di Roberta Travia
Sommario:1. Premessa; – 2. Quid facti?; – 3. Quid iuris?; – 3 Ambiente, Costituzione e proprietà; – 4.La funzionalizzazione del concetto di proprietà alla tutela ambientale; – 5. I limiti all’iniziativa del privato; – 5.1 Il labile confine fra limiti conformativi e limiti espropriativi; – 5.2 I principali vincoli gius-pubblicistici; – 5.3 I vincoli idrogeologici; –
5.4 I vincoli forestali; – 5.5 I vincoli per la tutela delle acque; – 5.6 I vincoli naturalistici;
5.7 I vincoli paesaggistici; -5.8 I vincoli indiretti o di completamento per la tutela dei beni culturali; – 5.9 I vincoli urbanistico-territoriali con finalità di tutela ambientale o paesaggistica; – 6. La disciplina dei “contro – limiti”: il rapporto tra condono e vincoli ambientali;- 7. I vincoli ambientali come vincoli superiori.
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1- Premessa
La sempre più crescente incidenza delle tematiche di stampo ecologico sulla realtà contemporanea nonché la forte sensibilizzazione della collettività sociale in relazione alle problematiche ambientali richiedono, in particolare, al civilista una revisione dei tradizionali concetti giuridici alla luce delle nuove istanze suggerite dal modello dello sviluppo sostenibile e dai sottesi interessi di natura ambientale.
Un’analisi ecologicamente orientata del diritto civile impone una riconcettualizzazione dei modelli giuridici funzionalizzata alla protezione dei beni ambientali, sia sotto il profilo del godimento attuale delle risorse naturali comuni, sia sotto il profilo della manutenzione a vantaggio delle generazioni future.
Mercato e ambiente costituiscono due poli tematici apparentemente antitetici in quanto il primo, improntato a logiche di concorrenza e competitività, sembra poco attento al rispetto di valori quali la dignità umana e la giustizia sociale, valori questi naturalmente sottesi al settore ambientale.
Tuttavia, un’applicazione teleologicamente orientata del principio dello sviluppo sostenibile così come recepito anche in ambito europeo (art. 11 TFUE, 37 Carta dir. UE
e art. 3 quater d.lgs. n. 152 del 2006, codice dell’ambiente), consente di configurare un delicato quanto prezioso equilibrio tra le opposte istanze al punto di poter affermare che la tutela dei diritti fondamentali della persona passa attraverso la realizzazione di un mercato sostenibile, luogo perfetto in cui le imprese di un mercato interno perseguono il fine di una crescita equilibrata tra i profitti e la redistribuzione delle risorse.
2- Quid facti?
Prima di analizzare le connessioni fra diritto dominicale e ambiente, occorre analizzare come sia mutato nel tempo il concetto di proprietà.
Il concetto di proprietà ha risentito dei processi storici del nostro Paese nascendo con una primaria funzione individuale.
Nel diritto romano, infatti, l’istituto proprietario privilegiava la posizione del dominus ed il suo potere di disposizione, in una logica di mercato volta esclusivamente alla produzione, alla circolazione, al consumo e, laddove necessario, allo smaltimento del bene mobile o immobile.
Era il titolare del bene, pertanto, l’unico – in chiave meramente individualistica – in grado di poter decidere le sorti della propria res, perché dotato di un potere insindacabile sul bene, sia sotto il profilo del godimento personale che sotto quello dell’esclusione degli altri1.
Nella vecchia concezione del diritto romano, infatti, la proprietà era considerata come ius utendi atque abutendi del bene (diritto di usare e di abusare del bene).
Basti pensare all’estensione della proprietà fondiaria, che nel diritto romano si estendeva usque ad inferos et usque ad sidera, ovvero a tutto quello che stava al di sopra e al di sotto del terreno senza alcuna limitazione.
Con il tempo, l’interprete ha constatato come nella realtà taluni beni costituiscano il centro di imputazione di interessi giuridici non solo del proprietario ma dell’intera collettività, interessi meritevoli di tutela che finiscono con il trascendere la posizione soggettiva di vantaggio assunta dal titolare2.
1 Così A. GAMBARO, Il diritto di proprietà, in Trattato di diritto civile e commerciale, A. CICU e F. MESSINEO (a cura di), Milano, 1995, p. 213 ss.; conf: U. MATTEI, I diritti reali, vol. II, La proprietà, in Trattato di diritto civile Sacco, Torino, 2015.
2 Cfr. A. NERVI, Beni comuni e ruolo del contratto, in Rass. dir. civ., 2014, p. 85.
Fra tali situazioni oggettivamente meritevoli di tutela giuridica, perché importanti per la permanenza in vita del genere umano, può collocarsi l’ambiente nella sua globalità3.
Sussiste, infatti, un collegamento non trascurabile tra la proprietà dei beni in generale e diritti come la salute e la salvaguardia dell’ambiente, la cui utilizzazione ben deve conciliarsi con le istanze proprietarie e patrimoniali del singolo individuo.
Non a caso, di recente, il legislatore ha preso atto di tale inscindibile connubio, riconoscendo i domini c.d. collettivi con la legge 20 novembre 2017, n. 1684.
Sull’argomento è stato argutamente osservato che le risorse naturali rilevano sotto il profilo della loro conservazione e manutenzione, ossia ben prima e comunque a prescindere dalla loro eventuale circolazione giuridica5.
La rilevanza delle questioni ambientali si è fatta sempre più pregnante mettendo in evidenza l’inadeguatezza, nel tempo, del modello individualistico ed esclusivo sopra tracciato.
Tale modello, ormai insufficiente, ha reso necessario l’approntamento di nuove modalità di gestione tali da garantire un godimento plurimo del bene ed un maggior rispetto per l’ambiente, considerato bene di tutti e, pertanto bene collettivo.
La proprietà ha, quindi, acquisito nel tempo una vera e propria dimensione sociale.
Si vedrà, nei prossimi paragrafi, come la disposizione dell’art. 42, comma 2, cost. abbia prescritto i giusti limiti all’esercizio del diritto di proprietà proprio allo scopo di garantire la salvaguardia di valori sociali preminenti – come l’ambiente – nell’interesse dell’intera collettività.
3- Quid iuris?
Disciplinato dal Terzo Libro del codice civile, il diritto di proprietà è il diritto reale per eccellenza, consistente nella facoltà di godere e disporre della res in modo totale ed esclusivo, osservando soltanto gli obblighi previsti dall’ordinamento giuridico, fra i quali, si vedrà, al fine di tutelare l’ambiente, rientrano i vincoli.
3 Cfr. S. PERSIA, Proprietà e contratto nel paradigma del diritto civile “sostenibile”, in Riv. quadr. di dir. amb,. numero 1 – 2018, p. 7.
4 Cfr. R. VOLANTE, Un terzo ordinamento civile della proprietà. La l. 20 novembre 2017, n. 168, in materia di domini collettivi, in Nuove leggi civili comm., 2018, p. 1067 ss.
5 Così, A. NERVI, Beni comuni e ruolo del contratto, in Rass. dir. civ., 2014, p. 42.
Già dal tono letterale dell’articolo 832 c.c. si comprende che il diritto di proprietà viene inteso come pieno ed esclusivo (1° comma), seppur limitato da leggi che hanno la finalità di tutelare interessi superiori (2° comma)6.
Ne discende che, nonostante ritenuto diritto inviolabile7, quello della proprietà non può essere considerato nel nostro ordinamento giuridico un diritto ad libitum8.
A livello sovranazionale il diritto di proprietà, inteso come situazione giuridico – soggettiva di vantaggio, non ha trovato sempre un’espressa previsione, ed è stata l’opera successiva di interpreti e giudici a collocare il diritto in parola fra i diritti fondamentali dell’uomo.
