla previgente disciplina contenuta nell’art. 25 della L. n. 241/1990;
Il Governo con il d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 (c.d. “riforma Brunetta”) ha dato attuazione alla delega legislativa, scegliendo la trasparenza quale strumento per valutare e misurare la performance ed i risultati dell’amministrazione, realizzando «forme diffuse di controllo del rispetto dei principi di buon andamento ed imparzialità» (art. 11, comma 1, del d.lgs. 150 del 2009). Con il decreto Brunetta mutano sia l’oggetto della trasparenza che gli strumenti necessari alla sua realizzazione. Oggetto della trasparenza non sono più il procedimento, il provvedimento ed i documenti amministrativi, ma le “informazioni” relative all’organizzazione, alla gestione e all’utilizzo delle risorse finanziarie, strumentali ed umane. Con riguardo alle modalità di accesso alle informazioni, non si fa ricorso al diritto d’accesso ma alla previsione di obblighi di pubblicazione nei siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni di tutte le informazioni concernenti l’attività, l’organizzazione e l’impiego delle risorse. Il mutamento della finalità della trasparenza che, da mezzo per garantire la tutela delle situazioni giuridiche soggettive, diviene strumento per consentire l’esercizio di un controllo diffuso dell’operato dell’amministrazione pubblica, spiega il mutamento sia dell’oggetto della trasparenza che degli strumenti per la sua realizzazione: non più i documenti ma le informazioni, non più l’accesso ma la pubblicazione delle informazioni.
Ulteriore tappa dell’evoluzione normativa della trasparenza si compie con l’attuazione, ad opera della legge 6 novembre 2012, n. 190 che reca “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, dell’art. 6 della Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione e con la contestuale e coerente attuazione nel nostro paese di politiche pubbliche di controllo e di prevenzione della corruzione. Tali politiche fanno ricorso, in larga misura, a forme di pubblicità delle informazioni riguardanti l’attività amministrativa in generale ed alcuni settori specifici della stessa in particolare.
La legge 190 del 2012 ha previsto all’art. 1, commi 35 e 36 una delega legislativa per il riordino degli obblighi di pubblicità, di trasparenza, di diffusione delle informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni.
In attuazione di tale delega è stato emanato dal Governo il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33. Tale decreto, proprio attraverso una serie ampia di obblighi di pubblicità, mira a realizzare forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche (art. 1 del d.lgs. 33 del 2013). L’art. 5 del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, di riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza nelle pubbliche amministrazioni, ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dell’accesso civico, che si pone come la novità più recente e dirompente nel percorso di affermazione della trasparenza quale principio generale dell’azione amministrativa e strumento del cittadino-utente di azionabilità del diritto alla conoscibilità totale dell’operato della P.A..
Il decreto legislativo, adottato in attuazione dell’art. 1, commi 35 e 36, l. 6 novembre 2012, n. 190, recante disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e l’illegalità nella Pubblica Amministrazione, è stato emanato con il preciso intento di informare l’attività amministrativa dei pubblici poteri a obblighi di informazione, trasparenza e pubblicità, prevedendo al contempo un sistema sanzionatorio per il mancato, ritardato ovvero inesatto adempimento dei suddetti obblighi imposti dalla legge, attraverso l’accessibilità totale” esercitabile dai cittadini, quali destinatari di prerogative tutelate costituzionalmente indefettibili.
L’art. 3, comma 1, del d.lgs. 33 del 2013 stabilisce che «tutti i documenti, le informazioni e i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente sono pubblici» e l’art. 7, comma 1, del medesimo decreto precisa che «chiunque ha diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente e di utilizzarli e riutilizzarli» ai sensi della disciplina vigente.
Il d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97, attuativo della legge delega n. 124/15 è stato il primo tra gli undici provvedimenti della prima tranche di attuazione della cd riforma Madia a tagliare il traguardo con la introduzione di una nuova forma di accesso civico equivalente al freedom of information act (FOIA) per riconoscere ai cittadini la possibilità di accedere anche ai dati e documenti per i quali non sussista l’obbligo espresso di pubblicazione
Ora, la parabola durata oltre 26 anni sembra giunta a compimento con il riconoscimento della più amplia accessibilità ai dati e documenti pubblici come regola e la mancata loro ostensione come eccezione, necessariamente motivata dalla tutela di precisi interessi del segreto di stato alla privacy passando per le tutele commerciali
Un cammino dunque non breve contrassegnato da diffuse resistenze a che le amministrazioni si trasformino secondo quanto detto da un illustre autore (Turati) in case di vetro
1.2. L’accesso civico globale (tratti fondamentali di disciplina)
Nella prima versione del decreto ‘trasparenza’ l’accesso civico era posto a tutela di colui che richiedesse l’adempimento degli obblighi di pubblicazione.
Notevole era, come si è accennato, la novità rispetto all’accesso tradizionale (o procedimentale), che richiede uno specifico interesse per la tutela delle proprie posizioni giuridiche; l’accesso cd. civico, invece, spettava a “chiunque” in relazione alle informazioni che dovevano (e devono) essere pubblicate a norma delle specifiche disposizioni e rispetto alle quali, quindi, il cittadino aveva (ed ha) un incondizionato diritto alla conoscenza.
Per confermare la ampissima portata dell’accesso civico si precisava che la legittimazione soggettiva a richiederlo non conosceva limitazioni di sorta: la richiesta –ed è ovvio avendo ad oggetto atti per cui vige l’obbligo di pubblicazione- non doveva essere motivata ed era gratuita la sua presentazione al responsabile della trasparenza (art. 5 co. 2 nel testo antecedente alle modifiche operate con d.lgs. n. 97/2016).
L’accoglimento determinava la pubblicazione sul sito e l’avviso al ricorrente in merito all’avvenuta pubblicazione.
Si prevedeva, altresì (e l’obbligo è confermato anche nel nuovo testo), che il responsabile della trasparenza dovesse attivare le procedure amministrative per sanzionare chi avesse omesso la pubblicazione dovuta ai sensi del citato art. 43 co. 5, segnalando la mancanza all’ufficio di disciplina e agli organismi di valutazione.
Va detto che i tratti fondamentali della descritta disciplina restano confermati, ma nel mutato contesto in cui l’accesso ai documenti da pubblicare sui siti istituzionali, viene ad assumere una portata residuale, mentre diviene istituto di applicazione generale l’accesso civico ‘globale’.
Con l’introduzione del d.lgs. 97/2016, la prospettiva, rispetto al passato, si capovolge.
La regola è l’accesso generalizzato ai documenti detenuti dalla P.A., salvo limitazioni. Non occorre alcun interesse qualificato né il diritto risulta limitato a taluni specifici documenti (quelli che devono essere pubblicati).
Il principio si ricava dalla lettura dell’art. 5 co. 2 d.lgs. cit. nel testo vigente: «chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall’articolo 5-bis».
Coerentemente – ed è una grande innovazione rispetto all’accesso procedimentale “classico”, non più relativa ai soli documenti da pubblicare – il diritto «non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente» e l’istanza, che può essere presentata telematicamente a diversi uffici, non richiede alcuna motivazione; è solo necessario identificare «i dati, le informazioni o i documenti» richiesti (art. 5 co. 3 d.lgs. cit.).
Il diritto si riferisce, quindi, non solo ai documenti, ma anche ai dati e alle informazioni. Nel sistema della L. 241/1990, erano (e sono nei casi di residua applicazione del diritto di accesso ‘classico’) accessibili solo i documenti già formati; come precisato dall’art. 2 del D.P.R. 184/2006 (regolamento attuazione del diritto di accesso), infatti, «il diritto di accesso (di cui alla L. 241/1990) si esercita con riferimento ai documenti amministrativi materialmente esistenti al momento della richiesta (…). La pubblica amministrazione non è tenuta ad elaborare dati in suo possesso al fine di soddisfare le richieste di accesso». Il diritto di accesso civico impone, invece, all’amministrazione di palesare dati e informazioni non necessariamente già trasfuse in un documento.
L’obbligo di comunicare la richiesta agli eventuali controinteressati con la possibilità per questi ultimi di opporsi motivatamente entro dieci giorni (per il diritto di accesso classico prevista dell’art. 3, d.P.R. 12 aprile 2006 n. 184) viene confermato e assume rango legislativo (art. 5 co. 5 d.lgs. cit.).
I controinteressati sono individuati mediante richiamo all’art. 5 bis co. 2 d.lgs. 33/2013 nella parte in cui si prevede la possibilità di rifiutare l’accesso qualora siano pregiudicati taluni interessi privati e, in particolare: «a) la protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia; b) la libertà e la segretezza della corrispondenza; c) gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d’autore e i segreti commerciali».
Questi ultimi interessi privati e gli interessi pubblici di cui al co. 1 del medesimo articolo 5 bis, costituiscono, appunto, i limiti del diritto di accesso civico “globale” nel senso che, appunto, consentono il rifiuto dell’accesso se tali interessi siano suscettibili di ricevere un pregiudizio “concreto”.
Nell’applicare le eccezioni previste dall’art. 5 bis, le amministrazioni italiane sono, dunque, chiamate ad aggiornare le tecniche di bilanciamento già impiegate per l’accesso procedimentale. Decisivi saranno gli orientamenti giurisprudenziali e le linee guida dell’Anac: l’auspicio è che gli uni e le altre forniscano indicazioni convergenti, utilizzando la giurisprudenza comunitaria come punto di riferimento comune».
2. Natura giuridica del diritto di accesso
(legge 11 febbraio 2005, n. 15)
La valorizzazione del diritto di accesso come principio generale dell’ordinamento ha posto il problema della sua riconduzione nell’alveo dei diritti soggettivi ovvero degli interessi legittimi.
Secondo un primo orientamento la pretesa del soggetto che aspira all’esibizione del documento amministrativo sarebbe qualificabile come mero interesse legittimo pretensivo (cfr. Tar Toscana, sez. I, 23 aprile 2004 n. 1225; Consiglio di Stato, adunanza plenaria del 24 giugno 1999, n. 16), in virtù delle seguenti considerazioni:
l’amministrazione può rinviare l’esercizio dell’accesso se lo stesso pregiudichi la funzione pubblica (art. 24 comma 4 l. 241/90 vigente), e ciò presuppone il riconoscimento di una potestà discrezionale, la cui funzione è evitare che l’accesso indiscriminato incida su interessi pubblici fondamentali e preminenti o su interessi di terzi, ovvero interferisca con la speditezza dell’azione amministrativa; è noto viceversa che, in materia di rapporti patrimoniali coinvolgenti diritti, il debitore non può lecitamente rinviare l’adempimento dell’obbligo al di là dei termini stabiliti dalla legge o dal contratto;
si tratta di un’azione di impugnazione di un provvedimento autoritativo di diniego (ovvero dell’inerzia) della pubblica amministrazione, nell’ambito della struttura tipica del processo amministrativo preordinato alla tutela di interessi legittimi;
il conflitto tra il diritto di accesso e la tutela della riservatezza dei terzi necessita di una composizione bilanciata: la decisione sull’istanza implica quindi una scelta parzialmente discrezionale che i regolamenti attuativi adottati dai singoli enti limitano ma non escludono;
l’art. 25 comma 5 della l. 241/90 impone per il ricorso per l’accesso in pendenza di giudizio l’obbligo di notifica all’amministrazione o ai controinteressati, con ciò confermando la natura di interesse legittimo.