Il diritto di proprietà va riconosciuto e regolato in funzione dei valori generali sanciti dai Trattati e dagli scopi perseguiti dall’Unione Europea (economia di mercato aperta, libera concorrenza, principio di solidarietà, tutela dei diritti fondamentali dell’Uomo – articoli 1, 2 e 6 del TUE).
L’art. 345 del Trattato sul funzionamento UE dispone che i trattati lasciano impregiudicati il regime di proprietà esistente negli Stati membri.
Si condivide sul punto la riflessione per la quale una normativa unitaria europea, potrà raggiungersi solo dopo aver realizzato un comune sentire nella cultura giuridica dei vari paesi9.
6 P. ZATTI, V. COLUSSI, Lineamenti di diritto privato, 2017, p. 227. Prima ancora del codice civile l’istituto proprietario era disciplinato dall’art. 29 dello Statuto Albertino del 1848, a mente del quale tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, erano inviolabili. Già lo Statuto prevedeva che a fronte di un interesse pubblico legalmente accertato si doveva essere tenuti a cederle in tutto o in parte, mediante una giusta indennità conformemente alle leggi.
7 Così si esprime l’art. 17 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1787, punto di riferimento dell’attuale ordinamento giuridico europeo, a mente del quale la propriété étant un droit inviolable et sacré, nul ne peut en être privé, si ce n’est lorsque la nécessité publique, légalement constatée, l’exige évidemment, et sous la condition d’une juste et préalable indemnité.
8 Prima ancora del codice civile l’istituto proprietario era disciplinato dall’art. 29 dello Statuto Albertino del 1848, a mente del quale tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, erano inviolabili. Già lo Statuto prevedeva che a fronte di un interesse pubblico legalmente accertato si doveva essere tenuti a cederle in tutto o in parte, mediante una giusta indennità conformemente alle leggi. Si vedrà, altresì, nei prossimi paragrafi, come al limite espropriativo, si senti l’esigenza di aggiungerne altri, sottoforma di vincoli, tesi a tutelare l’ambiente, in senso lato (territorio, fauna, flora, paesaggio ecc…).
9 Il riferimento è a M. TRIMARCHI, Proprietà e diritto europeo, in «Europa e diritto privato», rivista trimestrale a cura di Bonelli, Castronovo, Di Majo, Mazzamuto, 2002, n. 3, p. 709.
Nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE all’art. 17 viene data in modo indiretto una definizione di diritto di proprietà stabilendo che ognuno può godere della proprietà di beni che ha legalmente comprato e di poterli usare, disporre o lasciare in eredità e che l’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale.
Pertanto il diritto in argomento viene descritto come situazione soggettiva di potere attribuita alla persona bisognevole di adeguata tutela.
Analizzando, inoltre, in parallelo il diritto di proprietà nella Costituzione e nella Carta fondamentale dei diritti dell’UE si ritrovano due definizioni complementari, laddove viene disciplinato, nella prima, quale rapporto di natura economico-sociale e nella seconda, quale diritto soggettivo individuale proprio dell’uomo.
Se si considera il patrimonio strettamente connesso all’iniziativa economica privata e pertanto certamente collegato al libero sviluppo della persona, allora ogni ingerenza sul diritto di proprietà può considerarsi una violenza alla persona attraverso il patrimonio10.
Una nozione di proprietà, seppur in modo indiretto, la si rileva nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ove sin dall’articolo 1 del primo Protocollo addizionale, si prescrive che ogni persona ha diritto al rispetto dei suoi beni.
Anche in questo caso, rimane possibile privare taluno della proprietà per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale (secondo paragrafo prot. add. CEDU).
Sul punto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e la Corte di giustizia dell’Unione europea, sono più volte intervenute a dirimere questioni intercorrenti fra i proprietari – interessati a far prevalere il proprio diritto di godimento e di disposizione individuale – e la Pubblica amministrazione chiamata a tutelare gli interessi generali giuridicamente rilevanti per il bene della collettività.
Per quanto qui d’interesse, risulta ancora complesso stabilire se le facoltà collegate al diritto di proprietà (si pensi allo ius aedificandi) racchiudano in sé i connotati di valore patrimoniale al punto da integrare la nozione di “bene” di cui all’art. 1 prot. CEDU.
Al riguardo il secondo paragrafo dell’art. 1 del Protocollo addizionale, riconosce agli Stati la possibilità di conformare il diritto di proprietà per fini di interesse generale, dando loro
10 Sul tema C. CASTRONOVO, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015.
la facoltà di prescrivere obblighi di patio o di facere, che non implichino in alcun modo uno svuotamento della proprietà del bene.
La conseguenza immediata che ne deriva è che gli Stati membri possono apporre ogni tipo di vincolo ritenuto necessario per la tutela di quegli interessi generali che rilevino sul piano giuridico, come per l’appunto l’ambiente.
Pertanto, nello specifico, la CEDU consente alla Pubblica amministrazione di conformare dall’interno i contenuti del diritto di proprietà, allo scopo di contemperare la posizione giuridica soggettiva del proprietario con il perseguimento di scopi di interesse generale.
Sul concetto di bene individuato dalla CEDU i giudici di Strasburgo sono stati chiamati spesso a pronunciarsi, così determinando, un conseguente ampliamento delle fattispecie giuridiche rientranti in codesta categoria.
Secondo i giudici sovranazionali, infatti, la categoria generica dei “beni” di cui all’art. 1 prot. CEDU fa implicito riferimento tanto alle proprietà quanto ai valori patrimoniali11.
In talune pronunce il concetto di bene è stato assimilato a quello di proprietà12.
La Corte EDU è stata, infatti, chiamata a giudicare la compatibilità delle disposizioni disciplinanti i procedimenti avviati dai proprietari al fine di ottenere il rilascio degli immobili da parte dei conduttori, ed ha specificato come lo scopo dell’art. 1 in analisi sia quello di realizzare un equo compromesso tra le esigenze di tutela dell’interesse pubblico e le istanze di protezione dei diritti individuali fondamentali, visto che vi sarebbe una sicura relazione di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito13.
Ne discende che i giudici sovranazionali hanno inaugurato l’affermazione del principio secondo il quale un’ingerenza illegale nel diritto al rispetto dei beni comporta di per sé una violazione dell’art. 1 del Protocollo n. I, indipendentemente dalle questioni relative alle modalità ed all’adeguatezza del risarcimento e quindi dall’esigenza di un bilanciamento tra l’interesse pubblico e la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo, esigenza che rileva unicamente a fronte di un’ingerenza legale14.
11 Così Corte EDU, 23 settembre 1982, Sporrong e Lönnroth c. Svezia; conf: 21 febbraio 1986, James ed altri c. Regno Unito,; Pravednaja c. Russia, n. 69529/2001, 3 luglio 2003, Buffalo S.r.l. c. Italia, 18 novembre 2004, 11 gennaio 2007, Anheuser Busch Inc. c. Portogallo, 7 luglio 2011, Agrati c. Italia, 31 maggio 2011, Maggio e altri c. Italia.
12Corte EDU Immobiliare Saffi c. Italia, 28 luglio 1999.
13 Corte EDU, 25 marzo 1999, sentenza Iatridis c. Grecia.
14 Sono molti gli arresti giurisprudenziali della Corte EDU in cui si sancisce la violazione dell’art. 1 del primo Protocollo: ex plurimis; 25 marzo 1999, Papamichalopoulos c. Grecia, sull’espropriazione di fatto, 1 marzo 2001, Malama c. Grecia , 06 giugno 2000, Katsaros c. Grecia sull’espropriazione illegittima, 10 giugno 2003, Interoliva Abee c. Grecia, sulla determinazione dell’indennità.