Dalla configurazione dell’accesso come interesse legittimo pretensivo, consegue:
il carattere impugnatorio del giudizio di legittimità che si svolge dinanzi al giudice amministrativo, il cui oggetto è costituito dal provvedimento espresso o tacito di rifiuto;
la necessità di impugnare la decisione negativa nel termine perentorio di 30 giorni, a pena di decadenza;
l’obbligo di notifica agli eventuali controinteressati (ad esempio ai soggetti titolari del diritto alla riservatezza suscettibile di lesione) a pena di inammissibilità del ricorso giurisdizionale;
la declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto contro un nuovo diniego su una seconda richiesta di accesso identica alla precedente quanto ad oggetto, avendo il secondo rifiuto natura di atto meramente confermativo.
Il filone interpretativo che propende per una ricostruzione dell’accesso in termini di diritto soggettivo è oggi prevalente in giurisprudenza, la quale riconosce in esso la pretesa a un’informazione qualificata, azionabile da qualsiasi soggetto titolare di un’aspirazione giuridicamente rilevante alla conoscenza di determinati atti, e tutelabile innanzi al giudice amministrativo indipendentemente dalla ricorrenza della posizione sostanziale di diritto soggettivo o di interesse legittimo (si parla di autonomia dell’accesso rispetto alle situazioni soggettive sostanziali sottostanti, di cui il soggetto può chiedere la tutela dopo l’ostensione dei documenti).
Dalla configurazione dell’accesso come diritto soggettivo, consegue:
la natura di accertamento del giudizio sulla domanda di accesso, che non si limita ad investire l’atto di diniego ma si estende all’intero rapporto tra pubblica amministrazione e privato;
la possibilità per il giudice di ordinare l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 102 cpc in caso di omessa notifica ad almeno uno dei controinteressati, trattandosi di un’ipotesi di litisconsorzio necessario;
la possibilità di presentare una nuova istanza nonostante l’omessa tempestiva impugnazione del diniego (o del silenzio della pubblica amministrazione) su quella precedente, in quanto un diritto non è soggetto al breve termine di decadenza.
La l. 15/2005 sostituisce la precedente versione dell’art. 22 con una nuova previsione il cui contenuto è in gran parte costituito da regole codificate dalla giurisprudenza.
Il nuovo articolo 22, così come riformulato, impiega la tecnica legislativa – già largamente diffusa in ambito comunitario e recentemente utilizzata anche da parte del legislatore italiano – delle definizioni: queste ultime, in particolare, hanno carattere innovativo e non ricognitivo, non limitandosi cioè ad operare un riepilogo di precetti altrove stabiliti ma introducendo ex novo norme di carattere sostanziale.
Rispetto alla questione della natura del diritto di accesso, secondo quanto recita il secondo comma dell’articolo 22, “attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza, ed attiene ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione”.
A fronte delle dispute emerse in giurisprudenza sulla qualificazione della posizione giuridica soggettiva del richiedente il legislatore sembra aver optato per una qualificazione in termini di diritto soggettivo. Tale affermazione appare supportata dalla circostanza che, ai sensi dell’articolo 22, l’istituto dell’accesso attiene ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che costituiscono un patrimonio giuridico intangibile, non esposto a esercizio di discrezionalità amministrativa.
In proposito soccorre l’interpretazione fornita dalla Corte costituzionale con la pronuncia in data 26 giugno 2002 n. 282, la quale ha chiarito che quella individuata dalla lettera m) dell’art. 117, comma 2 non è una “materia” in senso stretto, bensì “una competenza del legislatore statale idonea a investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti…”.
Sempre in tale direzione, d’altra parte, non manca un ulteriore indice di inequivoco affidamento. Lo si rinviene nel comma 7 dell’art. 24 che stabilisce la necessità di garantire l’accesso ai documenti la cui conoscenza è necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici. Quel “deve comunque esser garantito” non appare conciliabile con una posizione di interesse legittimo ed induce a ritenere che ogni pur complessa attività applicativa non potrà mai smarrire la sua natura di attività meramente dichiarativa della sussistenza di presupposti e condizioni normative in costanza delle quali il diritto di accesso trova attuazione.
3. Ambito soggettivo di applicazione
Dal punto di vista soggettivo, dal lato attivo si pone il problema di chi possa chiedere l’accesso.
L’art. 24 della l. 241/90 prevedeva che l’accesso è consentito a chiunque (cittadino, straniero od apolide) sia titolare di un “interesse giuridicamente rilevante”: il concetto rinvia ad una qualsiasi situazione giuridica degna di rilievo ed apprezzamento, ossia comprende una platea di posizioni eterogenee meritevoli di protezione, come anche ad esempio le aspettative e gli interessi diffusi.
Ai fini dell’esatta delimitazione della figura, è stato puntualizzato dalla giurisprudenza che la l. 241/90 non ha introdotto un’azione popolare, diretta a consentire a chiunque una sorta di controllo generalizzato sulla correttezza dell’attività amministrativa: infatti sia l’art. 8 del dpr 27 giugno 1992 n. 352 (regolamento di attuazione della disciplina legislativa dell’accesso), sia la dottrina e la giurisprudenza richiedono la presenza di un interesse:
personale (ovvero serio, effettivo, non emulativo, non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante da uno specifico nesso);
concreto;
differenziato (ossia non confuso con quello di altri soggetti o con l’interesse pubblico istituzionalmente perseguito dall’amministrazione).
Tale interesse non coincide necessariamente con l’interesse legittimo: l’esercizio del diritto di accesso presuppone un’aspirazione alla conoscenza del documento non necessariamente idonea a legittimare l’impugnativa in sede giurisdizionale del provvedimento finale.