Come anticipato, anche la Corte di Giustizia UE ha esaminato il diritto di proprietà, confermando che il diritto interno italiano è perfettamente allineato con quanto stabilito, anche in via implicita, dai Trattati istitutivi dell’Unione europea.
I giudici lussemburghesi hanno stabilito, infatti, che il diritto di proprietà privata configura un diritto fondamentale al pari di altri interessi comunitari con i quali va contemperato e misurato e che la sua limitazione può avvenire soltanto di fronte ad obiettivi interessi generali15, all’interno dei quali vanno inquadrati quelli oggetto della presente trattazione, ovvero quello di tipo ambientale, paesaggistico, idrogeologico e conformativo16.
3- Ambiente, Costituzione e proprietà
Partendo da tali premesse, il modello dominicale tradizionalmente inteso, per come sopra brevemente emarginato, rappresenterebbe un istituto quantomeno anacronistico, incentrato sul potere dispositivo riconosciuto al dominus e sulle annesse logiche di mercato.
Tale modello, ponendo l’accento sul profilo squisitamente individualistico, finisce per escludere altri dal godimento del bene oggetto del diritto.
È evidente come il paradigma classico dell’istituto giuridico afferente alla proprietà, abbia in tal modo negato la multidimensionalità del fenomeno proprietario, non abbia cioè considerato la circostanza per cui la tutela di determinati beni costituisca il punto di partenza della tutela di altrettanti interessi meritevoli di tutela che trascendono la posizione del singolo proprietario e si riferiscono ad una pluralità di soggetti.
15 Così Corte di Giustizia, 10 dicembre 2002, n. 491.
16 Cfr. M. TRIMARCHI, Proprietà e diritto europeo, in «Europa e diritto privato», rivista trimestrale a cura di Bonell, Castronovo, Di Majo, Mazzamuto, 2002, n. 3, p. 726.
V. MANNINO, La tipicità dei diritti reali nella prospettiva di un diritto europeo uniforme, in Eur. e dir. priv., 2005, pp. 945 e ss..
L’ascesa giuridica della tutela ambientale al rango di valore nobile della vita dell’uomo è piuttosto recente.
Parimenti nella Costituzione il termine “ambiente” non compare in nessuno dei 139 articoli.
Solo grazie all’opera dei giudici costituzionali, col passare degli anni, l ’Ambiente verrà inteso come diritto costituzionalmente garantito, assurgendo a valore fondamentale dell’ordinamento giuridico italiano.
L’anno della svolta è il 1987, quando i giudici costituzionali si esprimono per ben tre volte 17 sull’importanza primaria dell’ambiente, alla stregua dei diritti fondamentali costituenti il cosiddetto “nucleo fisso”, immutabile della Costituzione18.
Inizialmente il diritto alla salubrità ambientale ha avuto il suo principale riferimento nel combinato disposto degli articoli 9 e 32 della Costituzione, articoli dai quali traeva la sua tutela costituzionale.
Con il precetto programmatico di cui all’articolo 9 cost. i Padri fondatori avevano inteso tutelare il paesaggio, ovvero soltanto uno degli aspetti implicanti il diritto ambientale, ma non l’ambiente di per sé.
La tutela in argomento trovava, poi, ragion d’essere nell’art. 32 Cost. laddove la Repubblica è chiamata a tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.
Successivamente, grazie all’inserimento da parte dei giudici costituzionali del diritto in parola tra i diritti inviolabili tutelati dall’art. 2 cost., l’ambiente – considerato nella sua totalità – si svincola dalle norme sancite agli artt. 9 e 32 cost., assumendo i connotati di un vero e proprio diritto inviolabile.
La salvaguardia dell’ambiente e l’innalzamento, nel tempo, del suo valore costituzionale, costituisce un vero e proprio limite positivo e negativo per il legislatore che, da un lato è chiamato a rimuovere gli ostacoli che impediscono l’esercizio della tutela ambientale 19 , dall’altro a non interferire – per il bene dell’uomo in senso lato – con il normale ciclo biologico di fauna e flora.
17Corte cost., 22 maggio 1987, n. 210; dello stesso avviso Corte cost.,16 dicembre 1987, n. 617; Corte cost. 30 dicembre 1987, n.641.
18 L’espressione si attribuisce a G. Zagrebelsky, Presidente emerito della Corte costituzionale, in Diritto Costituzionale, I, Torino, 1987.
19 L’art. 3 cost., a riguardo, è teso a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale in grado di scardinare l’effettività del principio di eguaglianza formale e di rendere difficoltoso lo sviluppo della persona umana. La tutela dell’ambiente può costituire uno di quegli obiettivi che devono essere perseguiti per evitare che questo avvenga, attesa l’incidenza che l’ambiente ha sul benessere psicologico e fisico dell’individuo.
Inoltre l’ambiente è adesso in grado di orientare e indirizzare l’intervento pubblico, predisposto ad assicurare la funzione sociale dei diritti economici.
Il concetto di ambiente, infatti, può definirsi strettamente connesso a quello di Stato sociale.
Non a caso le condizioni ambientali sono causa spesso di sperequazioni sociali e pertanto possono definirsi talvolta foriere di diseguaglianza sostanziale.
La Corte costituzionale, a riguardo, in una delle citate sentenze del 1987, affermerà che l’ambiente è elemento determinativo della qualità della vita e la sua salvaguardia esprime l’esigenza di un habitat naturale nel quale l’uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini 20.
Così inteso, l’ambiente va concepito come un fine che lo Stato Sociale ha il compito di conseguire.
Si è anticipato come l’art. 2 cost. sia annoverabile tra le norme programmatiche per eccellenza, come, del resto, le altre norme costituzionali.
E’ stato più volte osservato21 come le norme programmatiche siano rivolte non solo alla collettività ma anche agli organi statali, intenti, in uno Stato di diritto, a preservare e tutelare ogni tipo di diritto sociale all’interno dei quali è ascrivibile il diritto ad un ambiente salubre.
Tale diritto costituisce norma programmatica in quanto dovrebbe essere uno dei fini quotidiani cui dovrebbe tendere l’intervento dello Stato.
Trattandosi di diritto sociale non è peregrino collegare alla salubrità ambientale una certa funzione sociale, atteso che in concreto, nella quotidianità, la sua importanza primaria giustifica la legittimazione costituzionale del diritto alla salubrità dell’ambiente.
20 Corte cost. 30 dicembre 1987, n.641.
21Sull’argomento CRISAFULLI V. Stato, Popolo, Governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985, p. 50 e ss..
Analizzando la Costituzione “con la lente” del diritto vivente è possibile trovare alcuni limiti espressi all’azione umana, all’interno dei quali può benissimo annoverarsi, seppur implicitamente, il diritto alla salubrità ambientale.
Il riferimento che taluni hanno fatto all’art. 42 comma 2 è d’uopo22.
Esso precisa, in modo sempre programmatico, i limiti alla proprietà privata, facendo espresso riferimento alla funzione sociale di quest’ultima.
A prescindere dalla funzione sociale della proprietà 23 sopra acennata, non può negarsi che tra i limiti alla proprietà rientrino i vincoli imposti alla proprietà privata dal legislatore allo scopo di salvaguardare l’ambiente.
Ne deriva che la tutela dell’ambiente, imperniata sui vincoli all’edificazione incontrollata, si configura come uno dei limiti principali alla proprietà privata ai sensi dell’art. 42 comma 2 della Costituzione24.
E’ possibile, pertanto, ritenere che l’ambiente, in quanto diritto costituzionalmente garantito, possa rientrare, pur mancandone un esplicito riferimento, all’interno dei limiti che l’articolo 42 Cost. ha individuato nei confronti del diritto di proprietà.