L’indicazione dell’interesse
giuridicamente rilevante a corredo della domanda non è richiesta
a) Anzitutto con il nuovo accesso civico di cui al d.lgs. 97/2016
b) In materia ambientale
Una disciplina speciale, di origine comunitaria, ha ampliato l’accesso alle informazioni ambientali introducendo una vera e propria azione popolare: il dlgs 24 febbraio 1997 n. 39 permette a chiunque una diffusa conoscenza delle informazioni ambientali, svincolando l’accesso da una particolare posizione legittimante del richiedente; le autorità pubbliche infatti “sono tenute a rendere disponibili le informazioni relative all’ambiente a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dimostrare il proprio interesse”.
c) In materia di accesso agli atti da parte del difensore
La legge 397/2000 ha introdotto l’art. 391 quater cpp diretto a facilitare lo svolgimento delle indagini difensive: è una speciale forma di accesso ai documenti amministrativi non soggetta alle prescrizioni della l. 241/90, che non esige alcuna particolare motivazione essendo sufficiente che il professionista rappresenti l’utilità dell’acquisizione rispetto alle indagini da compiere.
Particolari figure sono l’accesso partecipativo, previsto dall’articolo 9 della l. 241/90 e l’accesso agli atti in corso di giudizio previsto dall’art. 21 comma 1 della l. 1034/1971.
Quest’ultimo è un rimedio che presuppone l’instaurazione di un giudizio, ossia un ricorso pendente innanzi al giudice amministrativo: il gravame contro il diniego o il differimento dell’accesso può essere proposto con semplice istanza presentata al presidente del Tar e depositata presso la segreteria della sezione cui è assegnato il ricorso, previa notifica all’amministrazione ed ai controinteressati, e viene decisa con ordinanza istruttoria adottata in camera di consiglio.
La l. 15/2005, alla lettera b) del primo comma dell’art. 22, definisce gli “interessati” individuandoli in “tutti i soggetti privati compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.
Si chiarisce così l’ambito soggettivo di applicazione dell’accesso dal lato attivo, di chi cioè è titolato a richiederlo: la nuova formulazione è più completa, aggiungendo ai requisiti della personalità e concretezza dell’interesse quello della sua attualità. Ad ogni modo si riafferma la necessità – già evidenziata dalla giurisprudenza – di un contenuto differenziato della posizione propria del richiedente, distinta cioè da quella della generalità dei consociati.
L’esclusione di istanze preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle amministrazioni pubbliche, disposta dall’art. 24 comma 3, sancisce “l’impossibilità di configurare l’accesso come una sorta di azione popolare” di verifica della correttezza dell’attività dei pubblici poteri.
A questo riguardo è stato osservato che ove l’istanza di accesso postuli un’attività valutativa ed elaborativa dei dati in possesso dell’amministrazione è precluso il suo accoglimento, in quanto l’istanza stessa rivela un fine di generale controllo sull’attività amministrativa che non risponde alla finalità per la quale lo strumento può venire azionato che è solo quella della tutela di un ben specifico interesse. La tutela del diritto all’informazione nei confronti della pubblica amministrazione non può dilatarsi al punto da imporre alla stessa un vero e proprio facere che esula completamente dal concetto di accesso configurato dalla legge, consistente solamente in un pati (ossia nel lasciar prendere visione) ed al più in un facere meramente strumentale (minimo di attività materiale che occorre per estrarre i documenti indicati e metterli a disposizione del richiedente). (Consiglio di Stato, sez. V – 25/9/2006 n. 5636).
È stato anche però precisato che le istanze non debbono indicare in modo puntuale i documenti oggetto dell’istanza, in quanto molto spesso il privato non conosce in quali documenti sono contenute le informazioni che richiede. Certo l’accesso non può riguardare documenti non esistenti e da formare per dare risposta alla richiesta estensiva e tuttavia spetta all’amministrazione individuare in quali documenti siano presenti le informazioni richieste nel caso in cui sussistano i presupposti per consentire l’accesso.
Secondo l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (4 e 5 del 1999), il criterio da utilizzare per distinguere gli atti rientranti nell’ambito oggettivo della disciplina dell’accesso dai dati esclusi deve essere ravvisato nella sottoposizione del soggetto, in sede di esercizio dell’attività di cui si chiede la divulgazione, al dovere di imparzialità. Non rileva il regime giuridico dell’attività in relazione alla quale è stata formulata l’istanza ostensiva, ma l’importante è che l’attività debba essere espletata per rispetto del canone di imparzialità, applicandosi l’articolo 97 e non l’articolo 41 della Costituzione.
Sotto il profilo dei destinatari dell’istanza di accesso, sempre la lettera d) della l. 15/2005 puntualizza che non assume rilievo la specifica natura pubblicistica o privatistica della disciplina degli atti conoscibili purché, ovviamente, essi concernano attività di pubblico interesse. Si conferma pertanto che il diritto di accesso non può essere riconosciuto soltanto in presenza di attività esclusivamente privatistica e del tutto disancorata dall’interesse pubblico istituzionalmente rimesso alle cure dell’apparato amministrativo.
La lettera e) afferma che per pubblica amministrazione si considerano tutti i soggetti di diritto pubblico e di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale e comunitario.
Estensione all’attività di diritto privato della pubblica amministrazione?
SI
L’attività della Pa è sempre vincolata all’interesse generale (cura concreta di interessi pubblici, al di là della forma giuridica utilizzata).
4. Ambito oggettivo di applicazione del segreto di Stato, segreto istruttorio, denunce all’autorità
Il legislatore aveva originariamente elaborato la definizione generale di documento amministrativo, comprendendo “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti anche interni, formati dalle pubbliche amministrazioni o comunque utilizzati ai fini dell’attività amministrativa” (art. 22 l. 241/90).