4- La funzionalizzazione del concetto di proprietà alla tutela ambientale
Nella teoria generale del diritto, la disciplina riguardante i beni comuni si è arricchita nel tempo di contenuti collegati ai valori fondanti della persona, sia come singolo sia come parte integrante della collettività.
Ciò ha comportato una revisione delle istanze proprietarie del singolo alla luce di valori non più strettamente patrimoniali e, al contempo, ascrivibili alla collettività.
22Fra gi altri articoli si veda, ad esempio, anche l’art. 41 cost.. Così B. CARAVITA, Diritto dell’Ambiente,
Bologna, 2005, p.19.
23 Infra.
24 Così S. GRASSI, Voce Tutela dell’ambiente, in Enciclopedia del Diritto, Annali, I, Milano, 2007, p. 1121.
A titolo esemplificativo, la legge n. 168 del 20 novembre 2017 in materia di “domini collettivi” sottolinea l’incidenza dei valori ambientali sulle situazioni giuridiche proprietarie, siano esse pubbliche o private.
Gli sviluppi più recenti del diritto ambientale riconoscono alle risorse naturali una loro rilevanza sotto il profilo conservativo che preesiste rispetto al loro eventuale regime circolatorio giuridicamente inteso, propinando soluzioni orientate al godimento plurimo, e non esclusivo, dei beni stessi.
Tale interpretazione, come sopra analizzato, trova avallo costituzionale nell’art. 42, comma 2, il quale avvalora la funzione sociale del diritto di proprietà a discapito della concezione individualistica proprietaria, a fronte di valori costituzionalmente rilevanti, quali la salute e la tutela dell’ambiente nell’interesse collettivo.
L’esigenza di contemperare gli interessi proprietari e quelli non proprietari di salvaguardia delle risorse ambientali incide notevolmente sul potere dispositivo nonché di godimento propri del titolare del diritto di proprietà.
In tal senso si parla di funzionalizzazione della proprietà alla tutela dei valori naturalistici, paesaggistici e antropologico-culturali; la garanzia costituzionale è strettamente legata alla funzione sociale della proprietà ed è per questo che il legislatore può esercitare interventi limitativi della proprietà privata.
L’interesse ambientale opera, pertanto, come limite interno nelle procedure stesse di formazione dei contratti di diritto privato, in particolare quelli attributivi di situazioni giuridiche che trovano nel diritto di proprietà il loro naturale sbocco, connotandolo del carattere dell’eco-sostenibilità, alla luce del quale deve considerarsi prevalente, rispetto alle esigenze transattive del libero scambio di mercato, il soddisfacimento del diritto ad una normale qualità della vita.
Attesa la dimensione collettiva degli istituti giuridici negoziali di tipo appropriativo, nella misura in cui il godimento insito nella situazione proprietaria determina importanti ricadute circa la fruizione e il godimento di beni comuni, quali le risorse ambientali, appare di facile constatazione il coinvolgimento dei terzi.
Cosicché gli atti di autonomia privata che, anche solo indirettamente, incidono su di un bene comune a godimento plurimo (come, appunto, l’ambiente), spiegheranno effetti anche verso i terzi, assumendo un’efficacia esterna.
La rinnovata conformazione ambientale della proprietà privata pone il relativo istituto giuridico come strumento regolativo non più di interessi meramente egoistici ma di natura collettiva, tanto da poter affermare che il discrimen tra istanze pubbliche e private è di non facile rinvenimento.
Questa ricostruzione, che implica una rilettura della categoria concettuale della proprietà alla luce del valore non patrimoniale della sostenibilità ambientale, è coerente con il sistema di tutele già delineato, se si considera che – come visto – la Costituzione offre solide basi ad una lettura dei correlati istituti civilistici in chiave moderna, orientata al rispetto dei valori ambientali italo-europei (artt. 2, 4, 9, 32, 41, 42, 44 e 118 cost.).
Inoltre, il richiamo alle tematiche ambientali è significativo nelle fonti sovranazionali, dove il rilievo assunto dai valori economico – patrimoniali viene sensibilmente temperato dall’affiancamento ai valori solidaristici (artt. 11 TFUE e 37 Carta UE, art. 191 TFUE).
Poiché l’ambiente entra nelle tutele ex art. 2 cost., in quanto bene comune da proteggere al fine di consentire il pieno e libero sviluppo della persona umana, allora esso si pone come valore costituzionale.
Lo stesso interprete, chiamato ad effettuare i controlli di legittimità e meritevolezza degli atti di autonomia negoziale, dovrà svolgere la propria indagine in conformità al valore- ambiente, innovando rispetto al passato.
Logici corollari del valore-ambiente risultano essere altri valori di dimensione personale, quali la tutela della salute, dell’integrità psicofisica e, più in generale, della dignità umana; l’atto di autonomia privata che si ponga in antitesi rispetto a tali valori non può ritenersi meritevole di tutela per il nostro ordinamento.
Una siffatta ricostruzione del sistema, che risponde alle esigenze di oggi e non alle categorie di ieri, comporta una rivisitazione delle categorie ordinanti della proprietà secondo cui il pieno sviluppo della persona umana passa necessariamente attraverso un buon governo dell’ambiente, nella consapevolezza che il rapporto uomo-ambiente è un rapporto non antitetico bensì simbiotico.
5- I vincoli come limite all’iniziativa del privato
Il dibattito, oggi pienamente in corso, riguardante gli elementi caratterizzanti il diritto dell’ambiente analizza le limitazioni imposte alla proprietà riguardanti la volontà di edificare e le annesse facoltà riconosciute dall’ordinamento ma che possono concretizzarsi in attività di fatto o solo potenzialmente pregiudizievoli per la qualità e l’integrità ambientali.
Le limitazioni possono essere assolute, nel caso di attività totalmente vietata (come nel caso del vincolo di inedificabilità assoluta), oppure relative, allorquando l’attività sia consentita ma solo a determinate condizioni idonee ad assicurare la cd. “compatibilità ambientale”.
Si parla, pertanto, di vincoli assoluti e di vincoli relativi, in un’accezione in parte diversa rispetto a quella comunemente intesa nell’ambito del diritto urbanistico per connotare i vincoli di inedificabilità disposti dalla pianificazione territoriale.
A differenza di quanto accade in materia urbanistica, infatti, i vincoli ambientali non sono mai giustificati dall’interesse pubblico a trasformare un’area, ma, al contrario, trovano la loro ragione giustificatrice in un’esigenza conservativa di quanto già esistente, cioè protettiva dei valori ambientali già esistenti in una determinata area.
L’esigenza conservativa insita nel vincolo ambientale non esclude che il suo contenuto possa estendersi fino all’imposizione di veri e propri obblighi di facere o pati ai proprietari di beni immobili, quando le finalità conservative ricollegabili alla salvaguardia ambientale richiedano l’esperimento di interventi positivi: si pensi, a titolo meramente esemplificativo, agli obblighi di dare un determinato colore alle facciate degli edifici, che discendono dai vincoli paesaggistici.
In genere, però, la portata di tali vincoli è meramente ostativa, traducendosi in limitazioni, all’interno di una determinata area caratterizzata dalla presenza di ben precisi valori ambientali, all’esercizio di attività che contrastano la salvaguardia dei predetti valori.
A seconda, poi, dell’organo da cui promanano, i vincoli ambientali sono distinguibili in “legali” e “amministrativi”; nel primo caso essi trovano il loro fondamento direttamente nella legge, nel secondo caso derivano da un provvedimento costitutivo della pubblica amministrazione che può essere generale, come nel caso degli atti di pianificazione, ovvero puntuale.
Una particolare distinzione riguardo i vincoli concerne gli esiti a cui tali provvedimenti limitativi sono preordinati; a seconda, infatti, della conservazione o meno della proprietà privata, essi si distinguono in vincoli conformativi e vincoli espropriativi.
I vincoli conformativi sono sovraordinati alle scelte di pianificazione territoriale e urbanistica, sia di ente pubblico comunale che di livello superiore e trovano la loro legittimazione giuridica in norme, regolamenti o provvedimenti sovraordinati.
Essi non comportano la perdita definitiva della proprietà privata, ma impongono limitazioni e condizioni restrittive agli interventi edilizi in funzione degli obiettivi di tutela dell’interesse pubblico (es: vincolo paesaggistico, forestale, idrogeologico, rischio idraulico, fascia elettrodotto, ecc).
Non comportano inedificabilità assoluta, tuttavia possono limitare e menomare notevolmente l’attività edificatoria; non comportano indennizzi di sorta per le limitazioni previsti dallo strumento urbanistico e non hanno scadenza temporale.
Taluna dottrina suddivide i vincoli conformativi in vincoli urbanistici e vincoli ricognitivi.
I primi, non sono finalizzati ad alcun tipo di espropriazione e possono dirsi caratterizzati da un contenuto specifico realizzabile ad iniziativa privata o promiscuo.
Essi pertanto non necessitano di alcun decreto espropriativo o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica.
Si ponga il caso di un parco giochi per bambini ove non può sussistere di certo un vincolo di natura espropriativa ma, anzi, tale destinazione ben potrebbe essere suscettibile di utilizzazione economica da parte del privato (si pensi al caso delle concessioni).
Si tratta di vincoli perfettamente compatibili con l’istituto della proprietà privata perché costituiscono espressione dell’attività di pianificazione dell’Amministrazione pubblica. L’unica restrizione per il proprietario consiste nel doversi conformare alla destinazione impressa al suolo.
I vincoli ricognitivi, invece, derivano da un’azione di verifica e di controllo da parte della Pubblica amministrazione dalla quale scaturiscono particolari valori o situazioni degne di tutela.
Sono vincoli riconosciuti tramite legge ordinaria dello Stato, che non riconoscono al privato alcun indennizzo e che hanno validità illimitata.
Trattasi di valori comuni di preminente importanza che non possono pertanto, atteso il loro carattere generale, consentire al privato di “lamentare” alcunché circa la compressione del proprio diritto di proprietà.
Quel particolare vincolo, difatti, seppur potrebbe apparire paradossale, è preposto anche alla tutela dei suoi stessi interessi civici.
Basti pensare ad esempio al vincolo idrogeologico, al vincolo sismico, alla tutela delle cose mobili ed immobili di interesse artistico o storico, od alla tutela fluviale ed ambientale in genere.
I vincoli espropriativi, (art. 9 DPR 327/2001), comportano perdita di proprietà privata per l’esecuzione di opere di pubblica utilità, per le quali al privato è riconosciuto un equo indennizzo secondo le vigenti normative.
Gli strumenti urbanistici comunali recepiscono il vincolo di esproprio proveniente dall’ente di riferimento che realizza l’opera pubblica.
Il vincolo preordinato all’esproprio acquista efficacia quando l’atto di approvazione dello strumento urbanistico, o una sua variante, prevede la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità.
Esso ha durata quinquennale ed entro tale termine, può essere emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera; se non e’tempestivamente dichiarata la pubblica utilità dell’opera, il vincolo preordinato all’esproprio decade e trova applicazione la disciplina dettata dei comuni sprovvisti di strumentazione urbanistica.
Il vincolo preordinato all’esproprio, dopo la sua decadenza, può essere motivatamente reiterato, con rinnovazione dei relativi procedimenti e tenendo conto delle esigenze di soddisfacimento degli standard.
Nel corso dei cinque anni di durata del vincolo preordinato all’esproprio, il Consiglio comunale può motivatamente disporre o autorizzare che siano realizzate sul bene vincolato opere pubbliche o di pubblica utilità’ diverse da quelle originariamente previste nel piano urbanistico generale.
In tal caso, se la Regione o l’ente da questa delegato all’approvazione del piano urbanistico generale non manifesta il proprio dissenso entro il termine di novanta giorni, decorrente dalla ricezione della delibera del Consiglio comunale e della relativa completa documentazione, si intende approvata la determinazione del Consiglio comunale, che in una successiva seduta ne dispone l’efficacia.
La natura espropriativa del vincolo, essendo esso preordinato all’esproprio, ne fa discendere la sua temporaneità: l’inutile decorso di un quinquennio, in difetto di una legittima reiterazione ne comporta la decadenza.
Tuttavia non riacquista automaticamente la propria antecedente destinazione urbanistica, configurandosi area non urbanisticamente disciplinata, ossia come c.d. zona bianca.
Come ha avuto modo di chiarire a tal riguardo il Consiglio di Stato, rispetto a tali zone, allorché cessino gli effetti dei preesistenti vincoli, l’amministrazione comunale deve esercitare la discrezionale propria potestà urbanistica, attribuendo agli stessi una congrua destinazione25.
5.1- Il labile confine fra limiti conformativi e limiti espropriativi
L’individuazione dei confini fra vincoli conformativi e vincoli espropriativi non è del tutto agevole.
Esistono, infatti, situazioni che si pongono a metà fra i due limiti sopra individuati e che hanno impegnato la giurisprudenza, anche costituzionale, al fine di determinarne l’appartenenza.
Secondo una prima ricostruzione dogmatica una importante differenza consiste nel fatto che i vincoli conformativi non sono soggetti ad alcuna decadenza a differenza di quelli espropriativi.
Solo quest’ultimi, inoltre, sono caratterizzati dalla necessaria temporaneità (cui segue l’esproprio) e consentono al privato proprietario di ricevere un adeguato indennizzo.
Sul tema è intervenuta la Corte costituzionale stabilendo che i vincoli conformativi non rientrano nello schema ablatorio-espropriativo26.
Nello specifico, con riferimento ai vincoli urbanistici, ha stabilito che essi non sono indennizzabili, in quanto sfuggono alla previsione dell’art. 2 della L. n. 1187 del 1968, come quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo conformativo e quelli paesistici.
25 Consiglio di Stato, 24 agosto 2016, n. 3684.
26 Corte cost., 20 maggio 1999, n. 179. Con la sentenza in argomento la Consulta dichiarava l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7 n. 2, 3, 4 e 40 della L. n. 1150/1942 e 2, comma 1, della
L. n. 1187 del 19 novembre 1968, nella parte in cui consente all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità senza la previsione di un indennizzo.
Gli altri vincoli urbanistici, secondo la Consulta, sono soggetti, invece, alla scadenza quinquennale e devono essere invece indennizzati.
Essi sono stati individuati in:
- quelli preordinati all’espropriazione o aventi carattere sostanzialmente espropriativo in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà;
- quelli che superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove non si compia l’esproprio o non si avvii la procedura attuativa preordinata all’esproprio con l’approvazione dei piani esecutivi;
- quelli che superano quantitativamente la normale tollerabilità secondo la concezione della proprietà regolata dalla legge nell’ambito dell’art. 42 della Costituzione.
Oltre alla Consulta, la questione è stata più volte oggetto di pronunce da parte del giudice amministrativo.
Egli considera, come criterio funzionale di discernimento, la natura promiscua pubblico
– privata del vincolo, a differenza del giudice ordinario, il quale è solito basare il proprio convincimento sulla distinzione fra zonizzazione (vincolo conformativo) e localizzazione (vincolo espropriativo).
Le difficoltà interpretative discendono dai casi di dubbia collocazione.
Il caso limite per eccellenza è quello dei vincoli preordinati all’esproprio o sostanzialmente espropriativi, comportanti l’inedificabilità.