L’elencazione non è tassativa e l’ampia formulazione è tale da estendersi sia agli atti
NO
è un contrappeso a favore del privato verso la Pa quando questa agisce in posizione di supremazia con uso di poteri autoritativi.
formati dall’amministrazione, sia a quelli formati da privati o di cui l’amministrazione si avvale. La testuale espressione “atti interni” consente di comprendere tutti i documenti preparatori, gli atti endoprocedimentali (riguardanti in generale la fase di formazione del provvedimento), e pure gli atti relativi ad attività ispettive, di vigilanza, di controllo e di accertamento degli illeciti.
Gli atti provenienti dai soggetti privati sono equiparati – ai fini dell’accesso – ai documenti amministrativi (e quindi sono suscettibili di ostensione) solo se e in quanto “utilizzati in fini dell’attività amministrativa” ovverosia allorché, indipendentemente dalla caratterizzazione soggettiva, abbiano avuto un’incidenza sulle determinazioni amministrative.
Va invece escluso che la normativa possa essere invocata per accedere ai dati dei privati occasionalmente detenuti dall’amministrazione o che sono entrati in possesso di quest’ultima per mera contiguità o non scorporabilità con documenti utilizzati direttamente per l’attività amministrativa (Consiglio di Stato, sez. VI del 22 gennaio 2001 n. 191).
L’art. 24 della Legge 7 agosto 1990, n. 241, si occupa dei casi di esclusione del diritto di accesso.
La citata diposizione prevede due tipologie di limiti all’accesso:
in primo luogo, vengono in rilievo i cc.dd. “limiti generali” (o limiti “tassativi”), che valgono per qualsiasi ambito di azione della Pubblica amministrazione;
in secondo luogo, vi sono i cc.dd. “limiti particolari” (o limiti “eventuali”), che riguardano i procedimenti adottati in settori attinenti a compiti specifici dell’Amministrazione.
I limiti generali sono quelli indicati dall’art. 24, comma 1, della L. n. 241/1990, che fa espresso riferimento ai documenti coperti da segreto di Stato, ai casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge (segreto professionale, militare, bancario, istruttorio, statistico, ecc.), ai procedimenti tributari, all’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, ai procedimenti selettivi.
A tali limiti generali specificamente individuati, deve aggiungersi la regola stabilita dal comma 3 dell’art. 24 della L. n. 241/1990 (introdotta ex novo dalla L. n. 15/2005), in base al quale «non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni».
Si tratta di un principio generale che, nell’ambito della disciplina dell’accesso complessivamente intesa, va a collocarsi sull’altro piatto della bilancia rispetto al principio per cui «l’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza» (art. 22, comma 2, L. n. 241/1990).
I limiti particolari, invece, sono quelli individuati tramite regolamento dalle singole Amministrazioni (art. 24, comma 2), nonché quelli indicati nei regolamenti da adottarsi ai sensi dell’art. 17, comma 2, della Legge 23 agosto 1988, n. 440 (art. 24, comma 6). Con riferimento a quest’ultima tipologia di regolamento, il comma 6 dell’art. 24 specifica quali sono i casi in cui il Governo può prevedere la sottrazione all’accesso dei documenti amministrativi.
Oltre a prevedere dei limiti all’accesso, in relazione agli stessi l’art. 24 della L. n. 241/1990 fissa dei controlimiti.
Seguendo l’ordine all’uopo imposto dal legislatore, i suddetti controlimiti possono essere così indicati:
1.l’accesso ai documenti amministrativi non può essere negato ove sia sufficiente fare ricorso al potere di differimento (comma 4);
2.i documenti contenenti informazioni connesse agli interessi di cui al comma 1 sono considerati segreti solo nell’ambito e nei limiti di tale connessione. A tale fine le pubbliche amministrazioni fissano, per ogni categoria di documenti, anche l’eventuale periodo di tempo per il quale essi sono sottratti all’accesso (comma 5);
3.deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici (comma 7, primo alinea).
La parte finale dell’art. 24 è specificamente dedicata alla disciplina dell’accesso ai documenti contenenti dati sensibili, giudiziari e “sensibilissimi”: sul punto, si rinvia al successivo paragrafo 15.
Tra i limiti previsti dal legislatore al diritto di accesso vi è, come si è visto, l’esclusione degli atti relativi ai procedimenti tributari. La giurisprudenza del g.a. (Cons. St., Sez. IV, 21 ottobre 2008, n. 5144, T.A.R. Lazio, Sez. II, 31 ottobre 2008, n. 9516) ha chiarito che, sulla scorta di una lettura costituzionalmente orientata della norma de qua, l’inaccessibilità agli atti in materia tributaria va temporalmente limitata alla sola fase di pendenza del procedimento tributario, non rilevandosi esigenze di segretezza nella fase che segue la conclusione del procedimento con l’adozione del provvedimento definitivo di accertamento dell’imposta dovuta (Cons. St., sez. IV, 13 gennaio 2010, n. 53).
Sono esclusi dall’accesso i documenti che non ineriscono all’attività amministrativa ma a quella giudiziaria.
È prevista un’eccezione in materia di accesso ai dati personali da parte del soggetto al quale i dati stessi si riferiscono, così come previsto dal dlgs 30/6/2003 n. 196.
5. Il procedimento di accesso
L’articolo 25 comma 1 della l. 241/90 stabilisce che il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi.
La richiesta dei documenti – indirizzata all’autorità competente a formare l’atto conclusivo ovvero a detenerlo stabilmente – deve essere motivata, affinché l’amministrazione possa valutare la ricorrenza dell’interesse giuridicamente rilevante
L’inerzia dell’amministrazione abilita il richiedente a sollecitare un riesame da parte del difensore civico ovvero ad adire direttamente il giudice amministrativo.
Il difensore civico (organo facoltativo di garanzia degli enti locali ai sensi dell’art. 11 del dlgs 267/2000) – interpellato in caso di rifiuto, espresso o tacito, o di differimento – ove lo ritenga illegittimo, lo comunica all’ufficio che l’ha disposto. Se quest’ultimo non emana un provvedimento confermativo motivato entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione del difensore civico, l’accesso è consentito. Qualora il privato si sia rivolto al difensore civico, il termine di 30 giorni per proporre ricorso giurisdizionale decorre dalla data del ricevimento, da parte sua, dell’esito dell’istanza al difensore civico.
Quanto alle modalità concrete dell’accesso va segnalato che l’istituto è regolato, nel vigente sistema, solo per i suoi tratti fondamentali da fonti normative, rimanendo per i restanti profili affidato alle scelte autorganizzative delle singole amministrazioni cui viene, di volta in volta, inoltrata la richiesta.
La conclusione è suffragata dalla l. 241/90 la quale stabilisce, all’art. 22 comma 3, che “entro sei mesi… le amministrazioni adottano le misure organizzative idonee a garantire l’applicazione delle disposizioni di cui al comma 1”, mentre l’art. 5 comma 6 del dpr 352/92 dispone che “L’esame dei documenti avviene presso l’ufficio indicato nell’atto di accoglimento della richiesta, nelle ore di ufficio, alla presenza, ove necessaria, di personale addetto”. Alla luce di ciò si è stabilito che l’esibizione di un documento presso la sede decentrata piuttosto che presso quella centrale ove è stato adottato, rientra nelle valutazioni della singola amministrazione di riferimento, sicché non può trovare fondamento incondizionato la pretesa ad un accesso alla sede periferica con riguardo ad atti adottati da un’autorità centrale. (Consiglio di Stato, adunanza plenaria del 2 luglio 2001 n. 5).
RICHIESTA DI DOCUMENTI
Procedura formale
Quando sia possibile accogliere immediatamente la richiesta, dopo la verifica dell’identità dell’istante e della sua legittimazione.
Procedura informale (istanza scritta)
Qualora non sia possibile esaudire tempestivamente la domanda per la complessità della ricerca, per dubbi sulla legittimazione del richiedente o sulla sussistenza dell’interesse.
La richiesta è accolta, e l’ufficio indica il luogo dove si può prendere visione o estrarre copia dei documenti.
La richiesta è totalmente o parzialmente respinta.
L’accesso è differito, quando la conoscenza dei documenti possa impedire o gravemente ostacolare l’esercizio della funzione amministrativa.
L’amministrazione rimane inerte, con la conseguenza che decorsi inutilmente 30 giorni, l’istanza si intende respinta (fattispecie di silenziorigetto).
6. Accesso e riservatezza
Il rapporto tra riservatezza e accesso viene regolato attraverso il coordinamento delle disposizioni dettate dal d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (codice in materia di protezione dei dati personali) con le norme contenute nella legge 241/90.
La struttura della decreto legislativo in parola si attesta su tre livelli di protezione dei dati relativi alla sfera dei privati, corrispondenti al diverso tenore e rilievo assunto da tali dati, ordinati in tre distinte categorie, dalla tutela progressivamente più ampia.
La prima categoria concerne i dati comuni della persona, cui segue quella dei dati sensibili, idonei a rilevar l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale della persona.
La terza categoria comprende i dati (comunemente definiti “supersensibili”) idonei a rilevare lo stato di salute o la vita sessuale della persona.
Per i dati comuni della persona, l’art. 59 del d.lgs. 196/03 prevede l’applicazione della normativa vigente in materia di accesso. Tali tipologie di dati, pertanto, considerata l’assenza di una disciplina specifica e derogatoria delle prescrizioni dettate dalla legge 241/90, per l’accesso ai documenti, devono ritenersi soggette alle regole generali sancite della legge sul procedimento amministrativo. Ne consegue che l’istante potrà ottenere l’ostensione dei documenti contenenti dati comuni afferenti alla sfera privata di soggetti terzi qualora l’istanza di accesso sia correlata a una situazione giuridica tutelata dall’ordinamento attestante l’interesse alla conoscenza del documento richiesto in relazione al bene della vita da tutelare.
Anche con riguardo ai dati sensibili il d.lgs. 196/03 rinvia alla legge 241/90 al fine di regolare il rapporto tra accesso e riservatezza. Con riferimento a tali dati, però, le norme della legge 241/90 si premurano di individuare una disciplina più stringente in tema di esercizio del diritto di accesso, attraverso l’enunciazione di una clausola generale che funge da parametro astratto che consente all’amministrazione cui è richiesta l’ostensione e al giudice adito in sede di tutela giurisdizionale di accordare l’accesso nei limiti in cui esso risulti strettamente indispensabile per la cura e la difesa degli interessi giuridici dell’istante. Tale clausola – contenuta nell’art. 24, comma 7, della legge 241/90 – demanda agli enti e all’autorità giurisdizionale il compito non solo di verificare nel singolo caso concreto la legittimazione dell’istante ad accedere agli atti in virtù di un interesse giuridicamente protetto connesso al documento richiesto, ma anche di valutare se e in quali limiti l’accesso sia strettamente indispensabile alla tutela di tale interesse.
La disposizione in parola, inoltre, onera il soggetto istante a provare l’indispensabilità dell’accesso del quale è fatta richiesta in relazione alla posizione giuridica da tutelare, con allegazione di fatti, circostanze e ragioni di diritto idonee a supportarne l’istanza.
Nel bilanciamento dei contrapposti interessi, poi, l’amministrazione potrà individuare modalità di accesso tali da contemperare l’esigenza dell’uno con le ragioni alla riservatezza dell’altro, nel tentativo di individuare un punto di equilibrio che comporti la garanzia della soddisfazione del primo con il minor sacrificio del secondo (Cons. St., sez. VI, 6 settembre 2010, n. 6481).