La giurisprudenza amministrativa prevalente ha più volte chiarito come possano considerarsi tali quelli che svuotano il contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene, in modo tale da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale ovvero diminuendone il suo valore di scambio27.
Sul punto un orientamento del Consiglio di Stato ha ritenuto28 che non tutti i vincoli posti alla proprietà privata dallo strumento urbanistico generale hanno carattere espropriativo e sono, pertanto, soggetti alla relativa disciplina sopra brevemente individuata.
A titolo meramente esemplificativo, si consideri il c.d. verde privato29.
27 Ex plurimis, Cons. Stato, 3 dicembre 201, n. 85310; 13 aprile 2012, n. 2116.
28 Cons. Stato, 28 dicembre 2012, n. 6770.
29 Da non confondersi con il verde pubblico o urbano, ovvero gli spazi e le porzioni del tessuto urbano dominate dal verde e dalla natura.
Secondo il più alto organo giurisdizionale amministrativo30 il vincolo a verde privato ha natura conformativa (e non espropriativa come il verde pubblico) poiché integrerebbe una prescrizione tesa a funzionalizzare la proprietà privata alla realizzazione di obiettivi generali di pianificazione del territorio ai quali non può attribuirsi natura espropriativa (o sostanzialmente espropriativa).
Ne consegue che secondo i principi sopra enucleati dalla sentenza n. 179 del 1999 della Corte costituzionale, trattandosi di vincolo conformativo, l’apposizione di un vincolo a verde privato non produce alcun effetto risarcitorio, né potrà risultare suscettibile di indennizzo.
Viene quindi a mancare una vera e propria limitazione alla proprietà privata intesa sia come disponibilità che come utilizzazione del bene con la conseguenza che non potrà esserci alcun effetto risarcitorio e neppure, in via subordinata, l’insorgenza di un diritto alla indennizzabilità.
5.2- I principali vincoli gius-pubblicistici
La disamina delle limitazioni alla proprietà ascrivibili al diritto dell’ambiente permette di identificare una serie di vincoli che muovono da una nozione minimale di ambiente e di diritto dell’ambiente fino a giungere ad un concetto più ampio, comprensivo della tutela del paesaggio.
A tal fine rilevano:
- i vincoli idrogeologici;
- i vincoli forestali;
- i vincoli per la tutela delle acque;
- i vincoli naturalistici;
- i vincoli paesaggistici;
- i vincoli indiretti o di completamento per la tutela dei beni culturali;
- i vincoli urbanistico-territoriali con finalità di tutela ambientale o paesaggistica, tra cui i vincoli per la tutela dei centri storici.
30 Cons. Stato, 06.10.2014, n. 4976.
5.3 – I vincoli idrogeologici
Il vincolo idrogeologico ha natura di vincolo conformativo della proprietà privata finalizzato alla tutela di un interesse pubblico che si concreta nella conservazione del buon regime delle acque e nella stabilità e difesa idrogeologica del territorio, di fronte a pericoli di inondazioni, frane, smottamenti e altri simili eventi dannosi.
I vincoli idrogeologici sono essenzialmente disciplinati, a livello statale, dalla cd. legge forestale (r.d. 30 dicembre 1923, n.3267) e dal suo regolamento esecutivo (r.d. del 1926, n. 1126).
La legislazione più recente ha puntato molto sulla pianificazione di bacino ai fini della tutela del suolo, la cui elaborazione e attuazione viene demandata dalla normativa, per i bacini di rilievo nazionale, a specifiche autorità di bacino istituite con legge dello Stato, mentre le attività amministrative, che riguardano bacini di ordine inferiore, sono demandate alle Regioni.
E’ interessante, per la tematica che qui ci occupa, esaminare brevemente come la giurisprudenza di legittimità ha affrontato, anche di recente, la questione dei rapporti tra diritto impositorio degli enti locali e limite tanto al diritto di proprietà quanto al correlato diritto ad edificare.
Nello specifico la suprema Corte, in materia di applicazione dell’imposta comunale sugli immobili (ICI) ad aree edificabili sottoposte a vincolo idrogeologico ha affermato che esso può incidere sulla edificabilità ma non sull’imposizione del tributo, se non nella misura in cui incide sul valore venale e quindi sull’imponibile31.
Sul punto il massimo consesso ha più volte affermato32 che – in tema di imposta comunale sugli immobili (ICI) – la nozione di area edificabile di cui all’art. 2, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 504/199233 non può essere esclusa dalla ricorrenza di vincoli o destinazioni urbanistiche che condizionino, in concreto, l’edificabilità del suolo, giacché tali limiti, incidendo sulle facoltà dominicali, connesse alla possibilità di trasformazione urbanistico – edilizia del suolo, ne presuppongono la vocazione edificatoria, sicché la presenza di tali vincoli non sottrae le aree su cui insistono al regime fiscale proprio dei suoli edificagli, ma incide soltanto sulla concreta valutazione del relativo valore venale e, conseguentemente, sulla base imponibile34.
31 Cass., sez. trib., ord. 12 luglio 2018, n. 18429.
32 Ex plurimis, Cass., sez. trib., n. 13063 del 2017; Cass., sez. trib., n. 7340 del 2014; Cass., sez. trib., n. 5161 del 2014.
33Ai fini dell’imposta in parola, secondo l’art. 2 d.lgs. 504/1992 per area fabbricabile si intende l’area utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici generali o attuativi ovvero in base alle possibilità effettive di edificazione determinate secondo i criteri previsti agli effetti dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità. Sono considerati, tuttavia, non fabbricabili i terreni posseduti e condotti dai soggetti indicati nel comma 1 dell’articolo 9, sui quali persiste l’utilizzazione agro- silvo- pastorale mediante l’esercizio di attività dirette alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, alla funghicoltura ed all’allevamento di animali (…).
34 Cass., sez. trib., n. 11853 del 2017.
L’assunto, comunque suscettibile di opinabilità, non consente, pertanto, all’interprete di considerare connesso al diritto di edificabilità del singolo privato l’onere del pagamento della relativa tassa di proprietà sul terreno sottoposto a vincolo idrogeologico.
Quest’ultimo, infatti, resta correlabile unicamente al titolo di proprietà consentendo al più una riduzione economica dell’imposizione, atteso che il dominio risulta limitato dalla impossibilità di edificare.
La edificabilità dei terreni inseriti nello strumento urbanistico è rimasta, quindi, ai fini tributari, anche in presenza dei vincoli pubblicistici, fatta salva la rilevanza di questi vincoli, nella specie geologici, non sull’edificabilità in sé ma sul minor valore di mercato delle aree vincolate.
Ne deriva che tanto più il vincolo è pregnante tanto più il proprietario contribuente si trova esposto ad una doppia limitazione, (tributaria e civile), laddove non potrà esimersi dall’assolvere i propri obblighi contributivi nonostante la congenita deminutio delle proprie facoltà annesse al diritto di proprietà, se non nella misura in cui usufruisce di una imposizione minore.
5.4 – I vincoli forestali
I vincoli forestali sono, a tratti, assimilabili ai vincoli idrogeologici e sono disciplinati prevalentemente, per quanto riguarda la legislazione statale, dai provvedimenti normativi di cui al punto 1), previsti per i vincoli idrogeologici.
Tali limitazioni, al pari di quelle previste in ambito idrogeologico, possono importare anche l’adempimento di obbligazioni di facere o di pati, come ad esempio gli obblighi che determinano il rimboschimento dei terreni vincolati.
Le limitazioni alla proprietà a tal uopo disposte hanno spesso lo scopo precipuo di ridurre il fenomeno degli incendi dolosi delle foreste, inibendo all’interno di determinati territori lo svolgimento di attività in primis edificatorie.