Nell’ambito della più ampia categoria dei dati “sensibili”, riguardanti profili particolarmente delicati della vita privata delle persone, una speciale protezione è accordata alle informazioni relative allo stato di salute e alla vita sessuale della persona (cd. dati sensibilissimi).
Il trattamento di tali informazioni è stato vietato sul piano internazionale e comunitario, pur essendo consentito in ambito nazionale qualora necessario per perseguire una sfera circoscritta di importanti finalità e qualora basato su specifiche ed elevate garanzie (cfr., in particolare, la direttiva comunitaria n. 95/46/CE, la Convenzione di Strasburgo n. 108/1981 e la Raccomandazione del Consiglio d’Europa n.r. 97). Il legislatore italiano si è fatto interprete di tali indicazioni individuando nel diritto interno le predette finalità e le corrispondenti garanzie, dapprima con la legge n. 675/1996 che ha approntato un regime di particolare tutela per il trattamento dei dati sulla salute e la vita sessuale e, poi, con i decreti legislativi nn. 135 e 282 del 1999. Tale assetto è stato poi confermato e rafforzato nel “Codice in materia di protezione dei dati personali” (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196).
L’art. 60 del suddetto codice, infatti, prevede espressamente che quando il trattamento concerne dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, esso è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile.
In ogni altra situazione riguardante dati sulla salute o la vita sessuale, dunque, non è possibile aderire alla richiesta di accesso o di comunicazione da parte di terzi se i dati o il documento sono ritenuti utili dal richiedente per tutelare in giudizio interessi legittimi o diritti soggettivi che, pur rilevanti, risultino subvalenti rispetto alla concorrente necessità di tutelare la riservatezza, la dignità e gli altri diritti e libertà fondamentali dell’interessato: si pensi al caso dell’accesso volto a soddisfare generiche esigenze basate sulla prospettiva eventuale di apprestare la difesa di diritti non posti in discussione in quel momento o riguardanti meri diritti di credito.
Per i dati c.d. “sensibilissimi”, dunque, in luogo di una aprioristica e astratta previsione di ipotesi in cui l’accesso a tali dati fosse comunque consentito in ragione della eguaglianza (se non della prevalenza) della situazione giuridica a esso sottostante rispetto a quella che garantisce la riservatezza della sfera privata, il legislatore ha optato per la formulazione di una clausola elastica che attribuisce all’amministrazione richiesta dell’ostensione dei documenti e al giudice amministrativo in sede di tutela giurisdizionale il compito di valutare in concreto l’interesse sotteso all’istanza di accesso e di compararlo con quello alla riservatezza dei dati relativi alla salute e alla vita sessuale della persona.
Di taluni interessi (alla personalità e alle libertà fondamentali e inviolabili) lo stesso legislatore ha già sancito il rango, ritenendolo ex se idoneo a consentire l’accesso ai documenti. Il riferimento normativo ai diritti della personalità e ad altri diritti e libertà fondamentali è comunque collegato a un elenco aperto di posizioni soggettive individuabile in chiave storico-evolutiva, e presuppone una valutazione in concreto della sussistenza di tali posizioni e della loro inerenza all’istanza di accesso, in modo da evitare per le amministrazioni, gli altri destinatari delle richieste e per il giudice stesso in caso di impugnazione, il rischio di soluzioni precostituite fondate su una astratta scala gerarchica dei diritti in contesa.
L’art. 60 del codice ha posto l’interrogativo sul comportamento che deve tenere il soggetto pubblico o privato (in caso di richiesta di un terzo di conoscere dati sulla salute o la vita sessuale, oppure di accedere a documenti che li contengono), in particolare nello stabilire se il diritto dedotto dal richiedente vada considerato “di pari rango” rispetto a quello della persona cui si riferiscono i dati.
Appare corretto ritenere che il destinatario della richiesta, nel valutare il “rango” del diritto di un terzo che può giustificare l’accesso o la comunicazione, debba utilizzare come parametro di raffronto non il diritto di azione e difesa, che pure è costituzionalmente garantito (e che merita in generale protezione a prescindere dall’”importanza” del diritto sostanziale che si vuole difendere), quanto il diritto sottostante che il terzo intende far valere sulla base del materiale documentale che chiede di conoscere.
Ciò chiarito, tale sottostante diritto può essere ritenuto per tabulas di “pari rango” rispetto a quello alla riservatezza – giustificando quindi l’accesso o la comunicazione di dati che il terzo intende mantenere altrimenti riservati – se fa parte della categoria dei diritti della personalità o è compreso tra altri diritti o libertà fondamentali e inviolabili, mentre, in ogni altro caso, deve essere valutato in concreto e comparato con quello alla riservatezza.
La valutazione sull’istanza di accesso o di comunicazione non deve però essere circoscritta al raffronto fra i diritti coinvolti, ma deve basarsi anche sull’ulteriore verifica volta ad appurare – anche ai fini dell’accoglimento solo parziale dell’istanza – se tutti i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale oggetto di richiesta siano effettivamente “necessari” al fine di far valere o difendere gli equivalenti diritti in sede contenziosa.
Tra i profili da valutare vi è anche quello dell’effettiva necessità di anticipare, o meno, l’autonoma conoscibilità mediante accesso a un documento già prodotto agli atti di un procedimento giudiziario di cui si è parte – e in tale sede già per altra via conoscibile – o di cui il giudice deve inevitabilmente disporre autonomamente l’acquisizione.
Alle ricordate limitazioni connesse alla pari ordinazione di alcuni diritti coinvolti e all’effettiva “necessità” dei dati ai fini dell’azione o della difesa, va aggiunto il rispetto dei principi di pertinenza e non eccedenza nel trattamento, sanciti dall’art. 9 della legge n. 675, ribaditi per i soggetti pubblici dagli artt. 3 e 4 del d.lgs. 135/19 e, ora, dall’art. 22 del Codice. Il richiamo a tali principi, nel caso dei documenti sanitari e, in particolare, delle cartelle cliniche, dovrebbe indurre l’amministrazione a effettuare una valutazione concreta, anche se in alcuni casi non agevole, su quali informazioni, fra quelle contenute nei documenti oggetto della richiesta di accesso o di comunicazione che si ritenga di poter accogliere, debbano essere rese conoscibili ai richiedenti.
A conclusioni analoghe a quelle sopra indicate in tema di norme “pari rango” dovrebbe pervenirsi per il caso in cui la richiesta di accesso o di comunicazione di dati sia formulata dal difensore ai sensi della disciplina sulle investigazioni difensive introdotta dalla legge n. 397/2000 e, in particolare, dell’art. 391-quater del codice di procedura penale. Ciò è confermato espressamente dall’art. 71 del Codice, che ha qualificato come attività di rilevante interesse pubblico quelle “volte a far valere il diritto di difesa in sede amministrativa o giudiziaria, anche da parte di un terzo, anche ai sensi dell’articolo 391-quater del codice di procedura penale, o direttamente connesse alla riparazione di un errore giudiziario o in caso di violazione del termine ragionevole del processo o di un’ingiusta restrizione della libertà personale”.
Nella giurisprudenza, l’opera di bilanciamento tra interesse alla riservatezza e interesse all’accesso è stato effettuata da Consiglio di Stato, Sez. V, 14 novembre 2006, n. 6681, il quale ha ritenuto sussistente il diritto del marito di accedere alla cartella clinica della moglie, nel caso in cui l’istanza di accesso sia giustificata dalla necessità di promuovere validamente un’azione giudiziaria volta all’annullamento del matrimonio innanzi al competente Tribunale diocesano; in tal caso, infatti, il fine dello scioglimento del vincolo matrimoniale costituisce una situazione giuridica di rango almeno pari alla tutela del diritto alla riservatezza dei dati sensibili relativi alla salute, in quanto involgente un significativo diritto della personalità.
Di particolare interesse è poi la questione affrontata dal Tar Lecce del 27 luglio 2007, n. 3015, secondo la quale la tutela del diritto alla scioglimento del matrimonio prevale sulla tutela della riservatezza. Nella fattispecie il ricorrente agisce ex art. 25, l. 241/1990 contro il diniego di accesso agli atti opposto dal direttore del CSM avverso la sua istanza di rilascio copie degli atti sanitari inerenti le cure alle quali la moglie si sarebbe sottoposta prima, dopo e durante il matrimonio per una patologia psichica che a giudizio del ricorrente sarebbe causa del naufragio del matrimonio. La richiesta viene avanzata dal coniuge con lo scopo di proporre dinanzi al tribunale rotale la richiesta di nullità del sacro vincolo. La decisione in esame affronta l’annosa questione del rapporto tra accesso e riservatezza in presenza di dati ultrasensibili quali quelli inerenti lo stato si salute ex art. 60, d.lgs. n. 196/2003, giungendo alla conclusione che il trattamento è consentito, in ragione della natura giuridica del diritto che attraverso l’accesso si intende tutelare. Nella fattispecie, infatti, il diritto a ottenere lo scioglimento del matrimonio viene qualificato come diritto della personalità di rango pari al diritto alla riservatezza. Da ultimo, la decisione chiarisce come non sia rilevante né che l’azione non sia stata ancora intentata, né che la non si svolga dinanzi a un tribunale nazionale, ma dinanzi a un tribunale ecclesiastico, in quanto a norma dell’art. 8, comma 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121 (di ratifica ed esecuzione dell’accordo firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato Lateranense), si è in presenza di una sentenza destinata ad avere piena efficacia nello Stato italiano a seguito della sentenza della competente Corte d’Appello.
Tar Lazio, Roma, Sez. III-ter, 14 marzo 2006 n. 1931, dal canto suo, ha proposto un’interpretazione restrittiva del citato art. 24, comma 7, della legge 241/90. Ad avviso di detto indirizzo, infatti, il riferimento ivi contenuto alla “necessarietà” della conoscenza dei documenti per difendere gli interessi dell’istante e la (verosimilmente impropria) qualificazione di questi ultimi come “giuridici” impone un’opera ermeneutica della norma in parola tesa ad attenuarne gli effetti (essendo altrimenti idonea a sovvertire l’intera disciplina in materia di accesso), nel senso di ritenere che la stessa riconosca la prevalenza del diritto di accesso ove ricorrano specifiche esigenze di tutela giurisdizionale e non anche di contraddittorio in ambito amministrativo.
7. Note conclusive
Da quanto precede emerge che all’accesso procedimentale cd. “classico” (ex artt. 22 e ss. L. 241/1990), fondato, come si è detto su uno specifico bisogno conoscitivo del richiedente legato a un proprio interesse concreto e attuale, si è aggiunto il cd. accesso civico (art. 5 d.lgs. 33/2013) che ha assunto una portata ‘globale’ e non più limitata, com’era all’origine ai documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria sui siti web delle amministrazioni ai sensi del medesimo d.lgs. 33/2013.
Può, quindi, dirsi che la trasparenza operi ora su tre livelli: gli obblighi di pubblicazione; l’accesso civico (anche) per documenti non oggetto di tali obblighi; l’accesso procedimentale classico di cui alla legge sul procedimento amministrativo.
È evidente, peraltro, la residualità, in rapporto all’accesso civico “globale” tanto dell’accesso procedimentale classico quanto dell’accesso sui documenti oggetto di obbligo di pubblicazione che restano, comunque, confermati nella loro vigenza (art. 5 co. 11 d.lgs. 33/2013).