- I vincoli per la tutela delle acque
I vincoli per la tutela delle acque sono disciplinati, a livello statale, dal d.lgs. 11 maggio
1999, n. 1527 (con riferimento alla qualità delle acque destinate al consumo umano, si consideri pure il d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 31).
Si tratta di vincoli finalizzati alla tutela delle acque dagli inquinamenti, integrata con la tutela quantitativa delle risorse idriche, e la loro disciplina dedica una peculiare attenzione alle acque destinate al consumo umano. Essi consistono in diverse limitazioni, sia assolute sia relative, in parte legali e in parte amministrative, che sono imposte all’interno di aree o zone variamente delimitate attorno alle risorse e ai corpi idrici oggetto di tutela.
- I vincoli naturalistici
Questa tipologia di vincoli è diretta alla salvaguardia di valori naturalistici, ecologici, geologici, biologici ed estetici ma anche, in diverse ipotesi (si pensi essenzialmente ai parchi), antropologici e storico-culturali, all’interno di porzioni di territorio, variamente estese e delimitate, nelle quali detti valori sono particolarmente diffusi e rilevanti.
Sono disciplinati, con riguardo alla legislazione statale, dalla legge-quadro sulle aree protette 6 dicembre 1991, n. 394 (oltre che dall’art. 7 della legge 3 marzo 1987, n. 59, relativa al funzionamento del ministero dell’ambiente), dagli artt. 77 e 78 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, nonché dagli artt. 25 e ss. della legge 31 dicembre 1982, n. 979, concernente la difesa del mare, e dagli artt. 3 e ss. del regolamento approvato con il d.p.r. 8 settembre 1997, n. 357, avente ad oggetto la conservazione degli habitat naturali e seminaturali, della flora e della fauna selvatiche.
Alla stregua di quello che accade in relazione alla quasi totalità dei vincoli, la previsione normativa e gli effetti dei vincoli naturalistici spesso sono anticipati da misure di tutela sia legali che amministrative, le quali, già in pendenza della fase istitutiva delle aree o zone predette, possono essere imposte sulle aree delle quali è proposta la soggezione a
tutela e che, in taluni casi, possono pure implicare il divieto assoluto di trasformazione dello stato dei luoghi.
- I vincoli paesaggistici
Tali limitazioni trovano legittimazione giuridica nella parte III del codice dei beni culturali e del paesaggio approvato con il d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (oltre che dagli artt. 1-ter e 1-quinquies del d.l. 27 giugno 1985, n. 312, convertito con modificazioni dalla legge 8 agosto 1985, n. 431, cd. legge Galasso), nonché, fino all’emanazione di specifiche norme regionali di attuazione del codice, dalle disposizioni ancora applicabili del regolamento di esecuzione della vecchia legge 29 giugno 1939, n. 1497, approvato con il r.d. 3 giugno 1940, n. 1357.
Si tratta di misure atte alla conservazione di valori naturali, estetici e storico-culturali di particolare rilevanza all’interno di aree omogenee nelle quali detti valori, complessivamente apprezzati, hanno un chiaro raccordo identitario con il territorio in cui le stesse ricadono.
I vincoli in esame consistono in limitazioni sia legali sia amministrative, relative e assolute, che si impongono su aree individuate dalla legge oppure dagli stessi provvedimenti amministrativi, sia puntuali sia generali, tramite i quali sono disposte le limitazioni, costituiti rispettivamente dalle dichiarazioni di notevole interesse pubblico di singole aree e dai piani paesaggistici.
Riguardo la reale portata sanzionatoria dei vincoli in questione si è recentemente pronunciata la Corte di Cassazione con la sentenza n.7243/2019 sottolineando, a proposito di vincoli paesaggistici in edilizia, la rilevanza penale (ex art.181, comma 1-bis del d.lgs. 42/2004) della condotta consistente nell’edificazione in zone sottoposte a vincolo paesaggistico, ma al contempo innovando con una regola importantissima in tema di vincoli paesaggistici in edilizia.
La Suprema Corte ha enucleato, infatti, il principio di diritto secondo cui per poter considerare la condotta edificatoria illecita e dunque penalmente rilevante, occorre che il manufatto così come modificato per effetto degli interventi edilizi, presenti una certa consistenza, comportando un aumento superiore al 30% della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento superiore a 750 metri cubi,
ovvero ancora abbiano comportato la realizzazione di una nuova costruzione con una volumetria superiore a 1000 metri cubi.
Occorre, al contempo, precisare che il nostro ordinamento assicura comunque l’intangibilità dei vincoli paesaggistici, senza eccezioni di sorta, sul piano squisitamente amministrativo. Si pensi allo specifico strumento previsto per il risarcimento del danno ambientale, e cioè l’azione riparatoria di cui all’art. 18 della legge n. 349/86 (Istituzione del Ministero dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale).
Qui la sanzione principale è rappresentata dal ripristino dello stato dei luoghi a spese del trasgressore, che deve avvenire entro un termine assegnato dall’autorità amministrativa.
In caso di inottemperanza all’ordine di ripristino entro il tempo stabilito, si provvede d’ufficio al ripristino tramite la Prefettura competente.
Si può, pertanto, arguire che la tutela del paesaggio è assicurata da misure prettamente ripristinatorie e riparatorie, e da misure prettamente sanzionatorie che agiscono, in primis, con funzione deterrente, come le sanzioni di cui all’art. 167 d. lgs. n. 42/2004. Le citate misure, avendo diverse funzioni, possono concorrere tra loro.
- I vincoli indiretti o di completamento per la tutela dei beni culturali
I cd. vincoli indiretti o di completamento per la tutela dei beni culturali sono disciplinati dagli artt. 45 e ss. del Codice dei beni culturali e del paesaggio, approvato con il d.lgs. n. 42 del 2004.
Essi rappresentano delle limitazioni finalizzate a dare completamento alla tutela dei beni culturali immobili garantendo loro una protezione indiretta, mediante vincoli gravanti non sugli stessi immobili oggetto di tutela, bensì sulle aree e sugli immobili prossimi a questi. Tali misure predisposte a tutela dei beni culturali, sono volte a impedire non soltanto che sia minacciata l’integrità dei beni stessi, ma pure che ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro.
Ne discende, dunque, che detti vincoli sono preordinati a proteggere i “micro-paesaggi” costituiti dai beni culturali immobili e dalle aree situate in loro prossimità.
Le limitazioni in oggetto possono rivestire carattere tanto relativo quanto assoluto, e possono essere imposte tramite provvedimenti amministrativi puntuali.
Inoltre, nelle more della conclusione dei procedimenti diretti alla loro imposizione, sono anticipate da specifiche misure cautelari. Alla finalità e alla funzione di questi vincoli sono, peraltro, riconducibili le limitazioni stabilite dal Codice dei beni culturali e del paesaggio per il collocamento di cartelli o altri mezzi pubblicitari, le quali, oltre che nell’ambito e in prossimità dei beni paesaggistici (art.153), vigono pure lungo le strade site nell’ambito o in prossimità dei beni immobili culturali (art.49, comma 2).
- I vincoli urbanistico-territoriali con finalità di tutela ambientale o paesaggistica
I vincoli in esame sono tuttora disciplinati, a livello statale, dalla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150.
Si tratta di vincoli tanto relativi quanto assoluti che, in aggiunta a quelli regolati dalle fonti normative de quibus, possono essere costituiti all’interno dei territori comunali attraverso la pianificazione urbanistica, allo scopo generico di conservare i valori ambientali e paesaggistici presenti in determinate aree.
I piani regolatori generali, o gli strumenti urbanistici comunali, sono quindi abilitati a integrare con proprie disposizioni di tutela ambientale e paesaggistica le prescrizioni stabilite dai provvedimenti specificamente rivolti alla conservazione dell’ambiente e del paesaggio.
Anche leggi regionali riconoscono ai Comuni il potere di prevedere una specie di vincoli funzionali a tutelare un certo tipo di interesse: l’habitat umano.
La salvaguardia dell’habitat umano è sensibile alla tematica dell’equilibrio ecologico, che rende legittime le limitazioni all’espansione dell’aggregato urbano, realizzando così un “polmone verde” intangibile (si pensi alla destinazione specifica a verde agricolo di determinate aree).
Inoltre tali vincoli sono preordinati alla cura del paesaggio, che si articola su due livelli. Ad un primo livello, infatti, la cura del paesaggio ha la finalità di salvaguardare la valenza culturale sottesa al bene-paesaggio, in quanto questo costituirebbe la rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale. A tale livello la tutela riveste carattere prevalentemente conservativo. Vi rientrano i beni paesaggistici di cui all’art.134 del d.lgs. 42/2004 e i contesti paesaggistici di cui all’art. 143 comma 1 lettera e) del d. lgs. 42/2004.
Il secondo livello trascura la valenza culturale, valorizzando quei paesaggi che presentano comunque una loro storia al di là del valore culturale; si parla, pertanto, di paesaggio
diffuso, la cui tutela attraverso i vincoli in questione prevale sugli assetti proprietari restringendone, anche notevolmente, il campo di operatività.
- La disciplina dei “contro – limiti”: il rapporto tra condono e vincoli ambientali
L’analisi sin qui svolta ci pone di fronte all’interrogativo riguardo gli esiti cui è possibile giungere in presenza di un abuso ambientale commesso in occasione dell’attività edificatoria del privato.
Il legislatore, conformemente alla tradizionale concezione giuridica da sempre afferente alle situazioni proprietarie, è intervenuto, in un’ottica conservativa degli atti giuridici, a sostegno di talune posizioni proprietarie al fine di tutelare il diritto di proprietà e le situazioni soggettive di vantaggio che da esso discendono come, ad esempio, la salvaguardia degli interessi familiari correlati al diritto di abitazione, la realizzazione dell’individuo come singolo prima che nelle formazioni sociali, la libera iniziativa privata.
Lo strumento all’uopo progettato per sanare – e quindi legittimare – tali abusi è costituito principalmente dal condono edilizio, attraverso il quale lo Stato, previa autodenuncia del singolo, provvede a sanare i fenomeni di abusivismo maturati nell’ambito delle regole di costruzione, ampliamento o modifiche di natura edile.
Tale rimedio giuridico si connota come un istituto a carattere eccezionale, che fa da contraltare ai vincoli ambientali alla proprietà privata tracciati fino ad ora.
Ad oggi in Italia si sono registrati tre leggi di condono35, sulle quali l’attività degli interpreti nonché della giurisprudenza si è sovente soffermata.
Generalmente il condono costituisce il rimedio per ovviare a costruzioni realizzate in zone non edificabili, oppure che superano i limiti volumetrici fissati dalle norme, o le distanze minime previste dalla legislazione.
La Corte di Cassazione, con riguardo al condono avutosi con la legge 28 febbraio 1985,
n. 47, ha avuto modo di chiarire come esso attui la regolarizzazione delle opere edilizie rispetto agli ordinamenti amministrativi, penale e fiscale, lasciando tuttavia
35 Sono la legge 28 febbraio 1985, n. 47, la legge 23 dicembre 1994, n. 724 e la legge 24 novembre 2003,
n. 326.
impregiudicati i rapporti tra i privati e gli assetti determinatisi per effetto degli interventi edili invasivi36.
Ne consegue che i privati eventualmente danneggiati dall’abuso edilizio del singolo potranno far valere le proprie ragioni nelle sedi opportune (ad es. in caso di mancato rispetto delle distanze minime), pur in presenza dell’intervento sanatorio legittimante.
Tale argomentazione consente di arguire come lo strumento del condono operi alla stregua di un contro-limite rispetto ai vincoli giuspubblicistici tesi a tutelare l’ambiente. Sul punto si è espressa piuttosto recentemente un’interessante pronuncia del Consiglio di Stato37, a mente della quale le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a vincolo
ambientale e paesistico, possono essere condonate soltanto se:
- si tratti di opere realizzate prima dell’imposizione del vincolo;
- se pure realizzate in assenza o in difformità dal titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche;
- siano opere minori senza aumento di superficie, come il restauro, il risanamento conservativo, o la manutenzione straordinaria;
- vi sia il previo parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo.
L’interpretazione fornita dal Consiglio di Stato trova sicuro approdo nell’articolo 32, comma 26, della legge n. 47/1985, a mente del quale il rilascio della concessione o dell’autorizzazione in sanatoria per opere eseguite su aree sottoposte a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso.
Tale parere, dunque, si inserisce nel procedimento per il rilascio del condono edilizio e costituisce condizione indefettibile per l’ottenimento del titolo abilitativo postumo.
I giudici di palazzo Spada, infine, hanno argomentato l’impossibilità del condono anche per il disposto di cui all’art. 33 della legge citata per la quale le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici
36 Cass. 16 novembre 1989, 4901.
37 Consiglio di Stato, sezione sesta, Sentenza 25 marzo 2019, n. 1960. La questione verteva su un parere sfavorevole reso dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio in ordine alla domanda di condono proposta dal privato.
e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali o provinciali qualora istituiti prima delle esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
La pronuncia ribadisce, pertanto, l’importanza e l’ inderogabilità (relativa) dei vincoli ambientali, stabilendo che – a fronte di una legge di condono che abiliti a certe condizioni il privato proprietario di un immobile abusivo a formalizzare l’apposita istanza – l’interesse della Pubblica amministrazione può considerarsi recessivo soltanto in presenza di certi requisiti stringenti [lettere a) – d) sopra riportate], finalizzati alla primaria salvaguardia ambientale, idrologica, paesaggistica od archeologica.
- I vincoli ambientali come vincoli “superiori”
La disamina svolta nel presente consente di inquadrare le risorse naturali, e dunque il bene-ambiente, all’interno di una categoria di beni che si pongono in una posizione privilegiata dall’ordinamento, con la conseguente revisione dogmatica non soltanto della tradizionale impostazione proprietaria, ma, parallelamente, anche della categoria contrattuale intesa in termini di strumento per agevolare il trasferimento delle situazioni soggettive e, dunque, la circolazione dei beni da una sfera proprietaria all’altra.
Il tradizionale modello dominicale valorizzava il profilo del potere di disposizione, sotteso alle vicende circolatorie del bene, anziché il profilo della gestione e del godimento.
L’affermazione del diritto alla salubrità ambientale come interesse della collettività nel suo complesso ha fatto emergere la necessità di guardare al contratto come strumento non solo commutativo, ma altresì di gestione e godimento delle risorse naturali anche nell’interesse delle generazioni future.
A tal uopo, lo stesso codice dell’ambiente, prescrivendo che ogni attività umana, pubblica o privata, «deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile» (art. 3-quater, comma 1), pone non già la facoltà ma l’obbligo di indirizzare le attività negoziali di operatori pubblici e privati alle istanze della sostenibilità ambientale, nel rispetto dell’interesse collettivo alla salvaguardia di un ambiente di vita salubre anche per le generazioni future.
La diretta partecipazione dei privati alla realizzazione dell’interesse ambientale trova il suo substrato normativo precipuamente nel principio di sussidiarietà orizzontale, previsto
dall’art. 118, comma 4, cost. (come novellato dalla l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3), che legittima l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale.
La connessa salvaguardia ambientale si pone, dunque, come un vincolo superiore nella misura in cui, tanto nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici quanto in quelle di formazione di qualsiasi contratto di diritto privato, si pone quale baluardo dello sviluppo ecosostenibile a tutela di interessi superindividuali.